Nell’autunno del 2008, a crisi conclamata, sull’asfalto di Parigi iniziò a comparire il faccione di Marx, accompagnato da un’ironica dicitura: ça arrive – “succede”, “capita”, ma anche: “manca poco”, “sta arrivando”.
Beffarda constatazione o nebulosa minaccia, lo stencil ricordava al distratto passante che in quei mesi stava succedendo qualcosa che, nell’essenziale, era stato previsto un bel po’ di tempo prima – qualcosa che era nell’ordine del destino. “Come volevasi dimostrare”, sembrava dire Marx: la crisi non è una disgrazia naturale o l’esito di avide speculazioni, ma un momento necessario, connaturato al modo di produzione capitalista. Ma non solo: sulla base delle contraddizioni che proprio la crisi evidenzia e fa esplodere, si può sviluppare un movimento di trasformazione dello stato di cose presente. Lo stencil aleggiava così fra scienza e profezia: se quello che Marx ha previsto si sta verificando, allora potrebbe verificarsi fino in fondo… Da qui l’inquietudine del suddetto passante. D’altronde la creatività di strada faceva eco alle acculturate riviste che un po’ dappertutto nel mondo sbattevano in copertina proprio il filosofo di Treviri, il quale, severo o sardonico, non perdeva occasione per ribadire: “l’avevo detto io”… Sì, ma che cosa aveva detto? Erano in pochi a saperlo, visto che da decenni Marx non si studiava più, il suo nome quasi una bestemmia nelle aule universitarie. Quindi tutti giù a interrogarsi sul valore delle sue diagnosi e sulla sua attualità, chiedendosi se di fronte allo sfascio del capitalismo qualche buona intuizione non andasse poi approfondita. Ovviamente solo qualche intuizione, perché il comunismo, quello no, dai, non scherziamo… In ogni caso, che sia inquietudine, recupero, folklore, tale presenza è sufficiente per chiedersi: siamo davanti all’ennesima Marx-Renaissance? Mah. I ritmi editoriali raramente si accoppiano con lo studio critico, ed ai primi- contraddittori- segnali di ripresa economica ecco il filosofo tedesco bell’e dimenticato. E poi il «ritorno a Marx» è quasi un topos, che fa il pari con quella «crisi del marxismo » proclamata per la prima volta già alla fine dell’800: entrambi sembrano dire solo quanto sia insediato nel cuore della nostra lunga modernità il filosofo ed economista tedesco… Ma di certo, dopo tre anni di crisi del capitalismo, resta sul campo la quantità e la qualità di testi pubblicati in tutto il mondo su e attraverso Marx, testi che fanno legittimamente sospettare che almeno un dibattito critico (e forse meno imbalsamato) si è riaperto. Peccato che, di tutto questo, in Italia ci sia arrivata solo l’eco. E d’altra parte cosa ci si poteva attendere in un paese in cui la sinistra è stata annichilita politicamente e culturalmente, in cui ogni riferimento alla tradizione socialista o comunista è da bandire, neanche fossimo in Polonia (e fra diktat del Vaticano e della Fiat, quanto le assomigliamo!). Un paese, il nostro, dove il trasformismo è l’unica occupazione a tempo indeterminato, e nel quale un utile vocabolario fatto di “classi” e “capitale”- che pure Tre – mon ti e Confindustria continuano a sfoderare- a sinistra è stato rapi- damente abbandonato e sostituito (per imbarazzo? opportunismo? ricerca esasperata del nuovo?) da vaghe circonlocuzioni come “ceti” o “mercato”. Forse è anche per questo che la pubblicazione di un’antologia degli scritti di Marx giunge quanto mai opportuna: non solo per l’ora, ma per il qui. Non solo cioè per sapere cosa “aveva detto” il filosofo tedesco, ascoltando la sua viva voce, prima di soccombere davanti ad interessate e anestetizzanti interpretazioni della crisi… ma soprattutto per saperlo in Italia, dove la reazione sembra aver impiantato il suo laboratorio storico, dove le mediazioni istituzionali e culturali vengono sempre più spesso meno, e il capitalismo si presenta in tutta la sua crudezza e volgarità. Dove i testi di Marx ed Engels sono difficilmente reperibili, gli studi marxisti relegati a nicchie di specialisti, e i programmi scolastici e universitari soffrono di “strane” amnesie. Che ci sia in giro voglia di sapere, soprattutto da parte dei più giovani, per i quali Marx è sempre