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Rivisitando la concezione dell’alienazione in Marx

I. Introduzione
L’alienazione può essere annoverata tra le teorie più rilevanti e dibattute del XX secolo e la concezione che ne elaborò Marx assunse un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema. Tuttavia, diversamente da come si potrebbe immaginare, il percorso della sua affermazione non è stato affatto lineare e le pubblicazioni di alcuni inediti di Marx contenenti riflessioni sull’alienazione, hanno rappresentato significativi punti di svolta per la trasformazione e la diffusione di questa teoria.

Nel corso dei secoli, il termine alienazione fu utilizzato più volte e con mutevoli significati. Nella riflessione teologica designò il distacco dell’uomo da dio; nelle teorie del contratto sociale servì ad indicare la perdita della libertà originaria dell’individuo; mentre nell’economia politica inglese venne adoperato per descrivere la cessione della proprietà della terra e delle merci. La prima sistematica esposizione filosofica dell’alienazione, però, avvenne solo all’inizio dell’Ottocento e fu opera di Georg W. F. Hegel. Nella Fenomenologia dello spirito (1807), infatti, egli ne fece la categoria centrale del mondo moderno e adoperò i termini di Entäusserung (rinuncia) ed Entfremdung (estraneità, scissione) per rappresentare il fenomeno mediante il quale lo spirito diviene altro da sé nell’oggettività. Tale problematica ebbe grande importanza anche presso gli autori della Sinistra Hegeliana e la concezione di alienazione religiosa elaborata da Ludwig Feuerbach ne L’essenza del cristianesimo (1841), ovvero la critica del processo mediante il quale l’uomo si convince dell’esistenza di una divinità immaginaria e si sottomette ad essa, contribuì in modo significativo allo sviluppo del concetto.

Successivamente, l’alienazione scomparve dalla riflessione filosofica e nessuno tra i maggiori autori della seconda metà dell’Ottocento vi dedicò particolare attenzione. Lo stesso Karl Marx, nelle opere pubblicate nel corso della sua esistenza, impiegò il termine in rarissime occasioni e questo tema risultò del tutto assente anche nel marxismo della Seconda Internazionale (1889-1914).

II. La riscoperta dell’alienazione
La riscoperta della teoria dell’alienazione avvenne grazie a György Lukács che, in Storia e coscienza di classe (1923), riferendosi ad alcuni passaggi de Il capitale (1867) di Marx, in particolare al paragrafo dedicato al “carattere di feticcio della merce” ( Der Fetischcharakter der Ware), elaborò il concetto di reificazione (Verdinglichung o Versachlichung), ovvero il fenomeno attraverso il quale l’attività lavorativa si contrappone all’uomo come qualcosa di oggettivo ed indipendente e lo domina mediante leggi autonome ed a lui estranee. Nei tratti fondamentali, però, la teoria di Lukács era ancora troppo simile a quella hegeliana, poiché anche egli concepì la reificazione come un “fatto strutturale fondamentale” [1]. Così, quando negli anni Sessanta, soprattutto dopo la comparsa della traduzione francese del suo libro[2], questo testo tornò ad esercitare una grande influenza tra gli studiosi ed i militanti di sinistra, Lukács decise di ripubblicare il suo scritto in una nuova edizione (1967) introdotta da una lunga prefazione autocritica, nella quale, per chiarire la sua posizione, egli affermò: “Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui, anche in questo libro, l’estraneazione viene posta sullo stesso piano dell’oggettivazione”[3].

L’evento decisivo che intervenne a rivoluzionare in maniera definitiva la diffusione del concetto di alienazione fu la pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico filosofici del 1844, un inedito appartenente alla produzione giovanile di Marx. Da questo testo, che divenne rapidamente uno degli scritti filosofici più discussi, tradotti e letti del XX secolo, emerse il ruolo di primo piano conferito da Marx alla teoria dell’alienazione durante un’importante fase della formazione della sua concezione: la scoperta dell’economia politica. Marx, infatti, mediante la categoria di lavoro alienato (entfremdete Arbeit) [4] non solo traghettò la problematica dell’alienazione dalla sfera filosofica, religiosa e politica a quella economica della produzione materiale, ma fece di quest’ultima anche il presupposto per potere comprendere e superare le prime. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’alienazione venne descritta come il fenomeno attraverso il quale il prodotto del lavoro “sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente” [5]. Per Marx:

“l’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esistenza esterna, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica” [6].

Accanto a questa definizione generale, Marx elencò quattro differenti tipi di alienazione che indicavano come nella società borghese il lavoratore fosse alienato: 1) dal prodotto del suo lavoro, che diviene un “oggetto estraneo e avente un dominio su di lui”; 2) nell’attività lavorativa, che viene percepita come “rivolta contro lui stesso [… e] a lui non appartenente”; 3) dal genere umano, poiché la “essenza specifica dell’uomo” è trasformata in “un’essenza a lui estranea”; e 4) dagli altri uomini, ovvero rispetto “al lavoro e all’oggetto del lavoro” [7] realizzati dai suoi simili.

Per Marx, diversamente da Hegel, l’alienazione non coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, ma con una precisa realtà economica e con uno specifico fenomeno: il lavoro salariato e la trasformazione dei prodotti del lavoro in oggetti che si contrappongono ai loro produttori. La diversità politica tra le due interpretazioni è enorme. Contrariamente ad Hegel, che aveva rappresentato l’alienazione quale manifestazione ontologica del lavoro, Marx concepì questo fenomeno come la caratteristica di una determinata epoca della produzione, quella capitalistica, ritenendone possibile il superamento mediante “l’emancipazione della società dalla proprietà privata” [8]. Dunque, anche in queste frammentarie e, talvolta, incerte formulazioni giovanili, Marx trattò l’alienazione sempre da un punto di vista storico e mai naturale.

III. Le concezioni non marxiste dell’alienazione
Ci sarebbe voluto ancora molto tempo, però, prima che una concezione storica, e non ontologica, dell’alienazione potesse affermarsi. Infatti, la maggior parte degli autori che, nella prima parte del Novecento, si occuparono di questa problematica lo fecero sempre considerandola un aspetto universale dell’esistenza umana. In Essere e tempo (1927), Martin Heidegger affrontò il problema dell’alienazione dal versante meramente filosofico e considerò questa realtà come una dimensione fondamentale della storia. La categoria da lui utilizzata per descrivere la fenomenologia dell’alienazione fu quella di decadimento (Verfallen)[9], cioè la tendenza dell’Esserci (Dasein) – che nella filosofia heideggeriana indica la costituzione ontologica della vita umana – a perdersi nell’inautenticità e nel conformismo del mondo che lo circonda. Per Heidegger, “questo stato presso il «mondo» significa l’immedesimazione nell’essere-assieme dominato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco” [10]. Un territorio, dunque, completamente diverso dalla fabbrica e dalla condizione operaia che erano al centro delle preoccupazioni e dell’elaborazione di Marx. Inoltre, questa condizione di decadimento non fu considerata da Heidegger come una condizione “negativa e deplorevole, che il progredire della civiltà umana potrebbe un giorno annullare” [11], ma, bensì, come una caratteristica ontologica, “un modo esistenziale dell’essere-nel-mondo”[12].

Anche Herbert Marcuse, che diversamente da Heidegger conosceva bene l’opera di Marx, identificò l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. Nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica (1933), egli sostenne che il “carattere di peso del lavoro” non poteva essere ricondotto meramente a “determinate condizioni presenti nell’esecuzione del lavoro, alla sua organizzazione tecnico-sociale”, ma andava considerato come uno dei suoi tratti fondamentali:

“lavorando, il lavoratore è «presso la cosa», sia che stia dietro una macchina, o che progett[i] piani tecnici, o che prenda delle misure organizzative, o che studi problemi scientifici, o che istruisc[a] gli uomini, ecc. Nel suo fare si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando domina il suo oggetto (…). In ogni caso non è «presso di sé» (…), è presso «l’altro da sé», anche quando questo fare dà compimento alla propria vita liberamente assunta. Questa alienazione ed estraneazione dell’esistenza (…) è, per principio, ineliminabile”[13].

Per Marcuse, quindi, esisteva una “negatività originaria del fare lavorativo”[14], che egli riteneva appartenesse alla “essenza stessa dell’esistenza umana” [15]. La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. E il superamento dell’alienazione fu ritenuto possibile soltanto attraverso il gioco, momento nel quale l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva: “un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico” [16].

In Eros e civiltà (1955), Marcuse prese le distanze dalla concezione marxiana in modo altrettanto netto. Egli affermò che l’emancipazione dell’uomo poteva realizzarsi solo mediante la liberazione dal lavoro (abolition of labor) e attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali. La possibilità di superare lo sfruttamento, mediante la nascita di una società basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, venne definitivamente messa da parte, poiché il lavoro in generale, non solo quello salariato, venne considerato come: “lavoro per un apparato che essi [la grande maggioranza della popolazione] non controllano, che opera come un potere indipendente” [17]. La norma cardine contro cui gli uomini avrebbero dovuto ribellarsi era il principio di prestazione (performance) imposto dalla società. Secondo Marcuse, infatti:

“il conflitto tra sessualità e civiltà si acuisce con lo sviluppo del dominio. Sotto la legge del principio di prestazione, corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel soggetto-oggetto libidico che originalmente l’organismo umano è, e desidera essere. (…) L’uomo esiste come strumento di prestazione alienata” [18].

Dunque, egli ne concluse che, anche se fosse stata organizzata in modo equo e razionale, la produzione materiale “non potrà mai rappresentare un regno di civiltà e di soddisfazione (…). È la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e la realizzazione” [19]. L’alternativa proposta da Marcuse fu la “liberazione dell’eros” [20]. Diversamente da Freud, il quale ne Il disagio della civiltà (1929) aveva sostenuto che un’organizzazione non repressiva della società avrebbe comportato una pericolosa regressione del livello di civiltà raggiunto nei rapporti umani, Marcuse era convinto che se la liberazione degli istinti fosse “società libera”, altamente tecnologizzata e al servizio dell’uomo, essa avrebbe favorito non solo “uno sviluppo del progresso” [21], ma anche creato “nuovi e duraturi rapporti di lavoro” [22].

Le indicazioni sul come questa nuova società avrebbe dovuto prendere corpo furono, però, piuttosto vaghe ed utopistiche. Marcuse finì con l’appoggiare un’opposizione al dominio tecnologico in generale, in base alla quale la critica dell’alienazione non era più rivolta contro i rapporti di produzione capitalistici, e giunse a sviluppare una riflessione sul cambiamento sociale così pessimistica da includere anche la classe operaia tra i soggetti che operavano in difesa del sistema.

Dopo la seconda guerra mondiale, il concetto di alienazione approdò anche alla psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud per la quale, nella società borghese, l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione [23], deve necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni. Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta ad un mero fenomeno soggettivo.

L’esponente che più si occupò, in questa disciplina, di alienazione fu Erich Fromm. Diversamente dalla maggioranza dei suoi colleghi, egli non separò mai le manifestazioni dell’alienazione dal contesto storico capitalistico; e con i suoi scritti Psicoanalisi della società contemporanea (1955) e L’uomo secondo Marx (1961) si servì di questo concetto per tentare di costruire un ponte tra la psicoanalisi ed il marxismo. Tuttavia, anche Fromm affrontò questa problematica privilegiando sempre l’analisi soggettiva e la sua concezione di alienazione, che riassunse come “una forma di esperienza per la quale la persona conosce se stessa come un estraneo”[24], rimase troppo circoscritta al singolo. Inoltre, la sua interpretazione della concezione dell’alienazione in Marx si basò sui soli Manoscritti economico-filosofici del 1844 e si caratterizzò per una profonda incomprensione della specificità e della centralità del concetto di lavoro alienato nel pensiero di Marx.

Tra le principali elaborazioni non marxiste dell’alienazione va menzionata, infine, quella risalente a Jean-Paul Sartre e agli esistenzialisti francesi, che ne fecero uno dei concetti chiave della loro filosofia. A partire dagli anni Quaranta, in un periodo caratterizzato dagli orrori della guerra, dalla conseguente crisi delle coscienze e, nel panorama francese, dal neohegelismo di Alexandre Kojeve [25]; il fenomeno dell’alienazione fu assunto come riferimento ricorrente sia in filosofia che in narrativa. Tuttavia, anche in questa circostanza, il concetto di alienazione assunse un profilo molto più generico rispetto a quello esposto da Marx. Esso fu identificato con un indistinto disagio dell’uomo nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, significativamente, come condition humaine non sopprimibile. I filosofi esistenzialisti non fornirono una specifica origine sociale dell’alienazione, ma, tornando ad assimilarla con ogni fatticità, concepirono l’alienazione come un senso generico di alterità umana[26].

IV. Il dibattito sul concetto di alienazione negli scritti giovanili di Marx
Nel dibattito sull’alienazione che si sviluppò in Francia, il ricorso alle teorie di Marx fu molto frequente. Tuttavia, spesso furono presi in esame soltanto i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e neanche le parti de Il capitale in base alle quali Lukács aveva costruito la sua teoria della reificazione negli anni Venti vennero prese in considerazione. Inoltre, alcune frasi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono completamente separate dal loro contesto e vennero trasformate in citazioni sensazionali volte a dimostrare la presunta esistenza di un ‘nuovo Marx’, radicalmente diverso da quello fino ad allora conosciuto, perché intriso di teoria filosofica e ancora privo del determinismo economico che alcuni suoi commentatori avevano riscontrato ne Il capitale (testo, a dire il vero, molto poco letto da quanti propesero per questa tesi). Anche rispetto al solo scritto del 1844, gli esistenzialisti francesi privilegiarono di gran lunga la nozione di autoalienazione (Selbstentfremdung), cioè il fenomeno per il quale il lavoratore è alienato dal genere umano e dai suoi simili, che Marx aveva trattato nel suo scritto giovanile, ma sempre in relazione all’alienazione oggettiva.

Lo stesso clamoroso errore fu commesso da un esponente di primo piano del pensiero filosofico-politico del dopoguerra. Nell’opera Vita Activa (1958), infatti, Annah Harendt costruì la propria interpretazione del concetto di alienazione in Marx solo in base ai Manoscritti economico-filosofici del 1844. E, per giunta, privilegiando, tra i tanti tipi di alienazione indicati da Marx, esclusivamente quella soggettiva:

“l’espropriazione e l’alienazione del mondo coincidono; e l’età moderna, contro le stesse intenzioni dei suoi protagonisti, cominciò con l’alienare dal mondo certi strati della popolazione. (…) L’alienazione del mondo, quindi, e non l’alienazione di sé, come pensava Marx, è stata la caratteristica distintiva dell’età moderna” [27].

Dove e in che modo, nella sua analisi della società capitalistica, Marx avesse privilegiato “l’alienazione di sé” resta un mistero di cui la Harendt non fornì spiegazione nel suo scritto. Negli anni Sessanta, l’esegesi della teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 divenne il pomo della discordia rispetto all’interpretazione generale di Marx. In questo periodo venne concepita la distinzione tra due presunti Marx: il ‘giovane Marx’ e il ‘Marx maturo’. Questa arbitraria ed artificiale contrapposizione fu alimentata sia da quanti preferirono il Marx delle opere giovanili e filosofiche, sia da quanti (tra questi Louis Althusser e gli studiosi sovietici) affermarono che il solo vero Marx fosse quello de Il capitale. Coloro che sposarono la prima tesi considerarono la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il punto più significativo della critica marxiana della società; mentre quelli che abbracciarono la seconda ipotesi mostrarono, spesso, una vera e propria “fobia dell’alienazione”; tentando, in un primo momento, di minimizzarne il rilievo e, quando ciò non fu più possibile, considerando il tema dell’alienazione come “un peccato di gioventù, un residuo di hegelismo” [28], successivamente abbandonato da Marx.

Sostenere, come affermarono in tanti, che la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 fosse il tema centrale del pensiero di Marx è un falso che denota soltanto la scarsa familiarità con la sua opera da parte di coloro che propesero per questa tesi[29]. D’altro canto, quando Marx ritornò ad essere l’autore più discusso e citato nella letteratura filosofica mondiale proprio per le sue pagine inedite relative all’alienazione, il silenzio dell’Unione Sovietica su questa tematica, e sulle controversie ad essa legate, fornisce un esempio dell’utilizzo strumentale con cui furono utilizzati i suoi scritti in quel paese. Infatti, l’esistenza dell’alienazione in Unione Sovietica, e nei suoi paesi satelliti, fu semplicemente negata e tutti i testi che trattavano questa problematica vennero ritenuti sospetti. Secondo Henry Lefebvre: “nella società sovietica non poteva, non doveva più essere questione di alienazione. Il concetto doveva sparire, per ordine superiore, per la ragion di Stato”[30]. E, così, fino agli anni Settanta, furono pochissimi gli autori che, nel ‘campo socialista’, scrissero delle opere in proposito.

V. Il fascino irresistibile della teoria dell’alienazione
A partire dagli anni Sessanta esplose una vera e propria moda per la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri ed articoli sul tema. Fu il tempo dell’alienazione tout-court. Il periodo nel quale autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, all’anomia, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifesta nel rapporto con le nuove tecnologie; e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, e all’inquinamento ambientale.

Il concetto di alienazione sembrò riflettere alla perfezione lo spirito del tempo e costituì anche il terreno d’incontro, nell’elaborazione di una critica alla società capitalistica, tra il marxismo filosofico ed anti-sovietico ed il cattolicesimo più democratico e progressista. La popolarità del concetto e la sua applicazione indiscriminata, però, crearono una profonda ambiguità terminologica [31]. Così, nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e ciò generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno tanto esteso da apparire immodificabile [32].

Con il libro di Guy Debord, La società dello spettacolo (1967), divenuto poco dopo la sua uscita un vero e proprio manifesto di critica sociale per la generazione di studenti in rivolta contro il sistema, la teoria dell’alienazione approdò alla critica della produzione immateriale. Riprendendo le tesi già avanzate in Dialettica dell’illuminismo (1944) da Max Horkheimer e Theodor Adorno, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente, Debord affermò che, nelle presenti circostanze, il non-lavoro non poteva più essere considerato come una sfera differente dall’attività produttiva:

“mentre nella fase primitiva dell’accumulazione capitalistica ‘l’economia politica non vede nel proletario che l’operaio’, (…) questa posizione (…) si rovescia non appena il grado di abbondanza raggiunto nella produzione di merci esige un surplus di collaborazione dall’operaio. Questo operaio, improvvisamente lavato dal disprezzo totale che gli è chiaramente espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno al di fuori di essa trattato apparentemente come una persona grande, con una cortesia premurosa, sotto il travestimento del consumatore. Allora l’umanesimo della merce prende a proprio carico ‘gli svaghi e l’umanità’ del lavoratore, semplicemente perché l’economia politica può e deve ora dominare queste sfere”[33].

Per Debord, se il dominio dell’economia sulla vita sociale si era inizialmente manifestato attraverso una “degradazione dell’essere in avere”, nella “fase presente” si era verificato uno “slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire” [34]. Tale riflessione lo spinse a porre al centro della sua analisi il mondo dello spettacolo: “nella società lo spettacolo corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione”[35], il fenomeno mediante il quale “il principio del feticismo della merce (…) si compie in grado assoluto” [36]. In queste circostanze, l’alienazione si affermava a tal punto da diventare persino un’esperienza entusiasmante per gli individui, i quali, spinti da questo nuovo oppio del popolo al consumo ed a “riconoscersi nelle immagini dominanti”[37], si allontanavano sempre più, allo stesso tempo, dai propri desideri ed esistenze reali:

“lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. (…) La produzione economica moderna allarga la sua dittatura estensivamente e intensivamente. (…) A questo punto della ‘seconda rivoluzione industriale’, il consumo alienato diventa per le masse un dovere supplementare che si aggiunge a quello della produzione alienata” [38].

Sulla scia di Debord, anche Jean Baudrillard utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi (1970), egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna, prendendo così le distanze dalla concezione marxiana ancorata sulla centralità della produzione. Secondo Baudrillard “l’era del consumo”, in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche “l’era dell’alienazione radicale”:

“la logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi non regola solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali, ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane, fino ai fantasmi e alle pulsioni individuali. (…) Tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili” [39].

Le sue conclusioni politiche, però, furono piuttosto confuse e pessimistiche. Dinanzi ad una grande stagione di fermento sociale, egli accusò “i contestatori del maggio francese” di essere caduti nella trappola di “super-reificare gli oggetti e il consumo dando loro un valore diabolico”; e criticò “i discorsi sull’alienazione, tutta la derisione operata dalla Pop e dall’antiarte”, per aver creato una “requisitoria [che] fa parte del gioco: è il miraggio critico, l’antifiaba che corona la favola”[40]. Dunque, lontano dal marxismo, che vedeva nella classe operaia il soggetto sociale di riferimento per cambiare il mondo, Baudrillard chiuse il suo libro con un appello messianico, tanto generico quanto effimero: “attenderemo le irruzioni brutali e le disgregazioni improvvise che, in maniera tanto imprevedibile, ma certa, quanto il maggio del 1968, manderanno in frantumi questa messa bianca”[41].

VI. La teoria dell’alienazione nella sociologia nord-americana
Negli anni Cinquanta, il concetto di alienazione era entrato anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Infatti, nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come problematica inerente il singolo essere umano [42], non le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente, e non nelle pratiche collettive volte a mutare la società [43].

Anche in questa disciplina regnò a lungo una profonda incertezza circa una chiara e condivisa definizione dell’alienazione. Alcuni autori considerarono questo fenomeno come un processo positivo, perché mezzo di espressione della creatività dell’uomo, e inerente la condizione umana in generale. Altra caratteristica diffusa tra i sociologi statunitensi fu quella di considerare l’alienazione come qualcosa che scaturiva dalla scissione tra l’individuo e la società [44]. Seymour Melman, infatti, individuò l’alienazione nella separazione tra la formulazione e l’esecuzione delle decisioni e la considerò come un fenomeno che colpiva tanto gli operai quanto i manager[45]. Nell’articolo Una misura dell’alienazione (1957), che inaugurò un dibattito su questo concetto nella rivista American Sociological Review, Gwynn Nettler adoperò lo strumento dell’inchiesta nell’intento di stabilirne una definizione.

