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Roberto Monicchia, Micropolis

L’opera del fantasma

Avviato nel 1975 nella Ddr, il secondo tentativo di edizione integrale delle opere di Marx ed Engels (Marx-Engels, Gesamtausgabe, Mega), è entrato in crisi dopo il 1989. Il progetto avviato da Rjazanov negli anni ‘20 era stata interrotto dallo stalinismo, quello nuovo sembrava affondare con il socialismo reale.

Ha ridato fiato all’opera la realizzazione di una struttura internazionale, che l’ha sottratta sia all’oblio e alla denigrazione del valore scientifico di Marx, sia al controllo delle gerarchie di partito. La Mega è una vera edizione critica, secondo i criteri di “spoliticizzazione, internazionalizzazione, accademizzazione”.

Complessivamente sono previsti 114 volumi (ciascuno diviso in un tomo di testi e uno di apparati), in quattro sezioni: opere, articoli, abbozzi; Capitale e lavori preparatori (dal 1857); carteggio, comprese le risposte dei corrispondenti di Marx ed Engels; estratti, annotazioni, marginalia. Quanto già realizzato di questo progetto testimonia l’utilità di ripartire da un confronto diretto con i testi marxiani, al di là delle stratificazioni interpretative dei vari marxismi, che pure lasciano ancora molte tracce . Il libro che qui presentiamo, (Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, a cura di Marcello Musto, manifestolibri, Roma 2005) raccoglie i risultati di alcune giornate di studio svolte attorno ai temi suscitati dalla nuova edizione. Il curatore sostiene che l’opera di Marx, liberata dalla vulgata novecentesca che l’ha ridotta a dottrina, reca il segno di una congenita incompiutezza.

Al di là delle congiunture e delle urgenze politiche, infatti, il rapporto tra le pochissime opere pubblicate e le innumerevoli concepite o abbozzate, ha un motivo strutturale: il tentativo di coniugare descrizione, critica, prospettiva – cuore del progetto scientifico di Marx – impone continui recuperi, approfondimenti, aggiustamenti delle ricerche. Il percorso e il metodo marxiani riproducono in qualche modo quella totalità aperta che si cerca continuamente di afferrare. Il paziente lavoro filologico permette nuove letture di moltissimi punti teorici, mostrandone la profondità e la problematicità.

Questa rigorosa ricostruzione è illustrata nella prima parte con l’intervento di alcuni dei curatori della nuova Mega. Spicca in quest’ambito l’analisi di Gian Mario Bravo della prima ricezione di Marx in Italia, tra Otto e Novecento, che mostra il singolare contrasto tra un’accentuata semplificazione della teoria di Marx e il contemporaneo robusto radicamento del socialismo italiano.

La seconda parte riprende le tappe della riflessione giovanile di Marx, per sé e in relazione al complesso dell’opera. La cesura a suo tempo indicata da Althusser (che vedeva nell’Ideologia tedesca il salto dall’utopia alla scienza), risulta meno netta, visto che le oscillazioni circa il significato della filosofia e la critica politica non sono risolte mai definitivamente.

Se il ruolo della “tradizione hegeliana” – per analogia o per contrasto – è abbastanza evidente nel Capitale, emerge come anche la riflessione politica di Marx, fino agli anni della Comune e della Critica del programma di Gotha, si aggiri attorno agli stessi nodi del 1843-44 o del 1848: la relazione stato-società civile, l’orizzonte storico della società comunista, la definizione delle forme proprie della fase di “transizione”, il significato della democrazia, senza fornire risposte definitive o formule rassicuranti.

La terza parte vede un serrato confronto sull’immane mole di lavoro sviluppato attorno alla critica dell’economia politica. E’ in primo luogo una discussione di metodo, in cui molti accostano il percorso di Marx a quello della Scienza della Logica hegeliana, e altri individuano – soprattutto nel passaggio dai Grundrisse al Capitale – un approccio improntato alle categorie degli economisti classici. Ma è anche un catalogo di risultati importanti e problemi irrisolti, attorno alle nozioni di lavoro astratto, surplus, valore-lavoro.

