L’alienazione può essere annoverata tra le teorie più rilevanti e dibattute del XX secolo e la concezione che ne elaborò Marx ha assunto un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema. Tuttavia, diversamente da come si potrebbe immaginare, il percorso della sua affermazione non è stato affatto lineare e le pubblicazioni di alcuni inediti di Marx contenenti riflessioni sull’alienazione, testi che costituiscono la gran parte degli scritti dati alle stampe nella presente raccolta, hanno rappresentato significativi punti di svolta per la trasformazione e la diffusione di questa teoria.
La prima sistematica esposizione filosofica dell’alienazione fu opera di Georg W. F. Hegel, che nella Fenomenologia dello spirito (1807) adoperò i termini di Entäusserung (rinuncia) ed Entfremdung (estraneità, scissione) per rappresentare il fenomeno mediante il quale lo spirito diviene altro da sé nell’oggettività. Tale problematica ebbe grande importanza anche presso gli autori della Sinistra Hegeliana e la concezione di alienazione religiosa elaborata da Ludwig Feuerbach ne L’essenza del cristianesimo (1841), ovvero il processo mediante il quale l’uomo trasferisce la propria essenza ad una divinità immaginaria, contribuì in modo significativo allo sviluppo del concetto.
Successivamente, l’alienazione scomparve dalla riflessione filosofica e nessuno tra i maggiori filosofi della seconda metà dell’Ottocento vi dedicò particolare attenzione. Lo stesso Karl Marx, nelle opere pubblicate nel corso della sua esistenza, impiegò il termine in rare occasioni e questo tema risultò del tutto assente anche nella riflessione del marxismo della Seconda Internazionale (1889-1914).
La riscoperta della teoria dell’alienazione avvenne grazie a György Lukács che, in Storia e coscienza di classe (1923), riferendosi ad alcuni passaggi de Il capitale (1867) di Marx, in particolare ad un paragrafo dedicato al “carattere di feticcio della merce” (Der Fetischcharakter der Ware), elaborò il concetto di reificazione (Verdinglichung, Versachlichung), ovvero il fenomeno attraverso il quale l’attività lavorativa si contrappone all’uomo come qualcosa di oggettivo ed indipendente e lo domina mediante leggi autonome ed a lui estranee. Nei tratti fondamentali, però, la teoria di Lukács non si discostò molto da quella hegeliana, poiché, come egli affermò nella prefazione autocritica alla nuova edizione (1967) del suo scritto, poneva l’alienazione sullo stesso piano dell’oggettivazione.
Un evento importante intervenne a rivoluzionare lo scenario sin qui descritto. Nel 1932 vennero pubblicati i Manoscritti economico filosofici del 1844, un inedito appartenente alla produzione giovanile di Marx. Da questo testo, che divenne rapidamente uno degli scritti filosofici più tradotti, diffusi e discussi del XX secolo, emerse, per la prima volta, il ruolo centrale conferito da Marx alla teoria dell’alienazione e, soprattutto, una sua nuova elaborazione. Marx, infatti, mediante la categoria di lavoro alienato (entfremdete Arbeit) non solo estese la problematica dell’alienazione dalla sfera filosofica, religiosa e politica a quella economica della produzione materiale, ma fece di quest’ultima anche il presupposto per potere comprendere e superare le prime. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’alienazione venne presentata come il fenomeno attraverso il quale il prodotto del lavoro “sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente” (p. 15). Secondo Marx, infatti, nella società borghese la realizzazione del lavoro è “annullamento dell’operaio”. Rispetto ad Hegel intervenne una differenza significativa, perché “l’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica” (pp. 16-17). Per Marx l’alienazione non coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, ma con una precisa realtà economica e con un fenomeno specifico: il lavoro salariato e la trasformazione dei prodotti del lavoro in oggetti che si contrappongono ai loro produttori.