Tuttavia, lontanissimo dalla tradizione delle rigorose indagini sulle condizioni lavorative condotte in seno al movimento operaio, il questionario da lui formulato sembrò ispirarsi più ai canoni del maccartismo del tempo che non a quelli della ricerca scientifica. Nettler, infatti, rappresentando le persone alienate come soggetti guidati da “un coerente mantenimento di atteggiamenti ostili e impopolari nei confronti del familismo, dei mezzi di comunicazione di massa, dei gusti di massa, dell’attualità, dell’istruzione popolare, della religione convenzionale, della visione teleologica della vita, del nazionalismo e del sistema elettorale”[46], identificò l’alienazione con il rifiuto dei principi conservatori della società americana.

La pochezza concettuale presente nel panorama sociologico americano mutò in seguito alla pubblicazione del saggio Sul significato dell’alienazione (1959) di Melvin Seeman. In questo breve articolo, divenuto, rapidamente, un riferimento obbligato per tutti gli studiosi dell’alienazione, egli catalogò quelle che riteneva fossero le sue cinque principali tipologie: la mancanza di potere; la mancanza di significato (cioè la difficoltà dell’individuo a comprendere gli eventi in cui è inserito); la mancanza di norme; l’isolamento; e l’estraniazione da sé[47]. Questo elenco mostra come anche Seeman considerasse l’alienazione sotto un profilo primariamente soggettivo. Robert Blauner, nel libro Alienazione e libertà (1964), sposò il medesimo punto di vista. L’autore statunitense definì l’alienazione come una “qualità dell’esperienza personale che risulta da specifici tipi di disposizioni sociali” [48] , anche se lo sforzo profuso nella sua ricerca lo portò a rintracciarne le cause nel “processo di lavoro in organismi giganteschi e nelle burocrazie impersonali che saturano tutte le società industriali” [49] .

Nell’ambito della sociologia nord-americana, quindi, l’alienazione venne concepita come una manifestazione relativa al sistema di produzione industriale, a prescindere se esso fosse capitalistico o socialista, e come una problematica inerente soprattutto la coscienza umana [50]. Questo approccio finì col mettere ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione dell’analisi di questa nozione, che venne assunta anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, non più come una questione sociale, ma quale una patologia individuale dalla quale dovevano curarsi i singoli individui [51]. Ciò determinò un profondo mutamento della concezione dell’alienazione. Se nella tradizione marxista essa rappresentava uno dei concetti critici più incisivi del modo di produzione capitalistico, in sociologia subì un processo di istituzionalizzazione e finì con l’essere considerata come un fenomeno relativo al mancato adattamento degli individui alle norme sociali. Allo stesso modo, la nozione di alienazione smarrì il carattere normativo che aveva in filosofia (anche negli autori che ritenevano l’alienazione come un orizzonte insuperabile) e si trasformò in un concetto a-valutativo, dal quale era stato rimosso l’originario contenuto critico [52]. Altro effetto di questa metamorfosi dell’alienazione fu il suo impoverimento teorico.

Da fenomeno complessivo, relativo alla condizione lavorativa, sociale e intellettuale dell’uomo, essa fu ridotta ad una categoria parziale e parcellizzata in funzione delle indagini accademiche [53]. I sociologi americani affermarono che questa scelta metodologica avrebbe consentito di liberare l’indagine sull’alienazione dalle sue connotazioni politiche e di conferire ad essa obiettività scientifica. In realtà, questa presunta svolta apolitica aveva delle forti ed evidenti implicazioni ideologiche, poiché dietro la bandiera della de-ideologizzazione e della presunta neutralità dei valori si celava il sostegno ai valori ed all’ordine dominante.

La differenza tra la concezione marxista dell’alienazione e quella dei sociologi statunitensi non stava, dunque, nel fatto che la prima era politica e la seconda scientifica, quanto, invece, che i teorici marxisti erano portatori di valori opposti a quelli egemoni [54]. In sociologia, dunque, il concetto di alienazione conobbe un vero e proprio stravolgimento e finì con l’essere utilizzato proprio dai difensori delle classi sociali contro le quali esso era stato per lungo tempo rivolto.

VII. Il concetto di alienazione ne Il capitale e nei suoi manoscritti preparatori
Gli scritti di Marx ebbero un ruolo importante per quanti tentarono di avversare questo stravolgimento. L’attenzione rivolta alla teoria dell’alienazione di Marx, inizialmente incentrata sui Manoscritti economico-filosofici del 1844, si spostò, dopo la pubblicazione di nuovi inediti, su altri testi e da questi fu possibile ricostruire il percorso della sua elaborazione.

Nella seconda parte degli anni Quaranta, egli non aveva più adoperato frequentemente la parola alienazione. In Lavoro salariato e capitale (1849), una raccolta di articoli redatti in base agli appunti utilizzati per una serie di conferenze tenute alla Lega Operaia Tedesca di Bruxelles nel 1847, Marx riespose la teoria dell’alienazione, ma, non potendosi rivolgere al movimento operaio con una nozione che sarebbe parsa troppo astratta, non ne utilizzò la parola. Sino alla fine degli anni Cinquanta, non vi furono altri riferimenti all’alienazione. In seguito alla sconfitta delle rivoluzioni del 1848, egli fu costretto all’esilio a Londra e durante questo periodo, per concentrare tutte le sue energie negli studi di economia politica, con l’eccezione di alcuni brevi lavori di carattere storico non pubblicò alcun libro. Quando riprese a scrivere di economia, nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58), meglio noti col nome di Grundrisse, Marx tornò ad utilizzare il concetto ripetutamente. Esso ricordava, per molti versi, quello esposto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, anche se grazie agli studi condotti per quasi un decennio presso la libreria del British Museum di Londra, la sua analisi risultava ora molto più approfondita:

“il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte dagli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto tra le cose; la capacità personale in una capacità delle cose” [55].

Nei Grundrisse, dunque, la descrizione dell’alienazione aveva acquisito maggiore spessore rispetto a quella compiuta negli scritti giovanili, perché arricchita dalla comprensione di importanti categorie economiche e da una più rigorosa analisi sociale. Essi non furono l’unico testo della maturità di Marx in cui la descrizione di questa problematica ricorre frequentemente. Un lustro dopo la loro stesura, infatti, essa ritornò ne Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito (1863-64), manoscritti nei quali l’analisi economica e quella politica dell’alienazione vennero messe in maggiore relazione tra loro: “il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore”. Marx mise in evidenza che nella società capitalistica, mediante “la trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale”, si realizza una vera e propria “personificazione delle cose e reificazione delle persone”, ovvero si crea un’apparenza in forza della quale “non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro, appaiono sottomessi al lavoratore, ma egli ad essi” [56]. In realtà, a suo giudizio:

“Il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose. Senza salariato (…) niente produzione di plusvalore; senza produzione di plusvalore, niente produzione capitalistica, quindi niente capitale e niente capitalisti! Capitale e lavoro salariato (…) esprimono due fattori dello stesso rapporto. Il denaro non può diventare capitale senza scambiarsi preventivamente contro forza-lavoro che l’operaio vende come merce; d’altra parte, il lavoro può apparire come lavoro salariato solo dal momento in cui le sue proprie condizioni oggettive gli stanno di fronte come potenze autonome, proprietà estranea, valore esistente per sé e arroccato in se stesso; insomma, capitale” [57].

Nel modo di produzione capitalistico, il lavoro umano è diventato uno strumento del processo di valorizzazione del capitale che “nell’incorporare la forza-lavoro viva alle sue parti componenti oggettive (…) diventa un mostro animato, e comincia ad agire come se avesse l’amore in corpo” [58]. Questo meccanismo si espande su scala sempre maggiore fino a che la cooperazione nel processo produttivo, le scoperte scientifiche e l’impiego dei macchinari, ossia i progressi sociali generali che appartengono alla collettività, diventano forze del capitale le quali appaiono come proprietà da esso possedute per natura e si ergono estranee di fronte ai lavoratori come ordinamento capitalistico:

“le forze produttive (…) sviluppate del lavoro sociale (…) si rappresentano come forze produttive del capitale. (…) L’unità collettiva nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle energie naturali e delle scienze, dei prodotti del lavoro come macchinario – tutto ciò si contrappone agli operai singoli, in modo autonomo, come qualcosa di straniero, di oggettivo, di preesistente, senza e spesso contro il loro contributo attivo, come pure forme di esistenza dei mezzi di lavoro da essi indipendenti e su di essi esercitanti il proprio dominio; e l’intelligenza e la volontà dell’officina collettiva incarnate nel capitalista o nei suoi subalterni, nella misura in cui l’officina collettiva si basa sulla loro combinazione, gli si contrappongono come funzioni del capitale che vive nel capitalista”[59].
È mediante questo processo, dunque, che, secondo Marx, il capitale diventa qualcosa di “terribilmente misterioso. Le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali torreggianti di fronte all’operaio e, in questa forma, vengono capitalizzate” [60].

La diffusione, a partire dagli anni Sessanta, de Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito e, soprattutto, dei Grundrisse aprì la strada ad una concezione dell’alienazione differente rispetto a quella egemoni in sociologia e psicologia, la cui comprensione era finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia. La pubblicazione di quella che, dopo i Manoscritti economico-filosofici del 1844 negli anni Trenta, può essere considerata la “seconda generazione” di scritti di Marx sull’alienazione fornì non solo una coerente base teorica per una nuova stagione di studi sull’alienazione, ma soprattutto una piattaforma ideologica anticapitalista allo straordinario movimento politico e sociale esploso nel mondo in quel periodo. Con la diffusione de Il capitale e dei suoi manoscritti preparatori, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e divenire critica sociale.

VIII. Il feticismo della merce ed il superamento dell’alienazione
Una delle migliori descrizioni dell’alienazione realizzate da Marx è quella contenuta nel celebre paragrafo “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano” de Il capitale. Libro primo. Al suo interno egli mise in evidenza che, nella società capitalistica, gli uomini sono dominati dai prodotti che hanno creato e vivono in un mondo in cui le relazioni reciproche appaiono “non come rapporti immediatamente sociali tra persone (…), ma come rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose” [61]. Più precisamente:

“l’arcano della forma di merce consiste (…) nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, come sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. (…) Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci” [62].

Da questa definizione emergono delle precise caratteristiche che tracciano un chiaro spartiacque tra la concezione dell’alienazione in Marx e quella della gran parte degli autori presi in esame in questo saggio. Il feticismo, infatti, non venne concepito da Marx come una problematica individuale, ma fu sempre considerato un fenomeno sociale. Non una manifestazione dell’anima, ma un potere reale, una dominazione concreta, che si realizza, nell’economia di mercato, in seguito alla trasformazione dell’oggetto in soggetto. Per questo motivo, egli non limitò la propria analisi dell’alienazione al disagio del singolo essere umano, ma analizzò i processi sociali che ne stavano alla base, in primo luogo l’attività produttiva. Per Marx, inoltre, il feticismo si manifesta in una precisa realtà storica della produzione, quella del lavoro salariato, e non è legato al rapporto tra la cosa in generale e l’uomo, ma da quello che si verifica tra questo e un tipo determinato di oggettività: la merce.

Nella società borghese le proprietà e le relazioni umane si trasformano in proprietà e relazioni tra cose. La teoria che, dopo la formulazione di Lukács, fu designata col nome di reificazione illustrava questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattava rispetto alle merci. Diversamente da quanto sostenuto da coloro che avevano negato la presenza di riflessioni sull’alienazione nell’opera matura di Marx, essa non venne sostituta con quella del feticismo delle merci, perché essa ne rappresentava un suo aspetto particolare [63].

L’avanzamento teorico compiuto da Marx rispetto all’alienazione tra i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e Il capitale non consiste, però, soltanto in una sua più precisa descrizione, ma anche in una differente elaborazione circa le misure considerate necessarie per il suo superamento. Se nel 1844 Marx aveva ritenuto che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, ne Il capitale, e nei suoi manoscritti preparatori, il percorso indicato per costruire una società libera dall’alienazione era divenuto molto più complesso. Marx riteneva che il capitalismo era un sistema nel quale i lavoratori sono soggiogati al capitale e alle sue condizioni. Tuttavia, esso ha creato le basi per una società più progredita e l’umanità può proseguire il cammino dello sviluppo sociale, accelerato da questo modo di produzione, generalizzandone i benefici. Secondo Marx, ad un sistema che produce enorme accumulo di ricchezza per pochi e spoliazione e sfruttamento per la massa generale dei lavoratori, occorre sostituire “un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale” [64]. Questo diverso tipo di produzione si differenzia dal lavoro salariato, poiché pone i suoi fattori determinanti sotto il governo collettivo, assume un carattere immediatamente generale e trasforma il lavoro in una vera attività sociale. È una concezione di società agli antipodi del bellum omnium contra omnes di Thomas Hobbes. E la sua creazione non è un processo meramente politico, ma investe necessariamente la trasformazione della sfera della produzione.

Tuttavia, questo mutamento del processo lavorativo è comunque limitato poiché, come Marx osservò ne Il capitale. Libro terzo: “la libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa” [65]. Questa produzione dal carattere sociale, insieme con i progressi tecnologici e scientifici e la conseguente riduzione della giornata lavorativa, crea le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale, in cui il lavoro coercitivo ed alienato, imposto dal capitale e sussunto alle sue leggi, viene mano a mano sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità; e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale in funzione delle merci e del denaro [66]. Non è più il regno della libertà del capitale, ma quello dell’autentica libertà umana dell’individuo sociale.

References
1. György Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1971, p. 112
2. Esso fu tradotto Kostas Axelos e Jacqueline Bois col titolo di Histoire et conscience de classe, Minuit, Paris 1960.
3. György Lukács, op. cit., p. XXV.
4. Negli scritti di Marx compaiono sia il termine di Entfremdung che quello di Entäusserung. Le due nozioni, che in Hegel avevano significati diversi, furono utilizzate da Marx come sinonimi. Cfr. Marcella D’Abbiero, Alienazione in Hegel. Usi e significati di Entäusserung, Entfremdung Veräusserung, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970, pp. 25-7.
5. Karl Marx, L’alienazione, a cura di Marcello Musto, Donzelli, Roma 2010, pp. 17-18.
6. Ivi, pp. 18-19.
7. Ivi, pp. 21, 23. In proposito si veda lo studio di Bertell Ollman, Alienation, Cambridge, New York 1971, pp. 136-152.
8. Karl Marx, L’alienazione, op. cit., p. 26.
9. A partire dalla versione dell’opera di Heidegger realizzata da Pietro Chiodi, questo termine è stato quasi sempre tradotto in lingua italiana con la parola deiezione.
10. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, p. 215.
11. Ivi, pp. 215-6.
12. Ivi, p. 218. Nella Prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, Lukács osservò che in Heidegger l’alienazione divenne un concetto politicamente inoffensivo che “sublima[va] la critica sociale in una critica puramente filosofica”, György Lukács, op. cit., p. XXV.
13. Herbert Marcuse, Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 170.
14. Ivi, p. 171.
15. Ibidem.
16. Ivi, p. 155.
17. Ivi, p. 88.
18. Ivi, p. 89. Dello stesso avviso fu Georges Friedmann, Le travail en miettes, Gallimard, Paris 1956, per il quale il superamento dell’alienazione è possibile solo in seguito alla liberazione dal lavoro.
19. Herbert Marcuse, Eros e civiltà, op. cit., p. 181.
20. Ivi, p. 180.
21. Ivi, p. 216.
22. Ivi, p. 180. Sulla stessa linea anche le seguenti affermazioni: la “razionalità libidica non soltanto [è] compatibile col progresso verso forme superiori di libertà civile, ma [è] anche atta a promuovere queste ultime”, Ivi, pp. 216-7. Sul rapporto tra tecnica e progresso si segnala anche il lavoro di Kostas Axelos, Marx pensatore della tecnica, Sugarco, Milano 1963. L’autore propese per questa tesi: “tutto ciò che aliena l’uomo era ed è dovuto sia al non sviluppo delle forze produttive (…), sia al sottosviluppo della tecnica”, pp. 352-3.
23. Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1971, p. 250.
24. Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Edizioni di comunità, Milano 1981, p. 121.
25. Cfr. Alexandre Kojeve, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1986.
26. Per un raffronto tra le differenti concezioni di alienazione in Hegel, Marx e nei filosofi esistenzialisti si rimanda a Pietro Chiodi, Il concetto di «alienazione» nell’esistenzialismo, in Rivista di filosofia, LIV, n. 40, pp. 419-445.
27. Annah Harendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2009, p. 187.
28. Adam Schaff, L’alienazione come fenomeno sociale, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 27 e 53.
29. In proposito cfr. Daniel Bell, La «riscoperta» dell’alienazione, in Alberto Izzo (a cura di), Alienazione e sociologia, Franco Angeli, Milano 1973, che affermò: “far risalire questo concetto a Marx come il suo tema centrale è solo un ulteriore creazione di un mito”, p. 89.
30. Henry Lefebvre, Critica della vita quotidiana (volume primo), Dedalo, Bari 1977, p. 62.
31. Cfr. Vittorio Rieser, Il concetto di alienazione in sociologia, in Quaderni di sociologia, vol. XIV (1965), Aprile-Giugno, p. 167, e Richard Schacht, Alienation, Doubleday, Garden City, NY 1970, il quale notò che “non c’era quasi alcuno aspetto della vita contemporanea che non sia stato discusso nei termini di «alienazione»” (p. lix). Anche Peter C. Ludz, Alienation as a Concept in the Social Sciences, in Felix Geyer – David Schweitzer (a cura di), Theories of Alienation, Martinus Nijhoff, Leiden 1976, osservò che “la popolarità del concetto serv[ì] ad incrementare l’esistente ambiguità terminological” (p. 3). Questo testo era apparso originariamente come introduzione ad un’amplia bibliografia annotata sull’alienazione sulla rivista Current Sociology, vol. 21, 1973, no. 1.
32. Cfr. David Schweitzer, Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in philosophy and the social sciences, in Giora Shoham, a cura di, Alienation and Anomie Revisited, Ramot, Tel Aviv 1982, per il quale “il vero significato di alienazione è spesso diluito fino al punto di un’assenza virtual di significato” (p. 57).
33. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 70-1.
34. Ivi, p. 57.
35. Ivi, p. 63.
36. Ivi, p. 67.
37. Ivi, p. 63.
38. Ivi, p. 70.
39. Jean Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 2010, p. 234.
40. Ivi, p. 239.
41. Ivi, p. 240.
42. Cfr. John P. Clark, ‘Measuring alienation within a social system’, in American Sociological Review, vol. 24, n. 6 (December 1959), pp. 849-852.
43. Cfr. David Schweitzer, ‘Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in philosophy and social sciences’, in Giora Shoham, op. cit., pp. 36-37.
44. Cfr. Richard Schacht, op. cit., p. 155.
45. Cfr. Seymour Melman, Decision-making and Productivity, Oxford: Basil Blackwell, 1958, pp. 18 e 165-6.
46. Gwynn Nettler, Una proposta per misurare l’alienazione, in Alberto Izzo (a cura di), Alienazione e sociologia, op. cit., p. 229.
47. Cfr. Melvin Seeman, ‘On the meaning of alienation’, in American Sociological Review, vol. 24, n.6 (December 1959), pp. 783-791. Nel 1972 Seeman rivide la sua classificazione ed, ai cinque punti del 1959, ne aggiunse un sesto: il “cultural estrangement”. Cfr. Melvin Seeman, ‘Alienation and engagement’, in Angus Campbell – Philip E. Converse (a cura di), The human meaning of social change, New York: Russell Sage, 1972, pp. 467-527.
48. Robert Blauner, Alienation and freedom, Chicago: The university of Chicago, 1964, p. 15.
49. Ivi, p. 3.
50. Cfr. Walter R. Heinz, ‘Changes in the methodology of alienation research’, in Felix Geyer – Walter R. Heinz (a cura di), Alienation, society and the individual, New Brunswick/London: Transaction, 1992, p. 217.
51. Cfr. Felix Geyer – David Schweitzer, ‘Introduction’, in Id. (a cura di), Theories of Alienation, op. cit., pp. XXI-XXII, e Felix Geyer, ‘A general systems approach to psychiatric and sociological de-alienation’, in Giora Shoham (a cura di), op. cit., p. 141.
52. Cfr. Felix Geyer – David Schweitzer, ‘Introduction’, in Id. (eds.), Theories of Alienation, op. cit., pp. XX-XXI.
53. Cfr. David Schweitzer, ‘Fetishization of alienation: unpacking a problem of science, knowledge, and reified practices in the workplace’, in Felix Geyer (ed.), Alienation, ethnicity, and postmodernism, Westport, Connecticut/London: Greenwood Press, 1996, p. 23.
54. Cfr. John Horton, La disumanizzazione dell’anomia e dell’alienazione: un problema di ideologia della sociologia, in Alberto Izzo (a cura di), Alienazione e sociologia, op. cit., pp. 318-20, e David Schweitzer, ‘The fetishization of alienation: unpacking a problem of science, knowledge, and reified practices in the workplace’, op. cit., p. 23.
55. Karl Marx, L’alienazione, op. cit., p. 45. In un altro passaggio dei Grundrisse dedicato all’alienazione si legge: “strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone”, Ibidem.
56. Ivi, p. 98.
57. Ivi, pp. 88-89.
58. Ivi, p. 89.
59. Ivi, pp. 98-99.
60. Ivi, p. 101.
61. Ivi, p. 105.
62. Ivi, pp. 107-8.
63. Cfr. Adam Schaff, op. cit., pp. 149-150.
64. Karl Marx, L’alienazione, p. 112.
65. Ivi, p. 125.
66. Per mancanza di spazio, mi propongo di sviluppare in un altro saggio alcune osservazioni critiche sul carattere incompiuto e parzialmente contraddittorio del processo di disalienazione in Marx.