il nome di un’opposizione e di un mondo da conquistare, lo dimostra l’ottima ricezione de Il capitalismo e la crisi, un’antologia di scritti marxiani curata da Vladimiro Giacché ed edita da Derive&Approdi l’anno scorso: in pochi mesi è andata subito esaurita ed è stata ristampata. Ora appare il seguito ideale di quel testo, un’antologia sull’alienazione, a cura di Marcello Musto, studioso marxista di vecchia data e di giovane età, edita dalla Donzelli di Roma. Seguito, dicevamo. Innanzitutto perché l’operazione editoriale è simile: raggruppare intorno ad un temachiave alcuni testi imprescindibili di Marx, per rimetterli in circolo nel dibattito militante e farli conoscere ad una larga platea, impreziosendo il tutto con alcuni brani forse meno noti ma alquanto efficaci. E poi, più profondamente, perché c’è complementarità fra le due antologie: se nel 2009 all’ordine del giorno era la crisi, oggi ci sono i suoi effetti. La scelta dei testi marxiani operata dall’economista Giacché metteva proprio in evidenza come dai suoi ciclici intoppi il capitale esca allargando il suo modo di produzione (ipersfruttando il lavoro, intensificando la produttività, mercificando ogni ambito di vita), ed apriva così lo spazio alla selezione del filosofo Musto, tutta tesa a mostrare le conseguenze di questo lavoro alienato, il suo incidersi fin nella carne dell’operaio, l’asservimento di ogni «individuo sociale» ai dettami del capitale- questa potenza estranea e indipendente da lui- e la necessità quindi di pensare ad un altro modo di produzione. Sarebbe bene allora leggerli insieme i due testi, rimbalzando da un’analisi più strettamente economica ad una più largamente ontologica, passando attraverso toccanti descrizioni antropologiche e mirabolanti proclami storici, invalidando così ogni cliché su un “primo” ed un “secondo” Marx- sul “giovane” hegeliano democratico-radicale, sensibile alle miserie della condizione umana, e il “maturo”, freddo scienziato attento alle strutture, magari un po’ determinista, magari anche un po’ colpevole dei Gulag. In realtà proprio la teoria dell’alienazione, nella sua intima connessione con l’organizzazione del lavoro e della società, dimostra l’unità di fondo della riflessione marxiana, iscrivendosi sin dall’inizio all’interno di un’analisi della produzione materiale, e non venendo mai abbandonata, semmai approfondita, nelle rigorose analisi economico- sociali degli anni successivi. L’alienazione non è così un tema esclusivamente filosofico, né il soggetto di un’annoiata discussione radical chic, è una questione bruciante ed attuale: questo sembra dirci Musto nella sua concisa ed efficace introduzione all’antologia, che si incarica di seguire le avventure di questo concetto da Hegel agli anni ‘70 del secolo scorso. E a ragione Musto ricorda che, circa quarant’anni fa, la pubblicazione di alcuni testi inediti di Marx «aprì definitivamente la strada a una differente concezione dell’alienazione, la cui comprensione fu finalizzata al superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia […] Con Marx, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e divenire critica sociale» (p. 12). Inevitabilmente, allora, riprendere in mano questi testi, prelevati da quasi tutto il percorso intellettuale di Marx (dal 1844 al 1881), vuol dire in qualche modo riprovarci, ovvero impadronirsi di una visione di largo raggio e ricominciare a dare ragione e ragioni alla voce degli alienati, ricostruire nel pieno di una guerra- di classe- le trincee per difendersi e contrattaccare. Perché è proprio quando da un lato impazza la disoccupazione e dall’altro si lavora 12 ore al giorno che bisogna mettere in discussione tutto l’impianto del lavoro, che spinge chi ce l’ha ad ammazzarsi e chi l’ha perso a suicidarsi…
Gli Operai Di Pomigliano…