La diversità politica tra queste due interpretazioni è enorme. Contrariamente ad Hegel e ad Adam Smith, che avevano rappresentato l’alienazione quale manifestazione ontologica del lavoro, Marx, seppure tramite alcune incerte formulazioni giovanili, concepì questo fenomeno come la caratteristica di una determinata epoca della produzione, ritenendone possibile il superamento mediante “l’emancipazione della società dalla proprietà privata” (p. 24).
Ci volle ancora molto tempo, però, affinché questa interpretazione dell’alienazione potesse affermarsi. infatti, la maggior parte degli autori che continuarono ad occuparsi di questa problematica non smisero di considerla come un fenomeno universale. In Essere e tempo (1927), ad esempio, Martin Heidegger affrontò il problema dell’alienazione dal versante meramente filosofico e in quanto realtà facente parte della dimensione fondamentale della storia. Anche Herbert Marcuse, pur conoscendo bene l’opera di Marx, tornò ad identificare l’alienazione con l’oggettivazione in quanto tale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. Non a caso, nella sua opera, la critica dell’alienazione divenne una critica della tecnica e del lavoro in generale, e il suo superamento fu ritenuto possibile soltanto attraverso il gioco, momento nel quale l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva.
Il concetto di alienazione approdò anche alla psicoanalisi. Secondo Sigmund Freud, nella società borghese l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per poter fare parte della società civilizzata, deve necessariamente alienare le proprie pulsioni. L’alienazione venne così accostata alle nevrosi e alle psicosi, che possono manifestarsi proprio in conseguenza di questa scelta, del singolo individuo e anche coloro che, in questa disciplina, tentarono di costruire un ponte con il marxismo, ad esempio Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea (1955) e in L’uomo secondo Marx (1961), affrontarono questa tematica privilegiando sempre l’analisi soggettiva, ovvero il problema dell’alienazione dell’uomo dal proprio io.
La teoria dell’alienazione conobbe un momento di grande diffusione con Jean-Paul Sartre e gli esistenzialisti francesi, che ne fecero uno dei concetti chiave della loro filosofia. Negli anni Quaranta, caratterizzati dagli orrori della guerra e dalla crisi delle coscienze, l’alienazione fu assunta come riferimento ricorrente in filosofia e in una parte significativa della narrativa di successo. Tuttavia, anche in questa circostanza, il suo concetto assunse un profilo molto più generico rispetto a quello esposto da Marx. L’alienazione fu identificata come separazione tra la personalità umana e alcuni aspetti del mondo dell’esperienza, come un indistinto disagio dell’uomo nella società e, significativamente, come condition humaine non sopprimibile.
In questo tipo di letteratura il ricorso alle teorie di Marx fu molto frequente, ma, molto spesso, furono presi in esame soltanto i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e le parti de Il capitale in base alle quali Lukács aveva precedentemente costruito la sua teoria della reificazione non vennero minimamente considerate. Inoltre, anche rispetto al testo del 1844, gli esistenzialisti francesi privilegiarono di gran lunga la nozione di autoalienazione (Selbstentfremdung), cioè il fenomeno per il quale il lavoratore è alienato dal genere umano e dai suoi simili, che Marx aveva trattato nel suo scritto, ma sempre in relazione all’alienazione dell’operaio dal prodotto del suo lavoro e nell’attività lavorativa. Infine, alcune frasi di questi manoscritti furono completamente separate dal loro contesto e vennero trasformate in citazioni sensazionali volte a dimostrare l’esistenza di un “nuovo Marx”, radicalmente diverso da quello fino ad allora conosciuto perché intriso di teoria filosofica e ancora privo del determinismo economico che i suoi critici avevano attribuito a Il capitale (testo, a dire il vero, molto poco letto da quanti propesero per questa tesi).