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Giuseppe Cospito, Critica Marxista

L’Introduzione del 1857

Nei Quaderni del carcere Gramsci critica gli sviluppi dell’economia marxista, in particolare in Urss, osservando come quella dovrebbe essere una disciplina «critica», a differenza di quella accademica che riflette incessantemente sui propri metodi e strumenti di analisi, «si vale troppo spesso di espressioni stereotipate, e si esprime in un tono di superiorità a cui non corrisponde il valore dell’esposizione» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, p. 1803). Per ovviare a questo limite egli ritiene necessaria un’«introduzione metodico-filosofica ai trattati di economia», prendendo a modello le «prefazioni al primo volume di Economia critica» (vale a dire Il Capitale) e alla «Critica dell’Economia politica» (ivi, p. 1844), cioè la celeberrima Prefazione del 1859.

Due anni prima, nel 1857, Marx aveva abbozzato in pochi giorni un’introduzione alla stessa opera (i cosiddetti Grundrisse), destinata a rimanere incompiuta e inedita fino al 1903, quando verrà pubblicata da Karl Kautsky sul giornale socialdemocratico tedesco «Die Neue Zeit». Successivamente tradotto in italiano da Giorgio Backhaus, questo testo ci viene ora riproposto in un’edizione riccamente commentata (K. Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica, Commento storico critico di Marcello Musto, Macerata, Quodlibet, 2010, pp. 142, euro 12).

Come messo in evidenza dal curatore, l’Introduzione del 1857 rappresenta una tappa importante nello sviluppo del pensiero di Marx che, partito da studi prima giuridici e poi filosofici, si era avvicinato all’economia politica solo nel 1844, durante il breve soggiorno a Parigi, con le annotazioni su Smith e Ricardo nei Manoscritti economico-filosofici e grazie anche all’avvio del sodalizio con Engels. Approfondito con la Miseria della filosofia e con Lavoro salariato e capitale, l’interesse per l’economia conoscerà una forte ripresa, dopo il fallimento dei moti rivoluzionari quarantotteschi, per tutti gli anni Cinquanta dell’Ottocento, nel corso dei quali Marx si sforzerà di identificare i sintomi della crisi decisiva per il crollo del sistema capitalistico e il trionfo della rivoluzione proletaria. Ed è proprio in quella che gli pare la vigilia immediata di tale crollo che scrive le pagine in questione, «estremamente complesse e controverse» anche per la concitazione con la quale furono stese; eppure, «poiché contiene il più esteso e dettagliato pronunciamento sulle questioni epistemologiche mai compiuto da Marx, l’Introduzione costituisce un riferimento rilevante per la comprensione del suo pensiero e uno snodo obbligato per meglio interpretare l’intero corpo dei Grundrisse» (p. 74).

A differenza di quanto aveva fatto nei Manoscritti, dove il punto di partenza dell’analisi economica era costituito dal salario, dal profitto e dalla rendita (vale a dire le forme di reddito proprie rispettivamente di operai, industriali e proprietari terrieri), e di quanto farà nel Capitale, dove la critica dell’economia politica prende le mosse dal problema del valore, nell’Introduzione del 1857 Marx si sofferma innanzitutto sulla produzione, o meglio sul nesso inscindibile, di reciproca determinazione e influenza, tra produzione, consumo, distribuzione e scambio, che costituisce il processo della circolazione delle merci. Seguendo un procedimento che gli è peculiare fin dagli scritti giovanili, Marx alterna l’esposizione delle proprie tesi con la critica di quelle di predecessori e contemporanei, concentrandola in particolare sulle «robinsonate» di Smith e di Ricardo, ma anche di Proudhon e di Bastiat, che muovono tutti dalla «produzione dell’individuo isolato all’esterno della società» (p. 12), ignorandone il carattere sempre storicamente e socialmente determinato. L’altro obbiettivo polemico marxiano è costituito da chi, come Stuart Mill, tende a separare astrattamente il processo produttivo da quello distributivo, assimilando il primo ai fenomeni naturali, analizzabili con metodi matematico-fisici in quanto rispondenti esclusivamente a leggi eterne e immodificabili, mentre il secondo sarebbe relativamente esposto agli «arbitrii» degli uomini (p. 16).

Di più complessa decifrazione appaiono le pagine dedicate da Marx al metodo dell’economia politica: particolarmente prezioso risulta quindi a tal proposito l’ampio e puntuale commentario di Musto che, senza tacere le difficoltà, le ambiguità e le contraddizioni del testo, ne ricostruisce i fili conduttori, a partire dalla convinzione, ereditata da Hegel, secondo cui «il metodo di salire dall’astratto al concreto è il solo modo, per il pensiero, di appropriarsi il concreto» (p. 102), anche se naturalmente per Marx non è il pensiero a determinare la realtà, ma al contrario. L’altro aspetto metodologico fondamentale è costituito dal presupposto secondo cui il complesso spiega il semplice, il presente interpreta il passato, e non viceversa: opponendosi da un lato al cattivo empirismo degli economisti classici e dall’altro all’idealismo di Hegel e della sua scuola, Marx elabora strumenti in grado non solo di analizzare il modo di produzione capitalistico e, a partire da questo, quelli che l’hanno preceduto, ma anche di «scorgere nel presente le tendenze che lasciavano prefigurare lo sviluppo di un nuovo modo di produzione» (p. 113).

L’Introduzione si chiude con un elenco di argomenti che rimangono soltanto abbozzati, tra i quali merita di essere ricordata la questione del «rapporto ineguale dello sviluppo della produzione materiale con […] quella artistica» (p. 47); questa osservazione getta una luce diversa su quella, apparentemente più dogmatica, della Prefazione del 1859 secondo cui «il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo sociale, politico e spirituale della vita in generale» che, a giudizio di Musto (ma anche del Gramsci dei Quaderni citato all’inizio) «non va interpretata, dunque, in chiave deterministica» (p. 118).

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Commentario storico critico

I. L’incontro con l’economia politica
L’economia politica non fu la prima passione intellettuale di Karl Marx. L’incontro con questa materia, che ai tempi della sua giovinezza era appena agli albori in Germania, avvenne, infatti, solo dopo quello con diverse altre discipline. Nato a Treviri nel 1818, in una famiglia di origini ebraiche, dal 1835 Marx studiò, dapprima, diritto alle università di Bonn e Berlino, per volgere, poi, il suo interesse alla filosofia, in particolare a quella hegeliana al tempo dominante, e laurearsi all’università di Jena, nel 1841, con una tesi sulla [Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro] [1].

Completati gli studi, Marx avrebbe voluto intraprendere la carriera universitaria, ma, poiché dopo la salita al trono di Federico Guglielmo IV la filosofia hegeliana non godeva più del favore del governo prussiano, avendo aderito al movimento dei Giovani Hegeliani, dovette cambiare i propri progetti. Tra il 1842 e il 1843, si diede all’attività pubblicistica e collaborò con il quotidiano di Colonia la Rheinische Zeitung, del quale divenne rapidamente giovanissimo redattore capo. Tuttavia, poco tempo dopo l’inizio della sua direzione e la pubblicazione di alcuni suoi articoli, nei quali, seppure soltanto dal punto di vista giuridico e politico, aveva iniziato a occuparsi di questioni economiche, la censura colpì il giornale e Marx decise di interrompere questa esperienza “per ritirar[s]i dalla scena pubblica alla stanza da studio” [2] . Si dedicò, così, agli studi sullo Stato e le relazioni giuridiche, nei quali Hegel era un’autorità, e in un manoscritto del 1843, pubblicato postumo con il titolo [Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto], avendo maturato la convinzione che la società civile fosse la base reale dello Stato politico, sviluppò le primissime formulazioni circa la rilevanza del fattore economico nell’insieme dei rapporti sociali.

Marx diede inizio a uno “scrupoloso studio critico dell’economia politica” [3] solo dopo il trasferimento a Parigi, dove, nel 1844, fondò e co-diresse la rivista Deutsch-französische Jahrbücher. Da quel momento in poi, le sue indagini, fino ad allora di carattere prevalentemente filosofico, storico e politico, si indirizzarono verso questa nuova disciplina che divenne il fulcro delle sue future ricerche. A Parigi, Marx avviò una grande mole di letture e da esse ricavò nove quaderni di estratti e appunti. Fin dal periodo universitario, infatti, egli aveva assunto l’abitudine, mantenuta poi per tutta la vita, di compilare riassunti dalle opere che leggeva, intervallandoli, spesso, con le riflessioni che essi gli suggerivano. I cosiddetti [Quaderni di Parigi] sono particolarmente interessanti perché tra i libri maggiormente compendiati figuravano il Trattato di economia politica di Jean-Baptiste Say e La ricchezza delle nazioni di Adam Smith [4] , testi dai quali Marx assimilò le nozioni basilari di economia, così come i Principi di economia politica di David Ricardo e gli Elementi di economia politica di James Mill, che gli diedero, invece, la possibilità di sviluppare le prime valutazioni rispetto ai concetti di valore e prezzo e alla critica del denaro quale dominio della cosa estraniata sull’uomo.

Parallelamente a questi studi, Marx redasse altri tre quaderni, pubblicati postumi con il titolo di [Manoscritti economico-filosofici del 1844] [5] , nei quali dedicò particolare attenzione al concetto di lavoro alienato (entäusserten Arbeit). Differentemente dai principali economisti e da Georg W. F. Hegel, il fenomeno per il quale l’oggetto prodotto dall’operaio si contrappone a lui stesso “come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che la produce” [6] , venne considerato da Marx, non come una condizione naturale e, dunque, immutabile, ma quale caratteristica di una determinata struttura di rapporti produttivi e sociali: la moderna società borghese e il lavoro salariato.

La consapevolezza dell’insufficienza delle sue conoscenze impedì a Marx di completare e pubblicare i suoi manoscritti. Ad ogni modo, sorretto dalla convinzione di poter dare alla luce il suo scritto in breve tempo, il 1 febbraio del 1845, dopo che gli era stato intimato di lasciare la Francia a causa della sua collaborazione con il bisettimanale operaio di lingua tedesca Vorwärts!, egli firmò un contratto con l’editore di Darmstadt Karl Wilhelm Leske, per la pubblicazione di un’opera in due volumi da intitolarsi “Critica della politica e dell’economia politica” [7] .

Dal febbraio del 1845, Marx si trasferì a Bruxelles, città nella quale gli fu consentito di risiedere a patto di non pubblicare “nessuno scritto sulla politica del giorno” [8] , e dove rimase fino al marzo del 1848. Durante questi tre anni, e in particolar modo nel 1845, egli proseguì produttivamente gli studi di economia politica. Nel marzo di quell’anno, infatti, egli lavorò a una critica, senza riuscire però a completarla, dell’opera Il sistema nazionale dell’economia politica dell’economista tedesco Friedrich List [9] . Inoltre, dal febbraio al luglio, redasse sei quaderni di estratti, i cosiddetti [Quaderni di Bruxelles], riguardanti soprattutto lo studio dei concetti basilari dell’economia politica, nei quali riservò particolare attenzione agli Studi sull’economia politica di Sismonde de Sismondi, al Corso di economia politica di Henri Storch e al Corso di economia politica di Pellegrino Rossi. Contemporaneamente, Marx si dedicò anche alle questioni legate ai macchinari e alla grande industria e ricopiò diverse pagine dell’opera Sull’economia delle macchine e delle manifatture di Charles Babbage.

Nei mesi di luglio e agosto, Marx soggiornò a Manchester, al fine di prendere in esame la vasta letteratura economica inglese, la cui consultazione riteneva indispensabile per scrivere il libro che aveva in cantiere. Redasse così altri nove quaderni di estratti, i [Quaderni di Manchester], e, di nuovo, tra i testi maggiormente compendiati vi furono manuali di economia politica e libri di storia economica, tra i quali le Lezioni sugli elementi di economia politica di Thomas Cooper, Una storia dei prezzi di Thomas Tooke, la Letteratura di economia politica di John Ramsay McCulloch e i Saggi su alcuni problemi insoluti di economia politica di John Stuart Mill [10] . Marx s’interessò molto anche alle questioni sociali e raccolse estratti da alcuni dei principali volumi della letteratura socialista anglosassone, in particolare da I mali del lavoro e il rimedio del lavoro di John Francis Bray e dal Saggio sulla formazione del carattere umano e Il libro del nuovo mondo morale di Robert Owen. Dello stesso argomento trattava, inoltre, La sitazione della classe operaia in Inghilterra, la prima opera di Engels, apparsa proprio nel giugno del 1845.

Nella capitale belga, oltre a proseguire gli studi economici, Marx lavorò anche a un altro progetto, che ritenne necessario realizzare a causa delle circostanze politiche che erano nel frattempo maturate. Nel novembre del 1845, infatti, pensò di scrivere con Engels, Joseph Weydemeyer e Moses Heß, una “critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti” [11]. Il testo, che fu dato alle stampe postumo col titolo di [L’ideologia tedesca], si prefiggeva, da una parte, di combattere le ultime forme di neohegelismo comparse in Germania (il libro L’unico e la sua proprietà di Max Stirner era stato dato alle stampe nell’ottobre del 1844) e, da un’altra, come Marx scrisse all’editore Leske, di “preparare il pubblico al punto di vista della [sua] Economia (Oekonomie), la quale si contrappone[va] risolutamente a tutta la scienza tedesca sviluppatasi fino a ora” [12] . Questo scritto, la cui lavorazione si protrasse fino al giugno del 1846, non fu però mai portato a termine, anche se servì a Marx per elaborare, con maggiore chiarezza rispetto al passato, seppure non in modo definitivo, quella che Engels definì, 40 anni dopo, “la concezione materialistica della storia” [13] .

Per avere notizie sul progresso della “Economia” durante l’anno 1846, occorre esaminare le lettere indirizzate a Leske. Nell’agosto di quell’anno, Marx aveva dichiarato all’editore che “il manoscritto quasi concluso del primo volume”, ovvero quello che, secondo i suoi nuovi piani, avrebbe dovuto contenere la parte più teorica e politica, era già disponibile “da tanto tempo”, ma che egli non l’avrebbe fatto “stampare senza sottoporlo ancora una volta a una revisione di contenuto e di stile. Si capisce che un autore, il quale continua a lavorare per sei mesi, non può lasciare stampare letteralmente ciò che ha scritto sei mesi prima”. Ciò nonostante, egli s’impegnò a concludere presto il libro: “la revisione del primo volume sarà pronta per la stampa alla fine di novembre. Il secondo volume, che ha un carattere più storico, potrà seguire immediatamente” [14] . Le notizie fornite non rispondevano, però, al reale stato del suo lavoro, poiché nessuno dei suoi manoscritti del tempo poteva essere definito come “quasi concluso” e, infatti, quando l’editore non se ne vide consegnare nessuno neanche al principio del 1847, decise di rescindere il contratto.

Questi continui ritardi non vanno attribuiti a uno scarso impegno da parte di Marx. Le prove del grande lavoro che egli condusse sono documentate, infatti, dagli appunti di studio e dagli scritti allora pubblicati. Dall’autunno del 1846 al settembre del 1847, egli riempì tre voluminosi quaderni di estratti, inerenti in gran parte la storia economica, dal testo Rappresentazione storica del commercio, dell’attività commerciale e dell’agricoltura dei più importanti Stati commerciali dei nostri tempi di Gustav von Gülich, uno dei principali economisti tedeschi del tempo. Inoltre, nel dicembre del 1846, dopo aver letto il libro Sistema delle contraddizioni economiche, o filosofia della miseria di Pierre-Joseph Proudhon e averlo trovato “cattivo, anzi pessimo” [15] , Marx decise di scriverne una critica. Redatta direttamente in francese, affinché il suo antagonista, che non parlava tedesco, potesse intenderla, l’opera fu terminata nell’aprile del 1847 e stampata in luglio con il titolo Miseria della filosofia. Risposta a Pierre-Joseph Proudhon. Si trattò del primo scritto di economia politica pubblicato da Marx e nelle sue pagine vi furono esposte le sue convinzioni del momento circa la teoria del valore, l’approccio metodologico più corretto da utilizzare per intendere la realtà sociale e la transitorietà storica dei modi di produzione.

Il motivo del mancato completamento dell’opera progettata – la critica dell’economia politica – non è attribuibile, dunque, alla mancanza di concentrazione da parte di Marx, bensì alla difficoltà del compito che egli si era assegnato. L’argomento che si era prefisso di sottoporre ad esame critico era molto vasto e affrontarlo con la serietà e la coscienza critica di cui egli era dotato avrebbe significato lavorare duramente ancora per molti anni. Anche se non ne era consapevole, infatti, alla fine degli anni Quaranta Marx era appena all’inizio delle sue fatiche.

II. Il 1848 e l’attesa della crisi
Nella seconda metà del 1847 il fermento sociale s’intensificò e l’impegno politico di Marx divenne, conseguentemente, più gravoso. In giugno venne fondata a Londra la «Lega dei comunisti» e, alla fine di quell’anno, Marx ed Engels furono incaricati di redigerne un programma politico. Fu così che, poco dopo, nel febbraio del 1848, fu dato alle stampe il Manifesto del Partito Comunista. Il suo incipit, “uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo”, era destinato a diventare celebre quanto una delle sue tesi di fondo: “la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi” [16] .

La pubblicazione del Manifesto Comunista non avrebbe potuto essere più tempestiva. Immediatamente dopo la sua comparsa, infatti, uno straordinario movimento rivoluzionario, il più grande mai manifestatosi fino ad allora per diffusione e intensità, sorse in tutto il continente europeo, mettendo in crisi il suo ordine politico e sociale. Date le circostanze, Marx mise da parte gli studi di economia politica e si diede all’attività giornalistica per sostenere la rivoluzione e contribuire a tracciare la giusta linea politica da adottare. In aprile egli si spostò in Renania, la regione economicamente più sviluppata e politicamente più liberale della Germania e, dal mese di giugno, diresse il quotidiano Neue Rheinische Zeitung. Organ der Demokratie, che, nel frattempo, era riuscito a fondare a Colonia. Anche se la maggior parte dei suoi articoli si concentrarono sulla cronaca degli avvenimenti politici, nell’aprile del 1849 egli pubblicò una serie di editoriali aventi per tema la critica dell’economia politica, poiché riteneva fosse giunto il “tempo di penetrare più a fondo i rapporti economici sui quali si fondano tanto l’esistenza della borghesia e il suo dominio di classe, quanto la schiavitù degli operai” [17] . Basati su alcuni appunti redatti per delle conferenze tenute, nel dicembre 1847, alla «Associazione operaia tedesca» di Bruxelles, apparvero, così, cinque articoli dal titolo Lavoro salariato e capitale, in cui Marx espose al pubblico, più estesamente che in passato e in un linguaggio il più possibile comprensibile agli operai, le sue concezioni circa lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale.

Tuttavia, il movimento rivoluzionario sorto in Europa nel 1848 venne sconfitto in fretta e, in seguito all’intensa attività politica esercitata, nel maggio 1849, Marx ricevette un ordine di espulsione dalla Prussia e riparò, ancora una volta, in Francia. Quando, però, la rivoluzione fu sconfitta anche a Parigi, le autorità francesi disposero per Marx l’obbligo di lasciare la capitale ed egli decise di lasciare la Francia per Londra, dove riteneva di avere “concrete prospettive di fondare un giornale tedesco” [18] . Marx sarebbe rimasto in Inghilterra, esule e apolide, per tutto il resto della sua esistenza, ma la reazione europea non avrebbe potuto confinarlo in un posto migliore per scrivere la sua critica dell’economia politica. Al tempo, infatti, Londra era il centro economico e finanziario più importante del mondo, “il demiurgo del cosmo borghese” [19] , e, quindi, il luogo più favorevole dove poter osservare gli sviluppi più recenti del capitalismo e riprendere, proficuamente, gli studi.

Marx riuscì a realizzare il suo intento di mettere in piedi una nuova impresa editoriale e, dal marzo 1850, diresse la Neue Rheinische Zeitung. Politisch-ökonomische Revue, mensile che nei suoi progetti avrebbe dovuto essere il luogo dove “analizzare diffusamente e scientificamente i rapporti economici che sono alla base di tutta l’attività politica” [20] . Poco dopo, in una serie di articoli comparsi su questa rivista, Le lotte di classe in Francia, egli affermò che “una vera rivoluzione (…) è possibile soltanto in periodi in cui (…) le forze produttive moderne e le forme borghesi di produzione, entrano in conflitto tra loro. (…) Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una, però, è altrettanto sicura quanto l’altra” [21] .

Durante l’estate del 1850, egli approfondì l’analisi economica degli anni antecedenti al 1848 e, nel numero della Neue Rheinische Zeitung. Politisch-ökonomische Revue di maggio-ottobre, giunse alla conclusione che “la spinta data dalle crisi commerciali alle rivoluzioni del 1848 [era] stata infinitamente maggiore di quella data dalla rivoluzione alla crisi commerciale”. La crisi economica acquisì definitivamente nel suo pensiero un’importanza fondamentale, non solo economicamente, ma anche sociologicamente e politicamente. Inoltre, analizzando i processi di sovra-speculazione e sovrapproduzione, azzardò una nuova previsione e dichiarò che “se il nuovo ciclo di sviluppo industriale, iniziato nel 1848, seguirà il corso di quello del 1843-47, la crisi scoppierà nel 1852” [22].

Le ipotesi coltivate da Marx per oltre un anno si mostrarono sbagliate. Diversamente da coloro che prevedevano lo scoppio imminente di una nuova rivoluzione, a partire dall’autunno del 1850, Marx si convinse che essa non sarebbe potuta maturare senza una nuova crisi economica mondiale. Da quel momento in poi, dunque, la sfida si spostò sulla previsione dello scoppio della crisi e per Marx ritornò il tempo, stavolta con un movente politico ancora maggiore, di dedicarsi di nuovo esclusivamente agli studi di economia politica.

