Se c’è stato un autore contemporaneo il cui pensiero sia stato studiato, interrogato, rielaborato di pari passo con le vicende storiche, questo risponde al nome di Marx.
Negli oltre cento anni che ci separano dalla sua morte le opere del filosofo tedesco non sono state semplicemente oggetto di studio accademico.
Non che nella storia del marxismo siano mancati dissidi intorno a oggetti teorici – in apparenza – evanescenti.
Eppure mai è accaduto che le sottigliezze dialettiche rimanessero confinate nelle aule universitarie e non proiettassero le proprie conseguenze sul mondo reale degli uomini in carne e ossa.
La storia del marxismo testimonia una singolare commistione tra teoria e pratica, favorita dalla nascita di un movimento operaio organizzato e di partiti politici che, ancor prima della morte di Marx, si richiamavano esplicitamente alle sue analisi.
Gli scritti marxiani sono stati continuo oggetto di rivisitazione, scandagliati negli angoli più reconditi per trovare, di volta in volta, le risposte alle sollecitazioni poste dalla storia.
Lo stesso corpo teorico del marxismo si è arricchito, strada facendo, delle sedimentazioni successive.
La ricezione degli scritti marxiani è avvenuta nel fuoco degli eventi tormentati del Novecento e non c’è idea di Marx che non abbia dovuto fare i conti con le sfide della storia.
Ma cosa è accaduto dopo il crollo dell’Urss e di gran parte dei paesi dell’ex blocco socialista, dopo il ridimensionamento drastico di tanti partiti comunisti e del movimento operaio nel suo complesso? Quale Marx è rimasto in dotazione alla nostra epoca e ai – non molti – marxisti ancora in circolazione? “Nonostante l’affermazione delle sue teorie, trasformate nel XX secolo in ideologia dominante e dottrina di Stato per una gran parte del genere umano e l’enorme diffusione dei suoi scritti, egli rimane, ancora oggi, privo di un’edizione integrale e scientifica delle proprie opere”.
La divulgazione e la promiscuità con la politica non avrebbe granché giovato alle sorti dell’opera marxiana, secondo questo profilo tracciato nel volume apparso di recente con il titolo Sulle tracce di un fantasma.
L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia (Manifestolibri, a cura di Marcello Musto, pp. 392, euro 30,00) che raccoglie gli atti di un omonimo convegno napoletano dello scorso anno, con scritti – tra gli altri – di Domenico Jervolino, Enrique Dussel, Domenico Losurdo e Giuseppe Cacciatore.
Cessata l’ingerenza della politica, la comunità dei marxisti si trova oggi davanti al progetto della nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels, la cosiddetta Mega2 – della quale riferiscono Manfred Neuhaus, Gerald Hubmann, Izumi Omura e Malcom Sylvers.
La sconfitta epocale del movimento operaio si tramuterebbe, per incanto, in una fortuna.
“Liberata dall’odiosa funzione di instrumentum regni” – scrive Marcello Musto nell’introduzione – l’opera di Marx riemerge nella sua “originale incompiutezza”, “riconsegnata ai liberi campi del sapere”.
Non che la cosa abbia a che fare con il rigore scientifico che sostiene il progetto editoriale della Mega2, ma il nostro tempo sembra in qualche modo succube della suggestione del ritorno a un presunto Marx originario, a un incontaminato grado zero depurato da tutte le incrostazioni della storia successiva – che sarebbe poi il Novecento.
Quel che continua a essere insegnato e studiato nelle aule universitarie – poche a dire la verità – è un Marx senza partiti, un corpo di teorie incompiute di cui si può dissertare senza che nessun partito, nessun soggetto collettivo abbia ad averne conseguenze nei destini futuri e nella pratica.
Anche quando prevale l’assillo dell’azione, il desiderio di trasformare il mondo e i rapporti sociali, le letture dell’opera marxiana mettono l’accento sulla tensione etica degli scritti giovanili piuttosto che, ad esempio, sulle teorie politiche del partito e dell’organizzazione del Marx del Manifesto.
Semmai c’è la tendenza a sottolineare la crisi di qualsiasi soggetto forte e monolitico – della “metafisica del soggetto produttore”, secondo l’espressione di André Tosel.
Qual è, al livello teorico, il marxismo espresso dalla nostra epoca? – si chiede Roberto Finelli.
La II e III Internazionale hanno avuto per riferimento il “marxismo della contraddizione”, quella tra forze produttive e rapporti di produzione.
Nel dopoguerra è subentrato il “marxismo dell’alienazione” basato sulla teoria antropologica dell’uomo rovesciato nei prodotti del lavoro alienato.
Alla nostra epoca spetterebbe, invece, un “marxismo dell’astratto” che renda conto di come, oggi, il capitale svuota dall’interno il mondo concreto degli oggetti e dei bisogni umani.
Cose e uomini sopravvivono in superficie, ma tutto è incorporato nel meccanismo di un’accumulazione quantitativa.
Ma quel che rischia di scomparire dalla scena di un capitale astratto e senza volto è, appunto, la storia, la politica, i partiti, l’iniziativa e la resistenza delle classi subalterne.
Degli uomini in carne e ossa.
da Liberazione del 12 ottobre 2005
MA LA RIVOLUZIONE OGGI CHI LA FA? AGGIORNIAMO MARX
Il filosofo è davvero rimasto senza partiti? La domanda torna attuale dopo la pubblicazione degli atti del convegno napoletano “Sulle tracce di un fantasma”. Gli studi marxisti sono soltanto accademici o hanno efficacia politica?
di Roberto Finelli
Nella sua recensione a un libro di più autori sull’attualità di Marx, pubblicato dalla “manifestolibri” (Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, a cura di Marcello Musto) Tonino Bucci ha avuto facile gioco ad accusare di astrazione il “marxismo dell’astrazione”, che propongo nel mio intervento come chiave di lettura del capitalismo attuale e del postmoderno e come un marxismo molto più attuale rispetto ad altri marxismi classici, quali quelli che io ho chiamato rispettivamente della contraddizione e dell’alienazione, che hanno occupato la scena del ‘900 e che a mio avviso rappresentano ormai armi spuntate nella lotta culturale e politica.
Un’interpretazione di Marx come la mia che parla del capitale come di un universale astratto, perché la ricchezza che tende ad accumulare è di natura solo quantitativa – e una ricchezza che è solo quantità tende proprio per la sua natura a un’espansione sempre più ampia – sarebbe una lettura solo intellettualistica, caratteristica delle aule universitarie, dove sono assenti i soggetti reali della storia e della lotta sociale, gli esseri umani in carne ed ossa, le classi, le organizzazioni, i partiti e così via.
Ora, oltre al fatto che io non riesco a vedere neppure un’aula universitaria in cui si facciano sistematicamente lezioni su Marx (ma neppure Bucci, a dire il vero, ne vede molte), vorrei in poche righe precisare qualche cosa.
Ovviamente per chi è dotato di buon senso e di un sano empirismo è naturale che ci siano i capitalisti, anziché il capitale in generale, che ci siano i lavoratori e le lavoratrici, nella loro individualità di esseri umani, anziché il lavoro o la forza-lavoro in generale: che ad operare nella realtà concreta ci siano gli individui, i loro raggruppamenti sociali con le loro attività economiche, le loro organizzazioni sindacali e politiche, anziché degli astratti fattori universali di socializzazione e di riproduzione della vita collettiva.
Insomma appare ovvio che nella realtà non ci sono gli “universali”, che sarebbero solo funzioni della logica del pensare o astrazioni della metafisica.
Eppure a me sembra che quando Marx scrive Il capitale definisca delle regole di funzionamento economico, di gestione della produzione, di uso e comando della forza-lavoro, di accumulazione e di vendita, che sono sostanzialmente impersonali e universali, perché valide per ogni capitale particolare e individuale, indipendentemente dalla persona del singolo capitalista che lo gestisce, dal tipo di merce che viene prodotta, dalla localizzazione nazionale dell’impresa.
Caratteristica impersonale e universale del capitale in quanto tale, che dipende dalla natura appunto identica e astratta della ricchezza che, a ben vedere, ogni singolo capitale produce, al di là dei tanti valori d’uso in cui l’accumulazione astratta del denaro poi si realizza.
E mi sembra che tale verità universale del capitale in generale, e dunque del Capitale di Marx, da sempre vera, stia divenendo per altro realtà innegabile ed evidente solo oggi, dato che la globalizzazione, pur con tutte le sue violentissime disuguaglianze e asimmetrie, appare essere proprio la messa in verità del Capitale di Marx: ossia di un’accumulazione di ricchezza astratta che s’è fatta talmente soggetto dominante e tendenzialmente assoluto del mondo contemporaneo da superare i confini e il potere dello Stato-nazione e da muoversi con grande velocità di trasferimento finanziario e produttivo, per cogliere nell’intero pianeta le occasioni più propizie per la propria crescita ed espansione.
Con l’aggiunta che, soprattutto nell’Occidente avanzato, il passaggio dal fordismo al postfordismo, dalla produzione materiale alla produzione immateriale, ha significato l’approfondimento del capitalismo non solo in senso orizzontale, a diffusione planetaria, ma in senso anche verticale, quanto a pervasività nella coscienza e nell’interiorità della forza-lavoro.
Perché la rivoluzione informatica e l’applicazione della nuova forza-lavoro mentale alle macchine dell’informazione ha implicato, non come taluni declamano, far entrare la conoscenza nella produzione, quanto mettere al lavoro, in modo passivo e subalterno, in una sorta di colonizzazione interiore, le qualità cognitivo-immateriali dei singoli, l’intelligenza e le loro doti apparentemente più personali.
Per dire cioè che quei valori di autorealizzazione e autenticità del proprio sé, che sono stati alla base delle rivolte sociali degli anni ’60 e ’70, sono finiti coll’essere rovesciati, anche con il contributo determinante della “sinistra”, della maggioranza del sindacato, e della loro arrendevolezza alla seduzione del progresso tecnico, in una forza produttiva della modernizzazione capitalistica, in una “soggettivazione normativa del lavoro”, per usare una felice espressione di Axel Honneth.
Non che questo processo di totalizzazione del capitale non trovi i suoi limiti nella resistenza, quando si dà, della forza-lavoro e dei ceti subalterni, a motivo delle condizioni di vita generali terribilmente peggiorate, oltre che nei limiti naturali del mondo-ambiente.
Ma, a meno di non finire nelle braccia fabulatrici di Tony Negri e dei nuovi sofisti che vedono nel “comune” linguistico e comunicativo delle reti informatiche il nuovo soggetto rivoluzionario, preparato bell’è e pronto dalla tecnica, la questione, maledettamente seria, della costituzione, sociale e politica, di nuove soggettività dell’emancipazione non può non fare i conti con questa realtà della diffusione capitalistica dell’astratto, che più che cancellare e negare il mondo del concreto, lo colonizza e lo svuota dall’interno, lasciando solo la brillantezza fittizia di una superficie, che è terreno postmoderno di seduzione ideologica e di cultura del frammento.
da Liberazione del 3 novembre 2005
LA POLITICA HA FATTO MALE AL MARXISMO
di Cristina Corradi
Proverò a spiegare perché non condivido le critiche che Tonino Bucci, nella recensione del volume collettaneo Sulle tracce di un fantasma.
L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia recentemente pubblicato da Manifestolibri, ha rivolto in modo particolare al saggio di Roberto Finelli e all’introduzione del curatore, Marcello Musto.
Nella sua replica, apparsa su Liberazione, Finelli ha spiegato come e perché il marxismo dell’astratto – alternativa contemporanea al vecchio marxismo della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione e al marxismo dell’alienazione di una soggettività presupposta – sia ben lungi dal prospettare un ritorno puramente accademico a Marx, un ritorno ad una fonte incontaminata, che rimuoverebbe la storia del Novecento e dimenticherebbe i conflitti sociali, l’attività dei partiti, gli esseri umani in carne ed ossa.
La prospettiva del marxismo dell’astratto consente, infatti, di leggere criticamente, anziché apologeticamente, l’approfondimento postmoderno, orizzontale e verticale, dei rapporti sociali capitalistici; permette di tenere aperta, anziché di dare illusoriamente per risolta, la questione della costruzione di “nuove soggettività dell’emancipazione”; rende possibile, infine, svelare i meccanismi attraverso i quali si riproduce e si dissimula l’unico, autentico totalitarismo sopravvissuto al secolo breve.
Ammesso che sia possibile evincere un profilo unitario in un volume che raccoglie contributi di taglio diverso su differenti temi e fasi del pensiero marxiano, è fuorviante, a mio avviso, riassumere il senso del convegno di Napoli nel tentativo di spezzare il rapporto tra teoria marxiana e politica.
Nel sottolineare le opportunità di rilettura offerte da un’edizione integrale e scientifica delle opere di Marx, dopo la fine di un’epoca storica in cui il filosofo di Treviri era forzosamente inserito in una ideologia di legittimazione di un sistema di Stati e di partiti socialisti, Marcello Musto non individua nella filologia un succedaneo della politica o uno strumento magico per trasformare “in una fortuna” una “sconfitta epocale del movimento operaio”; ma sollecita noi, che aderiamo ad un progetto di rifondazione del comunismo, a profondere energie in una rivisitazione più problematica della critica marxiana della politica e dell’economia, capace di contribuire alla costruzione di un rinnovato marxismo. Richiamando la singolare commistione tra teoria e prassi che caratterizza la storia del marxismo, Bucci lascia trasparire un certo scetticismo nei confronti del ruolo dell’impegno teorico, di quella che Althusser chiamava la lotta di classe nella teoria.
D’accordo con quanto ha evidenziato Roberto Fineschi, curatore di un altro recente volume (Karl Marx.
Rivisitazioni e prospettive, Mimesis), io credo invece che proprio un malinteso, e apparentemente più rivoluzionario, primato della prassi e della politica, che ha fatto saltare le necessarie mediazioni tra l’analisi del modo di produzione capitalistico e la politica del movimento operaio, annichilendo la dimensione teorica e avallando l’empirismo politico, abbia nuociuto molto al marxismo novecentesco e abbia concorso alla crisi esplosa già alla fine degli anni ’70, ben prima del crollo dell’Urss.
Animato da una volontà di trasformazione della realtà, Marx ha dedicato sforzi giganteschi all’interpretazione del mondo, immergendosi, dopo la sconfitta della rivoluzione del ’48, nello studio dell’economia politica e nella rilettura della Logica hegeliana; animato dalla volontà di realizzare la rivoluzione in Europa, Gramsci, a seguito della sconfitta del movimento consiliare, ha rimesso in discussione la riduzione neoidealistica di Marx a Machiavelli del proletariato e ha riscoperto lo spessore e l’originalità della filosofia marxiana.