Solita retorica? Lasciamo stare il libro, allora, apriamo il giornale. Pomigliano. La Fiat propone un “accordo”: qui c’è la crisi, dobbiamo tagliare i tempi di produzione, lavorare a ciclo continuo, ridurre al minimo le assenze, altrimenti chiudiamo baracca e portiamo tutto in Polonia. Ora facciamo il referendum, e voi dite sì. Ok, ma che vuol dire concretamente? Fra le altre cose: niente scioperi, controllo malattie, 18 turni settimanali, si lavora il sabato sera, si tagliano le pause, si riducono al minimo i tempi morti, tutti i pezzi sono più vicini alla postazione, bisogna solo muovere il busto, controllo operato dai computer e tabelle cronometriche da rispettare. Ecco la danza orchestrata dal capitale, la velocità e il ritmo che gli sono familiari: come ai suoi inizi, il tempo è denaro, ogni risorsa consumata deve trasformarsi in valore, la produttività di ogni gesto deve essere massima. 19 pagine su 36 della proposta FIAT consegnata ai sindacati parlano solo di questo: di metrica. Mai rallentare, mai distrarsi: l’operaio appendice della macchina, l’operaio robotizzato esegue le operazioni che la macchina non può . Vi ricorda qualcosa? «Nell’incorpo – ra re la forza-lavoro viva alle sue componenti oggettive, il capitale diventa così un mostro animato, e comincia ad agire come se “avesse l’amore in corpo”» (pp. 90-91, da Il Capitale, libro I, capitolo VI inedito). Ecco allora apparire «un sistema automatico di macchine […] messo in moto da un automa, forza motrice che muove se stessa; questo automa è costituito da numerosi organi meccanici e intellettuali, di modo che gli operai stessi sono determinati solo come organi coscienti di esso […] La macchina, che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, è essa stessa il virtuoso, che possiede una propria anima […] L’attività dell’operaio, ridotta a una semplice astrazione di attività, è determinata e regolata da tutte le parti dal movimento del macchinario, e non viceversa». Oh, cosa ti ricorda Marx: il lavoro sotto il capitale non è l’unità che domina il processo di produzione, ma è il «macchinario vivente (attivo), che di fronte all’operaio si presenta come un possente organismo contrapposto alla sua attività singola e insignificante» (pp. 70-72, da Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica). Certo, c’è chi protesta: non tocchia – mo la Costituzione, per carità, la dignità della persona è sacra. Però, aggiunge, un po’ di responsabilità da parte di questi operai: come sono possibili questi tassi di assenteismo, questa scarsa produttività? Stupidità, cattiva volontà, furbizia meridionale: il classismo e il razzismo dei politici, anche di quelli più a sinistra, si spreca. Non vogliono ammettere l’ovvio. Tornia mo a Marx, e tutto diventa all’improvviso lampante: «Il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere […] non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. A casa sua egli è quando non lavora, e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo […] non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o di altro genere, il lavoro è fuggito come una peste» (p. 20, dai Manoscritti economico-filosofici). Infatti in astratto, «il mio lavoro sarebbe libera manifestazione della vita e dunque godimento della vita. Ma nelle condizioni della proprietà privata esso è alienazione della vita; infatti io lavoro per vivere, per procurarmi i mezzi per vivere. Il mio lavoro non è vita» (p. 32, da Estratti dal libro di James Mill, Elementi di economia politica). Ma secondo voi, pare dire Marx, «l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce […] considera forse egli questo tessere, filare, trapanare, tornire […] come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa quest’attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto» (p. 34, da Lavoro salariato e capitale). E così «la forza-lavoro si riferisce al lavoro vivo come ad un lavoro estraneo, e se il capitale volesse pagarla senza farla lavorare, essa accetterebbe volentieri l’affare. Il suo stesso lavoro le è dunque altrettanto estraneo- e lo è anche per la sua direzione etc- quanto il materiale e lo strumento» (p. 63-64, dai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica). Perché allora dovremmo sorprenderci se a Pomigliano o altrove si fugge questo lavoro? La fuga è anzi sintomo di una resistenza, di una incompatibilità fra esigenze vitali ed esigenze del profitto… ed è proprio questo che non si dice, perché segnerebbe una piccola presa di coscienza operaia, che invece si vuole scomparsa.