III. Gli appunti di studio del 1850-1853
Nel corso dei tre anni nei quali aveva dovuto sospendere gli studi di economia politica, nel mondo si erano succeduti nuovi significativi eventi economici – dalla crisi del 1847 alla scoperta dell’oro in California e Australia – che, per la loro rilevanza, fecero ritenere indispensabile a Marx intraprendere nuove ricerche, anziché ritornare sui vecchi appunti e tentare di dare loro forma compiuta. Le ulteriori letture svolte furono sintetizzate in 26 quaderni di estratti, 24 dei quali, redatti tra il settembre del 1850 e l’agosto del 1853 e contenenti anche compendi di testi afferenti altre discipline, vennero da lui numerati nei cosiddetti [Quaderni di Londra]. Questi studi risultano di grande interesse, poiché documentano un periodo di notevole sviluppo dell’elaborazione di Marx, durante il quale egli non solo riepilogò le vecchie conoscenze, ma, attraverso lo studio approfondito di decine di nuovi volumi svolto presso la biblioteca del «British Museum» di Londra, acquisì altre significative nozioni per l’opera che intendeva scrivere.

I [Quaderni di Londra] possono essere suddivisi in tre gruppi. Nei primi sette quaderni (I-VII), redatti tra il settembre del 1850 e il marzo del 1851, tra le numerose opere consultate delle quali Marx eseguì compendi figurano Una storia dei prezzi di Thomas Tooke, Una visione del sistema monetario di James Taylor, la Storia della moneta di Germani Gernier, le Opere complete sulle banche di Georg Büsch, Un’inchiesta sulla natura e gli effetti del credito cartaceo di Henry Thornton e la Ricchezza delle nazioni di Smith [23] . In particolare, Marx si concentrò sulla storia e le teorie delle crisi economiche e dedicò grande attenzione al rapporto tra la forma di denaro, il credito e le crisi, al fine di comprendere le cause originarie di queste ultime.

Al termine di questo primo gruppo di estratti, Marx riassunse le proprie conoscenze in due quaderni, cui non assegnò la numerazione della serie principale, che intitolò [Oro monetario. Il sistema monetario perfetto]. In questo manoscritto, redatto nella primavera del 1851, Marx ricopiò, e talvolta accompagnò con un proprio commento, quelli che, a suo avviso, erano i brani più significativi sulla teoria del denaro delle maggiori opere di economia politica. Diviso in 91 sezioni, una per ogni libro preso in esame, [Oro monetario. Il sistema monetario perfetto] non fu, però, una mera raccolta di citazioni, ma può essere considerato come la prima elaborazione autonoma della teoria del denaro e della circolazione, da utilizzare per la stesura del libro che egli progettava di scrivere ormai già da molti anni.

Indubbiamente, Marx condusse le sue ricerche con grande intensità, ma in quegli anni non riusciva a dominare ancora in tutta la sua ampiezza la materia economica e la sua scrupolosità gli impedì, a dispetto della volontà e della convinzione di potervi riuscire, di andare oltre la stesura dei compendi e dei commenti critici dei testi che leggeva e di redigere, finalmente, il suo libro.

Così, Marx tornò a studiare ancora una volta i classici dell’economia politica e, dall’aprile al novembre del 1851, redasse quello che può essere considerato come il secondo gruppo (quaderni VIII – XVI) dei [Quaderni di Londra]. Il quaderno VIII fu quasi interamente realizzato con estratti da Un’inchiesta sui principi di economia politica di Stuart, che egli aveva cominciato a studiare nel 1847, e dai Principi di economia politica di Ricardo. Proprio questi ultimi, redatti durante la composizione di [Oro monetario. Il sistema monetario perfetto], costituiscono la parte più importante dei [Quaderni di Londra], poiché sono accompagnati da numerosi commenti critici e riflessioni personali di Marx. Fino alla fine degli anni Quaranta, infatti, egli aveva essenzialmente accettato le concezioni di Ricardo, mentre, da questo momento, attraverso un nuovo e approfondito studio delle sue teorie della rendita fondiaria e del valore, ne maturò un parziale superamento. In questo modo, Marx riconsiderò alcune delle sue precedenti convinzioni relative a queste fondamentali tematiche e fu spinto ad ampliare ulteriormente il raggio delle sue conoscenze e ad interrogare ancora altri autori. Nei quaderni IX e X, redatti tra il maggio e il luglio del 1851, si concentrò sugli economisti che si erano occupati delle contraddizioni della teoria di Ricardo e che, su alcuni punti, erano andati oltre le sue concezioni. Così facendo, tra i tanti libri compendiati, realizzò un gran numero di estratti da Una storia dello stato passato e presente della popolazione lavoratrice di John Debell Tuckett, dalla Economia politica popolare di Thomas Hodgskin, da Sull’economia politica di Thomas Chalmers, da Un saggio sulla distribuzione della ricchezza di Richard Jones e dai Principi di economia politica di Henry Charles Carey.

In questo periodo, a causa della difficile situazione economica personale, Marx decise di ritornare all’attività giornalistica e si mise alla ricerca di un quotidiano per il quale scrivere. Dall’agosto del 1851, divenne corrispondente europeo del New-York Tribune, il giornale più diffuso degli Stati Uniti d’America, e durante questa collaborazione, protrattasi fino al febbraio del 1862, scrisse centinaia di articoli. In essi, Marx si occupò dei principali eventi politici e diplomatici del tempo, così come di tutte le questioni economiche e finanziarie che si susseguirono, diventando, nel giro di pochi anni, uno stimato giornalista internazionale.

Nonostante la ripresa dell’attività giornalistica, gli studi di economia proseguirono anche durante l’estate del 1851. In agosto Marx lesse il libro di Proudhon L’idea generale di rivoluzione nel XIX secolo e accarezzò il progetto, messo successivamente da parte, di scriverne una critica assieme a Engels [24] . Inoltre, egli continuò a realizzare estratti e si dedicò, nel quaderno XI, ad alcuni testi incentrati sulla condizione della classe operaia, per proseguire poi, nei quaderni XII e XIII, con delle ricerche di chimica agraria. Nel quaderno XIV, Marx rivolse il suo interesse anche al dibattito sulla teoria della popolazione di Thomas Robert Malthus, in particolare attraverso la lettura del libro I principi della popolazione del suo oppositore Archibald Alison; allo studio dei modi di produzione precapitalistici, come risulta dagli estratti dai testi Economia dei romani di Adolphe J. C. A. D. de la Malle e dai testi Storia della conquista del Messico e Storia della conquista del Perù di William H. Prescott; e al colonialismo, soprattutto attraverso il volume Lezioni sulla colonizzazione e sulle colonie di Herman Merivale. Infine, tra i mesi di settembre e novembre, estese il campo delle sue ricerche anche alla tecnologia, dedicando grande spazio, nel quaderno XV, al libro Storia della tecnologia di Johann H. M. Poppe e, nel quaderno XVI, a diverse altre questioni di economia politica.

Nel frattempo, Marx si dedicò ad altri lavori. Dal dicembre 1851 al marzo 1852, scrisse il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte che, però, a causa della censura vigente in Prussia nei confronti dei suoi scritti, dovette uscire a New York, sulla rivista Die Revolution diretta dal suo amico Weydemeyer, ed ebbe una scarsissima diffusione. Dall’aprile del 1852 all’agosto del 1853, Marx riprese la compilazione degli estratti e redasse il terzo e ultimo gruppo (quaderni XVII – XXIV) dei [Quaderni di Londra]. In essi, si occupò soprattutto delle diverse fasi di sviluppo della società, dedicando gran parte dei suoi studi ad argomenti storici, legati principalmente al medioevo europeo, alla storia della letteratura, della cultura e dei costumi. Inoltre, egli prestò un interesse particolare all’India, poiché, nello stesso periodo, scrisse diversi articoli su tale argomento per la New-York Tribune.

IV. Gli articoli sulla crisi per il New-York Tribune
Nell’ottobre del 1852, il governo prussiano avviò un processo nei confronti di alcuni membri della «Lega dei comunisti» messi agli arresti l’anno precedente. Gli imputati furono accusati di fare parte di un’organizzazione internazionale di cospiratori contro la monarchia prussiana guidata da Marx. Per dimostrare l’infondatezza delle accuse, dall’ottobre al dicembre del 1852, egli si mise a “lavorare per il partito contro le macchinazioni del governo” [25] e scrisse le Rivelazioni sul processo contro i comunisti a Colonia.

Intanto, la crisi economica continuò a essere uno dei temi costanti degli interventi di Marx sul New-York Tribune. Nell’articolo Rivoluzione in Cina e in Europa, del giugno 1853, mettendo in relazione la ribellione antifeudale cinese, cominciata nel 1851, con la situazione economica generale, Marx espresse la sua convinzione che presto sarebbe arrivato “il momento in cui l’espansione dei mercati non [avrebbe] pot[uto] tenere il passo con l’espansione delle manifatture inglesi e questa sfasatura [avrebbe] provoca[to] inevitabilmente una nuova crisi”. A suo giudizio, infatti, in seguito alla ribellione antifeudale, nel grande mercato cinese si sarebbe verificata un’improvvisa contrazione che avrebbe fatto “scoccare la scintilla nella polveriera satura dell’attuale sistema industriale, provocando l’esplosione della crisi generale lungamente preparata, che si propagherà all’estero e sarà seguita a breve distanza da rivoluzioni politiche sul continente” [26] . Marx non guardava certo al processo rivoluzionario in modo deterministico, ma era oramai certo che la crisi fosse una condizione imprescindibile per il suo compimento.

Le acque, però, si calmarono e, tra l’ottobre e il dicembre del 1853, Marx scrisse una serie di articoli intitolati Lord Palmerston, nei quali criticò la politica estera di Henry John Temple, per lungo tempo ministro degli esteri e futuro primo ministro inglese, che apparvero negli Stati Uniti e in Inghilterra ed ebbero una grande diffusione e risonanza. Tra la fine del 1854 e l’inizio del 1855, Marx riprese nuovamente gli studi di economia politica. Tuttavia, avendo sospeso le ricerche per tre anni, prima di proseguire il lavoro, decise di rileggere i suoi vecchi manoscritti. A questa rilettura seguirono 20 pagine di nuove annotazioni, cui diede il titolo di [Citazioni. Essenza del denaro, essenza del credito, crisi]. Esse furono estratti dagli estratti già realizzati nel corso degli anni passati, nei quali, ritornando su testi già studiati, riepilogò ulteriormente le teorie dei principali economisti politici su denaro, credito e crisi, che aveva cominciato a leggere a partire dal 1850 [27] .

In questo stesso periodo, Marx ritornò a occuparsi anche della recessione economica per il New-York Tribune e, nel marzo del 1855, nell’articolo La crisi in Inghilterra, scrisse:

“tra qualche mese la crisi sarà a un punto che non raggiungeva in Inghilterra dal 1846, forse dal 1842. Quando i suoi effetti cominceranno a farsi sentire appieno tra le classi lavoratrici, si risveglierà quel movimento politico che per sei anni ha sonnecchiato. (…) Allora i due veri partiti antagonisti del paese si ritroveranno faccia a faccia: la classe media e le classi lavoratrici, la borghesia e il proletariato” [28] .

A causa della drammatica situazione economica nella quale si trovava la sua famiglia e delle cattive condizioni di salute personali, Marx dovette interrompere ancora una volta il lavoro e poté tornare ad occuparsi di economia politica soltanto nel giugno del 1856, con alcuni articoli, apparsi su The People’s Paper, dedicati al «Crédit Mobilier», la prima banca d’affari francese, da lui considerata come “uno dei fenomeni economici più singolari della [sua] epoca” [29] . Dall’autunno del 1856, Marx scrisse di nuovo sulla crisi per il New-York Tribune e, nell’articolo La crisi europea, apparso in novembre, affermò:

“le indicazioni che giungono dall’Europa (…) sembrano posticipare a un giorno futuro il collasso finale della speculazione e delle intermediazioni di borsa (…). Tuttavia, (…) il carattere cronico assunto dall’attuale crisi finanziaria presagisce per essa solo una fine più distruttiva e violenta. Più la crisi si protrae, peggiore sarà la resa dei conti finale” [30] .

Nella prima metà del 1857, però, sui mercati internazionali regnò la calma assoluta e, fino al mese di marzo, Marx si dedicò alla stesura delle Rivelazioni della storia diplomatica segreta del XVIII secolo, un gruppo di articoli pubblicati sul giornale The Free Press. Infine, in luglio, Marx redasse delle brevi ma interessanti considerazioni critiche sull’opera Armonie economiche di Frédéric Bastiat e suiPrincipi di economia politica di Carey, che aveva già studiato e compendiato nel 1851. In queste annotazioni, pubblicate postume con il titolo di [Bastiat e Carey], egli dimostrò l’ingenuità dei due economisti, liberoscambista il primo e protezionista il secondo, che, nei loro scritti, si erano affannati a voler dimostrare “l’armonia dei rapporti di produzione” [31] e, quindi, dell’intera società borghese.

V. La crisi finanziaria del 1857 e l’[Introduzione]
Diversamente dalle crisi verificatesi nel passato, questa volta la tempesta economica non ebbe inizio in Europa, ma negli Stati Uniti d’America. Durante i primi mesi del 1857, le banche di New York aumentarono il volume dei prestiti, nonostante la diminuzione dei depositi. L’incremento delle attività speculative, seguito a questa scelta, peggiorò ulteriormente le condizioni economiche generali e, dopo la chiusura per bancarotta della filiale di New York della banca «Ohio Life Insurance and Trust Company», il panico prese il sopravvento causando numerosi fallimenti. La caduta di fiducia nel sistema bancario produsse, così, la riduzione del credito, l’estinzione dei depositi e, da ultimo, la sospensione dei pagamenti in moneta.

Intuendo la straordinarietà di questi avvenimenti, Marx si rimise subito al lavoro e il 23 agosto del 1857, esattamente il giorno prima del crack della «Ohio Life», ovvero dell’evento che generò il panico nell’opinione pubblica, cominciò a scrivere l’[Introduzione] per la sua “Economia”. Proprio l’esplosione della crisi, infatti, gli fornì quella motivazione maggiore per realizzare il suo lavoro, che gli era mancata negli anni precedenti. Dopo la sconfitta del 1848, per un intero decennio Marx aveva dovuto affrontare insuccessi politici e un forte isolamento personale. Viceversa, con la crisi, egli presagì la possibilità di prendere parte a una nuova stagione di rivolgimenti sociali e ritenne, dunque, che la cosa più urgente da fare fosse quella di dedicarsi all’analisi dei fenomeni economici, cioè di quei rapporti che avevano così tanta importanza ai fini dell’inizio di una rivoluzione. Ciò significava scrivere e pubblicare, il più in fretta possibile, l’opera programmata da così tanto tempo.

Da New York, la crisi si diffuse rapidamente nel resto degli Stati Uniti e, in poche settimane, raggiunse anche tutti i centri del mercato mondiale in Europa, Sudamerica e Oriente, divenendo la prima crisi finanziaria internazionale della storia. Queste notizie generarono grande euforia in Marx e alimentarono in lui una straordinaria produttività intellettuale. Il periodo compreso tra l’estate del 1857 e la primavera del 1858 fu uno dei più prolifici della sua esistenza, poiché in pochi mesi riuscì a scrivere più di quanto non avesse fatto negli anni precedenti. Nel dicembre del 1857, comunicò infatti a Engels: “lavoro come un pazzo le notti intere al riepilogo dei miei studi economici, per metterne in chiaro almeno le grandi linee (Grundrisse) prima del diluvio” [32].

Da dove cominciare? In che modo intraprendere il progetto, così impegnativo e ambizioso, più volte avviato e interrotto durante la sua esistenza, di critica dell’economia politica? Fu questa la prima questione che Marx si pose alla ripresa del lavoro. Due circostanze furono determinanti per orientare la sua scelta. Anzitutto, egli riteneva che la scienza economica, nonostante la validità di alcune teorie, fosse ancora priva di un procedimento conoscitivo che le permettesse di intendere e illustrare correttamente la realtà [33] . Inoltre, egli avvertiva l’esigenza di stabilire gli argomenti e l’ordine di esposizione della sua opera, prima di iniziarne la stesura. Queste ragioni lo indussero ad affrontare, in modo approfondito, il metodo che avrebbe dovuto adottare per la sua ricerca e a formularne i principi guida. Il risultato di queste riflessioni fu uno dei manoscritti più dibattuti della sua opera: la cosiddetta [Introduzione] del 1857.

L’intento di Marx non fu certo quello di redigere un sofisticato trattato metodologico. Al contrario, egli volle mettere in chiaro, a se stesso prima che ai suoi lettori, come orientarsi prima di procedere lungo l’accidentato percorso critico che aveva davanti a sé. Inoltre, tale delucidazione gli era necessaria per rielaborare la grande mole di studi di economia accumulata sin dalla metà degli anni Quaranta. Così, accanto alle osservazioni incentrate sull’utilizzo e l’articolazione delle categorie teoriche, trovarono posto, in queste pagine, alcune formulazioni essenziali del suo pensiero che egli ritenne indispensabile riepilogare – in particolare quelle legate alla concezione della storia –, nonché un’elencazione, del tutto priva di sistematicità, di questioni la cui soluzione permaneva problematica.

Questa miscela di esigenze e proponimenti, il breve tempo nel quale furono redatte – appena una settimana – e, soprattutto, la loro provvisorietà, resero queste note estremamente complesse e controverse. Ciò nonostante, poiché contiene il più esteso e dettagliato pronunciamento sulle questioni epistemologiche mai compiuto da Marx, l’[Introduzione] costituisce un riferimento rilevante per la comprensione del suo pensiero [34] e un snodo obbligato per meglio interpretare l’intero corpo dei [Grundrisse].

VI. Storia e individuo sociale
Fedele al suo stile, Marx alternò l’esposizione delle proprie idee con la critica alle concezioni dei suoi avversari teorici anche nella [Introduzione], testo che suddivise in quattro differenti paragrafi:

“I) La produzione in generale.

II) Il rapporto generale tra produzione, distribuzione, scambio e consumo.

III) Il metodo dell’economia politica.

IV) Mezzi (forze) di produzione e rapporti di produzione, rapporti di produzione e rapporti di circolazione, ecc.” (p. 10) [35].

L’incipit del primo paragrafo è una dichiarazione d’intenti, volta, sin dal principio, a specificare il campo dell’indagine e a connotarne i criteri storici: “l’oggetto in questione è anzitutto la produzione materiale. Il punto di partenza è costituito naturalmente dagli individui che producono in società – e perciò dalla produzione socialmente determinata degli individui”. Bersaglio polemico di Marx furono le “robinsonate del XVIII secolo” (p. 11), il mito di Robinson Crusoe quale paradigma dell’Homo oeconomicus, ovvero l’estensione dei fenomeni tipici dell’era borghese a ogni altra società esistita, comprese quelle primitive. Queste rappresentazioni raffiguravano il carattere sociale della produzione come costante di ogni processo lavorativo e non quale particolarità dei rapporti capitalistici. Allo stesso modo, la società civile (bürgerlichen Gesellschaft), con la cui comparsa si erano create le condizioni affinché “il singolo si svincola dai legami naturali ecc., che fanno di lui, nelle precedenti epoche storiche, un accessorio di un determinato e circoscritto conglomerato umano” (pp. 11-12), pareva essere sempre esistita, anziché, come effettivamente avvenuto, essersi sviluppata nel corso del Settecento.

In realtà, prima di questa epoca, l’individuo isolato, caratteristico dell’epoca capitalistica, semplicemente non esisteva. Come affermato in un altro brano dei [Grundrisse]: “originariamente, egli si presenta come un essere che appartiene alla specie umana (Gattungswesen), un essere tribale, un animale da branco” [36] . Tale dimensione collettiva è condizione per l’appropriazione della terra, la quale rappresenta “il grande laboratorio, l’arsenale che dà i mezzi e il materiale di lavoro, e la sede che costituisce la base della comunità (Basis des Gemeinwesens)” [37] . In presenza di questi rapporti originari, l’attività dell’uomo è legata direttamente alla terra; si realizza “l’unità naturale del lavoro con i suoi presupposti materiali” [38] , e il singolo vive in simbiosi diretta con i suoi simili. Anche in tutte le successive forme economiche, aventi per scopo la creazione di valore d’uso e non ancora di scambio e il cui l’ordinamento è basato sull’agricoltura, il rapporto dell’essere umano “con le condizioni oggettive del lavoro è mediato dalla sua esistenza come membro della comunità” [39] . La singola persona è, in definitiva, soltanto un anello della catena. A tal proposito, Marx formulò nell’[Introduzione] questa convinzione:

“quanto più risaliamo indietro nella storia, tanto più l’individuo, perciò anche l’individuo che produce, appare privo di autonomia (unselbstständig), parte di un insieme più grande: dapprima ancora in modo del tutto naturale nella famiglia e nella tribù come famiglia allargata; più tardi nelle varie forme della comunità, sorta dal contrasto e dalla fusione delle tribù” (p. 12) [40].

Analoghe considerazioni ricorrono nel primo libro de Il capitale. Infatti, a proposito del “tenebroso medioevo europeo”, Marx sostenne che invece “dell’uomo indipendente, troviamo che tutti sono dipendenti: servi della gleba e padroni, vassalli e signori feudali, laici e preti. La dipendenza personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione materiale, quanto le sfere di vita su di essa edificate” [41] . Anche quando prese in esame la genesi dello scambio dei prodotti, egli ricordò che esso era cominciato dal contatto tra differenti famiglie, tribù o comunità, “poiché agli inizi dell’incivilimento si affrontano autonomamente non le persone private, ma le famiglie, le tribù, ecc” [42] . In definitiva, che l’orizzonte fosse il legame selvaggio di consanguineità o il vincolo medievale di signoria e servitù, entro “limitati rapporti di produzione” [43] (bornirter Productionsverhältnisse), gli individui vissero in una condizione di correlazione reciproca [44].