Forse, dopo la sconfitta e la rivoluzione passiva degli ultimi trent’anni, dovremmo imparare anche noi a prendere sul serio il lavoro teorico.
da Liberazione del 19 novembre 2005
PERCHÉ IN LIBRERIA TROVO TUTTO DI TONI NEGRI E MAI NIENTE DI CARLO MARX?
di Riccardo Bellofiore
Un intervento recente di Tonino Bucci ha preso spunto dal volume curato da Marcello Musto Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia (Manifestolibri, 2005) ed è stato oggetto di repliche da parte di Roberto Finelli e di Cristina Corradi.
Bucci si è limitato a lanciare una provocazione, che Finelli e Corradi hanno inteso invece come una recensione: di più, come un attacco al “marxismo dell’astratto”.
Bucci lancia tre sassi.
Il primo riguarda la tendenza di alcune pubblicazioni recenti a vedere in Marx un ‘classico’: liberato, grazie al crollo del socialismo reale, da ogni commistione con la realtà.
Non vedo come si possa dar tutti i torti a Bucci: il sottotitolo del libro di Musto è inequivocabile.
Ora, Marx pensava, a ragione o a torto, di essere uscito dalla filosofia e dall’idealismo; e non me lo vedo entusiasta nell’essere ridotto a oggetto di esercizi filologici.
Il secondo sasso è lo scetticismo rispetto ad un atteggiamento, quale quello difeso da Corradi, che istituisce una separazione troppo netta tra interpretazione e trasformazione della realtà sociale, e che privilegia l’aspetto filosofico.
Anche qui, a me pare si debba prendere Marx per quello che ha voluto essere: un critico dell’economia politica che era anche, ad un tempo, un economista politico critico.
Un analista dei rapporti sociali di produzione per il quale rappresentazione della, e intervento sulla, realtà sono soggetti a mediazioni ma inseparabili.
Qualcosa che è legato a filo doppio alla capacità di farsi sangue e carne, all’agire antagonista di una classe sociale determinata, segnata da una contraddizione fondamentale.
Certo, Bucci ed io prendiamo qui strade diverse.
A lui interessa, mi pare, più la dimensione politico-partitica che quella politico-sociale della classe, dove per me il partito serve solo se è strumento della seconda. Solo dunque se si rompe nella sostanza con l’eredità leninista. Il terzo sasso riguarda il rischio del marxismo dell’astratto di costruire una immagine primo-francofortese di una totalità chiusa. Tutto viene incorporato nel meccanismo di un’accumulazione quantitativa che dà vita ad un universo sempre più deconcretizzato. È un rischio che va riconosciuto come reale. Sta qui l’attacco contro Finelli. È d’altra parte singolare che Bucci, dei molti interventi dentro la logica del Marx (più che del marxismo) dell’astratto presenti nel volume di Musto, ne abbia visto solo uno, quello più compromesso con quel rischio. Basta andarsi a leggere i saggi di Reuten, o di Arthur, o il mio, per avere prospettive ben diverse, immuni da quelle critiche.
E Bucci non può non sapere che del Marx dell’astratto sono presenti altre versioni che sfuggono all’esito che lui condanna, quali quelle della rivista Vis-à-Vis o di Raffaele Sbardella.
Nei confronti di Finelli (autore verso cui ho dei debiti importanti nella mia lettura di Marx), l’obiezione di Bucci ha però una sua parziale validità.
L’astratto è qui un Soggetto che si autoaccresce senza limiti, in un circolo che al più può trovare una “resistenza” – fondata in non si sa bene cosa dal punto di vista categoriale, visto che il lavoro è ridotto unilateralmente alla sola dimensione della forza-lavoro.
Qui la risposta di Finelli a Bucci è intelligente: il Marx dell’astratto sarebbe un Marx oggi ancora più vero, in quanto solo oggi il lavoro e la totalità assumerebbero quei caratteri.
Così, il marxismo dell’astratto di Finelli può rovesciarsi in analisi della realtà capitalistica così come ce la troviamo squadernata davanti. È però una risposta pericolosa nei suoi esiti.
Marx viene ortodossamente richiamato, al di là delle cautele verbali, in una sua supposta purezza originaria, ridotto allo statuto di un profeta.
E per spiegare la fine di una egemonia dovremmo rifugiarci nella ricerca di una nuova antropologia.
Quello che il Marx dell’astratto può dare è ben di più, se vi si vede innanzi tutto un problema.
È quello che ci hanno insegnato letture come quelle di Colletti, Napoleoni, Rubin: da cui dobbiamo imparare superando le loro impasse.
In due righe si tratta di questo.
Il valore è un “fantasma” che “prende corpo” nella merce-moneta, sicché il lavoro astratto delle merci si “espone” nel lavoro concreto che produce l’oro.
Come capitale, il valore mira a produrre sistematicamente più valore, in una spirale.
Ma, a differenza dell’Idea hegeliana, ciò al capitale non può riuscire, a meno di un costante e sempre incerto processo di “interiorizzazione” e sussunzione di quell’altro, rispetto al lavoro morto, il lavoro vivo, che pur sempre è erogato da una forza-lavoro “appiccicata” ad esseri umani.
Per questo il capitale è un morto che torna a vivere come “vampiro”, e tanto lo sviluppo quanto la crisi vanno spiegati a partire da quel centro che è il processo immediato di valorizzazione.
Il lavoro vivo, però, va erogato secondo un tempo di lavoro socialmente necessario che dipende dalle tecniche medie, ma anche dal bisogno sociale (possiamo dire, dopo Keynes, dalla domanda “autonoma”).
E la sua messa in moto dipende da una ante-validazione monetaria (possiamo dire, dopo Schumpeter, dal sistema bancario).
Già qui è evidente che Marx non ci basta.
Per dirne una: la teoria della moneta-merce non è accettabile, e senza di essa il rimando del valore al lavoro sembra entrare in crisi.
La sua argomentazione non può perciò essere mantenuta nei termini originali: va ricostruita.
È chiaro pure che la storia, la politica, gli esseri umani in carne ed ossa entrano in gioco.
Ce lo dice proprio lo schema dialettico quando mostra come la totalità non riesce a chiudersi automaticamente su se stessa.
Così, il circolo della totalità si apre all’intervento dei soggetti e delle classi, nei suoi snodi cruciali: il comando sulla moneta come capitale all’apertura del circuito, l’antagonismo sulla prestazione lavorativa nella produzione, la gestione politica della domanda effettiva nella circolazione finale delle merci.
Insomma: Marx ci lascia una eredità insuperata sul momento centrale della totalità.
Per il resto, fare oggi come Marx significa non accontentarsi di Marx, adottandone però la lezione di metodo.
Che ci impone il programma di costruzione di una economia politica critica (dunque, anche, di una critica dell’economia politica del ‘900) sugli altri aspetti del ciclo del capitale, all’altezza dei nostri tempi.
E ci impone di vedere nel lavoro astratto non un lavoro sempre più “deconcretizzato” – perché il lavoro nella produzione è sempre tanto concreto quanto potenzialmente astratto, e l’astrazione latente nella produzione si attualizza soltanto nello scambio finale – ma un lavoro le cui caratteristiche concrete (in certe fasi davvero più “relazionali”, più “ricche”, con maggiore “autonomia”) sono dettate, costruite e limitate dal capitale.
Dentro il ciclo aperto del conflitto e della ristrutturazione.
Se abbiamo perso è soprattutto perché non siamo stati in grado di ricostruire adeguatamente la trasformazione morfologica del capitale.
Farlo significherebbe rilanciare la sfida della teoria marxiana dove la centralità dell’economico rimanda alla contraddizione forza-lavoro/lavoro vivo che si dà, necessariamente e sistematicamente, al suo interno: sfuggendo così alla tenaglia di chi vede la classe sempre disperatamente subalterna o sempre miracolosamente riunificata.
Qui si apre il vero problema.
Come può darsi una ricerca del genere, al di là degli sforzi dei singoli? Bucci scrive su un giornale comunista, quotidiano di un partito comunista.
Non sono loro che dovrebbero essere i veri destinatari di un discorso che si chiede quale sia il valore d’uso per noi di Marx? Chi si deve preoccupare del fatto che tutto di Toni Negri sia disponibile nelle librerie, mentre di Marx quasi niente? Chi può impiegare tempo e denaro in una casa editrice che di questa eredità si curi? Non dovrebbero tanto il giornale quanto il partito impegnarsi in una ricerca che faccia del riferimento ad un Marx problematizzato e non imbalsamato, qualcosa in grado di orientare per davvero l’inchiesta sociale e l’indagine economica, fino a definire l’interpretazione del capitalismo contemporaneo e le linee di politica economica in modo un po’ meno abborracciato ed eclettico? Ma se c’è un luogo dove Marx, al di là di un riferimento ideale privo di ricadute concrete, pare ridondante, e il discorso degli economisti si riduce a un po’ di keynesismo e di sraffismo banalizzati, mi sembra proprio questo quotidiano, e spesso l’elaborazione del partito: per cui è bene che il mio discorso si chiuda qui.
da Liberazione del 6 dicembre 2005
SIATE MARXISTI, NON SIATE IMPOLITICI
Quale Marx per il XXI secolo. Una risposta polemica ai precedenti interventi e all’opzione del cosiddetto marxismo dell’astrazione
di Luigi Cavallaro
Il dibattito su “quale Marx per il XXI secolo”, avviatosi su questo giornale grazie agli interventi di Roberto Finelli e Cristina Corradi in replica alla recensione di Tonino Bucci al volume collettaneo curato da Marcello Musto (Sulle tracce di un fantasma.
L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, 2005), ha già evidenziato i nodi dai quali non può prescindere qualunque ripresa della discussione sul lascito teorico e politico del pensatore di Treviri.
In primo luogo, infatti, è emersa la necessità di un approccio rigoroso (soprattutto filologicamente), che non soltanto valga a stabilire una volta per tutte “che cosa esattamente ha scritto Marx”, in modo da differenziarlo da quanto è imputabile all’intervento sul Nachlass dei suoi molteplici editori e glossatori, ma soprattutto a fissare qualche limite a quel continuo “sollecitare i testi” che assai spesso inclina a sovrapporre intentio auctoris, intentio operis e intentio lectoris, vale a dire cose che sarebbe bene tener distinte.
Sotto questo profilo, ha ragione Corradi a sostenere – richiamando quanto affermato da Roberto Fineschi nell’introduzione ad un volume al quale anche chi scrive ha contribuito (Karl Marx.
Rivisitazioni e prospettive, Mimesis, 2005) – che è stato “proprio un malinteso, e apparentemente più rivoluzionario, primato della prassi e della politica” a far saltare “le necessarie mediazioni tra l’analisi del modo di produzione capitalistico e la politica del movimento operaio”; l’importante, aggiungerei, è non illudersi che i frutti, che speriamo copiosi, dello scavo filologico possano poi autorizzare Tizio o Caia a professarsi, che so, “marxiano” invece che “marxista”: l’unico che poteva dire “je ne suis pas marxiste” è stato, appunto, Marx; i suoi interpreti non possono non esserlo (s’intende, ammesso che lo vogliano).
D’altra parte, è pur vero che la discussione odierna su Marx non ha nulla di quel tempo in cui – per dirla con Bucci – le “sottigliezze dialettiche”, lungi dal restare “confinate nelle aule universitarie”, proiettavano “le proprie conseguenze sul mondo reale degli uomini in carne e ossa”, né la differenza è dovuta solo al fatto che non ci sono poi così tante aule universitarie dove si discuta di Marx.
Il problema, piuttosto, mi pare costituito dal fatto che, nonostante il “marxismo dell’astrazione” possa senz’altro rivendicare una fedeltà all’intentio operis di Marx di gran lunga superiore al “marxismo del comune” di ascendenza negriana (dominato, all’opposto, da un’intentio lectoris così prepotente da dimenticare i “diritti” del testo), sono o rischiano di essere radicalmente “impolitiche” le implicazioni che da esso si possono derivare.
Provo a spiegarmi.
Quale fu l’implicazione politica principale del “marxismo della contraddizione”, cioè di quello che dominò l’epoca della Seconda e Terza Internazionale e che assumeva come proprio perno la contraddizione tra “forze produttive” e “rapporti di produzione”? Essenzialmente, quella di porre la rivoluzione all’ordine del giorno.
Il fatto che quest’ultima non sempre si sia data in forme giacobine e che là dove si diede abbia prodotto risultati talvolta perfino esecrabili nulla toglie alla capacità di questo marxismo di mobilitare milioni di donne e uomini, che avranno magari avuto come obiettivo l'”assalto al cielo”, ma intanto venivano a partecipare per la prima volta alla vita politica e sociale.
E negli anni Sessanta, quando cominciarono a circolare i testi giovanili di Marx, cosa si dedusse dal “marxismo dell’alienazione”? Essenzialmente, che le strutture politiche e sociali che erano emerse dalla guerra civile europea (e poi mondiale) del 1914-1945 erano, all’Est come all’Ovest, ancora profondamente infettate dalla Trennung (scissione, ndr), per cui né i lavoratori abitanti nel “campo socialista” né tanto meno i loro omologhi del “campo capitalista” erano riusciti a sussumersi le condizioni della propria produzione e riproduzione, che continuavano al contrario a dominarli, seppure sotto forma di movimento “politico” (e non più solo “di cose”).
E fu la critica al capitale, certo, ma soprattutto ai partiti tradizionali e allo Stato, alle istituzioni universitarie, scolastiche, sanitarie, ecc.
E il “marxismo dell’astrazione”, quali possibilità schiude? Se è vero che, oggi, il capitale svuota dall’interno il mondo concreto degli oggetti e dei bisogni umani, che cose e uomini sopravvivono in superficie mentre tutto è incorporato nel meccanismo di un’accumulazione quantitativa e, soprattutto, che questo meccanismo funziona così bene che aumenta sia il numero dei salariati che la durata e l’intensità della giornata lavorativa, cosa ci resta da fare? La domanda non è oziosa.
Se il capitale funziona così bene da colonizzare le nostre vite e il nostro immaginario e perfino da aumentare il numero degli occupati, “resistergli” è velleitario e, prima ancora, insensato: e in effetti, il velleitarismo è l’accusa che viene sempre più spesso mossa ai comunisti, che dal canto loro, nella misura in cui riducono il loro essere comunisti ad un generico “anticapitalismo”, di fatto danno ragione ai loro avversari.