Da qui prende le mosse l’ultima parte, dedicata all’individuazione di un “oggi per Marx”. Michael Krätke sottolinea come, nel pieno di una crisi che investe contemporaneamente l’economia e i suoi paradigmi interpretativi, sia gli specialisti delusi dalle teorie neoclassiche, sia i movimenti antisistema, fatichino a entrare in sintonia con il metodo e le categorie della critica marxiana, che ha invece molto da offrire.

Su un analogo livello di attualizzazione si muove il contributo di Losurdo, che ricorda come Marx individui appieno il carattere pervasivo del capitalismo, la sua violenta dinamica di annessione, per cui il colonialismo ottocentesco (come nei casi di Cina e India) è simile in Marx all’odierna globalizzazione, ivi compresi i corollari ideologici della guerra civilizzatrice e della missione democratica, fatti propri allora come ora dall’ideologia liberale. Lo scacco strategico del Novecento è invece alla radice del tentativo – articolato da Tosel e Jervolino – di fondare un nuovo paradigma teorico-politico, definito “comunismo della finitudine”. La sostanza liberatrice del socialismo va preservata liberandolo dalla pretesa di un uomo artefice assoluto: l’uomo determina le condizioni della propria esistenza e della preservazione del mondo, non crea sé stesso e il mondo.

La coscienza della finitudine impedisce ogni finalismo subordinante, e affida ad un’opera mai definitiva di “traduzione” delle esperienze, dei linguaggi, delle culture, il compito di superare sfruttamento e oppressione senza sostituirle con analoghe strutture coercitive.

Occorre notare che l’accuratezza filologica delle nuove edizioni non rischia di rinchiudere nuovamente Marx in una gabbia: la forza critica e autocritica, l’implacabile verve polemica, la stessa ansia di revisione che condanna il trevirese all’incompiutezza, gli consentono di sfuggire all’indifferenza, di riaprire a ogni stagione domande attuali. Lo spettro dunque continua ad aggirarsi. Invece, se e dove stia scavando la “vecchia talpa”, se e quando possa incontrare ancora lo spettro, non è al momento dato saperlo. Per adesso temo che bisognerà accontentarsi.

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Journalism

Ma Stuart Mill dà torto al Cavaliere

Da alcuni giorni, in tutte le cassette postali e, al costo di un solo euro, in ogni edicola, imperversa indiscriminatamente «La vera storia italiana». Opuscolo anonimo di 160 pagine, stampato dalla Mondadori, diffuso, a quanto pare, in dieci milioni di copie.

Il testo propagandistico, che avrebbe l’intento di ricordare agli elettori prima del voto i benefici recati al paese dall’attuale governo durante i trascorsi cinque anni, non è altro che l’ultimo disperato tentativo del Presidente del Consiglio di mascherare la realtà dei suoi fallimenti politici e disastri sociali.

Se non fosse serio, il fascicolo andrebbe quasi apprezzato per le molte parti nelle quali sembra proprio emergere una profonda autoironia. Non si può purtroppo dire lo stesso della sezione filosofica: «Pensieri a confronto». Una sorta di storia intellettuale in pillole che esibisce il grezzo retroterra culturale della destra.

Vale la pena di soffermarsi sulla sfida principale: Karl Marx versus John Stuart Mill.

Il primo, naturalmente additato quale capofila dei pensatori da condannare (per sua fortuna in buona compagnia di Hobbes, Hegel e Gramsci – tutti riportati graficamente in nero), viene dipinto come l’ignobile barbuto teorico del «rifiuto delle forme istituzionali dello Stato borghese che si realizza nella dittatura del proletariato». Del secondo, su sfondo bianco, si può leggere invece: «Per Stuart Mill le leggi della produzione sono ‘leggi reali di natura’ mentre le leggi della distribuzione sono il risultato della volontà umana e quindi del diritto e del costume. Per una più equa distribuzione della ricchezza si possono immaginare (sic!) delle leggi migliori. Fra l’individualismo e il socialismo occorre aderire al primo, che garantisce la libertà individuale senza impedire la lotta all’ingiustizia sociale».