Gli economisti classici, al contrario, sulla base di quelle che Marx considerava fantasie di ispirazione giusnaturalistica, avevano invertito questa realtà. In particolare, Smith aveva descritto una condizione primitiva entro la quale non solo l’individuo isolato esisteva già, ma esso era anche capace di produrre al di fuori della società. Stando alla sua raffigurazione, nelle tribù di cacciatori e pastori esisteva una divisione del lavoro in grado di realizzare la specializzazione dei mestieri. La maggiore destrezza di una persona, rispetto alle altre, nel costruire archi e frecce, oppure capanne, faceva di lei una specie di armaiolo o carpentiere di case. La certezza di poter scambiare la parte del prodotto del proprio lavoro che non veniva consumata, con quella che eccedeva la produzione degli altri, “incoraggia[va] ciascuno a dedicarsi a un’occupazione particolare” [45] . Di un simile anacronismo si era reso autore anche Ricardo. Egli, infatti, aveva concepito il rapporto tra i cacciatori e i pescatori degli stadi primitivi della società come uno scambio tra possessori di merci, che avveniva sulla base del tempo di lavoro in esse oggettivato [46].

Così facendo, Smith e Ricardo avevano rappresentato il prodotto più sviluppato della società nella quale vissero – l’individuo borghese isolato – quale manifestazione spontanea della natura. Dalle pagine delle loro opere emergeva un individuo mitologico senza tempo, “posto dalla natura stessa” (p. 12), le cui relazioni sociali erano sempre le stesse, immutate, e i cui comportamenti economici assumevano carattere antropologico. D’altronde, secondo Marx, gli interpreti di ogni nuova epoca storica si erano regolarmente illusi dell’idea che le caratteristiche più peculiari del loro tempo fossero state sempre presenti.

Viceversa, Marx affermò che “la produzione dell’individuo isolato all’esterno della società (…) è un’assurdità pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino insieme” (pp. 12-13) [47] . Inoltre, contro coloro che raffigurarono l’individuo isolato del XVIII secolo come l’archetipo della natura umana, “non come un risultato storico, bensì come il punto di avvio della storia”, egli sostenne che esso compariva, invece, solo con i rapporti sociali più sviluppati. Marx non negò affatto che l’uomo fosse uno ζώον πολιτικόν (zoon politikon), un animale sociale, ma sottolineò che era “un animale che può isolarsi solo nella società”. Dunque, poiché la società civile era sorta soltanto con il mondo moderno, il libero lavoratore salariato dell’epoca capitalistica era comparso solo in seguito a un lungo processo storico. Esso, infatti, “da un lato è il prodotto della dissoluzione delle forme sociali feudali, dall’altro, delle forze produttive nuove sviluppatesi a partire dal XVI secolo” (p. 12). Del resto, Marx aveva sentito la necessità di ribadire una realtà che riteneva fin troppo evidente, solo perché essa era stata rimessa in discussione nelle opere di Henry Carey, Bastiat e Proudhon, apparse durante i vent’anni precedenti.

Dopo aver abbozzato la genesi dell’individuo capitalistico e aver dimostrato che la produzione moderna corrisponde solo a un “determinato livello dello sviluppo sociale – [alla] produzione di individui sociali”, Marx avvertì una seconda esigenza teorica: svelare la mistificazione compiuta dagli economisti intorno al concetto di “produzione in generale” (Production im Allgemeinen). Essa è un’astrazione, una categoria che non esiste in nessuno stadio concreto della realtà. Poiché, però, “tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune, determinazioni comuni ( gemeinsame Bestimmungen)”, Marx riconobbe che “la produzione in generale è […] un’astrazione sensata, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune” (p. 13) e, fissandolo, risparmia allo studioso che si cimenta con l’impresa di riprodurre il reale attraverso il pensiero un’inutile ripetizione.

L’astrazione, quindi, acquisì per Marx una funzione positiva. Essa non era più, come affermato nella critica giovanile a Hegel, sinonimo di filosofia idealistica che si sostituisce al reale [48] e non venne più concepita, come lo era stata nei [Manoscritti economico-filosofici del 1844], quale espressione di generiche formule generali attraverso le quali gli economisti mascheravano la realtà [49] , o, come ribadito nel 1847 in Miseria della filosofia, quale metafisica che trasforma ogni cosa in categorie logiche [50]. Ora che la sua concezione materialistica della storia era stata saldamente elaborata e che il contesto in cui si muovevano le sue riflessioni critiche era profondamente mutato rispetto a quello dei primi anni Quaranta, caratterizzato dalla polemica anti-hegeliana, Marx poté riconsiderare l’astrazione senza i pregiudizi giovanili. Così, diversamente dai rappresentanti della Scuola storica, che proprio nello stesso periodo teorizzarono l’impossibilità di giungere a leggi astratte con valore universale [51] , nei [Grundrisse] Marx riconobbe che l’astrazione poteva svolgere un ruolo fecondo per il processo conoscitivo.

Tuttavia, ciò si sarebbe reso possibile soltanto se l’analisi teorica si fosse mostrata capace di distinguere le determinazioni valide in tutte le fasi storiche da quelle valevoli, invece, solo in particolari epoche, e di conferire a queste ultime la rilevanza che avevano al fine di comprendere il reale. Se, infatti, l’astrazione è utile per rappresentare i fenomeni più estesi della produzione, essa non fornisce, però, la corretta rappresentazione dei suoi momenti specifici, che sono gli unici realmente storici [52] . Se l’astrazione non è integrata dalle determinazioni caratteristiche di ogni realtà storica, la produzione, da fenomeno specifico e differenziato quale è, si trasforma in un processo sempre identico a se stesso, che cela la “differenza essenziale” (wesentliche Verschiedenheit) delle varie forme in cui esso si manifesta. Era proprio questo l’errore commesso dagli economisti che presumevano di mostrare “l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti”. Diversamente dal loro assunto, che estendeva le caratteristiche più singolari della società borghese a tutte le altre epoche storiche, Marx riteneva che fossero i tratti specifici di ogni formazione economico-sociale a rendere possibile la distinzione di queste dalle altre, a causarne lo sviluppo e a consentire allo studioso la comprensione dei reali mutamenti storici [53].

Nonostante la definizione degli elementi generali della produzione sia “qualcosa di molteplicemente articolato che diverge in differenti determinazioni” – alcune delle quali appartengono a “tutte le epoche”, mentre altre sono “comun[i] solo ad alcune” (p. 14) –, tra le sue componenti universali vi sono, certamente, il lavoro umano e la materia fornita dalla natura. Senza un soggetto che produce e un oggetto lavorato, infatti, non può esservi produzione alcuna. Tuttavia, gli economisti facevano rientrare tra i requisiti generali della produzione anche un terzo elemento: “un fondo accumulato di prodotti del lavoro precedente” [54] , ovvero il capitale. La critica di quest’ultimo elemento è essenziale per Marx, al fine di disvelare quello che riteneva un limite fondamentale degli economisti. È evidente anche a Marx che nessuna produzione è possibile senza uno strumento col quale si lavora, fosse questo anche solo la mano, e senza il lavoro passato accumulato, anche nella forma di mero esercizio ripetuto del selvaggio. Tuttavia, ciò che differenzia la sua analisi da quella di Smith, Ricardo e James Stuart Mill è che, seppure essa riconosce il capitale come strumento di produzione e lavoro passato, non ne fa per questo conseguire che esso sia sempre esistito.

In un’altra parte dei [Grundrisse], la questione è esposta più dettagliatamente. Secondo Marx, rappresentare il capitale come se fosse sempre esistito, al modo gli economisti, significava considerarne solo la materia e prescindere dalla sua essenziale “determinazione formale” (Formbestimmung). In questo modo:

“il capitale sarebbe esistito in tutte le forme della società, e sarebbe qualcosa di assolutamente astorico. (…) Il braccio e soprattutto la mano sono capitale. Capitale sarebbe soltanto un nuovo nome per una cosa vecchia quanto il genere umano, giacché ogni genere di lavoro, anche il meno sviluppato, come la caccia, la pesca ecc., presuppone che il prodotto del lavoro passato sia trasformato come mezzo per il lavoro immediato, vivo (…). Una volta che si è fatta astrazione dalla forma determinata del capitale (der bestimmten Form des Capitals abstrahirt), accentuandone soltanto il contenuto, (…) naturalmente nulla è più facile che dimostrare che il capitale è una condizione necessaria di ogni produzione umana. La dimostrazione viene appunto condotta attraverso l’astrazione (Abstraktion) dalle specifiche determinazioni che lo rendono un momento di un particolare livello di sviluppo storico della produzione umana (Moment einer besonders entwickelten historischen Stufe der menschlichen Production)” [55].

In questi passaggi, Marx si riferisce all’astrazione in senso negativo. Astrarre significa prescindere dalle reali condizioni sociali, concepire il capitale come cosa e non come rapporto, e operare, quindi, una grave falsificazione interpretativa. Nell’[Introduzione], egli assume l’uso delle categorie astratte, ma solo se l’analisi del momento generale non cancella quello particolare e non confonde il secondo nell’indistinto del primo. Per Marx, se si commette l’errore di “concepire il capitale soltanto dal suo lato materiale, come strumento di produzione, prescindendo del tutto dalla forma economica (ökonomischen Form) che fa dello strumento di produzione un capitale” [56] , si cade nella “grossolana incapacità di cogliere le differenze reali” e si rappresenta “un unico rapporto economico che assume nomi diversi” [57] . Ignorare le diversità espresse nel rapporto sociale significa astrarre dalla differenza specifica che è il punto fondamentale di tutto [58] . Dunque, nell’[Introduzione], egli affermò che “il capitale è […] un rapporto naturale universale (allgemeines), eterno; (…) [ma] lo è se io trascuro proprio il fattore specifico che solo trasforma lo ‘strumento di produzione’, il ‘lavoro accumulato’ in capitale” (p. 14).

D’altronde, Marx aveva già criticato la mancanza di senso storico degli economisti nella Miseria della Filosofia, laddove aveva dichiarato:

“gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle artificiali e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure stabiliscono due sorta di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro religione è un’emanazione di Dio. Sostenendo che i rapporti attuali – i rapporti della produzione borghese – sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma non ce n’è più” [59] .

Perché ciò fosse plausibile, gli economisti raffiguravano le circostanze storiche preliminari alla nascita del modo di produzione capitalistico con le sue medesime sembianze, “come risultati della sua esistenza”. Infatti, Marx affermò nei [Grundrisse]:

“gli economisti borghesi, che considerano il capitale come una forma di produzione eterna e naturale (non storica), cercano poi di giustificarlo presentando le condizioni del suo divenire come condizioni della sua attuale realizzazione, spacciando cioè i momenti in cui il capitalista ancora si appropria in veste di non-capitalista – perché sta soltanto diventandolo – come le vere condizioni in cui egli se ne appropria in veste di capitalista” [60].

Dal punto di vista storico, ciò che divide profondamente Marx dagli economisti classici è che, a differenza delle rappresentazioni di questi ultimi, egli credeva che “il capitale non ha cominciato il mondo dal principio, ma ha già trovato produzione e prodotti prima di assoggettarli al suo processo” [61] . Secondo Marx: “le nuove forze produttive e i nuovi rapporti produttivi non si sviluppano dal nulla, né dall’aria, né dal grembo dell’idea che pone se stessa, ma nell’ambito e in antitesi allo sviluppo della produzione esistente e ai rapporti di proprietà tradizionali” [62] . Allo stesso modo, la circostanza in base alla quale i soggetti che producono sono separati dai mezzi di produzione, che permette al capitalista di trovare operai privi di proprietà e capaci di realizzare lavoro astratto, ovvero il presupposto per cui si realizza lo scambio tra capitale e lavoro vivo, è il risultato di un processo, celato dal silenzio dagli economisti, che “costituisce la storia genetica del capitale e del lavoro salariato” [63] .

Nei [Grundrisse] vi sono diversi passaggi dedicati alla critica della trasfigurazione, operata dagli economisti, di realtà storiche in realtà naturali. Tra queste vi era, ad esempio, il denaro, ritenuto da Marx in tutta evidenza un prodotto storico: “essere denaro non è una proprietà naturale dell’oro e dell’argento” [64] , ma soltanto la determinazione da loro acquisita a partire da un preciso momento dello sviluppo sociale. Lo stesso valeva per il credito. Secondo Marx, il dare e prendere in prestito fu un fenomeno comune a molte civiltà e altrettanto fu l’usura,

“ma il dare e o il prendere a prestito costituiscono tanto poco il credito, quanto lavorare costituisce il lavoro industriale o il lavoro salariato libero. Come rapporto di produzione essenziale sviluppato storicamente, il credito si presenta soltanto nella circolazione fondata sul capitale” [65] .

Anche i prezzi e lo scambio esistevano nelle società antiche, “ma sia la progressiva determinazione degli uni attraverso i costi di produzione, sia il predominio dell’altro su tutti i rapporti di produzione, acquisiscono pieno sviluppo soltanto (…) nella società borghese, la società della libera concorrenza”; ovvero: “ciò che Adam Smith, alla maniera tipica del XVIII secolo, pone nel periodo preistorico e fa precedere alla storia, è piuttosto il suo prodotto” [66] . Inoltre, così come criticò gli economisti per la loro mancanza di senso storico, Marx irrise egualmente Proudohn e tutti quei socialisti che ritenevano possibile l’esistenza del lavoro che produce valore di scambio senza che esso si sviluppi in lavoro salariato, del valore di scambio senza che esso si trasformi in capitale o del capitale senza i capitalisti [67].

Obiettivo principale di Marx in queste pagine iniziali dell’[Introduzione] fu, dunque, quello di affermare la specificità storica del modo di produzione capitalistico. Dimostrare, come ribadì anche nei manoscritti del libro terzo de Il capitale, che esso “non costituisce un modo di produzione assoluto, ma semplicemente storico, corrispondente a una certa, limitata, epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione” [68].

L’assunzione di questo punto di vista implicava una differente concezione di molte questioni, tra cui quelle del processo lavorativo e delle sue qualità. Nei [Grundrisse], infatti, Marx dichiarò che

“gli economisti borghesi sono a tal punto prigionieri delle concezioni di un determinato livello di sviluppo storico della società, che la necessità della oggettivazione delle forze sociali del lavoro appare loro inscindibile dalla necessità dell’estraneazione di queste stesse forze” [69].

La rappresentazione delle forme specifiche del modo di produzione capitalistico come costanti del processo di produzione in quanto tale, perpetrata dagli economisti, fu costantemente contrastata da Marx. Raffigurare il lavoro salariato non come rapporto distintivo di una particolare forma storica della produzione, ma quale realtà universale dell’esistenza economica dell’uomo, significava sostenere che anche lo sfruttamento e l’alienazione erano sempre esistite e avrebbero continuato sempre a esistere.

Eludere la specificità della produzione capitalistica aveva, quindi, conseguenze di natura tanto epistemologica quanto politica. Se da un lato, infatti, risultava di impedimento alla comprensione dei concreti mutamenti storici della produzione, dall’altro, nel delineare le condizioni del presente come inalterate e inalterabili, raffigurava la produzione capitalistica come la produzione in generale e i rapporti sociali borghesi quali rapporti naturali dell’uomo. Allo stesso modo, anche la critica di Marx alle teorie degli economisti aveva una duplice valenza. Accanto alla necessità di sottolineare l’indispensabilità della caratterizzazione storica della produzione per comprendere il reale, essa aveva un preciso intento politico: quello di contrastare il dogma dell’immutabilità del modo di produzione capitalistico. La dimostrazione della storicità dell’ordine capitalistico costituiva, infatti, la prova della sua transitorietà e dimostrava il suo possibile superamento.

Eco delle concezioni espresse in questa prima parte dell’[Introduzione] si trova, infine, in una delle ultime pagine dei manoscritti del libro terzo de Il capitale. In essa, Marx affermò che la “identificazione del processo sociale di produzione con il processo lavorativo semplice, che deve compiere anche un uomo artificiosamente isolato, senza alcun aiuto sociale” è una “confusione”. Infatti, poiché:

“il processo lavorativo è soltanto un processo fra l’uomo e la natura, i suoi elementi semplici rimangono identici in tutte le forme dell’evoluzione sociale. Ma ogni determinata forma storica di questo processo ne sviluppa la base materiale e le forme sociali. Quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata” [70].

Il capitalismo non è l’unico stadio della storia dell’umanità e non ne è nemmeno l’ultimo. A esso sarebbe succeduto, nelle previsioni di Marx, un’organizzazione della società basata sulla “produzione comune” (gemeinschaftliche Production), nella quale il prodotto del lavoro è “fin dal principio un prodotto comune, generale” [71].

VII. La produzione come totalità
Nelle successive pagine dell’[Introduzione], Marx approfondì ulteriormente il discorso sulla produzione, delineandone, anzitutto, una definizione: “ogni produzione è un’appropriazione (Aneignung) della natura da parte dell’individuo entro e mediante una determinata forma di società (bestimmten Gesellschaftsform)” (p. 17). Inoltre, egli mise meglio in evidenza il suo carattere, affermando che la produzione non andava considerata come “produzione generale” (p. 14) – dal momento che era divisa in agricoltura, allevamento, manifattura e altri rami –, né come “soltanto particolare”. Essa consisteva, invece, in “un certo corpo sociale (Gesellschaftskörper), un soggetto sociale (gesellschaftliches Subject) attivo in una totalità di settori produttivi più o meno grandi”.

Anche in questa circostanza, Marx sviluppò le sue argomentazioni attraverso il confronto critico con i principali esponenti del pensiero economico. Quelli a lui contemporanei avevano assunto l’abitudine di far precedere le proprie opere da una parte introduttiva, nella quale venivano trattate le condizioni universali di ogni produzione e le circostanze che favorivano, in misura maggiore o minore, la produttività nelle differenti società. Per Marx, però, queste introduzioni contenevano soltanto “vuote tautologie” (p. 15) e, nel caso di John Stuart Mill, avevano lo scopo di rappresentare la produzione “come racchiusa in leggi di natura eterne, indipendenti dalla storia” e i rapporti sociali borghesi “come leggi di natura immutabili della società in astratto”. Secondo John Stuart Mill, infatti: “le leggi e le condizioni della produzione della ricchezza partecipano del carattere delle verità fisiche. Nulla vi è in esse di volontario o di arbitrario. (…) Non è così con la distribuzione della ricchezza. Questa è una questione solamente di istituzioni umane” [72] . Marx considerò questa tesi una “grossolana […] separazione di produzione e distribuzione e d[e]l loro rapporto reale” (p. 16), poiché ritenne, come affermò in un altro brano dei [Grundrisse], che “le leggi e le condizioni della produzione della ricchezza e le leggi della distribuzione della ricchezza sono le medesime leggi sotto forma diversa ed entrambe mutano, soggiacciono al medesimo processo storico; non sono altro che momenti di un processo storico” [73].

Dopo essersi così pronunciato, nel secondo paragrafo dell’[Introduzione] Marx prese a esaminare il rapporto generale della produzione con la distribuzione, lo scambio e il consumo. La ripartizione dell’economia politica in queste differenti rubriche era stata compiuta da James Mill che, nel suo libro del 1821, Elementi di economia politica, aveva così intitolato i quattro capitoli che componevano l’opera e, prima di lui, nel 1803, da Say, che aveva diviso il suo Trattato di economia politica in tre libri, rispettivamente dedicati alla produzione, alla distribuzione e al consumo della ricchezza [74].

Marx ricostruì questa articolazione in termini logici, cosicché le quattro rubriche adoperate dagli economisti furono da lui riordinate secondo lo schema hegeliano di universalità-particolarità-individualità [75] : “produzione, distribuzione, scambio, consumo, formano un sillogismo in piena regola; la produzione è l’universale; la distribuzione e lo scambio il particolare; il consumo l’individuale in cui il tutto si conchiude”. In altre parole, la produzione era il punto di partenza dell’attività dell’uomo, la distribuzione e lo scambio ne rappresentavano il duplice punto intermedio – il primo costituendo la mediazione operata dalla società, il secondo quella operata dall’individuo – e il consumo ne diveniva il punto finale. Tuttavia, ritenendo che questa fosse soltanto la “connessione superficiale” (p. 19), Marx volle analizzare, in maniera più approfondita, la correlazione tra le quattro sfere.

Il primo rapporto indagato fu quello tra produzione e consumo. Marx spiegò la loro connessione come identità immediata: “la produzione è consumo, il consumo è produzione” e, con l’ausilio del principio di Baruch Spinoza determinatio est negatio [76] , evidenziò che la produzione era anche consumo, in quanto dispendio delle forze dell’individuo e utilizzo delle materie prime durante l’atto lavorativo. Questa concezione era stata già proposta dagli economisti, che avevano definito questo momento con il termine di “consumo produttivo” (productive Consumtion) (p. 24) e lo avevano distinto dalla “produzione consumatrice” (Consumtive Production). Essa si verificava solo in seguito alla distribuzione del prodotto, rientrava nella sfera della riproduzione e costituiva “il consumo vero e proprio”. Nel consumo produttivo “si reificava il produttore”, mentre nella produzione consumatrice “si personifica[va] la cosa da lui creata” (p. 21).

Un’altra caratteristica dell’identità di produzione e consumo era riconoscibile nel “movimento di mediazione” (p. 32) reciproca che si svolge tra loro. Il consumo dà al prodotto il suo ultimo “compimento” (finish) (p. 23) e, stimolando la propensione alla produzione, “crea il bisogno di una nuova produzione” (p. 22). Allo stesso modo, la produzione fornisce non solo l’oggetto affinché possa esservi il consumo, ma anche il bisogno di consumare quel determinato oggetto. Secondo Marx, infatti, superato lo stadio naturale, il bisogno è generato dalla percezione dell’oggetto stesso e “la produzione non produce quindi soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto”, ovvero il consumatore. Dunque:

“la produzione produce (…) il consumo: 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo di consumo; 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha precedentemente creato come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo del consumo e l’impulso al consumo” (p. 23).

Riepilogando: tra produzione e consumo si verifica un processo di identità immediata; essi, inoltre, si mediano a vicenda e, attraverso la loro realizzazione, creano l’uno l’altro. Tuttavia, considerare entrambi come se fossero la stessa cosa, come avevano fatto, ad esempio, Say e Proudhon, fu reputato da Marx un errore. Infatti, egli ritenne che, in ultima analisi: “il consumo in quanto necessità, in quanto bisogno, è esso stesso un momento interno all’attività produttiva” (pp. 25-6).