(Alcuni ecologisti l’hanno capito così bene che, per ovviare al problema, hanno sostituito alla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione quella fra “capitale” e “natura”: ma codesto “ecomarxismo”, come si è voluto chiamare, non ha più titoli per rivendicare la propria discendenza da Marx di quanti ne possa vantare il “marxismo del comune”, cioè nessuno.) Intendiamoci: non vedrei nulla di male (né di “antimarxista”) nell’ammettere che da Marx non possiamo più derivare alcuna “teoria della rivoluzione”.
La domanda però è: perché mai dovremmo allora pensare a un “nuovo soggetto rivoluzionario” o alla “costituzione, sociale e politica, di nuove soggettività dell’emancipazione” (Finelli), visto che il capitale funziona benissimo? A diverse implicazioni potrebbe giungersi qualora considerassimo la crescita costante della disoccupazione negli ultimi trent’anni e, soprattutto, la circostanza che il capitale non riesce più a riprodursi ai tassi di crescita del secolo XIX (se non nelle periferie del pianeta, dove le condizioni della vita sociale ricalcano più dappresso quelle prevalenti due secoli fa in Europa e nell’America del Nord): si tratta, infatti, di evidenze empiriche che dovrebbero farci comprendere che è insensato continuare ad attribuire al capitale un potere che viceversa è solo l’espressione rovesciata di una nostra intrinseca debolezza.
Ma non c’è cosa più difficile di convincere i marxisti che oggi il capitale è molto più debole di quanto non fosse ai tempi di Marx: credere in un capitalismo onnipotente è per loro molto più rassicurante, perché dispensa dalla ricerca delle proprie insufficienze teoriche e pratiche e, proiettando in futuro fantastico la plenitudo temporis, permette di eludere la resa dei conti col “comunismo realizzato” (quello statuale) e coi problemi che esso ha posto all’ordine del giorno, in Oriente come in Occidente.
Di questi, uno mi pare davvero centrale, ed è quello che troppo banalmente si è definito come “fine del lavoro”.
Non se ne può dire qui; c’è spazio solo per avvertire che la sua mancata comprensione fa sì che ancor oggi “il nesso interno della produzione complessiva si impone agli agenti della produzione come una legge cieca, e non come una legge compresa e dominata dal loro intelletto associato” (Marx): la diminuzione del tempo di lavoro necessario, connessa all’enorme sviluppo tecnologico del secolo appena concluso e soprattutto dai nuovi rapporti sociali entro cui esso ha potuto dispiegarsi in modo non distruttivo durante i “trenta gloriosi keynesiani”, trionfa infatti al momento “così come per esempio trionfa con forza la legge della gravità, quando la casa ci capitombola sulla testa”.
Non sarà per questo che aumentiamo l’età pensionabile pur essendo pieni di disoccupati e di disperati che premono alle frontiere alla ricerca di lavoro?
da Liberazione del 21 Dicembre 2005
NO IL CAPITALE NON È TUTTO. RICORDIAMOCI DELLA CLASSE
Quale Marx per il XXI secolo. Prosegue il dibattito sul volume critico “Sulle tracce di un fantasma”.
Un intervento critico contro la tesi che oggi il capitalismo sia un astratto meccanismo che riduce gli individui a maschere in superficie
di Massimiliano Tomba
Nel 2005, non solo in Italia, sono apparsi in libreria diversi libri su Marx.
Sulle colonne di questo giornale la recensione di Tonino Bucci al volume Sulle tracce di un fantasma.
L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, edito dalla manifestolibri e curato da Marcello Musto, ha suscitato una discussione forse impensabile fino a pochi anni fa.
Riccardo Bellofiore ha posto una giusta questione quando chiede come mai “tutto di Toni Negri sia disponibile nelle librerie, mentre di Marx quasi niente?”.
Probabilmente perché, al di lá delle mode, c’è un’urgenza generazionale di politica che mal sopporta sia la fatica del lavoro teorico sia i vecchi riferimenti a un Marx imbalsamato.
Siamo tutti d’accordo, credo, nell’affermare che ció di cui abbiamo bisogno è un Marx problematizzato, magari anche pensato contro i suoi limiti, ma che ci permetta di “ricostruire adeguatamente la trasformazione morfologica del capitale”.
La questione posta da Tonino Bucci si ripresenta allora nella sua bruciante attualità.
Essa riguarda il rapporto tra teoria e prassi.
Ed è in fondo da qui che ha preso le mosse la discussione.
Con chi, come Cristina Corradi, esorta a “prendere sul serio il lavoro teorico” e denuncia alcuni esiti nefasti del primato della prassi nel marxismo della seconda metá del Novecento.
Inutile in questa sede ripercorre presunti o reali malintesi del primato della prassi e della politica sulla teoria.
Il problema che attraversa queste discussioni si annida probabilmente proprio nella struttura del dualismo teoria-prassi: la sua forma dicotomica porta ad accentuare di volta in volta uno dei due aspetti, mentre ad essere vero non è né l’uno né la l’altro.
E tanto meno una loro presunta superiore sintesi di ascendenza hegeliana.
Il giovane Marx si trovó di fronte ad un problema analogo mentre cercava di uscire dalle pastoie della riflessione posthegeliana.
Nella prima delle sue Tesi su Feuerbach considerava parimenti inadeguati sia il materialismo sia l’idealismo: se il primo guarda la realtà solo come oggetto, il secondo ne sviluppa astrattamente il lato attivo, tralasciato appunto dal materialismo.
Ma nessuno dei due punti di vista è vero, perché nessuno dei due è in grado di cogliere l’oggetto come prassi, vale a dire soggettivamente.
Qui Marx, per la prima volta, giunge a una nozione di verità che è intimamente intrecciata alla praxis.
Non ci sarebbe peró arrivato senza la lezione appresa nelle organizzazioni comuniste che iniziava a frequentare in quegli anni, e ancor meno senza la lezione della rivolta dei tessitori slesiani del 1844.
È qui che impara a conoscere la natura di classe di quel conflitto: la rivoluzione nella rivoluzione.
Marx coglie cioè la rivoluzione sociale che attraversa la rivoluzione politica; una rivoluzione che emerge dalle faglie aperte da dinamiche di classe che restano oscure a chi guarda solamente al rapporto tra individuo e comunità politica.
Con questo Marx opera un duplice simultaneo spostamento: assieme all’angolo prospettico dal quale guardare la società viene spostato l’intero piano della riflessione.
Fu una mossa spiazzante.
Impensabile senza la radicale assunzione nella teoria della prassi rivoluzionaria dei proletari.
Ben venga l’edizione critica delle opere marxiane se puó servirci a fare maggiore chiarezza su questi rapporti tra riflessione politica, analisi economica e intervento pratico nelle situazioni, aspetto, quest’ultimo, sempre presente in Marx.
Politicamente ci serve oggi quel gesto marxiano.
Il carattere astratto che Bucci imputa al “marxismo dell’astrazione” di Finelli ha a che fare con un vecchio problema relativo al rapporto teoria-prassi.
Finelli legge la globalizzazione come un processo di “accumulazione di ricchezza astratta che s’è fatta talmente dominante e tendenzialmente assoluto del mondo contemporaneo da superare i confini e il potere dello Stato-nazione”.
Insomma, assisteremmo secondo Finelli ad un “processo di totalizzazione del capitale” nel quale il valore diviene un soggetto automatico, e gli individui concreti sue funzioni.
Ed è certo innegabile che la sussunzione del valore d’uso nel valore di scambio si presenti oggi nei termini del dominio dell’astratto.
Ma allora di fronte a questo “processo di totalizzazione del capitale” o ci si consegna a una nuova filosofia della storia che profetizza il crollo del capitalismo sotto i colpi di un comunismo che esso stesso produrrebbe al proprio interno, o non resta che auspicare una qualche forma di resistenza che ne trattenga gli aspetti piú mortiferi.
Se non troviamo oggi il gesto capace di cogliere l’oggetto soggettivamente, come prassi, rischiamo un’immagine totalizzante o apocalittica del capitale.
Due facce della stessa medaglia.
È invece necessario ridiscendere nei laboratori segreti della produzione, ricostruire le catene del valore che si stagliano non nello spazio neutro e indifferenziato della globalizzazione, ma nei percorsi molto piú accidentati segnati dalle insorgenze del lavoro vivo.
È questo il lato soggettivo, la prassi da indagare dentro quei processi, nelle nervature concrete delle pratiche di classe.
Senza attribuire a quest’ultimo concetto, oggi decisamente démodé, alcuna valenza sociologica.
Se non siamo in grado di attualizzare questo gesto marxiano, continueremo ad aggirarci nelle ambiguità del rapporto tra teoria e prassi, e vedremo ancora nelle librerie piú Toni Negri che Marx.
da Liberazione del
MARX, BENE COMUNE
di Domenico Jervolino
Sulle colonne di Liberazione si sta svolgendo da qualche tempo un dibattito sul libro – curato da Marcello Musto ed edito dalla manifestolibri – Sulle tracce di un fantasma.
L’opera di Marx tra filologia e filosofia – che raccoglie gli atti di un convegno organizzato a Napoli tra il 1 e il 3 aprile 2004 da un pool di istituzioni universitarie ed extrauniversitarie, prevalentemente napoletane, ma non solo, essendo diventata Napoli in quest’occasione il punto d’incontro di studiosi provenienti dalle principali nazioni europee con presenze che spaziavano dall’Estremo Oriente all’America Latina.
Ho fatto parte, con Giuseppe Cacciatore e Roberto Finelli, del Comitato scientifico del Convegno e finora ho ritenuto più opportuno finora lasciare la parola a chi non aveva partecipato alla organizzazione di quell’evento e non era uno degli autori del libro.
Ma ora mi pare giusto prendere la parola, anche perché sono state sollevate questioni che mi coinvolgono non solo come co-autore del libro, ma come militante di Rifondazione.
Il problema è tutto nel rapporto fra studi su Marx e lavoro politico.
C’era un tempo che le diverse letture di Marx avevano riflessi immediati nell’azione politica dei partiti e dei movimenti socialisti e comunisti, ora c’è una distanza che può persino apparire siderale fra le ricerche e i dibattiti teorici e l’agire politico quotidiano.
Sicuramente è un bene per la libertà della ricerca che può procedere senza essere sottoposta a controlli, influenze, censure.
Ma questa distanza può anche indurre una frustrazione in chi si occupa di Marx e di marxismi, come se si trattasse di cosa irrilevante per le scadenze dell’oggi.
È possibile ricostruire un rapporto fra lavoro culturale e lavoro politico senza cadere negli errori del passato (mi riferisco non al nostro breve passato, ma a quello dei partiti socialisti e comunisti storici) senza pretese di ricavare per deduzione la giusta linea né di orientare gli studi in base a direttive di partito? È una questione difficile, ma da non eludere.
Nel cercare una risposta, io partirei – forse la cosa potrà stupire – da una concezione che ci è diventata familiare negli ultimi tempi, vale a dire la conoscenza come bene comune e come fondamento di una democrazia rinnovata sulla base di un concetto universalistico ed egualitario di cittadinanza.
Che c’entra questo con Marx? C’entra.
Significa che noi vogliamo un partito fatto di compagni e di militanti che conoscano Marx, che sappiano leggerlo, che sappiano fare i conti col suo pensiero perché vogliamo un partito, dei compagni, dei militanti colti.
E potrei aggiungere dei cittadini colti (e vorrei ricordare anche che nel movimento operaio dei primi decenni, ancora ai tempi di Rosa Luxemburg, prima di chiamarsi compagni, ci si chiamava cittadini, con riferimento all’eredità rivoluzionaria della rivoluzione francese e delle sue famose tre parole d’ordine: libertà, fraternità, eguaglianza).
Significa che Marx appartiene alla cultura dell’umanità ed è un riferimento indispensabile per qualsiasi sapere critico.
Non l’iniziatore di una forma di conoscenza esoterica, riservata a un tipo particolare di persone, destinate a diventare inevitabilmente una setta o creare una ortodossia.
Questo è certamente la ragione per la quale Marx non si dichiarava marxista e durante tutta la sua vita non ha mai cessato di confrontarsi con i punti alti della cultura dei suoi tempi.
Quindi in breve: riappropriarsi dell’opera (ancor in parte sconosciuta) di Marx, farla diventare un bene comune dell’umanità, costruire una cultura che – come diceva la Lettera a una professoressa – consiste in due cose: possedere la parola e appartenere alla massa.
E sulla base di questi presupposti battersi per una democrazia che si fondi sul protagonismi di soggetti che posseggono la parola e sono impegnati in un processo senza fine (perché non si cessa mai di imparare) di apprendimento critico della società in cui viviamo, dei suoi processi, delle sue dinamiche.
Questo mi pare l’obiettivo che può degnamente proporsi un partito di tipo nuovo, che sappia sfuggire alle sabbie mobili dei dogmatismi, alle chiusure settarie d’ogni genere, alle paludi dell’indifferenza e al cinismo della politica politicante.
recensione da CRITICA MARXISTA di: M. Musto, Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia
«ASTRAZIONE E FANTASMI» DI NUOVO SULL’ATTUALITÀ DI MARX di Roberto Finelli
Gli atti un un convegno su Marx «tra filologia e filosofia» ripropongono, insieme con l’importanza e la vitalità dell’opera marxiana, i nodi centrali del suo pensiero.
Il capitale come egemonia di un soggetto astratto e la centralità del nesso Hegel-Marx.
Il recente volume della Manifestolibri, Sulle tracce di un fantasma.
L’opera di K. Marx tra filologia e filosofia, a cura di Marcello Musto, riproduce gli atti di un convegno internazionale che si è svolto a Napoli nell’aprile dello scorso anno sul pensiero e l’opera di Marx nel suo complesso, dalla giovinezza alla maturità.
L’assise napoletana, come non poteva essere diversamente, ha avuto assai poca eco sui media.
Eppure il convegno, organizzato, a partire da un’iniziativa dello stesso curatore del volume, da professori e ricercatori delle Università di Napoli (Federico II e l’Orientale) e dell’Università di Bari, dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dall’Istituto Suor Orsola Benincasa, ha visto non solo il concorso di molti studiosi internazionali, dall’Europa, dall’America latina, dal Giappone e dalla Cina, ma ha rappresentato, a mio avviso, in modo pubblico e ufficiale – e qui sta il suo valore di fondo – la ripresa del marxismo teorico italiano.
Nel senso di una rimessa sulla scena e di un confronto con l’attualità del postmoderno della teoria più astratta e sistematica di Marx, considerata sia filologicamente nella complessità della sua pagina scritta e delle sue varie sedimentazioni e stesure, sia filosoficamente nella coerenza o meno, quanto a percezione e coglimento della realtà, del suo tessuto di concetti.