Precarietà
Va bene, si dirà, Marx forse ci ha azzeccato sugli operai; però che c’entra l’alienazione con tutti gli altri? Gli altri chi, bisognerebbe precisare. I precari dei call center, controllati nella loro attività da un computer, costretti a ripetere sempre le stesse formule, appendici parlanti di un paio di cuffie? I camionisti e i lavoratori della grande distribuzione che assumono cocaina ed eccitanti per guidare 15 ore di fila o rispettare le consegne? Gli impiegati di banca o di altri uffici, quantificati nel rendimento, asserviti agli obbiettivi-produttività e cronometrati nelle operazioni? Ancora troppa ideologia? Allora riapriamo il giornale, vediamo i fatti: si parla di concorsone, di assalto al posto fisso . In 112.000 a Napoli per 534 posti al Comune, in 6500 a Milano per 50 posti di maestra d’asilo. Che abbia a che vedere l’alienazione con tutto questo, ce lo spie- gano a loro insaputa i partecipanti arrivati all’alba nel capoluogo lombardo. Maria Teresa, 27 anni, da Palermo, laureata, specializzata: «non trovo lavoro: ho spedito domande dappertutto, smanetto su Internet dalla mattina alla sera, ho lavorato a un call center, ho insegnato gratis, ho fatto il volontariato. Questo viaggio è un investimento, ma io voglio trovare un lavoro»; Giuseppe, 27 anni: «Io vengo da Agrigento, ho una laurea con lode, e sarei disposto a fare di tutto»; Angela, 32 anni, calabrese: «Inse gno da quattro anni e adesso rischio di perdere il posto: questo concorso devo vincerlo per forza e la sera, invece che curare i miei bambini, mi chiudo in camera a studiare». Migliaia di persone provano i concorsi, dovunque siano, per qualsiasi cosa siano. E inviano curriculum, e subiscono colloqui, e periodi di prova. Così la giornalista, quasi sorpresa, conclude: «il fatto è che non importa che lavoro si offre, né dove sia. L’importante è che sia un posto sicuro». Pervicacia dell’alienazione, ti si attacca addosso anche quando non hai un lavoro: anzi, quando il tuo lavoro è diventato cercarlo. Non è rilevante cosa si fa, né perché lo si fa, né quanto lo si fa: conta farlo- per sopravvivere e godere nei margini di tempo. Ma la precarietà che viviamo l’aveva già scoperta Marx: «La realizzazione del lavoro si palesa talmente come annullamento che l’operaio è annullato fino alla morte per fame […] L’operaio è derubato non solo degli oggetti più necessari alla vita, ma anche degli oggetti più necessari del lavoro. Lo stesso lavoro, anzi, diventa un oggetto di cui egli può impadronirsi solo con lo sforzo più grande e le interruzioni più irregolari» (p. 18, dai Manoscritti economico-filosofici). «Tutto il tempo di un individuo è posto come tempo di lavoro, e l’individuo viene degradato perciò a mero operaio, sussunto sotto il lavoro » (p. 79, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica). La teoria dell’alienazione e la sua sintomatologia possono così persino darci un indizio per capire chi sono le nuove figure del proletariato, oltre quelle “classiche”. E cosa sognano: proprio come i primi operai, un contratto – di sfruttamento -a vita. Ora, se queste superficiali ricognizioni fra mondo e pagina intrigano anche un po’, vale la pena di studiare a fondo questi testi marxiani e cercare di renderli mezzo di interpretazione e cambiamento della realtà. Perché questo sogno obbligato di una stabilità così misera e fragile, si possa trasformare in altro: in quell’emancipazione sociale che è allo stesso tempo liberazione individuale e collettiva, riappropriazione della propria vita, governo degli uomini sulle cose- e non degli uomini sugli uomini o, peggio ancora, delle cose sugli uomini. Ovvero in «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comune e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» (p. 112, da Il Capitale, libro primo), in cui «l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca, [eseguendo] il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa» (p. 125, da Il Capitale, libro III). È d’altronde il carattere sempre più sociale della produzione, i giganteschi progressi tecnologici e di automatizzazione, ma anche la coscienza delle classi subalterne in lotta a creare, come sottolinea Musto, «le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale, in cui il lavoro coercitivo ed alienato, imposto dal capitale e sussunto alle sue leggi, viene a mano a mano sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità; e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale delle merci e del denaro» (p. 14). Ecco quindi, dopo l’uso esterno di Marx, la proposta al grande pubblico, il suo uso interno: questo libricino come una pillola per il nostro grande corpo malato, come una sfida lanciata agli alienati e ai militanti d’oggi. Si tratta di verificare il filosofo tedesco anche oltre la sua diagnosi critica, di rendere disponibili degli strumenti teorici ai conflitti del presente: è questa la consegna della filologia marxiana, ed è questa la Renaissance che vorremmo vedere. Qui è Marx stesso a chiederci cosa vogliamo essere. E sta alla nostra pratica, alle implicazioni concrete della nostra lettura trovare la risposta- l’occasione, del testo e della storia, è lì… Perché dalla crisi si uscirà, ma solo con un’ulteriore concentrazione di capitali, con una riduzione di diritti sociali e persino giuridici, con un asservimento ancora maggiore alle macchine, con la nascita di nuovi settori di mercato (green economy o biotecnologie), forse con un’altra guerra, di sicuro attraverso tanta barbarie… Ci toccherà assistere, nell’ipermodernità luccicante della tecnica, al paradossale ritorno di situazioni ottocentesche. E come allora, invece del programma minimo dei “democratici” di ogni tempo- condizioni più umane per gli schiavi – bisognerà riprendere il gesto marxiano: mettere sotto accusa il capitalismo stesso, lottare per l’unico programma ragionevole: che siano gli schiavi a dettare le condizioni. Non sarà facile, ma ci si può provare, almeno un po’. Perché ça arrive non vuol dire per forza che viene.