Procedendo nelle sue delucidazioni, Marx passò ad analizzare la relazione tra produzione e distribuzione. La distribuzione costituiva l’anello tra produzione e consumo e, “in base a leggi sociali” (pp. 18-19), determinava la quota dei prodotti spettante ai produttori. Gli economisti la rappresentavano come una sfera autonoma rispetto alla produzione e, nei loro trattati, le categorie economiche erano poste sempre in duplice modo. Terra, lavoro e capitale figuravano nella produzione come suoi agenti, e nella distribuzione, sotto forma di rendita, salario e profitto, quali fonti di reddito. Marx giudicò illusoria e sbagliata questa scissione, poiché, a suo avviso, la forma della distribuzione “non è un arrangiamento qualsiasi, tale da poter essere anche diverso; ma è posto, anzi, dalla forma della produzione stessa” [77] . A tale riguardo, egli si espresse così nell’[Introduzione]:

“un individuo che prende parte alla produzione nella forma del lavoro salariato, partecipa ai prodotti, ai risultati della produzione, nella forma del salario. L’articolazione della distribuzione è interamente determinata dall’articolazione della produzione. La distribuzione è essa stessa un prodotto della produzione, non solo per il suo oggetto, e cioè nel senso che solo i risultati della produzione possono essere distribuiti, ma anche per la forma, e cioè nel senso che il modo determinato in cui si partecipa alla produzione determina le forme particolari della distribuzione, la forma in cui si partecipa alla distribuzione. È assolutamente illusorio porre la terra nella produzione, la rendita fondiaria nella distribuzione ecc” (p. 27).

Considerare la distribuzione autonoma dalla produzione aveva come conseguenza il concepire la prima quale mera distribuzione dei prodotti. In realtà, la distribuzione includeva due fenomeni di notevole importanza precedenti la stessa produzione: la distribuzione degli strumenti di produzione e la distribuzione dei membri della società tra i diversi generi di produzione, ovvero ciò che Marx definì la “sussunzione degli individui sotto determinati rapporti di produzione” (p. 29). Questi due momenti facevano sì che, in alcune situazioni storiche – ad esempio quando un popolo conquistatore, trasformando i vinti in schiavi, impone il lavoro schiavistico o, creando una nuova ripartizione della proprietà fondiaria, determina un nuovo tipo di produzione (cfr. p. 28) –, “la distribuzione non appar[isse] strutturata e determinata dalla produzione, ma [fosse], al contrario, la produzione [ad] appar[ire] strutturata e determinata dalla distribuzione” (p. 28). Le due branche erano profondamente interconnesse poiché, come ribadito da Marx in un’altra parte dei [Grundrisse]: “questi modi di distribuzione sono i rapporti di produzione stessi, solamente sub specie distributionis” [78] . Risultava quindi chiaro, come affermato nell’[Introduzione], che “considerare la produzione prescindendo da questa distribuzione, in essa racchiusa, [era] evidentemente una vuota astrazione”.

Il legame concepito da Marx tra produzione e distribuzione consente di intendere meglio non solo la sua avversione al modo in cui John Stuart Mill separava rigidamente i due momenti, ma anche il suo apprezzamento per Ricardo, al quale aveva dato atto di aver evidenziato la necessità di “comprendere la moderna produzione nella sua struttura sociale determinata” (p. 29). L’economista inglese riteneva, infatti, che “determinare le leggi che reggono tale distribuzione (…) [fosse] il problema principale dell’economia politica” [79] e, dunque, fece della distribuzione uno degli oggetti principali dei suoi studi perché concepiva “le forme della distribuzione come l’espressione più determinata in cui gli agenti della produzione si fissano in una data società” (p. 28). Anche per Marx, la distribuzione non era riducibile al solo atto mediante il quale le quote del prodotto complessivo venivano ripartite tra i membri della società, ma costituiva un momento decisivo dell’intero ciclo produttivo. Tuttavia, questa convinzione non ribaltò la tesi che, all’interno del processo produttivo nel suo complesso, la produzione rappresentava sempre il fattore primario:

“stabilire quale rapporto esiste tra questa distribuzione e la produzione che essa determina, è evidentemente una questione che ricade all’interno della produzione stessa. (…) la produzione ha in effetti le sue condizioni e i suoi presupposti, che ne costituiscono i momenti. Questi nella prima fase possono sembrare di origine naturale. Attraverso il processo di produzione stesso, essi vengono trasformati da fattori naturali in fattori storici, e se per un periodo essi appaiono come presupposto naturale della produzione, per un altro essi ne sono stati un risultato storico. All’interno della produzione stessa, essi vengono continuamente modificati” (pp. 29-30).

In conclusione, per Marx, benché la distribuzione degli strumenti di produzione e dei membri della società nei vari settori produttivi “appaia come un presupposto della nuova epoca della produzione, è […] essa stessa, a sua volta, un prodotto della produzione, non solo di quella storica in generale, bensì di una produzione storica determinata” (p. 31).

Quando, infine, Marx prese in esame il rapporto tra produzione e scambio, considerò anche quest’ultimo una parte della prima. Infatti, non solo “lo scambio di attività e di capacità” tra gli operai e quello delle materie prime necessarie ad approntare il prodotto finito erano parte integrante della produzione, ma lo stesso scambio tra commercianti era interamente determinato dalla produzione e costituiva una “attività produttiva” (p. 32). Lo scambio si rende autonomo, rispetto alla produzione, solo nello stadio in cui “il prodotto viene scambiato immediatamente per il consumo”. Tuttavia, anche in quel caso, la sua intensità ed estensione e le sue caratteristiche sono determinate dallo sviluppo e dall’articolazione della produzione e, dunque, esso si presenta “in tutti i suoi momenti, o direttamente incluso nella produzione, o determinato da essa”.

Al termine della sua analisi sul rapporto della produzione con la distribuzione, lo scambio e il consumo, Marx giunse a due conclusioni: I) la produzione andava considerata come una totalità; II) all’interno della totalità la produzione come ramo particolare rappresentava l’elemento prioritario sugli altri.

Relativamente al primo punto, Marx aveva asserito: “il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo, siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito di una unità” (p. 33). Utilizzando il concetto hegeliano di totalità [80] , egli aveva affinato un efficace strumento teorico – più solido dei limitati processi astrattivi utilizzati dagli economisti – in grado di mostrare, evidenziando l’azione reciproca operante tra le varie parti, che il concreto era un’unità differenziata [81] di più determinazioni e relazioni e che la separazione delle quattro rubriche economiche, posta in essere dagli economisti, risultava tanto arbitraria, quanto deleteria per comprendere i rapporti economici reali. La sua definizione della produzione come totalità organica non corrispondeva, però, a un complesso ordinato e auto-regolantesi, all’interno del quale l’uniformità tra le sue differenti branche veniva sempre garantita. Al contrario, come egli scrisse in un brano dei [Grundrisse], che trattava lo stesso argomento: i singoli momenti della produzione “possono trovarsi oppure no, adeguarsi oppure no, corrispondersi oppure no. La loro interna necessità di organicità e il loro esistere come momenti autonomi reciprocamente indifferenti sono già fondamento di contraddizioni” [82] . Inoltre, queste ultime dovevano essere sempre analizzate prendendo in considerazione la produzione capitalistica (non la produzione in generale) che, secondo Marx, non era affatto “la forma assoluta per lo sviluppo delle forze produttive” sbandierata dagli economisti, ma aveva nella sovrapproduzione la sua “contraddizione fondamentale” [83].

Il secondo risultato raggiunto da Marx fu quello di attribuire alla produzione, all’interno della “totalità della produzione” (Totalität der Production) (p. 15), “il momento egemonico (übergreifende Moment)” sulle restanti parti dell’insieme. La produzione era “l’effettivo punto di partenza” (Ausgangspunkt) (p. 25), quello dal quale “il processo ricomincia sempre di nuovo” e, per Marx: “una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione e uno scambio determinati, oltre che determinati rapporti reciproci tra questi diversi momenti” (p. 33). Il ruolo dominante della produzione non cancellava, però, la rilevanza degli altri momenti, né, tanto meno, la loro incidenza sulla produzione stessa. La dimensione del consumo, le trasformazioni della distribuzione e la grandezza della sfera dello scambio – ovvero del mercato – sono tutti fattori che concorrono a definirla e influiscono su di essa.

Ancora una volta, le acquisizioni di Marx assumevano una valenza al contempo teorica e politica. Egli si oppose, infatti, ai socialisti a lui contemporanei, che sostenevano la possibilità di rivoluzionare i rapporti produttivi allora vigenti mediante la trasformazione dello strumento di circolazione, affermando che la loro ipotesi era una palese dimostrazione del “fraintendimento della connessione interna dei rapporti di produzione, distribuzione e circolazione” [84] . Per Marx, invece, modificare la forma del denaro avrebbe non solo lasciato inalterati i rapporti di produzione e le relazioni sociali da loro determinate, ma si sarebbe dimostrato un controsenso, poiché la stessa circolazione poteva mutare solo insieme con il cambiamento dei rapporti produttivi. Egli era convinto che: “ai mali della società borghese non si rimedia mediante ‘trasformazioni’ bancarie o creando un ‘sistema monetario’ razionale” [85] , né attraverso blandi palliativi quali la concessione del credito gratuito o, ancora, con la chimera di tramutare gli operai in capitalisti. La questione centrale rimaneva il superamento del lavoro salariato ed essa riguardava innanzitutto la produzione.

VIII. Alla ricerca del metodo
A questo punto della sua analisi, Marx affrontò la questione metodologica più rilevante: in che modo riprodurre la realtà all’interno del pensiero? Come costruire un modello categoriale astratto in grado di comprendere e rappresentare la società? Al “rapporto che l’esposizione scientifica ha con il movimento reale” (p. 15), egli dedicò il terzo e più importante paragrafo della sua [Introduzione]. Esso non costituisce l’elaborazione conclusiva di tale rapporto, ma presenta problematiche non sufficientemente sviluppate e diversi punti appena abbozzati. Inoltre, in alcuni suoi passaggi sono contenute affermazioni poco chiare, talvolta in contraddizione tra di loro, e il linguaggio adottato, che risente della terminologia hegeliana, aggiunge ambiguità al testo in più di un’occasione. Marx elaborò il suo metodo scrivendo queste pagine ed esse mostrano le tracce e i percorsi delle sue ricerche.

Come altri grandi pensatori prima di lui, anche Marx partì dalla questione del cominciamento, ovvero, nel suo caso, dell’interrogativo: da quale punto l’economia politica doveva iniziare la sua analisi? La prima ipotesi che egli prese in esame fu di “cominciare con il reale e il concreto, con l’effettivo presupposto”, con “la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione” (p. 34): la popolazione. Tale via analitica, già percorsa dai fondatori dell’economia politica William Petty e Pierre de Boisguillebert, fu però ritenuta da Marx inadeguata ed errata. Avviare l’indagine con un’entità così indeterminata, quale era la popolazione, avrebbe comportato, a suo giudizio, un’immagine troppo generica dell’insieme, incapace di mostrare la sua divisione attuale in tre classi (borghesia, proprietari fondiari e proletariato), le quali potevano essere distinte solo mediante la conoscenza dei loro presupposti fondanti: rispettivamente, il capitale, la proprietà fondiaria e il lavoro salariato. Inoltre, con questo procedimento empirico, elementi concreti come la popolazione e lo Stato si volatilizzavano in determinazioni astratte quali la divisione del lavoro, il denaro o il valore.

Sebbene tale metodo fosse inadeguato per interpretare la realtà, nondimeno, in un’altra parte dei [Grundrisse], Marx ne riconobbe i meriti, affermando che esso aveva avuto “un valore storico nei primi tentativi dell’economia politica, allorquando le forme della produzione venivano ancora faticosamente scrostate dal contenuto e ci si sforzava di fissarle come oggetti di considerazione autonomi” [86] . Non appena gli economisti furono in grado di definire le categorie astratte e tale processo fu compiuto, “sorsero i sistemi economici che dal semplice – come il lavoro, la divisione del lavoro, bisogno, valore di scambio – salivano fino allo Stato, allo scambio tra le nazioni e al mercato mondiale”. Questo secondo procedimento, adoperato da Smith e Ricardo in economia, così come da Hegel in filosofia, riassumibile nella tesi che “le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero”, fu descritto da Marx “il metodo scientificamente corretto” (wissenschaftlich richtige Methode) (p. 35). Conseguite le categorie, infatti, era possibile “intraprendere il viaggio all’indietro, fino ad arrivare infine di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni” (pp. 34-5). Hegel aveva scritto, infatti, nella Scienza della logica che il primo requisito di una conoscenza sintetica e sistematica risiedeva nel cominciare

“con l’oggetto nella forma universale. (…) Il primo deve essere il semplice, quel che è stato separato dal concreto, poiché solo in questa forma l’oggetto ha la forma dell’universale riferentesi a sé (…). Al conoscere è più facile di afferrare l’astratta semplice determinazione di pensiero che non il concreto, il quale è un nesso molteplice di coteste determinazioni e dei loro rapporti (…). In sé e per sé l’universale è il primo momento del concetto, essendo il semplice, e il particolare è soltanto quello che viene dopo, essendo il mediato; e viceversa il semplice è il più universale, e il concreto (…) è quello che già presuppone il passaggio da un primo” [87].

Tuttavia, la definizione di “metodo scientificamente corretto” (p. 35) data da Marx, contrariamente a quanto hanno sostenuto alcuni commentatori dell’ Introduzione [88] , non significa affatto che questo sia stato il metodo da lui poi utilizzato. Anzitutto, egli non condivideva la convinzione degli economisti che la ricostruzione logico-ideale del concreto, compiuta mediante il loro pensiero, fosse la riproduzione fedele della realtà [89] . Inoltre, il procedimento sintetizzato nell’[Introduzione] aveva sì mutuato diversi elementi da quello hegeliano, ma ne aveva evidenziato anche radicali distinzioni. Marx era convinto, come Hegel prima di lui, che “il metodo di salire dall’astratto al concreto (die Methode vom Abstrakten zum Concreten aufzusteigen) è il solo modo, per il pensiero, di appropriarsi il concreto”, che la ricomposizione della realtà nel pensiero doveva prendere avvio dalle determinazioni astratte più semplici e generali. Per entrambi il concreto era “sintesi di molte determinazioni, unità del molteplice” e, per questo motivo, appariva nel pensiero in quanto “processo di sintesi, come risultato e non come punto d’avvio”, sebbene per Marx bisognasse tenere sempre presente che esso era “il punto d’avvio dell’intuizione e della rappresentazione”.

Oltre questa base comune, vi era, però, una differenza fondamentale che Marx formulava nel modo seguente: “Hegel cade nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero”, mentre secondo Marx “mai e poi mai esso è (…) il processo di formazione del concreto” (p. 35). Nell’[Introduzione] egli sosteneva che per l’idealismo hegeliano “il movimento delle categorie appare (…) come l’effettivo atto di produzione (…) il cui risultato è il mondo” e che “il pensiero pensante è l’uomo reale e quindi il mondo pensato è (…) la sola realtà”. Per Marx, insomma, la funzione del pensiero in Hegel non era solo quella di rappresentare idealmente la realtà, bensì di esserne anche il processo fondativo. Viceversa, per Marx, le categorie economiche esistono in quanto “relazion[i] astratt[e] (…) di una totalità vivente e concreta già data” (p. 36); “esprimono modi d’essere, determinazioni d’esistenza” (Daseinsformen, Existenzbestimmungen) (p. 42) della moderna società borghese. Il valore di scambio, ad esempio, presuppone la popolazione e che essa produca entro rapporti determinati. In opposizione a Hegel, Marx sottolineò più volte che la “totalità del pensiero, come un concreto del pensiero, è effettivamente un prodotto del pensare”, ma non è certo il “concetto che genera sé stesso”. Infatti, “il soggetto reale rimane (…) saldo nella sua autonomia fuori della mente (…). Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto” (p. 36).

L’interpretazione marxiana della filosofia di Hegel non rende, però, piena giustizia a quest’ultimo. Alcuni passaggi dell’opera di Hegel mostrano come egli, a differenza dell’idealismo trascendentale di Johann Gottlieb Fichte e dell’idealismo oggettivo di Friedrich Schelling, non abbia confuso il movimento della conoscenza con quello dell’ordine della natura, il soggetto con l’oggetto. Nel secondo paragrafo dell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche, infatti, Hegel scrisse:

“la filosofia può essere definita dapprima, in generale, la considerazione pensante degli oggetti. (…) il contenuto umano della coscienza, operato dal pensiero, appare dapprima non in forma di pensiero, ma come sentimento, intuizione, rappresentazione, – forme, che son da distinguere dal pensiero come forma” [90].

Anche nella Filosofia del diritto, nell’aggiunta al paragrafo 32 inserita da Eduard Gans nella seconda edizione del 1827 [91] , vi sono alcuni periodi che non solo confermano l’errata interpretazione del pensiero hegeliano da parte di Marx, ma mostrano di aver influenzato le sue stesse riflessioni [92]:

“non si può (…) dire che la proprietà sia entrata nell’esserci (dagewesen) prima della famiglia, e tuttavia viene trattata prima di questa. Si potrebbe qui dunque sollevare la questione del perché noi non iniziamo con il momento supremo, cioè con il concretamente vero. La risposta sarà, perché noi appunto vogliamo vedere il vero in forma di un risultato, e a ciò essenzialmente pertiene in primo luogo di comprendere il concetto astratto stesso. Ciò che è reale, la figura del concetto, è per noi quindi primariamente il susseguente e ulteriore, quand’anche nella realtà stessa sia il primo. Il nostro avanzamento è che le forme astratte si mostrano non come sussistenti per sé, bensì come non-vere” [93].

Proseguendo nelle sue considerazioni, Marx si chiese se le categorie semplici potessero esistere prima e indipendentemente da quelle più concrete. Nel prendere in esame la categoria di possesso, con la quale Hegel aveva cominciato la Filosofia del diritto, egli affermò che essa non avrebbe potuto esistere prima della comparsa di “rapporti più concreti”, quali ad esempio la famiglia, e che considerare un selvaggio isolato come un possessore sarebbe stato un’assurdità. La questione era, però, più complessa. Il denaro, infatti, era “storicamente esistito prima che esistessero il capitale, le banche, il lavoro salariato”. Esso è comparso prima dello sviluppo delle realtà più complesse, a dimostrazione che, in alcuni casi, il percorso delle categorie logiche segue quello storico – ciò che è più sviluppato è anche più tardo [94] – e “il cammino del pensiero astratto, che sale dal più semplice al più complesso, corrisponderebbe al processo storico reale” (p. 37) [95] . Tuttavia, nell’antichità, il denaro svolse una funzione dominante solo presso le nazioni commerciali e, dunque, esso non comparve “storicamente nella sua piena intensità se non nelle condizioni più sviluppate della società”. Marx ne concluse allora che: “benché la categoria più semplice possa essere esistita storicamente prima di quella più concreta, essa può appartenere nel suo pieno sviluppo intensivo ed estensivo solo a una forma sociale complessa” (p. 38).

Tale deduzione si mostrò ancora più valida quando fu applicata alla categoria del lavoro. Sebbene il lavoro sia sorto con l’incivilimento dei primi esseri umani e sia, in apparenza, un processo molto semplice, Marx sottolineò che “dal punto di vista economico, il ‘lavoro’ è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione” (p. 39). Gli esponenti del bullionismo e del mercantilismo, infatti, avevano ritenuto che la fonte della ricchezza fosse depositata nel denaro, al quale, di conseguenza, attribuirono maggiore importanza rispetto al lavoro. Successivamente, i fisiocratici considerarono quest’ultimo creatore della ricchezza, ma nella sola forma determinata di agricoltura. Soltanto con l’opera di Smith venne rigettato “ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza” e il lavoro non venne più considerato in una forma particolare, ma come “lavoro tout court: non lavoro manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma sia l’uno che l’altro” (p. 39). In questo modo, fu trovata “l’espressione astratta per la relazione più semplice e antica in cui gli uomini – in qualunque forma di società – compaiono come produttori” (pp. 39-40). Così, come per il denaro, anche la categoria di lavoro poteva essere ricavata “solo dove più ricco è lo sviluppo concreto”, in una società dove “un elemento appare l’elemento comune a molti”. Dunque, “l’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi di lavoro reali, nessuno dei quali domin[a] più sull’insieme”.

Nella produzione capitalistica, inoltre, il “lavoro in generale” non è soltanto una categoria, ma “corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro all’altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito, quindi indifferente”. In tale realtà, il lavoro dell’operaio ha perduto il carattere artigianale e corporativo del passato ed è divenuto “lavoro in generale, lavoro sans phrase”, “non solo nella categoria, ma anche nella realtà” (p. 40). Il lavoro salariato “non è questo o quel lavoro, ma lavoro puro e semplice, lavoro astratto, assolutamente indifferente ad una particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza” [96] . Si tratta, insomma, di “attività puramente meccanica (…) indifferente alla sua forma particolare” [97].

Al termine del suo discorso sulla relazione tra le categorie più semplici e quelle più concrete, Marx era giunto alla conclusione che nelle forme più moderne della società borghese – egli aveva in mente gli Stati Uniti d’America – l’astrazione della categoria del “lavoro in generale” diviene “praticamente vera”. Così: “l’astrazione più semplice che l’economia moderna colloca al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare però praticamente vera in questa sua astrazione solo come categoria della società moderna” (p. 40). Ovvero, come egli ribadì anche in un’altra parte dei [Grundrisse], questa categoria “diventa vera solo con lo sviluppo di un particolare modo materiale di produzione e di un particolare livello di sviluppo delle forze produttive industriali” [98] .

L’indifferenza verso un tipo particolare di lavoro era, però, un fenomeno comune a diverse realtà storiche. Anche in questo caso, allora, era necessario sottolineare le distinzioni: “c’è una maledetta differenza se dei barbari hanno disposizione ad essere utilizzati per tutto, o se degli esseri inciviliti si applicano essi stessi a tutto” (pp. 40-41). Rapportando l’astrazione alla storia reale [99] , ancora una volta, Marx trovò confermata la sua tesi:

“questo esempio del lavoro mostra in modo evidente come anche le categorie più astratte, sebbene siano valide – proprio a causa della loro astrazione – per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo all’interno di queste condizioni” (p. 41).