Il marxismo filosofico in Italia è stato dichiarato morto, com’è noto, a una data precisa, coincidente con il 1974, l’anno in cui Lucio Colletti, pubblicando la sua Intervista politico-filosofica, si accorgeva, diversamente da quanto aveva pensato fin’allora, che la teoria della contraddizione storico-sociale di Marx era assai condizionata dalla dialettica di Hegel e conseguentemente che, rappresentando Hegel il massimo del pensiero fallace e antiscientifico, il marxismo non poteva costituire un sistema veridico di pensiero.
Così poiché Colletti era accreditato, nel bene e nel male della sua produzione teorico-politica precedente, come il teorico marxista più conosciuto e più celebrato sul piano filosofico, ne era derivato – in tempi già d’incipiente febbre pubblicitaria postmoderna e di scarsa attitudine alle letture serie e approfondite – che la sua dichiarazione valesse coram populo a seppellire il marxismo come filosofia e a liberare il rapido rotto di molti somarelli, ormai estenuati dal peso della vecchia soma, verso pascoli, ben più nutrienti, di una cultura dialogico-democratica conciliata con un capitalismo sano o risanabile e con il volgimento dell’intera realtà in linguaggio, sia nella versione analitico-positivistica che in quella continentale-ermeneutica.
Non è un caso perciò che il convegno di Napoli sia ripartito proprio da dove il marxismo italiano con Colletti era presuntivamente giunto alla sua fine – dalla centralità del nesso Hegel-Marx –, mostrando quanto, indipendentemente dalle conclusioni un po’ tranchant e a effetto dell’Intervista politico-filosofica, non solo in Italia, ma in Inghilterra, in Germania, in Olanda, in Giappone, prima, durante e dopo, si sia continuato a studiare e a indagare con rigore critico il testo di Marx, trovando in esso non solo un classico della modernità, ormai consegnato alla storia, ma un interprete insostituibile del presente e dell’attuale passaggio tra moderno e postmoderno.
Filologia e storiaIntanto, come prima cosa, la situazione filologica ed editoriale dell’opera di Marx, alla quale, come condizione primaria per qualsiasi approfondimento teorico, è stata dedicata non a caso la prima sessione del convegno napoletano.
Com’è noto e com’è ovvio, la storia editoriale delle opere di Marx ed Engels non poteva non essere profondamente intrecciata con la storia del movimento comunista internazionale e in particolare dell’ex Unione Sovietica.
La prima edizione critica delle opere complete, conosciuta anche con la sigla MEGA (Marx Engels Gesamtausgabe) fu avviata negli anni venti e stampata a Berlino e Francoforte sotto la guida intelligente e colta dello studioso russo David B.
Rjazanov e interrotta, dopo la pubblicazione di alcuni volumi, quando lo stesso Rjazanov e numerosi suoi collaboratori russi e tedeschi furono fisicamente eliminati dal terrore staliniano degli anni trenta, a ulteriore conferma, se mai ce ne fosse bisogno, della violenza di quello sciagurato regime fatto passare per realizzazione del comunismo.
Nel secondo dopoguerra, dopo la morte di Stalin, e malgrado le notevoli resistenze alla ripresa di un’edizione criticamente accurata che implicava il rischio di evidenziare fragilità e incrinature del corpus teorico del marxismo, la pubblicazione di una seconda e nuova MEGA fu avviata con l’istituzione di diversi centri di studio, tra i quali quelli di Mosca e Berlino Est, durante gli anni sessanta.
Il progetto iniziale era di 100 volumi (ciascuno doppio perché corredato di un secondo volume, costituito da un apparato di note), poi portati a 165, divisi in quatto sezioni: Ia, Opere, Articoli, Abbozzi; IIa, Il capitale e lavori preparatori; IIIa, Epistolario; IVa, Estratti, Appunti, Marginalia.
Quando erano stati pubblicati circa 40 volumi, il crollo dei regimi dell’Unione Sovietica e della Repubblica Democratica Tedesca ha rischiato di mettere definitivamente la parola fine all’impresa, basata sulla pubblicazione integrale, e dotata di amplissimi apparati critici, del corpo dei manoscritti di Marx ed Engels, originariamente lasciati da una delle figlie di Marx al Partito socialdemocratico tedesco e due terzi dei quali sono ora in Olanda, in possesso dell’Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam, e un altro a Mosca, presso l’Archivio di Stato russo per la storia politica e sociale.
L’istituzione di una fondazione internazionale (IMES = Fondazione Internazionale Marx Engels), cui partecipano l’Istituto di Amsterdam e la Karl-Marx-Haus di Treviri (finanziata dalla Fondazione Ebart), l’accoglimento economico e culturale dell’impresa sostanzialmente da parte della Repubblica federale tedesca, la metamorfosi della vecchia Accademia delle scienze di Berlino Est nella nuova Accademia delle scienze di Berlino e del Brandeburgo (presso cui ora viene concentrata la fase finale di redazione dei testi), il passaggio dalla vecchia casa editrice Dietz Verlag, legata al vecchio regime della Ddr, alla nuova casa editrice, lo Akademie Verlag, di fama accreditata per l’edizione di classici della filosofia come Aristotele, Leibniz e Feuerbach, ha consentito, con una nuova struttura finanziaria e organizzativa, di riprendere, con un minimo ridimensionamento dei volumi del progetto, il lavoro e le pubblicazioni.
Di tutto ciò, dei criteri filologici e culturali di edizione, della sistematicità dell’elaborazione elettronica dei dati per una futura edizione su Cd-Rom, dello stato attuale dei volumi in corso di lavorazione, al convegno di Napoli hanno dato conto Manfred Neuhaus, responsabile del gruppo di lavoro per la MEGA dell’Accademia berlinese, e Gerald Hubmann, responsabile del Marx Engels Jahrbuch, l’annuario dell’Accademia dedicato ai problemi, anche teoricoconcettuali, della pubblicazione delle opere.
Malcom Sylvers, che si occupa in Italia, presso l’Università di Venezia, dell’edizione di volumi della terza sezione della MEGA, ha invece illustrato, più specificamente, l’enorme valore dell’epistolario marx-engelsiano, indispensabile per ricostruire non solo il rapporto tra i due, ma più in generale la rete di comunicazione che, attraverso le lettere, si venne a costituire tra i profughi sconfitti della Rivoluzione del 1848, sparsi nei vari angoli dell’Europa e degli Stati Uniti.
In particolare Sylvers nella sua relazione ha dato conto dei contenuti e dei problemi di un volume futuro della terza sezione (la corrispondenza di Engels per il periodo di aprile 1888-settembre 1889), appunto curato da lui stesso insieme a due colleghi tedeschi, i cui temi sono i nascenti movimenti socialisti in Europa e negli Stati Uniti, la fondazione della Seconda Internazionale, il lavoro editoriale per il terzo volume del Capitale e la traduzione degli scritti di Marx ed Engels in varie lingue (di cui la corrispondenza con Martignetti per la lingua italiana): ricco e vario carteggio da cui emerge tra l’altro anche un profilo della vita quotidiana di Engels.
Izumi Omura, docente dell’Università giapponese di Sendai, ha illustrato l’enorme mole di lavoro, a elevatissimo livello di informatizzazione, che il suo gruppo di lavoro (verosimilmente il più ampio di tutti i gruppi di lavoro MEGA) sta svolgendo.
Infine Gian Mario Bravo, con la sua competenza e accuratezza di sempre, ha trattato in modo approfondito, sul piano storiografico, della questione della diffusione e volgarizzazione del marxismo nell’Italia postunitaria della seconda metà dell’Ottocento.
Mostrando quanto, fatta eccezione per l’opera di Antonio Labriola, il nascente socialismo italiano di quell’epoca abbia avuto una fondazione teorica essenzialmente positivistica, assai lontana, se non per una popolarizzazione di superficie, dalla tematiche di Marx, e soprattutto incapace di consegnare al proletariato e alle classi popolari della nuova Italia una visione culturale, oltre che etico-politica, originale e autonoma dal modo di pensare e di valutare delle classi dominanti.
Infine, non va certamente trascurata la relazione che, in questa sezione del convengo, la professoressa Wei Xiaoping, membro dell’Istituto di Filosofia dell’Accademia cinese di scienze sociali, ha svolto sulla situazione degli studi marxisti in quel paese, testimoniando quanto anche qui sia importante l’edizione critica della nuova MEGA per un lavoro degli studiosi cinesi che vogliano sottrarsi alle rigidità e all’eccessiva esposizione politica della tradizionale lettura di Marx caratteristica del passato.
Il capitale come egemonia di un soggetto astrattoPassando al piano più propriamente teorico del pensiero di Marx di cui s’è trattato a Napoli, gli organizzatori del convegno hanno voluto centrare la discussione in particolare sul Marx dei Grundrisse e del Capitale, ritenendo che è nell’opera matura, ben più che nei testi giovanili (Critica della filosofia statuale di Hegel, Manoscritti economico-filosofici) come nei testi di definizione della filosofia del materialismo storico (La Sacra famiglia, L’ideologia tedesca e la Miseria della filosofia), che si gioca o meno la forza dell’attualità di Marx nel leggere il moderno, o più esattamente il postmoderno del moderno.
Ed è un nuovo paradigma interpretativo – il cosidetto marxismo dell’astratto – che, a partire da alcune relazioni, s’è venuto proponendo al centro della questione.
Per dire cioè che, nella storia dei marxismi che ha contrassegnato il XIX e il XX sec.
– prima il marxismo della contraddizione, quale teoria dell’evoluzionismo storico, comune alla Seconda e Terza Internazionale, basata sulla contraddizione tra il polo positivo delle forze produttive e quello negativo dei rapporti di produzione, e poi nel secondo dopoguerra il marxismo dell’alienazione, quale scoperta del giovane Marx, teorico dell’uomo e del suo rovesciamento nei prodotti del suo lavoro alienato – è proprio la realtà che tutti, o almeno noi occidentali, stiamo vivendo di un mondo del concreto sempre più svuotato di gusto, di qualità, di emozioni dall’accumulazione della ricchezza astratta del capitale, a far avanzare ed estrarre dall’opera marxiana la presenza di un terzo canone di lettura della storia moderna fino all’attualità dei nostri giorni che è appunto quello del marxismo dell’astrazione.
Quest’ultimo fa dell’astrazione – ossia della ricchezza solo quantitativa del Capitale, indifferente nella sua accumulazione al mondo qualitativo dei valori d’uso e dei bisogni degli esseri umani – il vero soggetto, dominante ed egemonico, della modernità.
Questo marxismo dell’astrazione, lasciando cadere una lettura, umanistica e antropocentrica, della storia, non nega ovviamente l’azione, la resistenza e l’iniziativa delle classi subalterne e dei portatori di forza-lavoro nel confronto con il capitale, ma sostiene che il vero soggetto moderno non sono i produttori, quanto il capitale, quale universale che, proprio per la sua indifferenza ai processi materiali in cui si incorpora, può diffondere il suo dominio su tutti gli spazi naturali e antropomorfi della realtà.
E legge appunto la modernità, e quella sua intensificazione che è la post-modernità, non tanto attraverso la categoria canonica della opposizione-contraddizione (secondo cui un soggetto collettivo urta e configge contro la realizzazione alienata ed espropriata di sé), quanto attraverso quella dell’astrazione-svuotamento, secondo la quale l’astratto, più che opprimere e reprimere dall’esterno il concreto, lo colonizza dall’interno, riempiendolo della sua logica e svuotandolo di un suo proprio significato, ma lasciandolo sopravvivere, in pari tempo, nella cornice esteriore ed apparente della sua superficie.
Le relazioni di Chris Arthur, Riccardo Bellofiore, Roberto Finelli, Michael Kraetke, Geert Reuten, hanno discusso approfonditamente di tutto ciò, nell’assenso e nel dissenso, ma concorrendo tutti a far avanzare sulla scena teorica la presenza e il rilievo di questo nuovo paradigma interpretativo.
Bellofiore in particolare, connettendo la centralità della produzione, e del confronto in essa tra lavoro concreto e lavoro astratto, ad una teoria del circuito monetario che non impedisca alla critica dell’economia politica di Marx di dar conto dell’importanza fondamentale oggi dei fenomeni monetari e della asimmetria del capitale finanziario e del capitale creditizio rispetto al capitale produttivo.
Come per altro rivendicando l’attualità delle categorie marxiane nel criticare tutte le estremizzazioni teoriche che pretendono di equiparare il postmoderno e le trasformazioni economiche del postfordismo con una società cosiddetta della fine del lavoro, quando ciò che sta accadendo anche nei paesi sviluppati è proprio un aumento, a vario titolo, della lunghezza della giornata lavorativa e dell’intensità della prestazione lavorativa.
Anche per Chris Artuhr le categorie di ricchezza astratta e di lavoro astratto sono indispensabili per comprendere come la riflessione di Marx abbia concepito il Capitale essenzialmente come un principio economico che tende a universalizzarsi e a costituirsi come sistema generale della vita e della riproduzione sociale: non dunque solo rapporto tra singoli imprenditori e determinati gruppi di classe operaia, ma come universale astratto, in senso forte, che con la sua logica di accumulazione vuole pervadere tutti gli ambiti dell’esistenza.
Ed infatti Arthur, come Finelli – ma con delle significative differenze tra i due – ha riproposto in termini originali ed assai approfonditi il tema del confronto-derivazione del Capitale di Marx dalla Scienza della logica di Hegel, quale opera par excellence della filosofia moderna dedicata ai modi dell’articolarsi e del distribuirsi sull’intero campo della vita di una totalità.
A conferma anche qui di quanto la pretesa conclusione del marxismo teorico in Italia, compiutasi con Colletti, abbia preso le mosse da una assai sbrigativa liquidazione di Hegel, visto, alla Popper, come un pensatore oscurantista e premoderno che avrebbe tradotto e razionalizzato in termini concettuali un contenuto sostanzialmente teologicoreligioso, antiscientifico e antistorico.
Laddove nel convegno napoletano, soprattutto nella sezione dedicata al Capitale, la rivalorizzazione di Marx nel leggere le astrazioni e le immaterialità del postmoderno è tornata a fare uso profondamente del rapporto di Marx con Hegel, ma questa volta sottratto alle ipoteche di pesante umanismo e antropocentrismo entro le quali la querelle tra storicismo da un lato e scientismo antistoricista dall’altro lo aveva comunque limitato nella seconda metà del Novecento.