In breve tempo, l’esegesi della teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 divenne il pomo della discordia rispetto all’interpretazione generale di Marx. In questo contesto venne concepita la distinzione tra due presunti Marx, il “giovane Marx” e il “Marx maturo”. Questa arbitraria ed artificiale contrapposizione fu alimentata sia da quanti preferirono il Marx delle opere giovanili e filosofiche, sia da quanti (tra questi Louis Althusser e gli studiosi sovietici) affermarono che il solo vero Marx fosse quello de Il capitale. Coloro che sposarono la prima tesi considerarono la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il punto più significativo della critica marxiana della società; mentre quelli che abbracciarono la seconda ipotesi mostrarono, spesso, una vera e propria “fobia dell’alienazione”; tentando, in un primo momento, di minimizzarne il rilievo (i direttori dell’Istituto del Marxismo Leninismo di Berlino giunsero persino ad escludere i Manoscritti economico-filosofici del 1844 dai volumi numerati della Marx-Engels Werke, l’edizione canonica delle opere di Marx ed Engels, relegandoli in un volume aggiuntivo stampato in un minor numero di copie) e, quando ciò non fu più possibile, considerando il tema dell’alienazione come un “residuo di hegelismo”, un “peccato di gioventù” successivamente abbandonato. I primi rimossero la circostanza che la concezione dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 era stata scritta da un autore ventiseienne e appena agli albori dei suoi studi principali; i secondi, invece, non vollero riconoscere l’importanza della teoria dell’alienazione in Marx anche quando, con la pubblicazione di nuovi inediti, divenne evidente che egli non aveva mai smesso di occuparsene nel corso della sua esistenza e che essa aveva conservato un posto di rilievo nelle tappe principali dell’elaborazione del suo pensiero.
Nella seconda parte degli anni Quaranta Marx non adoperò più la parola alienazione. Aveva abbandonato, infatti, il ristretto ambito delle discussioni tra i filosofi della Sinistra Hegeliana, gli unici ai quali il termine potesse risultare comprensibile, e si era dedicato, più direttamente, all’attività politica. Non potendo rivolgersi al movimento operaio con un concetto così astratto, in Lavoro salariato e capitale (1849), una raccolta di articoli redatti in base agli appunti da lui utilizzati per una serie di conferenze tenute alla Lega Operaia Tedesca di Bruxelles nel 1847, Marx riespose la teoria dell’alienazione pur senza usarne la parola. Sino alla fine degli anni Cinquanta fu di nuovo silenzio. In seguito alla sconfitta delle rivoluzioni del 1848, Marx fu costretto all’esilio a Londra e durante questo periodo, per concentrare tutte le sue energie negli studi di economia politica, non pubblicò alcun libro. Quando riprese a scrivere, nei manoscritti poi denominati Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58), ritornò sulla teoria dell’alienazione e riutilizzò frequentemente l’espressione.
La pubblicazione di questo testo, circolato in germania, ad est quanto ad ovest, a partire dal 1953, e tradotto in molte altre lingue tra la fine degli anni sessanta e il principio degli anni settanta, segnò una svolta decisiva per la concezione del concetto di alienazione. nello stesso periodo ebbe una discreta diffusione anche un altro manoscritto di marx: il capitale: libro i, capitolo vi inedito (1863-64), all’interno del quale, ancora una volta, l’uso del termine abbondava. questi due testi mostrarono l’avanzamento della sua teoria dell’alienazione, divenuta molto più ricca e compiuta perché fondata su una rigorosa analisi economico-sociale.
Negli anni sessanta esplose una vera e propria moda della teoria dell’alienazione e dozzine di libri ed articoli, inerenti le più svariate discipline, vennero pubblicati su questo tema. fu il tempo dell’alienazione tout-court. di volta in volta, molti autori ne attribuirono le cause al consumismo, alla mercificazione, alla perdita del senso di sé nel rapporto con le nuove tecnologie, al conformismo, all’isolamento dell’individuo o all’emarginazione sociale e, pertanto, sembrò impossibile arginare un fenomeno che appariva così esteso.