Chiarito questo punto, Marx rivolse la sua attenzione a un’altra decisiva questione. In quale successione esporre le categorie nell’opera che si accingeva a scrivere? Alla domanda se fosse il complesso a fornire gli strumenti per comprendere il semplice o viceversa, egli fece prevalere decisamente la prima ipotesi. Nell’[Introduzione] dichiarò infatti:

“la società borghese è la più sviluppata e multiforme organizzazione storica della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti e la comprensione della sua articolazione permettono di penetrare, allo stesso tempo, nell’articolazione e nei rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita e di cui si trascinano in essa ancora residui parzialmente non superati”.

È il presente, quindi, a offrire le indicazioni per ricostruire il passato. “L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia (…) [e] ciò che nelle specie animali inferiori accenna a qualcosa di superiore può essere compreso solo se la forma superiore è gia conosciuta” (p. 41). Questa nota affermazione di Marx non va letta, però, in termini evoluzionistici. Egli, infatti, criticò esplicitamente la concezione della “cosiddetta evoluzione storica”, fondata sul banale presupposto che “l’ultima forma considera le precedenti come semplici gradini che portano a se stessa” (p. 42). Diversamente dai teorici dell’evoluzionismo, che illustravano gli organismi più complessi partendo da quelli semplici seguendo un’ingenua traiettoria progressiva, Marx scelse di utilizzare un metodo logico opposto, molto più complesso, ed elaborò una concezione della storia scandita dalla successione dei differenti modi di produzione (antico, asiatico, feudale, capitalistico), dei quali venivano illustrate le diverse posizioni e funzioni che le categorie assumono al loro interno [100] . Era, dunque, l’economia borghese a fornire gli indizi per comprendere le economie delle epoche storiche precedenti – indizi che, stante le profonde diversità tra le varie società, andavano, comunque, presi con cautela –, ma Marx ribadì con fermezza che ciò non poteva di certo essere fatto “al modo degli economisti, che cancellano tutte le differenze storiche e in tutte le forme della società vedono la società borghese” (p. 41).

Se questo ragionamento è in continuità con quelli precedentemente espressi in altre opere, nell’[Introduzione] il problema dell’ordine da assegnare alle categorie economiche fu affrontato differentemente. Marx aveva già trattato tale argomento nella Miseria della Filosofia, laddove, contro Proudhon, che aveva dichiarato di non voler seguire “una storia secondo l’ordine dei tempi, ma secondo la successione delle idee” [101] , aveva criticato l’idea di “costruire il mondo col movimento del pensiero” [102] . Nello scritto del 1847, in polemica con il metodo logico-dialettico utilizzato da Proudhon e da Hegel, aveva dunque preferito la sequenza rigorosamente storica. La posizione assunta dieci anni dopo nell’[Introduzione] era mutata. Il criterio della successione cronologica delle categorie scientifiche era stata respinto a favore di un metodo logico con riscontro storico-empirico. Poiché è il presente che aiuta a comprendere il passato, la struttura dell’uomo quella della scimmia, occorreva cominciare l’analisi dalla società più matura, quella capitalistica, e, in particolare, dall’elemento che prevale su tutti gli altri: il capitale. “Il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tutto. Esso deve costituire il punto di partenza così come il punto d’arrivo”. Marx ne concluse che:

“sarebbe inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nell’ordine in cui esse furono storicamente determinanti. La loro successione è invece determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, che è esattamente l’inverso di quella che sembra essere come loro relazione naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico. Non si tratta della posizione che i rapporti economici assumono storicamente nel succedersi delle diverse forme di società. Men che meno della loro successione ‘nell’Idea’ (Proudhon) (una confusa rappresentazione del movimento storico). Bensì della loro articolazione organica all’interno della moderna società borghese” (p. 43).

In sostanza, la disposizione delle categorie in un esatto ordine logico e il procedere della storia reale non sono affatto coincidenti e, d’altronde, come Marx scrisse anche nei manoscritti per il libro terzo de Il capitale: “ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente” [103].

Discostandosi, dunque, dall’empirismo dei primi economisti moderni, che produceva la volatilizzazione degli elementi concreti in determinazioni astratte; dal metodo degli economisti classici, che riduceva il pensiero del reale al reale stesso; dall’idealismo filosofico – secondo l’interpretazione di Marx anche quello hegeliano –, colpevole di attribuire al pensiero la capacità di generare il concreto; nonché da quelle concezioni gnoseologiche che contrapponevano rigidamente forme del pensiero e realtà oggettiva; dallo storicismo che dissolveva il momento logico in quello storico; e, infine, dalla personale convinzione, esposta nella Miseria della filosofia, di seguire essenzialmente il “movimento storico” [104] , Marx approdò a una propria sintesi. La sua contrarietà a stabilire una corrispondenza biunivoca tra concreto e pensiero lo portò a separare i due momenti, assegnando al primo un’esistenza presupposta e indipendente rispetto al pensiero e riconoscendo a quest’ultimo la sua specificità, ovvero un diverso ordine nell’esposizione delle categorie rispetto a quello manifestatosi nel processo storico reale [105] . Per evitare che il procedimento conoscitivo si limitasse semplicemente a ricalcare le tappe degli avvenimenti storici, era necessario utilizzare un processo astrattivo, e dunque delle determinazioni categoriali, che consentissero di interpretare la società nella sua complessità. D’altra parte, per divenire veramente utile a tale scopo, l’astrazione doveva essere costantemente confrontata con le diverse realtà storiche, così da permettere di distinguere le determinazioni logiche generali dai rapporti storici concreti. In questo modo, la concezione marxiana della storia assumeva efficacia e incisività: respinta la simmetria tra ordine logico e ordine storico-reale, il momento storico si presentava come tornante decisivo per comprendere la realtà, mentre quello logico consentiva di concepire la storia non come piatta cronologia di diversi accadimenti [106] . Per Marx, infatti, non era necessario ricostruire la genesi storica di ogni rapporto economico per intendere e poi descrivere adeguatamente la società. Come affermò in un brano dei [Grundrisse]:

“il nostro metodo mostra i punti in cui si deve inserire la considerazione storica, o in cui l’economia borghese come mera forma storica del processo di produzione rinvia, al di là di se stessa, a precedenti modi storici di produzione. Per sviluppare le leggi dell’economia borghese, non è necessario, quindi, scrivere la storia reale dei rapporti di produzione. Ma la giusta nozione e deduzione di tali rapporti, in quanto divenuti essi stessi storicamente, conduce sempre a prime equazioni (…) che rinviano ad un passato che sta alle spalle di questo sistema. Queste indicazioni, unite all’esatta comprensione del presente, offrono poi anche la chiave per intendere il passato (…). Questa giusta osservazione porta d’altra parte a individuare anche dei punti nei quali si profila il superamento dell’attuale forma dei rapporti di produzione – e quindi un presagio del futuro, un movimento che diviene. Se da una parte le fasi preborghesi si presentano come fasi soltanto storiche, cioè come presupposti superati, le attuali condizioni della produzione si presentano d’altra parte come condizioni che superano anche se stesse e perciò pongono i presupposti storici per una nuova situazione sociale” [107] .

Il metodo così elaborato aveva fornito a Marx strumenti utili non solo per cogliere le differenze tra i diversi modi in cui la produzione si era manifestata nel corso della storia, ma anche per scorgere nel presente le tendenze che lasciavano prefigurare lo sviluppo di un nuovo modo di produzione, contrastando, di conseguenza, coloro che avevano postulato l’insuperabilità storica del capitalismo. Le sue ricerche, anche quelle epistemologiche, non ebbero mai un movente esclusivamente teorico, ma furono sempre mosse dalla necessità di interpretare il mondo per potere meglio ingaggiare la lotta politica mirante a trasformarlo.

Infatti, Marx interruppe il paragrafo sul metodo proprio con un abbozzo riguardante l’ordine col quale egli intendeva scrivere la sua «Economia». Si tratta del primo dei numerosi piani della sua opera, più volte elaborati nel corso dell’esistenza, che ricalca le riflessioni già esposte nelle precedenti pagine dell’[Introduzione]. Prima di intraprendere la stesura dei [Grundrisse], era suo intendimento trattare:

“1) le determinazioni generali astratte che come tali sono comuni più o meno a tutte le forme di società (…) [;] 2) le categorie che costituiscono l’articolazione interna della società borghese e su cui poggiano le classi fondamentali[:] capitale, lavoro salariato, proprietà fondiaria[;] 3) Sintesi della società borghese nella forma dello Stato. Considerata in relazione a se stessa [;] 4) Rapporto internazionale della produzione. (…) Scambio internazionale [; e] 5) Il mercato mondiale e le crisi” (pp. 45-6).

Queste, almeno, era lo schema concepito da Marx nell’agosto del 1857, divenuto poi oggetto di tanti successivi mutamenti.

IX. Il rapporto ineguale tra la produzione materiale e quella intellettuale
L’ultimo paragrafo dell’[Introduzione] è composto da un elenco brevissimo e frammentario di otto argomenti, che Marx aveva intenzione di trattare nel suo testo, e da alcune considerazioni sul rapporto tra l’arte greca e la società moderna. Degli otto punti, le principali questioni annotate riguardarono la convinzione che le caratteristiche del lavoro salariato si fossero manifestate nell’esercito ancor prima che nella società borghese; l’idea dell’esistenza di una dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione; e la constatazione di uno “sviluppo ineguale” (ungleiche Entwicklung) tra i rapporti di produzione e quelli giuridici, in particolare la derivazione del diritto della nascente società borghese dal diritto privato romano. Tutto ciò, però, fu scritto a mo’ di promemoria, senza ordine alcuno, e fornisce soltanto un’idea molto vaga di cosa Marx pensasse nel merito di queste tematiche.

Le riflessioni sull’arte, invece, furono sviluppate in modo più ampio e si concentrarono sul “rapporto ineguale (unegale Verhältniß) dello sviluppo della produzione materiale con (…) quella artistica” (p. 47). Marx aveva già affrontato la relazione tra produzione e forme della coscienza in due lavori giovanili. Nei [Manoscritti economico-filosofici del 1844], egli aveva sostenuto che “la religione, la famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte ecc. non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale” [108] , mentre, ne [L’ideologia tedesca], aveva dichiarato:

“la produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini (…). Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta (direkter Ausfluß) del loro comportamento materiale” [109].

Nell’[Introduzione], però, lungi dall’istituire un rigido parallelismo tra le due sfere, criterio in seguito erroneamente adottato da molti ‘marxisti’, Marx mise in evidenza che non vi era alcuna relazione diretta tra lo sviluppo economico-sociale e quello della produzione artistica. Rielaborando alcune riflessioni della Letteratura del sud d’Europa di Leonard Simonde de Sismondi, letta e compendiata in uno dei suoi quaderni di estratti nel 1852 [110] , egli scrisse infatti: “per l’arte è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale (materiellen Grundlage), (…) con l’ossatura della sua organizzazione” (p. 47). Inoltre, egli rilevò che alcune forme d’arte, come ad esempio l’epica, “sono possibili solo in uno stadio non sviluppato dell’evoluzione artistica. Se questo è vero per il rapporto dei diversi generi artistici nell’ambito dell’arte stessa, sarà tanto meno sorprendente che ciò accada nel rapporto tra l’intero dominio dell’arte e lo sviluppo generale della società” (pp. 47-8). L’arte greca, infatti, presupponeva la mitologia greca, ovvero una rappresentazione “inconsapevolmente artistica” delle forme sociali. In una società progredita come quella moderna, nella quale la natura è concepita dagli uomini razionalmente e non più come potenza estranea che sta di fronte a essi, la mitologia ha perso la sua ragione d’essere e l’epica non è più ripetibile: “Achille è possibile con la polvere da sparo e il piombo? O, in generale, l’Iliade (…) con la macchina da stampa? Con l’apparire del torchietto da stampa non scompaiono necessariamente il canto, la leggenda e la musa, cioé le condizioni necessarie della poesia epica?” (p. 49) [111].

Per Marx, dunque, l’arte e, più in generale, la produzione intellettuale degli uomini vanno indagate in relazione alle condizioni materiali, ma senza mai instaurare una rigida corrispondenza tra i due momenti. In questo modo, infatti, si ricadrebbe nell’errore commesso da Voltaire, ricordato da Marx nei manoscritti economici del 1861-63, di ritenere che poiché i moderni sono “più progrediti degli antichi nella meccanica (…), dovre[bbero] saper comporre anche un poema epico” [112].

Terminate le considerazioni riferite all’artista in quanto soggetto che crea, la produzione artistica fu presa in esame rispetto al pubblico che ne traeva godimento. Questo tema presentava le maggiori difficoltà interpretative. Per Marx, infatti, il problema non stava “nell’intendere che l’arte e l’ epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili”. La complessità stava nel comprendere perché creazioni artistiche realizzate nell’antichità suscitino ancora godimento presso gli uomini moderni. Secondo Marx, essi si compiacerebbero del mondo greco perché rappresenta “la fanciullezza storica dell’umanità”, un periodo che esercita un “fascino eterno come stadio che non ritorna più”. Da qui la conclusione:

“il fascino che la loro arte [quella dei greci – MM] esercita su di noi non è in contraddizione con lo stadio sociale poco o nulla evoluto in cui essa maturò. Ne è piuttosto il risultato, inscindibilmente connesso con il fatto che le immature condizioni sociali in cui essa sorse, e solo poteva sorgere, non possono mai più ritornare” (p. 49).

Il valore delle affermazioni sull’estetica contenute nell’[Introduzione] non sta, però, nelle soluzioni, appena abbozzate e talvolta poco convincenti, fornite da Marx, quanto, invece, nel suo approccio antidogmatico rispetto alle relazioni tra le forme della produzione materiale da una parte e le creazioni e i comportamenti intellettuali dall’altra. La consapevolezza dello “sviluppo ineguale” (p. 47), tra loro esistente, implicava il rifiuto di ogni procedimento schematico che prospettasse un rapporto uniforme tra i diversi ambiti della totalità sociale. Anche la nota tesi della Prefazione a Per la critica dell’economia politica, pubblicata da Marx due anni dopo l’[Introduzione] – “il modo di produzione della vita materiale condiziona (bedingt) il processo sociale, politico e spirituale della vita in generale” [113] – non va interpretata, dunque, in chiave deterministica [114] e deve essere tenuta ben distinta dalla scontata e angusta lettura operata dal «marxismo-leninismo», per la quale le manifestazioni sovrastrutturali della società non sono che un mero riflesso dell’esistenza materiale degli uomini [115].

X. Conclusione
Quando intraprese la stesura dei [Grundrisse], Marx aveva l’intenzione di anteporre alla sua opera una sezione introduttiva nella quale esporre la metodologia adottata nelle sue ricerche. L’[Introduzione] non fu scritta soltanto per autochiarificazione, ma avrebbe dovuto rappresentare, come accadeva negli scritti di altri economisti, il luogo in cui racchiudere le osservazioni preliminari sui criteri generali seguiti. Quando, però, nel giugno del 1859, diede alle stampe la prima parte dei suoi studi nel fascicolo Per la critica dell’economia politica, egli decise di omettere questa sezione fornendo questa motivazione: “sopprimo una introduzione generale che avevo abbozzato perché, dopo aver ben riflettuto, mi pare che ogni anticipazione di risultati ancora da dimostrare disturbi, e il lettore che avrà deciso di seguirmi dovrà decidere di salire dal particolare al generale (von dem Einzelnen zum Allgemeinen aufzusteigen)” [116] . Dunque, il proponimento del 1857 – “salire dall’astratto al concreto” (p. 35) – mutò, nello scritto del 1859, in quello di “salire dal particolare al generale” [117] . Il punto di partenza dell’[Introduzione], ovvero le determinazioni più astratte e universali, venne sostituito, senza che di questo cambiamento fosse fornita spiegazione, poiché lo scritto del 1857 era rimasto inedito, con la trattazione di una categoria concreta e storicamente determinata: la merce. Sin dall’ultimo brano dei [Grundrisse], infatti, al termine delle centinaia di pagine nelle quali aveva scrupolosamente analizzato il modo di produzione capitalistico e le nozioni dell’economia politica, Marx affermò che “la prima categoria in cui si manifesta la ricchezza borghese è quella della merce” [118] . Alla sua indagine egli dedicò il capitolo iniziale di Per la critica dell’economia politica e de Il capitale, ove la merce venne definita la “forma elementare” [119] della società capitalistica, quel “particolare” dalla cui analisi doveva cominciare la ricerca.

Al posto della prevista introduzione, Marx aprì l’opera del 1859 con una breve Prefazione nella quale espose, in forma molto concisa, la propria biografia intellettuale e sua la concezione materialistica della storia. Successivamente, egli non affrontò più il discorso sul metodo, se non in rarissimi casi, incidentalmente e con rapide osservazioni. Il più importante di essi fu, senz’altro, il Poscritto al libro primo de Il capitale del 1873, nel quale, sollecitato dalle recensioni che avevano accompagnato la sua opera, Marx non poté non esprimersi sul metodo d’indagine utilizzato e tornò a trattare alcuni temi presenti nell’[Introduzione]. Ciò avvenne anche a seguito dell’esigenza, che egli avvertì, di esplicitare la differenza esistente tra il metodo di esposizione e quello della ricerca. Se il primo poteva muovere dal generale, procedere dalla forma universale a quelle storicamente determinate e, dunque, confermando la formulazione del 1857, “salire dall’astratto al concreto”, il secondo doveva partire dal reale immediato, andare, come affermato nel 1859, “dal particolare al generale”:

“il modo di esporre (Darstellungsweise) un argomento deve distinguersi formalmente dal modo di compiere l’indagine (Forschungsweise). L’indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l’intero concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente” [120] .

Nelle opere successive all’[Introduzione], infine, Marx scrisse delle questioni di metodo non più nella forma aperta e problematica che aveva caratterizzato lo scritto del 1857, bensì in modo compiuto e senza lasciar trasparire la complessa genesi della sua elaborazione [121] . Anche per questa ragione, le pagine dell’[Introduzione] sono straordinariamente rilevanti. In esse, mediante un serrato confronto con le idee di alcuni dei maggiori economisti e filosofi della storia, Marx ribadì profondi convincimenti e approdò a significative acquisizioni teoriche. Anzitutto, egli volle insistere ancora sulla specificità storica del modo di produzione capitalistico e dei suoi rapporti sociali. In secondo luogo, produzione, distribuzione, scambio e consumo furono considerati come una totalità, all’interno della quale la produzione costituiva l’elemento preminente sulle restanti parti dell’insieme. Inoltre, nel processo di riproduzione della realtà nel pensiero, Marx non ricorse a un metodo meramente storico, ma si avvalse dell’astrazione, della quale era giunto a riconoscere il valore ai fini della costruzione del percorso conoscitivo. Infine, egli evidenziò il rapporto ineguale che intercorreva tra lo sviluppo dei rapporti produttivi e quello delle forme della coscienza.

Queste riflessioni hanno reso l’[Introduzione], durante i 100 anni intercorsi dalla sua prima pubblicazione, un testo imprescindibile dal punto di vista teorico e affascinante da quello letterario per tutti i seri interpreti e lettori di Marx. È prevedibile che essa rimarrà tale per quanti, nelle generazioni a venire, si avvicineranno ancora alla sua opera.