È appunto all’uso impersonale della «totalità» in Hegel, ma sottratta alla rifondazione antropomorfa nel lavoro e nella prassi umana che ne fa Lukács nell’Ontologia dell’essere sociale, che ora si guarda, per sottrarre contemporaneamente Hegel da un volgare riduzionismo spiritualistico-telogico e Marx da una filosofia della storia centrata sul prometeismo dell’homo faber e sul trionfante sviluppo delle sue forze produttive.
Per altro in questa rottura di una icona interpretativa che ha costituito il canone dei diversi marxismi ufficiali del XIX sec.
(la progressione materialistica della dialettica dallo spiritualismo di Hegel, via Feuerbach, al materialismo di Marx) e in una riaffermata continuità, ma appunto a partire da altre categorie e da altre mappe concettuali, tra l’opera di Marx e l’idealismo tedesco, significativa è stata a Napoli la proposta di un cosidetto «paradigma schellinghiano», quale quella avanzata da Enrique Dussel.
Per Dussel infatti, il cui ispirarsi tra altre fonti anche alla teologia della liberazione della chiesa povera sudamericana è evidente, Grundrisse e Capitale vanno compresi a muovere dal nesso di opposizione fondamentale della modernità: dalla capacità cioè del sottosviluppo più radicale di creare lo sviluppo più opulento, della povertà assoluta di costituire la fonte della ricchezza più ricca.
In una connessione intrinseca, di cui Marx dà conto in pagine celebri dei Grundrisse e che per Dussel si legano appunto alla teorizzazione che l’ultimo Schelling (quello della Filosofia della rivelazione) fa del fondamento dell’Assoluto come non-essere, che nella sua assenza di contenuto, è potenza e potenzialità di ogni contenuto possibile.
Per cui ciò che se ne ricava sul piano geo-politico è che, più che la classe operaia tradizionale dell’Occidente novecentesco, sarebbero ora, più complessivamente, le masse povere del terzo e quarto mondo a costituire i soggetti collettivi di una possibile trasformazione futura.
A sottolineare ulteriormente quanto il convegno napoletano non sia stato una mera celebrazione di un Marx, consegnato ormai come classico al passato, v’è stata infine la proposta di lettura del Capitale, e insieme della modernità, che Jacques Bidet sta approfondendo ormai da un quindicennio.
Per l’autore francese, direttore tra l’altro della rivista Actuel Marx, il discorso di Marx sulla struttura economica del capitalismo caratterizzata da relazioni di sfruttamento e di disuguaglianza, per essere fatto ben valere nella comprensione del mondo contemporaneo, non può essere disgiunto dall’operare di quell’altro piano fondante la modernità, da lui definito metastruttura: dal fatto cioè che solo nella modernità è stato ed è possibile mettere insieme individui attraverso libera scelta, dandosi così luogo a relazioni contrattuali, che dall’interindividualità vanno all’associatività e alla centricità del potere statale.
Questa metastruttura del moderno, costituita da relazioni contrattuali di varia natura, esprime per Bidet un trascendentale della modernità, nel senso di rappresentare un insieme di condizioni che stanno a base – sono il presupposto – di qualsiasi formazione storico-sociale concreta del moderno, venendo nello stesso tempo sempre posti, riprodotti, dal funzionamento sociale effettivo.
Ispirando la sua concezione a una possibile mediazione tra marxismo e contrattualismo, Bidet ne deriva perciò non solo che società liberale e società comunista vanno concepite come due possibili variazioni, due possibili casi all’interno di tale metastruttura generale, ma soprattutto che a muovere dalla compresenza di diversi piani relazionali si potrebbe giungere a concepire un modo di produzione, caratterizzato dal mercato, ma autonomo dalla presenza e dalla funzione del capitale.
Tra etica e politica, «comunismo della finitudine» ed ermeneuticaLa sezione più etico-politica del convegno ha visto le relazioni di Gianfranco Borrelli, Giuseppe Cacciatore, Mario Cingoli, Domenico Jervolino, Domenico Losurdo, Marcello Musto, Peter Thomas, André Tosel.
Il giovane studioso australiano Peter Thomas, occupandosi di quell’opera assai singolare che è la dissertazione di laurea di Marx sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicureo, ha argomentato di come e quanto la nuova ricerca su Marx debba abbandonare metodologie e criteri d’indagine superati e stereotipi, legati alla vecchia mitologia dell’eroe che fin dall’infanzia anticipa con segni premonitori, senza mai accedere all’errore o alla contraddizione, la pienezza della verità matura.
Così la tesi di laurea di Marx sul confronto tra i diversi sistemi dell’atomismo antico va sottratta ad ogni forzatura di materialismo supposto già presente a priori e restituita alla concretezza della lotta ideologica e culturale-politica che costituiva allora l’orizzonte della formazione e della riflessione marxiana, come all’opposto non va iscritta in un’ispirazione unicamente idealistica, che farebbe del giovane Marx un pensatore inizialmente completamente subalterno ad Hegel.
Va cioè contestualizzata storicamente all’interno della problematica dei Giovani hegeliani (del cui gruppo allora il giovane Marx faceva parte) e teoricamente rispetto alla questione di che cosa significasse allora la funzione della «critica» culturale.
E, specificamente, cosa significasse in quel testo per il giovane Marx cominciare a mettere in scena una sua critica della critica, visto che la battaglia culturale contro la religione per garantire maturità laica e razionale allo Stato moderno non sembrava mantenere quella promesse di emancipazione su cui pure avevano sperato i Giovani hegeliani.
A proposito della complessità di sensi e della molteplicità di atteggiamenti che si aprono nell’opera di Marx rispetto al termine e al concetto cruciale di «materialismo», un’attenta relazione di Mario Cingoli, riferita anch’essa soprattutto all’opera del primo Marx, ha espresso la necessità di considerare il rapporto del giovane Marx con il materialismo, suddividendolo in tre fasi.
Una prima fase in cui Marx, sotto l’esplicita influenza di posizioni romantiche e della Naturphilosophie non hegeliana prima, e di Hegel dopo, è decisamente critico nei confronti del materialismo.
Questa fase comprende i primi scritti letterari, o Quaderni preparatori alla Dissertazione di laurea, la Dissertazione stessa, gli articoli sulla Rheinische Zeitung.
Una seconda fase, che si esprime soprattutto con la Critica della filosofia del diritto di Hegel, in cui Marx, sotto l’influenza di Feuerbach e del suo modulo critico dell’inversione soggetto-predicato, si sposterebbe verso una posizione che sarebbe in sé già materialistica, ma conservando nello stesso tempo una forte diffidenza verso il termine «materialismo » in quanto tale: non a caso parla assai criticamente di «crasso» materialismo o di «astratto» materialismo).
Una terza fase, a partire dai Manoscritti del ’44 (fondamentali anche da questo punto di vista), nella quale anche il termine «materialismo» viene assunto in un’accezione via via più positiva.
Di questa fase si considerano diversi momenti: nel celebre excursus della Sacra famiglia alla difesa del materialismo si collega ancora l’influenza della Naturphilosophie; intanto Marx si impegna a differenziare la propria posizione da quella di Feuerbach, definita «statica»: si tratta, per Marx, di mettere in evidenza anche l’attività degli enti naturali «uomini», tramite cui essi lavorano la restante natura e insieme costruiscono la loro storia, e di giungere quindi a un materialismo «storico» e «dialettico» (in questo periodo, a differenza della posteriore scolastica, i due termini sono strettamente collegati).
Viene poi esaminata rapidamente la posizione del Marx della maturità; in connessione col testo di Schmidt Il concetto di natura in Marx[1] si mette in rilievo che per Marx, sempre più volto agli studi di economia politica, la natura appare essenzialmente come «base» del lavoro umano; non manca però, sia pure in sottofondo, un’ontologia materialistica, ed appare fondamentale il rapporto con la teoria di Darwin.
Si parla infine brevemente della posizione engelsiana: si evidenziano i limiti, ma anche l’importanza di essa, e l’esigenza di svilupparla ulteriormente.
Anche la relazione di Marcello Musto sul Marx parigino dei Manoscritti economico-filosofici, uscendo da canoni tradizionali e consolidati della tradizione marxista, ha ben mostrato come, alla luce dell’edizione critica della MEGA, il primo documento organico della riflessione marxiana sull’economia politica debba essere riletto e contestualizzato nell’ambito della complessiva attività di Marx in quel periodo: e dunque in un confronto-rispecchiamento costante soprattutto con i Quaderni di estratti che Marx viene raccogliendo durante il soggiorno parigino.
Tanto che per Musto ciò che di fondo si ricava da tale comparazione è che i Manoscritti economico-filosofici non possono essere considerati come un testo coerente e steso da Marx in maniera sistematica e preordinata.
Le tante interpretazioni che hanno voluto attribuirvi il carattere di un pensiero concluso, tanto quelle che vi hanno sottolineato la presenza e l’acquisizione già della piena maturità del pensiero marxiano, quanto quelle che l’hanno letta come l’opera di una teoria già formata e definita ma opposta a quella della critica dell’economia politica della maturità, risultano confutate dall’esame filologico.
Disomogenei e ben lungi dal presentare una stretta connessione tra le parti, sono, piuttosto, evidente espressione di un pensiero in movimento.
Basti pensare che il primo manoscritto è quasi poco più che una raccolta di citazioni, già trascritte da Marx nei suoi quaderni di lettura.
A testimonianza di un modo di lavorare e di pensare che, in questo primo approccio di Marx a temi di teoria economica, si componeva appunto di estratti dai testi che studiava, di riflessioni critiche in merito a questi ed elaborazioni che, di getto o in forma più ragionata, metteva su carta.
Per cui separare i Manoscritti economico-filosofici dal resto, estrapolarli dal loro contesto, può indurre a gravi errori interpretativi.
Per quanto riguarda il Marx che maggiormente ha riflettuto sulle forme politiche della modernità, Giuseppe Cacciatore, nella sua relazione sulla democrazia in Marx, ha fortemente valorizzato il contrasto che nello svolgersi dell’opera marxiana si dà tra due concetti di democrazia e di Stato moderno.
Quelli, più noti tradizionalmente, di una forma particolare di potere politico legato a una determinata configurazione socio-economica della società civile borghese-capitalistica, presente negli scritti di Marx dall’Ideologia tedesca in poi (lo Stato come comitato d’affari della borghesia).
E quelli invece presenti nei primissimi scritti del giovane Marx (gli articoli della Rheinische Zeitung del 1842 e, soprattutto, la Kritik des Hegel’schen Staatrechts del 1843), nei quali la democrazia e lo Stato politico vengono assunti in un significato radicale, come possibili forme di emancipazione e di liberazione delle energie della vita di un popolo.
Cacciatore ha approfondito in particolare questa prima concettualizzazione dello Stato e della democrazia da parte di Marx, sottolineando come nel primo Marx vi sia il tentativo teorico di radicalizzare le forme della politica moderna, non semplicemente negandole e rovesciandole in termini rivoluzionari, bensì traducendo e trasferendo il loro potenziale di universalità dal formalismo giuridico-politico della tradizione liberale a una mediazione più concreta di forma e contenuto, in cui la vita popolare possa trovare nella vita politica appunto il contenitore e i luoghi di possibilità della sua più ampia autoespressione.
La democrazia si configura in questo primo Marx come «l’enigma risolto di tutte le costituzioni», come «l’essenza di ogni costituzione politica», giacchè è l’unica forma istituzionale che tende ad annullare ogni distanza tra governati e governanti, tra popolo e sua rappresentanza.
La democrazia per il giovane Marx è infatti il luogo in cui, superandosi la separatezza tradizionale degli Stati premoderni tra popolo e istituzioni politiche, il popolo autorappresenta se stesso, nel senso che la sua rappresentanza è rappresentazione-espressione adeguata dei suoi reali ed autentici bisogni.
Attraverso istituzioni come la moltiplicazione, la generalizzazione del diritto di voto, sia attivo che passivo, il primo Marx è volto a concepire un esaurimento della funzione dello Stato, ma solo in quanto Stato politico, cioè separato ed astratto dalla società civile e dalle condizioni materiali d’esistenza dei più: giacché invece nella democrazia lo Stato, per lo stesso Marx, è il luogo e l’insieme delle istituzioni in cui il popolo rispecchia se stesso, prendendo coscienza del suo interesse unitario e organicamente universale contro il privilegio dei pochi e ogni dimensione cetuale-governativa della società civile.
Sulla variegatezza e la diversità di approcci di Marx al tema della politica ha insistito anche Gianfranco Borrelli, il quale nel suo intervento ha sottolineato come il lavoro di elaborazione specificamente politica di Marx vada scandito in tre periodi, che corrispondono rispettivamente: a) agli scritti che vanno appunto dalla Kritik der Hegel’schen Rechtsphilosophie del ’43 al Manifesto (1848) e, attraverso gli articoli su Le lotte di classe in Francia, fino a Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852): scritti che sono stati sempre considerati come il nucleo originario della riflessione politica di Marx; b) al periodo che va dalla metà degli anni cinquanta fino alla fine degli anni sessanta, il quale in corrispondenza con i lavori preparatori del progetto critico dell’economia politica, e di fatto fino alla pubblicazione del primo volume del Capitale, vede l’assenza pressoché assoluta di argomentazioni esplicite di natura politica; c) infine agli anni finali con la riflessione dedicata all’analisi dell’esperienza drammatica della Comune di Parigi (1871) e alle considerazioni del ruolo dello Stato e della dittatura di classe nella fase di transizione alla società socialista, svolte nelle annotazioni critiche portate al programma di Gotha, il manifesto del partito socialdemocratico tedesco (1875).
Per Borrelli la complessità, fino alla compresenza di due impostazioni diverse se non opposte, del discorso di Marx sulla politica, sta nel fatto che da un lato viene messa in atto una decostruzione critica e radicale del potere specificamente politico (die politische Gewalt), che deve preparare l’approdo alla società comunista; mentre, su di un altro piano, viene tematizzata la necessità di strumenti di un governo di transizione che debbano necessariamente utilizzare la funzione di un potere politico ancora concentrato, funzionale all’abbattimento della dominazione capitalistica da parte della classe operaia.