La diffusione dei lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, e insieme con essi de il capitale e delle sue bozze preparatorie, aprì definitivamente la strada ad una differente concezione dell’alienazione, la cui comprensione fu finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia. la pubblicazione di quella che può essere considerata la “seconda generazione” di scritti di marx sull’alienazione fornì, così, non solo una coerente base teorica per una nuova stagione di studi sull’alienazione (significative furono, ad esempio, le ricerche sul versante della sociologia del lavoro), ma anche una piattaforma ideologica anticapitalista allo straordinario movimento politico e sociale esploso nel mondo in quegli anni. con marx, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e divenire critica sociale.
marx non limitò la propria analisi dell’alienazione al disagio del singolo rispetto alla società, ma analizzò, prima di tutto, i fenomeni sociali che la generavano e, dunque, in primo luogo, l’attività produttiva. Nel modo di produzione capitalistico il lavoro umano è diventato uno strumento del processo di valorizzazione del capitale, il quale “nell’incorporare la forza-lavoro viva alle sue parti componenti oggettive (…) diventa un mostro animato, e comincia ad agire come se avesse l’amore in corpo” (p. 89). Questo meccanismo si espande su scala sempre maggiore e la cooperazione nel processo produttivo, le scoperte scientifiche e i macchinari, ossia i progressi sociali generali, non appartengono alla collettività, ma diventano forze del capitale che appaiono come proprietà da esso possedute per natura e che si ergono estranee di fronte ai lavoratori come ordinamento capitalistico. Dunque, la concezione dell’alienazione elaborata da Marx negli anni Cinquanta e Sessanta fu una teoria molto più ricca di quella esposta nel 1844, cui si aggiunse, inoltre, la descrizione del fenomeno in base al quale nella società borghese le proprietà e le relazioni umane si trasformano in proprietà e relazioni tra cose. La teoria che, dopo la formulazione di Lukács, fu designata col nome di reificazione illustrava questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattava rispetto alle merci. Diversamente da quanto sostenuto da coloro che avevano negato la presenza della teoria dell’alienazione nell’opera matura di Marx, essa non venne sostituta con quella del feticismo delle merci, perché essa ne era un suo aspetto particolare.
L’avanzamento teorico compiuto dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 a Il capitale e i suoi manoscritti non consiste, però, solo in una più precisa descrizione delle manifestazioni dell’alienazione, ma anche in una differente elaborazione circa le misure considerate necessarie per il suo superamento. se nel 1844 marx aveva ritenuto che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, nei lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica e ne il capitale il percorso indicato per costruire una società libera dall’alienazione diveniva molto più complesso.
Il capitalismo è un sistema nel quale i lavoratori sono soggiogati al capitale e alle sue condizioni. Tuttavia, esso ha creato le basi per una società più progredita e l’umanità può proseguire il cammino dello sviluppo sociale, accelerato da questo modo di produzione, generalizzandone i benefici. Secondo Marx, ad un sistema che produce enorme accumulo di ricchezza per pochi e spoliazione e sfruttamento per la massa generale dei lavoratori, occorre sostituire “un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale” (p. 110). Questo diverso tipo di produzione si differenzia dal lavoro salariato, poiché pone i suoi fattori determinanti sotto il governo collettivo, assume un carattere immediatamente generale e trasforma il lavoro in una vera attività sociale. È una concezione di società agli antipodi del bellum omnium contra omnes di Thomas Hobbes. E la sua creazione non è un processo meramente politico, ma investe necessariamente la trasformazione della sfera della produzione.
Tuttavia, questo mutamento del processo lavorativo è comunque limitato: “la libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa” (p. 119). Questa produzione dal carattere sociale, insieme con i progressi tecnologici e scientifici e la conseguente riduzione della giornata lavorativa, crea le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale, in cui il lavoro coercitivo ed alienato, imposto dal capitale e sussunto alle sue leggi, viene mano a mano sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità; e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale in funzione delle merci e del denaro. Non è più il regno della libertà del capitale, ma quello dell’autentica libertà umana dell’individuo sociale.