In vero, sarà bene confessarlo sin dal principio, Marx non nutrì mai particolari simpatie per gli «economisti inglesi filantropi» e, tra questi, per Stuart Mill.

Lo riteneva, infatti, un prodotto confuso delle rivoluzioni del 1848, che avevano spinto quegli uomini «che ancora rivendicavano valore scientifico e volevano essere qualcosa di più di meri sofisti o sicofanti delle classi dominanti» a tentare la fallace impresa di accordare l’economia politica del capitale con le rivendicazioni del proletariato. Ecco, per Marx, Stuart Mill era il tipico rappresentante di questa categoria e i suoi «sincretistici compendi» il frutto equivoco di questo antitetico miscuglio.

In particolare, contro la sua concezione appena ricordata – volendo citare correttamente: «le leggi e le condizioni della produzione della ricchezza partecipano del carattere delle verità fisiche (…) non così la distribuzione della ricchezza. Questa è puramente materia delle istituzioni umane» – Marx scagliò diverse frecce. Ad onor della «vera storia», vale la pena ricordarne almeno una: «l’insulsaggine di J. St. Mill, che ritiene eterni i rapporti borghesi di produzione ma storiche le loro forme di distribuzione, rivela che egli non capisce né gli uni né le altre». Accanto al malinteso di fondo dell’economia politica, la rappresentazione delle forme borghesi di produzione come assolute e di quelle di distribuzione come relative, e dunque transitorie, era necessaria affinché i rapporti borghesi fossero «interpolati del tutto surrettiziamente come incontestabili leggi di natura della società in abstracto». Veniva in questo modo svelato come l’apologetica degli economisti fosse ancillare alla mistificazione del modo di produzione capitalistico e alla reificazione dei rapporti sociali.

In realtà, «la forma di distribuzione non è che la forma di produzione sub alia specie». Infatti, come Marx dimostrava, mediante la sua analisi scientifica, ne Il capitale: «i rapporti di distribuzione sono in sostanza identici ai rapporti di produzione, costituiscono il rovescio di questi ultimi, così che gli uni e gli altri hanno lo stesso carattere storicamente transitorio».

Concludeva arrabbiato, ancora riferendosi all’economista inglese: «nella piattezza della pianura anche i mucchi di terra sembrano colline; si misuri la piattezza della nostra odierna borghesia con il calibro dei suoi ‘grandi intelletti’».

Tuttavia, scavando bene ne Il capitale – e naturalmente accontentandosi di una nota a piè di pagina, invece che di un riferimento nel testo – si può trovare la seguente confessione di Marx, probabilmente scritta in preda a uno dei suoi rarissimi momenti di affabilità verso gli avversari: «ad evitare malintesi osservo, che, se pure uomini come J. St. Mill sono degni di biasimo per la contraddizione fra i loro vecchi dogmi economici e le loro tendenze moderne, sarebbe estrema ingiustizia metterli in un sol fascio con il gregge degli apologeti dell’economia volgare».

Forse anche questa frase si addice al caso nostro.

Si farebbe, infatti, un torto troppo grande anche a Stuart Mill – in vita sempre aspramente osteggiato dai conservatori – se lo si lasciasse in balia dell’On. Berlusconi.

In proposito all’invasione de «La vera storia italiana» e alle più generali circostanze odierne, le considerazioni di Stuart Mill, contenute nel suo scritto del 1859 Sulla libertà, si rileggono con interesse e sono, purtroppo, ancora attuali: «è da sperare che sia trascorsa l’epoca in cui era necessario difendere la ‘libertà di stampa’ come una delle garanzie contro un governo corrotto o tirannico. Possiamo supporre che non sia più necessario dimostrare che non si può consentire a una legislatura o a un esecutivo, i cui interessi non si identifichino con quelli dei cittadini, di imporre loro delle opinioni e di stabilire quali dottrine o argomentazioni essi possano ascoltare».

Per avversare il Presidente del Consiglio (in carica per altri pochi giorni) stavolta non serve scomodare il nostro Marx. Basta un buon liberale come Stuart Mill.