Né Borrelli, come già Cacciatore, ha tralasciato di sottolineare la ricchezza del sapere e del confronto con le istituzioni politiche accumulato dal giovane Marx, a muovere dal suo studio appassionatissimo dei testi storici e politici attinenti la Rivoluzione francese; citando a tal proposito, come esempio, l’articolazione dei punti di un Piano di uno scritto sullo Stato previsto in una pagina marxiana del 1845 e contenente temi quali: «1. la storia della nascita dello Stato moderno ovvero la rivoluzione francese; 2. La proclamazione dei diritti dell’uomo e la Costituzione dello Stato; 3. lo Stato e la società civile; 4. lo Stato rappresentativo e la Charte; 5. la divisione dei poteri. Potere legislativo ed esecutivo; 6. Il potere legislativo e i corpi legislativi; 7. Il potere esecutivo. Centralizzazione e gerarchia. Centralizzazione e incivilimento politico. Federalismo ed industrialismo. L’amministrazione statale e l’amministrazione comunale. Il potere giudiziario e il diritto. La nazionalità e il popolo; 9. I partiti politici. Il diritto elettorale, la lotta per il superamento dello Stato e della società civile»[2] Nell’ambito della tematica etica e politica di Marx una delle proposte più innovative del convegno napoletano è apparsa essere per altro quella di André Tosel, il quale, continuando una riflessione che dura ormai da molti anni, ha radicalizzato il tema del «marxismo della finitudine».
Per Tosel l’autoliquidazione del comunismo storico ha avuto come una delle sue cause fondanti l’assunzione antropologica e politica di una metafisica del soggetto produttore, in grado per il solo esercizio del lavoro, cioè della sua prassi produttiva di ricchezza e trasformatrice della natura, di ereditare il lato progressivo del capitalismo e di organizzare il comunismo.
Il tutto a partire da una concezione fortemente positivistica e neutrale delle forze produttive e da un affidamento fideistico alla pretesa oggettività della contraddizione storica, secondo la quale il movimento del capitale avrebbe prodotto di per sé il passaggio al comunismo, in quanto la natura sociale delle forze produttive si sarebbe trasformata in un’organizzazione politica votata essa stessa a convertirsi necessariamente nella libera associazione dei produttori.
Concezione mitica e astratta, correlata a un’idea altrettanto mitologica del comunismo, come orizzonte idillico di rapporti sociali organici e trasparenti, caratterizzati dalla favola della conclusione, ossia della scomparsa delle strutture della società civile e dalla fine dello Stato, del diritto, della classi, del mercato, dell’illusione ideologica.
Ma non si può neppure dimenticare, per altro verso, quanto l’emergere del comunismo storico all’inizio del Novecento abbia significato la denuncia strutturale della crisi consustanziale alla forma capitalistica dell’essere sociale.
Oggi che si è fatta chiaramente esplicita, con i drammi della mondializzazione, la fine della missione civilizzatrice del capitale, il comunismo si riafferma all’ordine del giorno in quanto ri-significazione della democrazia, dato che lo spostamento della tematica della rivoluzione sociale verso la questione della cittadinanza integrale costituisce verosimilmente il fatto teorico-politico più significativo della nostra congiuntura storica.
Ma questo significa tornare a congiungere e a mediare «economico » e «politico» (a differenza di quanto fa tutto l’orientamento arendtiano-habermassiano, con la separazione tra ambito materiale dell’agire strumentale, o lavorativo, e ambito politico dell’agire discorsivo) e vivere la democrazia come luogo che assume il confronto e il conflitto, anziché farsi luogo di neutralizzazione del conflitto, come accade oggi con l’omogeneità di un ceto politico riproduttore solo del capitale e del proprio privilegio.
Anche perché è la democrazia in sé a costruirsi sul conflitto e l’opposizione dei suoi due princìpi costitutivi basilari: il primo che afferma che la democrazia si legittima e si fonda solo attraverso argomentazioni razionali condivisibili (e dunque attraverso la cura dell’universale e dell’interesse generale), il secondo che garantisce a ogni individuo il diritto inalienabile alla libertà privata e alla libertà, quale sfera in cui l’interesse del singolo non ha l’obbligo di esibire pubblicamente il grado di universalità della propria scelta.
Ed è chiaro che condizione elementare e primaria di una tale risignificazione del comunismo è l’abbandono di qualsiasi mitologia e presupposizione di un soggetto forte e in-finito.
A Tosel ha fatto da controcanto la lettura «ermeneutica » del marxismo di Domenico Jervolino, secondo cui un percorso di fuoriuscita dal capitalismo deve rinunciare all’ipoteca di una teoria forte e blindata, che pretenda di esaurire in sé tutto il senso dell’esperienza umana, e aprirsi a un pensiero che sappia dialogare con tutte le dimensioni possibili dell’emancipazione e della liberazione.
Che il marxismo debba rinunciare, senza residuo alcuno di dubbio o d’incertezza, alla violenza implica infatti non solo scelte di natura pratico-comportamentale, per le quali l’organizzazione dei movimenti della sinistra, nuova e tradizionale, si deve istitituire nel rifiuto di gerarchie rigidamente verticali e ad alto rischio di burocratizzazione, ma anche, e soprattutto, attraverso scelte di una filosofia e di un’antropologia aperta che sappia scegliere il dialogo rispetto all’imposizione e all’affermazione di un’unica verità.
Un marxismo dialogico ed ermeneutico deve essere capace di integrare i tradizionali valori del movimento operaio, fondati sull’eguaglianza e sulla solidarietà, con i valori della persona, della sua individualità mai completamente riducibile a quella degli altri, della differenza di genere, di cultura, di religione.
Dunque non più un soggetto forte e monolitico da trovare e da proporre, qual è stata invece una certa configurazione canonica del proletariato industriale secondo un certo marxismo dogmatico, ma un soggetto capace di integrazione con le differenze altrui a partire da una riflessione e da una capacità dialogica con le proprie differenze interiori e le proprie esigenze di individuazione.
Domenico Losurdo ha infine riletto i vari usi possibili di Marx politico attraverso una singolare metaforizzazione letteraria dei testi marxiani.
Muovendo da tre luoghi celeberrimi del marxismo, quali l’Ideologia tedesca, il Manifesto del Partito comunista e la Critica del programma di Gotha, Losurdo assegna tali opere a tre diversi generi letterari.
Così fa rientrare la profezia dell’Ideologia tedesca – secondo la quale nella società comunista del futuro scomparirebbe ogni costrizione giuridica, ogni forma di divisione del lavoro e persino il lavoro in quanto tale, risultando ad ogni individuo «possibile fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare», a seconda della sua voglia, «senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» – nella letteratura utopica, utile a una fase ingenua di riscatto e di liberazione da forme di subalternità culturale, ma inutilizzabile, anzi dannosa, per dar luogo a un progetto concreto e costruttivo di emancipazione sociale.
Laddove Manifesto e Critica al programma di Gotha possono essere annoverati per Losurdo nel genere letterario storico-politico, a patto di tener conto però di una loro differenza essenziale.
Giacché l’evocazione di una grande rivoluzione, capace di cambiare una volta per sempre la faccia del mondo e di emancipare in modo radicale ogni individuo e i rapporti tra gli individui, quale compare nel Manifesto, è parte di un discorso che fa riferimento alla lunga durata dello sviluppo dell’umanità; mentre la Critica del programma di Gotha si preoccuperebbe di indicare le misure immediate cui dovrebbe far ricorso il proletariato che abbia conquistato il potere politico in un determinato paese o gruppo di paesi.
La stratificazione e le possibili contraddizioni del testo marxiano vanno perciò elaborate attraverso un’individuazione dei diversi registri temporali-linguistici che Marx ha utilizzato di volta in volta.
Altrimenti, senza questa dislocazione su piani logici ed esigenze teorico-politiche diverse, si fa dell’opera marxiana un indistinto, si sovrappone un piano sull’altro, giungendo ad esempio a leggere e a denunziare la distanza, che separa la prospettiva di lunga durata dai possibili compiti immediati di un potere politico appena conquistato, facendo ricorso alla categoria di «tradimento».
Ed è proprio tale assenza di una logica dei distinti, che, obbligando a condannare il movimento reale in nome delle proprie fantasie e dei propri sogni, giunge a privare il marxismo di ogni reale carica emancipatrice.
[1] Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, tr. it. di Giorgio Baratta e Giuseppe Bedeschi, Bari, Laterza, 1969 (ed. originale Der Begriff der Natur in der Lehre von Marx, Frankfurt a. M., Europäische Verlagsanstalt, 1962).
[2] Piano di uno scritto sullo Stato (1845), secondo il testo pubblicato nel 1932 dall’Istituto Marx Engels Lenin di Mosca, in Marx- Engels Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1972, vol. IV, Appendice I, p. 658.
recensione da IL MANIFESTO di: M. Musto, Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia
LA GENESI SVELATA DEL FILOSOFO DI TREVIRI
“Sulle tracce di un fantasma”, un volume collettivo dedicato all’opera di Karl Marx edito da manifestolibri di Roberto Ciccarelli
Scala le classifiche, risale nei sondaggi, ma spunta anche nei convegni mentre la nuova edizione delle sue opere procede con passo sicuro.
Quella di Marx è un’onda consolidata che si espande in maniera anche sotterranea, ma sempre più solida e documentata.
Il volume Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia (Manifestolibri, pp.391, € 30), curato da Marcello Musto, raccoglie gli interventi del convegno napoletano omonimo tenutosi ai primi di aprile del 2004 è un esempio del risveglio teorico, e filologico, che il filosofo di Treviri riscuote ormai anche in Italia.
Nell’intervento di apertura del volume Manfred Neuhaus descrive la monumentale ripubblicazione dell’opera completa, la “Marx-Engels Gesamtausgabe” (Mega), prevista in 114 volumi (siamo a quota 50) diretta dalla Internazionale Marx-Engels-Stiftung (Imes) e pubblicata dalla Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften (Bbaw).
Il metodo filologico adottato per la pubblicazione della nuova Mega, scrive Neuhaus, segue il principio moderno della genetica del testo: oggi l’imperativo assoluto non è più quello di ricondurre il testo a quelle che sembrano ai filologi le intenzioni dell’autore, come accade nella prima edizione curata dallo studioso russo David Rjazanov, ma documentare come il testo si costruisca sin dalle sue fasi iniziali di abbozzo.
L’impresa filologica accolse da subito l’ostilità dei ricercatori tedeschi che la condannarono per eccesso di “accademismo, formalismo e pedanteria”.
Queste obiezioni rallentarono il lavoro, anche perché tutti gli editori, continua Neuhaus, subivano la tensione “tra il credo marxista-leninista e le rivendicazioni scientifiche dell’edizione”.
A difendere il lavoro del gruppo di ricerca berlinese furono tuttavia numerosi filosofi, filologi e storici tra i quali Ernesto Ragionieri, Giuseppe Del Bo e Gian Mario Bravo (che nel volume pubblica un contributo sulla ricezione di Marx nella sinistra socialista italiana).
Solo dopo il 1989 il lavoro di Neuhaus, di Gerald Haubmann e degli altri editori ricominciò a pieno regime, e con molta più libertà.
Diversa era anche l’organizzazione editoriale, non più quella gerarchica imposta dagli istituti di partito a Mosca e a Berlino sin dagli anni Trenta, ma un “network egualitario di team di ricerca internazionali”, dal Giappone agli Stati Uniti alla Russia e all’Italia (Malcolm Sylvers, che insegna storia dell’America a Venezia, sta preparando un volume sulla corrispondenza di Marx e Engels) come testimonia anche la ricca documentazione presente sul sito bilingue www.bbaw.de/forschung/mega/.
Una novità senz’altro interessante è l’iniziativa editoriale guidato da Izumi Omura dell’Università Tohoku di Sendai in Giappone che ha provveduto a digitalizzare la Miseria della filosofia (varianti e apparato critico compresi) e a metterlo in rete all’indirizzo www.tohoku.ac.jp.
Il progetto mira a costruire una banca dati elettronica per permettere a tutti di muoversi nell’immenso corpus marx-engelsiano con l’agilità dei più moderni motori di ricerca.
Nel 2004, con la pubblicazione del terzo libro del Capitale (50esima pubblicazione del progetto originale) questa impresa pluridecennale ha acquisito tutto il suo spessore sia storiografico sia politico.
Il lavoro idi scavo filologico sulla lettera marxiana, e sul suo processo di elaborazione, ha permesso di valutare gli interventi, e i loro limiti, di Engels come editore di Marx e quindi di dare nuove basi alla storica polemica che sin dal XIX secolo ossessiona la ricezione del marxismo: quella sulla trasformazione dei valori in prezzi.
Il volume ed è diviso in quattro sezioni che raccolgono 24 interventi, da Domenico Jervolino a Domenico Losurdo, da Mario Cingoli a Gianfranco Borrelli, da Andrè Tosel a Alex Callinicos e Statis Kouvelakis.
Dal punto di vista teorico la terza parte mostra senz’altro più di un interesse.
Sotto la lente c’è il rapporto tra Marx e Hegel.
La tesi condivisa è che Marx prende spunto dalla Scienza della logica e dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, per articolare la sua tesi sul valore.
La dialettica usata da Marx è tuttavia diversa: se infatti per Hegel lo spirito assoluto riproduce le proprie condizioni di esistenza auto-fondandosi, e non esce mai da se stesso, produce cioè un’astrazione mentale di se stesso (Chris Arthur), il capitale è un’astrazione reale che non attiene più all’ambito della logica (per Hegel) o dell’esperienza trascendentale dell’Io (per Fichte), perché è un’attività concreta posta in essere dal processo lavorativo di ogni individuo in quanto erogatore di forza-lavoro sussunta dal capitale (Roberto Finelli).
Questa attività permette al capitale di integrare ogni sua alterità radicale, cioè il lavoro vivo che si cristallizza dando luogo a lavoro morto che produce altro lavoro morto (Riccardo Bellofiore).
Alla base dunque di un movimento dialettico, quello della transustaziazione della materialità e della natura nel suo valore di scambio (Geert Reuten), esiste un analogo movimento storico-politico, la “sussunzione reale del lavoro al capitale” che a sua volta moltiplica la conflittualità all’interno del processo (la sussunzione del proletariato al rapporto salariato), come anche la sua adeguazione al rapporto di capitale.
recensione da APRILE di: M. Musto, Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia
IL FANTASMA RITROVATO, LA NUOVA OPERA DI MARX di Dario Stefano Dell’Aquila
Pochi pensatori hanno scosso il mondo come Karl Marx, ma, paradossalmente, ancora oggi Marx rimane un autore, “misconosciuto” o “idolatrato”, del quale manca un’edizione integrale e scientifica delle sue opere.
E’ per questo che l’ottimo e corposo volume, Sulle Tracce di un fantasma.
L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, a cura di Marcello Musto, (ManifestoLibri 2005, pp.
392 € 30) costituisce uno dei più interessanti e importati contributi alla riscoperta e all’interpretazione dell’opera di Marx.
Il libro raccoglie gli interventi presentati all’omonima conferenza internazionale, promossa da un ampio arco di università e svoltasi a Napoli, dal 1 al 3 aprile 2004.