References
1. In questo testo i titoli dei manoscritti incompiuti di Marx, conferiti editorialmente, sono inseriti tra parentesi quadre.
2. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 4. In Italia, gli scritti di Marx ed Engels sono apparsi in 32 volumi, sui 50 previsti, nell’edizione Marx Engels Opere (Editori Riuniti, 1972-1990). Tutti i riferimenti bibliografici relativi agli scritti presenti in questa edizione (indicata in seguito come Opere) rimandano ai suoi volumi, mentre quelli relativi ai testi non inclusi nelle Opere o non tradotti in italiano rinviano a pubblicazioni singole o alle edizioni tedesche, entrambe incomplete, Marx-Engels Werke (MEW) e Marx-Engels Gesamtausgabe (MEGA²). In alcuni casi, a prescindere dall’edizione cui si è fatto riferimento, le citazioni di Marx incluse nel testo sono state ritradotte dall’autore.
3. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere, vol. III, p. 251.
4. Poiché nel 1844 Marx non conosceva ancora la lingua inglese, durante questo periodo i libri di autori inglesi furono da lui letti in traduzione francese.
5. Sulle recenti acquisizioni filologiche circa l’incompiutezza di questo testo si rimanda a Marcello Musto,Marx a Parigi: la critica del 1844, in Marcello Musto (a cura di), Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma 2005, pp. 161-178.
6. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, op. cit., p. 298.
7. Cfr. Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 666, nota 319.
8. Karl Marx, Alla Pubblica sicurezza di Bruxelles, 22 marzo 1845, in Opere, vol. IV, p. 664.
9. Cfr. Karl Marx, A proposito del libro di Friedrich List «Das nationale System der politischen Ökonomie», in Opere, vol. IV, pp. 584-614.
10. Da questo periodo Marx cominciò a leggere direttamente in inglese.
11. Karl Marx, Dichiarazione contro Karl Grün, in Opere, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 73.
12. Karl Marx a Carl Wilhelm Leske, 1 agosto 1846, in Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 455.
13. Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, MEW vol. 21, Dietz, Berlin 1962, p. 263; tr. it. Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 13. In realtà Engels usò questa espressione già nel 1859, nella recensione al libro di Marx Per la critica dell’economia economia, ma questo articolo non ebbe alcuna risonanza e il termine cominciò a diffondersi solo in seguito alla pubblicazione dello scritto Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca.
14. Karl Marx a Carl Wilhelm Leske, 1 agosto 1846, in Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 455-56.
15. Karl Marx a Pavel Annenkov, 28 dicembre 1846, in Opere, vol. XXXVIII, p. 458.
16. Karl Marx – Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, in Opere, vol. VI, pp. 485-86.
17. Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, Opere, vol. IX, p. 206.
18. Karl Marx a Friedrich Engels, 23 agosto 1849, in Opere, vol. XXXVIII, p. 155.
19. Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in Opere, vol. X, p. 134.
20. Karl Marx – Friedrich Engels, Annuncio della «Neue Rheinische Zeitung. Politisch-ökonomische Revue», in Opere, vol. X, p. 5.
21. Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in Opere, vol. X, p. 135.
22. Karl Marx – Friedrich Engels, Rassegna (maggio-ottobre 1850), Ivi, pp. 509 e 514-15.
23. Le opere di Smith e di Ricardo, già lette da Marx in lingua francese durante il suo soggiorno parigino del 1844, furono studiate ora nell’edizione in lingua inglese.
24. Per una prima bozza di questo lavoro si veda Friedrich Engels, Critica del libro di Proudhon «Idée générale de la révolution au XIX siècle», Opere, vol. XI, p. 565-601.
25. Karl Marx a Adolf Cluss, 7 dicembre 1852, in Opere, vol. XXXIX, p. 594.
26. Karl Marx, Rivoluzione in Cina e in Europa, Opere, vol. XII, pp. 100 e 102.
27. Cfr. Fred E. Schrader, Restauration und Revolution, Gerstenberg, Hildesheim 1980, p. 99. Sulla formazione del pensiero marxiano, anche in base alla pubblicazione dei nuovi manoscritti e quaderni di estratti apparsi recentemente nella MEGA², si rimanda a Marcello Musto, Saggi su Marx e i marxismi, Carocci, Roma 2010.
28. Karl Marx, La crisi in Inghilterra, Opere, vol. XIV, pp. 60-1.
29. Karl Marx, Il socialismo imperiale, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 6.
30. Karl Marx, Die Krise in Europa, in MEW vol. 12, Dietz, Berlin 1961, p. 80.
31. Karl Marx, Grundrisse, La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. II, p. 648. Per le citazioni dai [Grundrisse] si rimanda a questa edizione perché essa è stata la prima traduzione italiana (apparsa tra il 1968 e il 1970, a cura di Enzo Grillo) del testo marxiano e costituisce tutt’oggi la versione cui gli studiosi generalmente si riferiscono.
32. Karl Marx a Friedrich Engels, 8 dicembre 1857, in Opere vol. XL, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 237. I [Grundrisse] consistono in otto quaderni (il primo di essi consiste ne l’[Introduzione]), redatti tra l’agosto del 1857 e il maggio del 1858. I primi editori dei [Grundrisse] assegnarono a essi questo titolo proprio in base alla frase citata. Per dettagliate notizie su questo scritto si rimanda a Marcello Musto (a cura di), Karl Marx’s Grundrisse. Critique of political economy 150 years later, Routledge, London – New York 2008.
33. Nella lettera a Ferdinand Lassalle del 12 novembre 1858, Marx affermò infatti: “l’economia come scienza in senso tedesco è ancora tutta da fare”, in Marx Engels Opere, vol. XL, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 595.
34. La voluminosa letteratura critica a riguardo evidenzia l’importanza dell’Introduzione. Da quando fu pubblicata per la prima volta, nel 1903, tutte le principali interpretazioni critiche, le biografie intellettuali e le introduzioni al pensiero di Marx hanno dato conto di questo testo e numerosissimi sono stati gli articoli ad esso dedicati.
35. Differentemente da tutti gli altri testi citati, le cui indicazioni bibliografiche sono indicate nelle note a pie di pagina, le citazioni dell’ [Introduzione] rimandano al testo pubblicato in questo volume e sono seguiti, per questo motivo, dal numero di pagina della presente edizione.
36. Karl Marx, Grundrisse, cit., vol. II, p. 123.
37. Karl Marx, Ivi, p. 96.
38. Karl Marx, Ivi, p. 95.
39. Karl Marx, Ivi, p. 109.
40. Questa concezione di matrice aristotelica – la famiglia che precede la nascita del villaggio – fu sostenuta da Marx anche nel libro primo de Il capitale. In seguito, però, egli mutò opinione in proposito. Come osservato da Engels in una nota aggiunta alla terza edizione tedesca del 1883: “studi posteriori, condotti molto a fondo, sulle condizioni primitive dell’uomo hanno condotto l’autore [Marx] al risultato che originariamente non è stata la famiglia a evolversi in tribù, ma viceversa: la tribù è stata la forma spontanea originaria della associazione fra gli uomini, basata sulla consanguineità, cosicché solo più tardi le forme numerose e diverse della famiglia si sono sviluppate dalla incipiente dissoluzione dei vincoli tribali”, in Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 394-5. Engels si riferiva alle ricerche di storia antica condotte da Marx durante i suoi ultimi anni di vita.
41. Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, Ivi, p. 109.
42. Karl Marx, Ivi, p. 395. Dieci anni prima, nell’[Introduzione], Marx aveva già scritto in proposito che: “in generale è errato porre lo scambio all’interno delle comunità come l’elemento costitutivo originario. All’inizio esso comparve invece più nelle relazioni tra le differenti comunità, che per i membri all’interno di una medesima comunità” (p. 38).
43. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. I, p. 104.
44. Questa mutua dipendenza non va confusa con quella che si instaura tra gli individui nel modo di produzione capitalistico. La prima è il prodotto della natura, la seconda della storia. Nel capitalismo l’indipendenza individuale è integrata da una dipendenza sociale che si esprime nella divisione del lavoro, cfr. Karl Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 78. In questo stadio della produzione, infatti, il carattere sociale dell’attività si presenta non come semplice relazione reciproca degli individui, “ma come loro subordinazione a rapporti che esistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto tra individui indifferenti gli uni agli altri. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, la loro connessione reciproca, si presenta ad essi estranea, indipendente, come una cosa”, in Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. I, p. 98.
45. Adam Smith, Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 1965, p. 18.
46. Cfr. David Ricardo, Principi di economia politica e delle imposte, UTET, Torino 1948, pp. 17-18. Cfr. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 42.
47. In altre parti dei [Grundrisse], Marx asserì che: “un individuo isolato potrebbe avere tanto poco la proprietà della terra quanto poco potrebbe parlare”, in vol. II, p. 109; e che “la lingua come prodotto di un singolo individuo è un’assurdità. Ma altrettanto lo è [la] proprietà”, p. 115.
48. Cfr. Karl Marx, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in Opere, vol. III, pp. 18 e 140.
49. Cfr. Karl Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, in Opere, vol. III, p. 296.
50. Cfr. Karl Marx, Miseria della filosofia, in Opere, vol. VI, p. 170.
51. In particolare, si veda l’opera del suo principale rappresentante: Wilhelm Roscher, Die Grundlagen der Nationalökonomie, in System der Volkswirtschaft, Vol. I, Stuttgart, 1854, che Marx citò anche nel libro primo de Il capitale, op. cit., p. 124, irridendone il “metodo anatomico-fisiologico” adottato. Nel 1883, le questioni epistemologiche furono l’oggetto del Methodenstreit (la disputa del metodo), che vide contrapporsi il metodo deduttivo di Carl Menger e della Scuola austriaca, la quale, contro la tradizione moderna inaugurata da Francis Bacon, Isaac Newton e David Hume, riteneva impossibile giungere alla conoscenza scientifica generale per via empirica, e l’induttivismo della Scuola storica, secondo la quale l’oggetto della scienza economica era quello di studiare l’evoluzione storica delle nazioni e delle istituzioni per costruire delle leggi generali, ma non astratte. Questo dibattito, però, cominciò proprio l’anno della scomparsa di Marx ed egli non poté seguirlo o prendervi parte.
52. Un’idea simile era già stata espressa da Marx ne [L’ideologia tedesca], nella quale insieme con Engels aveva dichiarato: “separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a facilitare l’ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. (…) La difficoltà comincia, al contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di un epoca passata che del presente, a esporlo realmente”, in Karl Marx – Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, in Opere, vol. V, p. 23.
53. Cfr. Karl Korsch, Karl Marx, Laterza, Bari, 1974, pp. 62-3.
54. L’esposizione più approfondita di questa concezione si trova in James Stuart Mill, Principî di economia politica, UTET, Torino, 1962, pp. 56 ss.
55. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. I, pp. 232-3.
56. Karl Marx, Ivi, vol. II, p. 249.
57. Karl Marx, Ivi, p. 220.
58. In proposito si vedano le critiche di Marx rivolte a Proudhon, Ivi, vol. I, p. 242.
59. Karl Marx, Miseria della filosofia, op. cit. p. 182.
60. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. II, p. 81.
61. Karl Marx, Ivi, p. 365.
62. Karl Marx, Ivi, vol. I, p. 259.
63. Karl Marx, Ivi, vol. II, pp. 113-4.
64. Karl Marx, Ivi, vol. I, p. 207.
65. Karl Marx, Ivi, vol. II, p. 175.
66. Karl Marx, Ivi, vol. I, p. 96.
67. Cfr. Karl Marx, Ivi, p. 219.
68. Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 313.
69. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. II, p. 576.
70. Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro terzo, op. cit., p. 1002.
71. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. I, p. 117.
72. John Stuart Mill, Principî di economia politica, op. cit., p. 195-6. Queste affermazioni suscitarono l’interesse di Marx, che le annotò, nel settembre del 1850, in uno dei suoi quaderni di estratti. Cfr. MEGA² IV/7, Dietz, Berlin 1983, p. 36. Poche righe dopo, però, Stuart Mill smentì in parte la sua categorica asserzione, anche se non nel senso di una storicizzazione della produzione. Egli sostenne, infatti, che la distribuzione dipende “dalle leggi e dalle consuetudini della società” e poiché esse sono il prodotto delle “opinioni” e dei “sentimenti del genere umano” – che altro non sono se non le “conseguenze delle leggi fondamentali della natura umana” –, le leggi della distribuzione “sono altrettanto poco arbitrarie, e possiedono il carattere delle leggi fisiche, quanto le leggi della produzione”, p. 196. Le Osservazioni preliminari poste all’inizio della sua opera contengono, forse, una possibile sintesi: “a differenza delle leggi della produzione, quelle della distribuzione sono in parte opera umana; giacché il modo in cui la ricchezza si distribuisce in una data società dipende dalla legislazione o dalle consuetudini ivi prevalenti”, p. 22.
73. Karl Marx, Grundrisse, cit., vol. II, p. 577. Dunque, chi come Stuart Mill riteneva eterni i rapporti di produzione e storiche soltanto le loro forme di distribuzione, “rivela che (…) non capisce né gli uni, né le altre”, in Karl Marx, Ivi, p. 474.
74. Marx conosceva molto bene entrambi i testi poiché erano stati tra i primi libri di economia politica studiati e dai quali aveva ricopiato molte parti nei suoi quaderni di appunti.
75. Cfr. Georg W. F. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Bari 2001, vol. II, p. 677 ss.
76. Cfr. Baruch Spinoza a Jarig Jelles, in Baruch Spinoza, Epistolario, Einaudi, Torino 1951, p. 226.
77. Karl Marx, Grundrisse, cit., vol. II, p. 254.
78. Karl Marx, Ivi, p. 576.
79. David Ricardo, Principi di economia politica e delle imposte, op. cit., p. 3.
80. “Il vero, come concreto, è solo in quanto si svolge in sé e si raccoglie e mantiene in unità, cioè come totalità, e solo mediante il differenziarsi e la determinazione delle sue differenze sono possibili la necessità di esse e la libertà del tutto”. Georg W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari 2002, p. 22
81. Cfr. Stuart Hall, Marx’s notes on method: A “reading” of the “1857 Introduction”, in Cultural Studies, 2003, vol. 17 n. 2, p. 127.
82. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. II, p. 18.
83. Karl Marx, Ivi, p. 19.
84. Karl Marx, Ivi, p. 52.
85. Karl Marx, Ivi, p. 67.
86. Karl Marx, Ivi, vol. II, p. 605.
87. Georg W. F. Hegel, Scienza della logica, op. cit., p. 910. Alla fine dell’ottobre del 1857, durante la stesura dei [Grundrisse], Marx ricevette dall’amico Ferdinand Freiligrath alcuni libri di Hegel che rilesse con grande interesse. Il 14 gennaio del 1858 scrisse, infatti, a Engels: “Quanto al metodo del lavoro mi ha reso un grandissimo servizio il fatto che per puro caso (…) mi ero riveduto la Logica di Hegel. Se tornerà mai il tempo per lavori del genere, avrei una gran voglia di render accessibile all’intelletto dell’uomo comune in poche pagine, quanto vi è di razionale nel metodo che Hegel ha scoperto ma allo stesso tempo mistificato”, in Opere, vol. LX, p. 273. Purtroppo, Marx non rivelò né in questa lettera, né in altre sue comunicazioni, in che modo la Logica di Hegel aveva “reso un grandissimo servizio” all’elaborazione del suo metodo. Tanto meno, egli ebbe mai il tempo per scrivere “quanto vi [era] di razionale nel metodo” hegeliano. In ogni caso, per quel che concerne l’[Introduzione], è necessario ricordare che essa fu scritta in agosto, mentre Marx ricevette la Logica di Hegel solo in ottobre, cfr. Ferdinand Freiligrath a Karl Marx, 22 ottobre 1857, in MEGA², III/8, Dietz, Berlin 1990, p. 497. Dunque, diversamente da quanto ritenuto da molti interpreti di Marx, la Logica non ebbe alcun influsso diretto sull’ [Introduzione], sebbene reminiscenze delle opere di Hegel siano evidenti in diversi punti del testo marxiano.
88. Le interpretazioni di Althusser, Negri e Della Volpe, ad esempio, cadono tutte nell’errore di accomunare questo metodo a quello di Marx. Cfr. Louis Althusser, Leggere Il Capitale, Feltrinelli, Milano 1971, p. 95; Antonio Negri, Marx oltre Marx, Manifestolibri, Roma 1998 p. 65; Galvano Della Volpe, Rousseau e Marx, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 177. Per la critica a Della Volpe si rimanda a Cesare Luporini, Il circolo concreto-astratto-concreto, in Franco Cassano (a cura di), Marxismo e filosofia in Italia (1958-1971), De Donato, Bari 1973, pp. 226-39.
89. Cfr. Mario Dal Pra, La dialettica in Marx, Laterza, Bari 1965, p. 461.
90. Georg W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, op. cit., p. 4.
91. Le Aggiunte (Zusätze) di Gans, il cui scrupolo filologico è stato però messo in dubbio da più di un commentatore, si basano su alcuni manoscritti di Hegel e sulle trascrizioni dei suoi corsi sulla Filosofia del diritto successivi al 1821, data di pubblicazione della prima edizione.
92. In proposito si veda Judith Jánoska, Martin Bondeli, Konrad Kindle, Marc Hofer, Das «Methodenkapitel» von Karl Marx, Schwabe & CO AG, Basel 1994, pp. 115-19.
93. Georg W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 293-4.
94. Cfr. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. I, p. 218.
95. Riflettendo sulla società peruviana, Marx ricordò, però, anche il caso opposto, ovvero che erano esistite “società molto sviluppate, seppure storicamente immature, nelle quali alcune forme più avanzate dell’economia, quali ad esempio la cooperazione o una sviluppata divisione del lavoro, si manifestano senza che esista affatto denaro” (pp. 37-8).
96. Karl Marx, Grundrisse, cit., vol. I, p. 280.
97. Karl Marx, Ivi, vol. I, p. 281. In un altro brano dei [Grundrisse], infatti, Marx affermò che: “il principio sviluppato del capitale è appunto quello di rendere superflua l’abilità particolare (…) è il principio di relegare l’abilità nelle forze naturali morte”, in Karl Marx, Ivi, vol. II, p. 245.
98. Karl Marx, Ivi, p. 281. Nei [Grundrisse] Marx mostrò come anche il “capitale in generale” non fosse una mera astrazione, ma una categoria che aveva nella società capitalistica “un’esistenza reale”. Così come i capitali particolari appartengono ai singoli capitalisti, il capitale nella sua forma generale, ovvero quello che si accumula nelle banche, che diviene il capitale di una determinata nazione e che può essere dato in prestito per essere valorizzato, diventa “maledettamente reale. Mentre dunque l’elemento generale per un verso è soltanto una differentia specifica di natura logica, nello stesso tempo questa è una particolare forma reale accanto alla forma del particolare e dell’individuale”, in Karl Marx, Ivi, vol. II, pp. 67.
99. In proposito si veda quanto Marx scrisse a Engels in una lettera del 2 aprile 1858: “le più astratte determinazioni, esaminate attentamente, rimandano sempre a un’ulteriore base storica concreta e determinata. (Naturalmente, perché esse ne sono astratte in questa loro determinatezza)”, in Marx Engels, Opere, vol. XL, op. cit., p. 332.
100. Cfr. Stuart Hall, op. cit., p. 133, che ha giustamente notato che la teoria elaborata da Marx rappresenta una rottura con lo storicismo, pur non essendo una rottura con lo storico.
101. Pierre Joseph Proudhon, Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria, Edizioni della rivista «Anarchismo», Catania 1975, p. 121.
102. Karl Marx, Miseria della filosofia, op. cit., p. 172.
103. Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro terzo, op. cit., p. 930.
104. Karl Marx, Miseria della filosofia, op. cit., p. 169.
105. Cfr. Louis Althusser, op. cit., pp. 48-9 e 93.
106. La complessità del metodo sintetizzato da Marx è dimostrata dal fatto che esso fu travisato non solo da molti dei suoi studiosi, ma anche dallo stesso Friedrich Engels. Questi, infatti, che non aveva letto le tesi esposte nell’[Introduzione], scrisse in una recensione del 1859 a Per la critica dell’economia politica che Marx, dopo aver elaborato il suo metodo, avrebbe potuto intraprendere la critica dell’economia politica “in due modi: storicamente o logicamente”. Tuttavia, poiché “la storia procede spesso a salti e a zigzag e si sarebbe dovuto tenerle dietro dappertutto” (…) il modo logico di trattare la questione era dunque il solo adatto”. Egli, erroneamente, ne concluse però che questo non era altro che “il modo storico, unicamente spogliato della forma storica e degli elementi occasionali perturbatori. Nel modo come incomincia la storia, così deve pure incominciare il corso dei pensieri, e il suo corso interiore non sarà altro che il riflesso, in forma astratta e teoricamente conseguente, del corso della storia”, in Friedrich Engels, Per la critica dell’economia politica (Recensione), in Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, op. cit., p. 208. Engels, insomma, sostenne il parallelismo tra storia e logica che Marx aveva decisamente respinto nell’[Introduzione]. Tale posizione fu così attribuita a quest’ultimo e divenne inseguito, con l’interpretazione marxista-leninista, ancora più schematica e infruttuosa dal punto di vista epistemologico.
107. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. II, pp. 81-2.
108. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere, vol. III, p. 324.
109. Cfr. Karl Marx – Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, in Marx-Engels Opere, vol. V, p. 21.
110. Sismondi aveva notato che i momenti più alti della letteratura antica francese, italiana, spagnola e portoghese si erano manifestati in coincidenza dei periodi di decadenza sociale di quelle stesse società che li avevano espressi.
111. Anche Friedrich Theodor Vischer, nella sua Ästhetik oder Wissenschaft des Schönen, Bd. I-III, Olms, Hildesheim 1975, trattò della forza dissolvitrice dei miti operata dal capitalismo. Marx lesse quest’opera traendone ispirazione, e ne riassunse alcune parti in uno dei suoi quaderni di estratti, appena tre mesi prima della redazione dell’[Introduzione]. L’impostazione dei due autori, però, non avrebbe potuto essere più distinta. Vischer deplorò in modo romantico l’impoverimento estetico della cultura causato dal capitalismo e considerò quest’ultimo come una realtà immodificabile. Marx, al contrario, pur battendosi costantemente per il superamento del capitalismo, sottolineò che esso rappresentava, sia materialmente che ideologicamente, una realtà più avanzata rispetto ai precedenti modi di produzione. Cfr. György Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 306-7.
112. Karl Marx, Teorie sul plusvalore. I, in Opere, volume XXXIV, p. 295.
113. Cfr. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, op. cit., p. 5.
114. A sostegno di questo ragionamento vi è una nota dell’edizione francese de Il capitale del 1872-75, in cui, citando questo brano della sua opera, Marx preferì tradurre la frase utilizzando il verbo dominer: “[l]e mode de production de la vie matérielle domine en général le développement de la vie sociale, politique et intellectuelle”, in Karl Marx, Le capital, MEGA², II/7, Dietz, Berlin 1989, p. 62. Egli evitò, in questo modo, di presentare una relazione meccanica tra i due momenti.
115. La più diffusa volgarizzazione di tale interpretazione si deve a J. V. Stalin che in Del materialismo dialettico e del materialismo storico, in Opere Scelte, Edizioni movimento studentesco, Milano 1973, sostenne che “il mondo materiale rappresenta una realtà oggettiva (…) [e] la vita spirituale della società è un riflesso di questa realtà oggettiva” (p. 927): “quale è l’essere sociale, quali sono le condizioni della vita materiale della società, tali sono le idee, le teorie, le concezioni politiche, le istituzioni politiche della società” (p. 928).
116. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 3.
117. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 3.
118. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. II, p. 645.
119. Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, op. cit., p. 67.
120. Karl Marx, Poscritto alla seconda edizione in Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, op. cit., p. 67. Marx aggiunse che quando ciò si compie “può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori”, ma, in realtà, il risultato raggiunto è la rappresentazione del concreto nel pensiero. In proposito si veda una sua importante affermazione contenuta in una lettera scritta a Engels il 1 febbraio 1858 nella quale, a proposito di Lassalle, dichiarò: “imparerà a sue spese che una cosa è arrivare a portare, per mezzo della critica, una scienza al punto da poterla esporre dialetticamente e altra è adoperare un sistema di logica astratto e preconfezionato”, in Marx Engels Opere, vol. XL, p. 288.
121. Cfr.Terrell Carver, A Commentary on the text, in Terrell Carver (a cura di), Karl Marx. Texts on Method, Basil Blackwell, Oxford 1975, p. 135.