Si divide in quattro sezioni (La nuova edizione delle opere complete (MEGA²); Il giovane Marx; Il capitale; Un oggi per Marx) e presenta saggi dei più importanti studiosi del pensiero di Marx, provenienti da dieci diversi paesi (tra gli altri Enrique Dussel, Jacques Bidet, Fritz Wolfgang Haug, Gian Mario Bravo, Domenico Losurdo).
L’introduzione di Musto costituisce un buon punto di partenza, per comprendere il nesso tra la questione filologica e quella filosofica.
L’edizione delle opere complete di Marx ed Engels è cominciata nel 1975 ed interrotta nel 1989.
L’anno successivo è nata l’IMES (Fondazione Internazionale Marx Engels) con lo scopo di completare la pubblicazione (su 114 volumi previsti ne sono stati pubblicati 50).
La difficoltà del lavoro (che si svolge attraverso gruppi di ricerca in Università di Germania, Russia, Francia, Olanda, Giappone, Usa, Danimarca e Italia), nonché i risultati raggiunti (www.bbwa.de/vh/mega) sono ben esposti dagli interventi di Manfred Neuhaus, segretario dell’IMES e direttore del progetto MEGA², e da Gerald Hubmann, collaboratore della MEGA².
La gran mole di manoscritti, estratti, annotazioni, lettere (15.000 quelle ritrovate) da il senso della complessità di una lavoro filologico che, portato a compimento, può restituire un Marx privo dei soffocamenti e delle manipolazioni testuali che hanno violato il senso e lo spirito del suo lavoro.
E a testimonianza che il risveglio di interesse per l’opera del Moro non ha confini, si può leggere l’intervento del giapponese Izumi Omura (che tratta, tra l’altro, le versioni digitali dei manoscritti di Marx, disponibili sul sito dell’Università di Sendai www.tohoku.ac.ip) o quelli di Alex Callinicos e Wei Xiaoping, relativi alle vicende delle interpretazioni critiche dell’opera marxiana nel mondo anglosassone e in Cina.
Ma la parte filologica è strettamente connessa alle analisi delle opere giovanili e a quella del Capitale, ovvero la seconda e la terza sezione del volume.
L’attenzione al giovane Marx è soprattutto rivolta ai primi scritti politici (Giuseppe Cacciatore, Stathis Kouvélakis) e ai Manoscritti economico-filosofici del 1844 (Mario Cingoli, Musto); l’analisi del Capitale, che contiene i principali contributi teorici del libro, dedica molto spazio al rapporto tra Marx ed Hegel (Cristopher Arthur, Roberto Finelli, Riccardo Bellofiore, Dussel), alla sostanza e alla forma del valore della merce (Geert Reuten), al processo di costruzione del testo marxiano (Haug), alla struttura della società capitalistica (Bidet).
L’attualità del pensiero di Marx, la necessità di liberare la sua opera da strategie di dominio del discorso e dalla polvere degli archivi, diventa fondamentale per chi parla del “comunismo della finitudine”, la formula che adoperano André Tosel e Domenico Jervolino per indicare l’esigenza di un nuovo paradigma, di una società comunista intesa come possibilità, desiderio, frutto di lotte, ma non esito fatale del divenire storico.
Michael Krätke, infine, evidenzia la peculiarità della critica marxiana dell’economia politica e la sua indispensabilità per la comprensione del capitalismo contemporaneo.
Un volume ricco, che non rende possibile dare conto di tutti gli interventi che ospita e che, evitando il difetto che spesso presentano i lavori collettivi, ha non solo un preciso filo conduttore, ma una forte identità narrativa.
C’è la sensazione che questa nuova riscoperta dell’immenso lavoro di Marx, in senso fisico prima che teorico, getti una luce inaspettata su un autore più citato che studiato.
Merito di questo libro è di trasmettere pienamente al lettore la consapevolezza che quello che il ‘900 ha chiuso così frettolosamente si riapre.
Se la globalizzazione è, tra l’altro, la velocità con cui circolano le merci, i lavoratori, i capitali; c’è qualcuno che non desidera, nella propria cassetta degli attrezzi, un nuovo-vecchio Marx, libero da cerimonie di Stato e da piccoli tatticismi interpretativi?
recensione dal SITO ITALIANO DI FILOSOFIA POLITICA di: M. Musto, Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia
di Carla Fagiani
“D’altra parte, come diceva Arnaldo Momigliano, a non leggere non succede nulla” Livio Sichirollo È in libreria il volume che raccoglie le relazioni presentate alla Conferenza Internazionale Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, svoltasi a Napoli dal 1 al 3 aprile del 2004.
I contributi ivi contenuti di diversi e illustri autori, nazionali e internazionali, hanno innanzitutto l’obiettivo di risvegliare l’interesse per l’opera di Marx, offrendo una sede di confronto alle più recenti interpretazioni dei suoi scritti e illustrare la ripresa della pubblicazione della Marx Engels Gesamtausgabe (MEGA2).
Insieme a ciò, restituire alla ricerca contemporanea un autore, – misconosciuto, volgarizzato, soprattutto poco letto anche dai marxisti – da considerare ormai un classico; tuttavia, prova ne è lo spessore tematico e critico degli interventi qui raccolti, non un classico asettico.
In altri termini, l’opera di Marx appare, pur nella sua imponente raccolta di scritti (la maggior parte pubblicati postumi) fondamentalmente incompiuta.
Sistemare l’opera di Marx, oggi, vuol dire innanzitutto interpretarne la lettera del testo (e quindi fare un lavoro filologico attento a distinguere, per es., in Das Kapital, ciò che è di Marx e ciò che è di Engels), vuol dire contestualizzare non solo il suo pensiero, ma proprio i suoi scritti, uno ad uno, sganciandolo così, definitivamente, da un’epoca, quella del socialismo reale, che, oltre che ormai passata, in effetti non sembra proprio appartenergli; non aiutandoci nemmeno a capire la complessità teorica del suo pensiero.
Ma, esiste un pensiero di Marx? Per questo autore, più che per altri, bisogna affermare – questo è l’indirizzo di ricerca inaugurato da questa raccolta – che il suo pensiero è inchiodato, per così dire, al testo scritto.
Leggere Marx, oggi, vuol dire perciò affrontare con pazienza i suoi testi, senza pretendere di ricavarne un sistema compiuto, una linea di sviluppo predeterminata (comprese le rotture epistemologiche del suo percorso; Marx giovane/Marx maturo; Marx comunista/Marx critico dell’economia, ecc.), o addirittura una Weltanschauung, un’indicazione per il futuro dell’umanità; piuttosto, dobbiamo riconoscergli il lavoro di critica radicale del suo presente.
Kritik, d’altronde, è il termine che ritorna più di frequente nei titoli dei suoi scritti.
Eppure, dicevamo, Marx non è un classico asettico: “Credere di poter relegare il patrimonio teorico e politico di Marx ad un passato che non avrebbe più niente da dire ai conflitti odierni, di circoscriverlo alla funzione di classico mummificato con un interesse inoffensivo per l’oggi o di rinchiuderlo in specialisti meramente speculativi, si rivelerebbe impresa errata al pari di quella che lo ha trasformato nella sfinge del grigio socialismo reale del Novecento.” (dall’Introduzione, p.24).
La filologia, ancella insostituibile del lavoro del filosofo, qui prende in mano l’arma e, inaspettatamente, rovescia il campo: l’immersione nel testo di Marx non ci distoglie dalla nostra Gegenwart.
Al contrario, la complessità del testo si adatta, quasi combaciando, alla complessità dell’età presente; sia per ciò che riguarda il giovane Marx, quello della critica a Hegel e poi dell’Ideologia tedesca, sia il Marx maturo, quello del Capitale, della critica dell’economia politica.
Bisogna tuttavia fare attenzione a ciò: non si tratta dell’attribuzione di capacità profetiche all’autore, al suo pensiero o alle sue teorie.
Qui si fa astrazione dalla soggettività dell’autore (la sua biografia, le sue intenzioni politiche, la sua personalità, ecc.) e si guarda esclusivamente all’oggetto, al testo scritto.
È uno sforzo interpretativo e di lettura, una fatica del concetto, che, per es., con Aristotele viene quasi spontaneo esercitare.
Con Marx, tutto questo finora non è accaduto (le ragioni potranno essere abbondantemente indagate, ma in altra sede).
Allora, vediamo meglio alcuni degli interventi, capaci, a nostro avviso, di gettare luce su questa sorta di insolito potere di adattamento del testo al contesto.
Ne consideriamo solo tre, a fronte di un totale di ben 24 saggi, con note bibliografiche e riferimenti testuali all’opera marxiana.
Non prima, però, di aver richiamato l’attenzione del lettore sullo stile modernissimo del linguaggio marxiano, citando un passo tratto dal Discorso per l’anniversario del “People’s Paper” 1856 (nel Prologo, a p.11): “C’è un grande fatto caratteristico di questo nostro XIX secolo, un fatto che nessun partito osa negare.
Da un lato sono nate forze industriali e scientifiche di cui nessuna epoca precedente della storia umana ebbe mai presentimento.
Dall’altro esistono sintomi di decadenza che superano di gran lunga gli orrori registrati durante l’ultimo periodo dell’impero romano.
Ai nostri giorni, ogni cosa appare gravida del suo contrario.
Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e rendere più fruttuoso il lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e lo ammazzano di lavoro.
Le nuove sorgenti della ricchezza sono trasformate, da uno strano e misterioso incantesimo, in sorgenti di miseria.
[…] gli operai […] sono l’invenzione dell’epoca moderna quanto lo sono le macchine stesse.
Nei segni che confondono la classe media, l’aristocrazia ed i miseri profeti del regresso, riconosciamo il nostro vecchio amico Robin Goodfellow, la vecchia talpa che sa scavare la terra tanto rapidamente, il valoroso pioniere – la rivoluzione.” È da segnalare innanzitutto il saggio di G.
Hubmann – Classici incompiuti.
Costellazioni filologico-editoriali in Marx e altri classici delle scienze sociali (pp.59-69) – perché descrive in sintesi e con efficacia l’attento lavoro decostruzionista (“philologic turn”) operato dalla rinnovata edizione dei testi di Marx.
Citiamo due esempi: 1) l’Ideologia tedesca non sarà pubblicata come opera compiuta, come invece finora è stato fatto, da cui consegue l’inaggirabile difficoltà di rintracciare in essa l’esposizione del cosiddetto materialismo storico, che la tradizione ha invece consacrato a teoria, ma che addirittura lo stesso Marx avrebbe di suo pugno limitato nella sua valenza esplicativa (vd. p. 64); 2) anche con Il capitale le cose cambiano in sostanza, poiché i reperti filologici utilizzati per la pubblicazione MEGA2 hanno permesso di individuare frammenti residui, che ne attestano una prima e differente stesura.
Più che di una decostruzione, qui si tratta di una rivoluzione copernicana: bisognerà almeno prenderne atto.
“Non è detto, però, che l’intervento filologico sull’opera di Marx debba essere solo di natura decostruttiva […]” (p.62).
Vengono pubblicati, infatti, oltre 200 articoli di Marx ed Engels scritti per il “New York Tribune” nel 1855, tra cui 21 nuovi lavori di cui finora non era stata riscontrata la paternità artistica; inoltre, la quarta sezione della MEGA2 , con i suoi 32 volumi, contiene materiale finora inedito.
Pensiamo a quanto dell’attività giornalistica di Marx – dagli articoli sulle guerre dell’oppio in Cina a quelli su Napoleone III in Francia e le vicende del Credit Mobilier, l’intreccio politica-affari, diremmo oggi – sia presente nell’edizione corrente del III libro del Capitale (soprattutto nella IV e nella V sezione: a proposito del capitale commerciale, del credito, del capitale finanziario, il capitale produttivo d’interesse, ecc.); pensiamo perciò a quanto sia importante il controllo filologico comparato degli articoli e del Capitale.
Tutto ciò getta luce nuova sul modo di studiare “interdisciplinare, senza limiti di carattere economico” proprio di Marx: un lettore instancabile, che annotava e registrava (quasi) maniacalmente tutto quello che veniva rielaborando dalle sue letture.
Dulcis in fundo: il feticismo non è una metafora.
Almeno non è utilizzato metaforicamente da Marx, a proposito del carattere di feticcio della merce e il suo arcano, ma è nozione che risulta da studi storico-religiosi condotti particolarmente su De Brosses (Über den Dienst der Fetischgötter).
Parimenti, per “formazione sociale” dobbiamo rifarci alla geognosia, ovvero al concetto di formazione geologica in quanto “divenire della terra come un processo, come un’auto-creazione” (vd. p. 65).
Tutto questo emerge con certezza dagli studi-appunti marxiani di geologia, oltre che dalla lettera a Vera Sassulitsch del 1881.
Torna alla mente l’espressione “era capitalistica”, assai ricorrente nel Capitale, e che viene ad assumere ora il significato che le spetta: analoga a un’era geologica.
Ma, insieme a ciò, abbondano gli studi di chimica, di fisiologia, ecc., tanto che si possono avanzare diverse e nuove ipotesi sull’effettivo uso marxiano di un solo paradigma metodologico.
Allora, è il caso di sottolineare, insieme a Hubmann, che la lettura di un classico non può avvenire all’insegna dell’ingenuità che si affida esclusivamente all’impatto comunicativo del testo.
Leggere un testo classico è un lavoro che, avvalendosi della fatica filologica, deve avere tutta la pazienza di riconoscere l’orizzonte problematico che il testo può eventualmente aprire.
Indichiamo allora due possibili aperture o due possibili problemi aperti da Marx e approfonditi nella presente raccolta.
Il tema della democrazia è affrontato nelle pagine de Il Marx “democratico”, di G. Cacciatore (pp.145-160).
Nel 1843 il giovane Marx redige uno scritto di critica al diritto pubblico hegeliano.
Commenta analiticamente i §§261-313 dei Lineamenti di filosofia del diritto (1821) di Hegel.
Lasciando qui da parte le pur rilevanti questioni teoretiche del confronto Marx/Hegel, che cosa emerge di rilevante dal punto di vista politico in questo scritto, secondo la lettura di Cacciatore? Da una parte Marx riconosce allo Stato moderno hegeliano la funzione (insostituibile) di connettere gli interessi particolari espressi in sede di società civile, e di connetterli effettivamente restituendo ad essi un luogo di comune realizzazione, che è l’interesse universale o del popolo, tramite la rappresentanza cetuale nell’assemblea legislativa e l’Io voglio del monarca; dall’altra, però, di rendere tendenzialmente autonomo il momento dell’universale dal particolare (la figura del monarca ereditario in cui solo risiede il potere sovrano; oppure la premoderna rappresentanza cetuale).
In altri termini, lo Stato moderno hegeliano soffrirebbe di astrazione, ossia, in ultima analisi, di mancata rappresentanza (oltreché concreta rappresentazione) della realtà che lo istituisce.
“Ciò che tuttavia emerge dai testi finora esaminati è un riferimento indiretto all’idea di democrazia che appare, per così dire, in filigrana rispetto ad una generale visione dello Stato come luogo di composizione e universalizzazione degli interessi particolari della società civile.
È solo a partire dalla Kritik des Hegelschen Staatsrechts […] che Marx affronta direttamente il problema della democrazia.
[…] In questi testi marxiani è possibile individuare quel concetto ampio e universale di democrazia che è stato utilizzato proprio in non pochi segmenti della filosofia e dell’ideologia politica della sinistra post-marxista in una dimensione critica nei confronti di alcuni esiti teorici e storici del comunismo […] Marx, quando individua nella democrazia una reale possibilità di fusione tra la forma e il contenuto della costituzione politica pone un problema che […] è apparso e appare ancora oggi il vero nucleo problematico della democrazia, cioè l’inaggirabile rapporto tra la forma regolativa e giuridica e i contenuti cosiddetti sostanziali di emancipazione sociale e di uguaglianza.” (p. 147 e ss.) “Rendere plausibile la democrazia”, è di questo che le pagine marxiane, seppure in filigrana, stanno parlando.
La democrazia “ampia e universale, quella piena realizzazione dei diritti umani (politici e sociali) capace ogni volta di fissare regole e procedure condivise per l’edificazione di un nuovo “contratto sociale” di cittadinanza e di civiltà, di emancipazione e di uguaglianza.” (p.157).
La critica all’astrattezza dello Stato moderno hegeliano, raffigura perciò, evidentemente, la matrice teorica di ogni possibile critica ai limiti interni al modello democratico-formale.
Compreso il nostro, of course.
Con La scienza del Capitale come “circolo del presupposto-posto”.
Un confronto con il decostruzionismo di R. Finelli (pp.211-223), entriamo nelle pagine del Capitale di Marx, non considerandolo tuttavia un testo economicistico, ma di critica dell’epistemologia operante nelle maglie dell’economia politica classica del tempo e, ancor più, nelle maglie della filosofia dominante il nostro tempo.
“Nell’ambito della filosofia continentale europea oggi svolge funzioni egemoniche il “decostruzionismo”, il quale, com’è noto, critica ogni narrazione che pretenda coerenza e sistematicità […] Appare evidente che gli studi e la ricerca su Marx non possono non confrontarsi con questo vertice egemonico di riduzione della realtà a linguaggio […] La mia esposizione è articolata in quattro tesi.” (p.211).
Nella prima tesi Finelli indaga la logica interna alla critica dell’economia politica in Das Kapital; la logica del presupposto-posto, di matrice hegeliana.
Secondo tale logica, in sintesi, i processi di identificazione del soggetto con se stesso (il Geist, lo spirito), attraversano, contestualmente, un cammino duplice: di costruzione attraverso decostruzione del proprio Io. L’identità Io=Io è da porre come mero presupposto ossia da decostruire in quanto mero presupposto, attraverso una “pratica d’interiorizzazione, di un processo che dall’esterno va all’interno […]” (p.212) L’identificazione di sé con sé presuppone l’identità (l’IO), ma, per così dire, solo virtualmente (in sé); l’effettiva identificazione avviene su di un piano pratico, in cui la prima identità (quella virtuale) può andare anche a fondo.
La seconda tesi di Finelli concerne la nozione di astrazione reale.
“La mia tesi è cioè che il Capitale di Marx è costruito sul modello del passaggio hegeliano dall’in sé al per sé, del passaggio cioè di un’astrazione, come quella del lavoro astratto, dal piano di un’astrazione solo mentale […] ad un’astrazione, come sostiene Marx nell’Introduzione del ’57, “praticamente vera”; ad un’astrazione cioè che non attiene più all’ambito della logica o delle ipotesi investigative della conoscenza ma a quello assai diverso della prassi, ossia della concreta attività posta in essere dal processo lavorativo di ogni individuo in quanto erogatore di forza lavoro sussunta, non in modo formale ma in modo reale, sotto il capitale.” (p.213) La terza tesi mostra la profonda differenza, nonostante la profonda analogia, che intercorre fra la logica hegeliana e quella marxiana.
In sostanza, “L’astrazione intellettualistica di Hegel è dunque cosa assai diversa dall’astrazione pratico-lavorativa di Marx. […] per Marx la connessione tra mondo dell’astratto e mondo del concreto si realizza, proprio perché il vettore di quel movimento è la caratteristica di un lavoro, generalizzato e di massa, che produce oggetti, merci, servizi concreti proprio attraverso la sua natura paradossale di lavoro astratto.” (p.218) L’astratto hegeliano non riesce ad attraversare, come invece riesce in Marx, il piano della pura e trasparente teoresi, in cui rimane in sostanza imprigionato, nonostante la forza dialettica del negativo. In fine, la quarta tesi si occupa direttamente del postmoderno come svuotamento del concreto.
“Così il postmoderno va interpretato […] come inveramento del moderno, nel senso di costituire il tempo storico della piena diffusione, fino alla globalizzazione, di un’economia fondata sulla ricchezza astratta. […] La giusta definizione di Frederic Jameson del postmoderno come la “logica culturale del tardo capitalismo” va dunque integrata con la messa in verità della teoria marxiana dell’astrazione reale” (p.222).
Il lavoro astratto è inteso perciò come principio (presupposto) di un modo di produzione e riproduzione sociale che, solo alla fine del processo (posto), appare praticamente ‘destrutturato’ nella sua valenza qualitativa, svuotato di qualità, di relazione e di nessi intersoggettivi.
Allora, in conclusione, vediamo come la lettura dei testi di Marx possa, ancora oggi e forse proprio oggi, restituire un esempio pratico di libertà operante in campo filosofico: libertà di leggere e interpretare il testo in modo filologicamente corretto, senza che ciò impedisca ma anzi contribuisca a far emergere la complessità del contesto in cui il testo è inserito, insieme alla complessità del contesto in cui è a sua volta inserita la nostra impegnata e impegnativa lettura.
da Liberazione del 29 dicembre 2005
TORNARE A MARX NON BASTA. TROPPO PRODUTTIVISTA di Giuseppe Prestipino
Una recensione di Tonino Bucci a Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, volume curato da Marcello Musto per la Manifestolibri 2005, contenente gli Atti di un Convegno internazionale tenutosi a Napoli, ha offerto spunti per un dibattito, ospitato da questo giornale.
Sono stato presente in quel Convegno, so di un altro nutritissimo Convegno sulla MEGA (la nuova edizione delle opere di Marx ed Engels) organizzato in Giappone ed intervengo sollecitato dall’articolo scritto da Luigi Cavallaro nel quale, pur con la consueta competenza, egli non ha rinuncianto a dichiarare i suoi noti rimbrotti per il cosiddetto “eco-marxismo”, che a suo dire non potrebbe in nessun modo “rivendicare la propria discendenza da Marx”.
Mi limito a due scarne notazioni: l’una sulla “discendenza”, ossia sul rapporto tra teoria (sociale) e politica; l’altra sul marxismo come scienza economica.
Vi sono teorie che possono guidare l’agire politico o esser fatte proprie da quest’ultimo.
Ma, se tra la teoria e la politica che vuol appropriarsene l’intervallo temporale oltrepassa l’arco di un “secolo lungo”, anche la migliore teoria dev’essere tradotta come dev’essere tradotto quel che è scritto, ad esempio, in portoghese per essere letto in un’altra lingua.
E’ questo uno degli insegnamenti di Gramsci.
E il buon traduttore-filologo pubblica la sua traduzione con il testo originale a fronte o, quanto meno, intercalando nella sua traduzione alcune parentesi contenenti parole-chiave in lingua originale.
Fuor di metafora: il politico odierno non può proporsi, semplicemente, di “ritornare a Marx”; deve farci sapere su quale “traduzione di Marx” cade la sua scelta.
Il passaggio da una teoria del XIX secolo a una politica d’oggi dev’essere mediato sul piano teorico prima che su quello politico.
Ed è un falso problema quello che in un pensatore distingue (come fa, tra gli ultimi, Guido Carandini) lo scienziato dal profeta.
Perché fare scienza è, nello stesso tempo, fare previsioni: che non è corretto chiamare profezie, se profeta è colui che parla in stato di semi-incoscienza, o colui per la cui bocca si rivelerebbe la parola di un dio.
Le previsioni di Marx, come quelle di tutti i grandi, sono geniali ma contraddittorie: per certi aspetti si sono avverate per altri no.
E anche Il Capitale, nel quale Marx non fa esplicite previsioni, ma compie soprattutto una rigorosa analisi sul suo tempo, “non è esente da contraddizioni” (Maria Turchetto).
Vengo al marxismo come scienza economica.
Ogni scienza economica ha per oggetto scambi: di merci o, più in generale, di beni dei quali sia presupposta una scarsità.
D’altra parte, se la scienza economica rinvia comunque al concetto di scarsità, allora è vero che o la scienza economica è un sottoinsieme della scienza degli ecosistemi o non è propriamente una scienza.
L’economia, prima che economia politica, sarà dunque economia ecologica, perché l’ecologia assume come suo oggetto precipuo la scarsità o l’esauribilità in un significato più ampio comprendente, oltre i beni prodotti dall’uomo, quelli disponibili nell’ambiente naturale.
E perché anche l’ecologia prende ad esaminare relazioni di scambio.
Consideriamo gli scambi tra gli esseri umani e l’ambiente in generale.
Sappiamo che l’animale umano non si adatta più all’ambiente, ma adatta a sé l’ambiente.
È questa una mutazione che non produce gravi disastri finché l’essere umano vuole un ambiente “a misura d’uomo”.
Ma, se comincia a mettersi in testa di poter trasformare febbrilmente anche se stesso, nei propri bisogni e nei propri caratteri biologici e psichici, costringendo la natura a inseguire, e persino a precedere, quelle sue metamorfosi (o “metastasi”) esistenziali, allora una sorta di follia suicida si impadronisce degli umani e sembra impadronirsi anche dell’ambiente naturale.
Gli umani, in altri termini, intervengono dapprima sulla natura, per appropriarsene, mediante artifici.
In un secondo tempo, trasformano in larga misura la natura stessa, facendone, per così dire, una natura artificiale.
Ma, da ultimo, rivolgono contro se stessi l’arma dell’artificializzazione e tendono in tal modo a creare esseri umani artificiali.
Marx, il cui oggetto di studio è il modo capitalistico, deve conseguentemente e a buon diritto prescindere dalla “natura fisica” dei prodotti, benché, nella Critica al Programma di Gotha, dichiari: “Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza.
La natura è fonte dei valori d’uso (e di tali valori consta la ricchezza reale!) come il lavoro che in sé è soltanto espressione di una forza naturale”.
Ma, quando il Marx dei Grundrisse scorge le prime avvisaglie di un processo che può preludere al superamento di quel modo di produzione, egli prevede allora il ruolo crescente della scienza tecnologizzata come nuova forza produttiva, per effetto della quale diverrebbe cosa “miserabile” l’equazione tra valore e quantità di lavoro umano salariato.
Non prevede, invece, il crescente impiego della natura e delle sue risorse, che è strettamente correlato agli sviluppi portentosi di quelle tecno-scienze.
E, prefigurando la società futura, scrive che la “vera ricchezza” consisterà, non più nei valori di scambio derivati da quell’equazione, ma nei valori d’uso; anzi – così interpreta Charles Bettelheim -, nell'”accrescimento dei valori d’uso”.
Ed ecco il punto debole dell’economia critica, ovvero il debito involontario di Marx proprio verso la da lui criticata realtà capitalistica: l'”immane raccolta di merci”, che è l’immagine emblematica con la quale si apre la sua opera maggiore, diverrebbe pur sempre, nella società futura, un “immane” accrescimento, invece che di valori di scambio, di valori d’uso? Ma, allora, l’accusa che Bettelheim rivolge all’economia sovietica, di accogliere una forma-valore capitalistica per adattarvi presunti contenuti socialistici, una simile o meglio una simmetrica accusa non meriterebbero forse anche gli iniziatori del materialismo storico, per aver fatto proprio l’anelito capitalistico verso un illimitato “accrescimento”, inteso di fatto come un vino vecchio, o come un vecchio contenuto, da riversare (o occultare) entro una botte nuova, ossia entro una (presunta) forma comunistica? Sia chiaro che gli ambientalisti seri non intendono demonizzare l’accrescimento dei valori d’uso come se fosse il Male assoluto.
Raniero La Valle ha detto: chi governa il mondo s’è accorto che, se a parer suo il tenore di vita statunitense “non è negoziabile”, l’ambiente restringerà inevitabilmente gli spazi di vita per gli umani; perciò chi governa il mondo ha scelto un suo pensiero “apocalittico” in base al quale i pochi si salveranno e i più saranno reietti o dannati.
Io vorrei precisare che una tale opzione “apocalittica” è relativamente recente e che è venuta dopo gli anni dell’euforia neo-liberista e della globalizzazione capitalistica incontrastata, allorché si predicava invece che prima o poi, chi più chi meno, tutti avremmo direttamente o indirettamente beneficiato del nuovo exploit della “libera” economia, tutti saremo divenuti più o meno ricchi.
Ebbene la messa in guardia da un indiscriminato accrescimento dei valori d’uso – non soltanto delle merci o dei valori di scambio – nasce dal fondato timore che tutti possano ritrovarsi (più o meno) poveri a breve scadenza: che tutti siano condotti controvoglia all’ascetismo.
In un saggio presente in Sulle tracce di un fantasma, André Tosel ci fa capire che certo marxismo prolunga l’hegeliana cattiva infinità o persino l’hegeliano Spirito Assoluto, insiti nella moderna illimitata volontà di dominio tecno-capitalistica.
La prolunga, sia pure soltanto come volontà di dominio sulla natura, e non più di dominio proteso anche sugli esseri umani.
E, aggiungo (ulteriori riflessioni nel volume collettivo Accadde domani. Tra utopia e distopia, Edizioni Aracne, 2005), se il dominio è accompagnato sempre da una qualche forma di violenza, la nonviolenza non dovrebbe estendersi anche a quel che è fragile e/o esauribile nella natura extra-umana? Dovremmo sognare una liberazione senza alcun dominio.
E quindi connotata dalla coscienza del limite. Non vorremmo regnare-sul-mondo o avere-il-mondo, ma essere-nel-mondo.