L’alienazione è stata una delle teorie più dibattute del XX secolo. La prima esposizione filosofica del concetto avvenne già nel 1817 e fu opera di Georg W. F. Hegel.
Nella Fenomenologia dello spirito, egli ne fece la categoria centrale del mondo moderno e adoperò il termine per rappresentare il fenomeno mediante il quale lo spirito diviene altro da sé nell’oggettività. Tuttavia, nella seconda metà dell’Ottocento, l’alienazione scomparve dalla riflessione filosofica e nessuno tra i maggiori pensatori vi dedicò attenzione.
La riscoperta di questa teoria avvenne con la pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico filosofici del 1844, un inedito appartenente alla produzione giovanile di Karl Marx, in cui, mediante la categoria di «lavoro alienato», egli aveva traghettato la problematica dalla sfera filosofica a quella economica. L’alienazione venne descritta come il fenomeno attraverso il quale il prodotto del lavoro si manifesta «come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente». Contrariamente a Hegel, che l’aveva rappresentata come una manifestazione ontologica del lavoro, che coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, Marx concepì questo fenomeno come la caratteristica di una determinata epoca della produzione: quella capitalistica.
Le concezioni non marxiste
Ci sarebbe voluto ancora molto tempo, però, prima che una concezione storica, e non ontologica, dell’alienazione potesse affermarsi. Infatti, la maggior parte degli autori che, nei primi decenni del Novecento, si occuparono di questa problematica lo fecero sempre concependola un aspetto universale dell’esistenza umana. In Essere e tempo, ad esempio, Martin Heidegger la considerò come una dimensione fondamentale della storia, la tendenza dell’Esserci (Dasein) a perdersi nell’inautenticità e nel conformismo del mondo che lo circonda. Anche Herbert Marcuse identificò l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. A suo giudizio, esisteva una «negatività originaria del fare lavorativo», che egli reputava appartenere alla «essenza stessa dell’esistenza umana». La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. E il suo superamento fu ritenuto possibile soltanto attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali, unici momenti nei quali l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva.
Nella seconda parte del Novecento, il concetto di alienazione approdò anche alla psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud, per la quale, nella società borghese, l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione, deve necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni. Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta a un mero fenomeno soggettivo.
Tra le principali elaborazioni non marxiste dell’alienazione vi fu anche quella degli esistenzialisti francesi. A partire dal secondo dopoguerra, questa problematica fu da loro assunta come riferimento ricorrente sia in filosofia che in narrativa. Tuttavia, con essi l’alienazione assunse un profilo molto generico, identificata con un indistinto disagio dell’uomo nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, pertanto, come condition humaine non sopprimibile.
L’irrestibile fascino della teoria dell’alienazione
A partire dagli anni Sessanta esplose una vera e propria modaper la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri sul tema. Fu il tempo dell’alienazione tout-court. Il periodo nel quale numerosi autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifestava nel rapporto con le nuove tecnologie; e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, o all’inquinamento ambientale. La popolarità del concetto e la sua applicazione indiscriminata crearono, però, una profonda ambiguità terminologica. Nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e lo spropositato ampliamento del suo utilizzo generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno tanto esteso da apparire immodificabile.
Con il libro di Guy Debord La società dello spettacolo, uno dei manifesti della generazione del 1968, la teoria dell’alienazione approdò alla critica della produzione immateriale. Riprendendo alcune tesi avanzate da Max Horkheimer e Theodor Adorno in Dialettica dell’illuminismo, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente, Debord affermò che, quando il capitalismo è più sviluppato, l’operaio viene «apparentemente trattato come una persona vera, con cortesia premurosa e ciò perché ora l’economia politica può e deve dominare gli svaghi e l’umanità del lavoratore». Tale riflessione lo spinse a porre al centro della sua analisi il mondo dello spettacolo: «nella società odierna lo spettacolo corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione». Per il teorico francese, con esso l’alienazione si affermava a tal punto da diventare persino un’esperienza entusiasmante per gli individui, i quali, spinti da questo nuovo oppio del popolo al consumo e a «riconoscersi nelle immagini dominanti», si allontanavano sempre più dai propri desideri ed esistenze reali.
Anche Jean Baudrillard utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi, del 1970, egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna. Secondo Baudrillard «l’era del consumo», in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche «l’era dell’alienazione radicale: la logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi non regola solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali, ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane. Tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili».
Negli anni Cinquanta, il concetto di alienazione era entrato anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Infatti, nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come problematica inerente il singolo essere umano, non le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente e non nelle pratiche collettive volte a mutare la società. Questo approccio finì col mettere ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione dell’analisi di questa nozione, che venne assunta anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, non più come una questione sociale, ma quale una patologia individuale la cui cura riguardava i singoli individui.
Questo profondo mutamento della concezione dell’alienazione, manifestatosi nell’ambito delle scienze sociali, fu arginato dalla pubblicazione di nuovi inediti marxiani, in particolare dai Grundrisse, i manoscritti preparatori de Il capitale, o dalle celebri pagine sul «feticismo delle merci», contenute nel primo volume del suo magnum opus. La comprensione dell’alienazione tornò a essere finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita del proletariato. Con la diffusione di questi testi, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e divenire critica sociale.
La vittoria del neoliberismo ha completamente stravolto questo scenario. Negli ultimi 20 anni si sono susseguiti significativi mutamenti politici ed economici che hanno visto aumentare drammaticamente il distacco tra l’accumularsi delle ricchezze di élite sempre più ristrette e la crescente marginalità e pauperizzazione delle classi lavoratrici.
Dopo essere stato protagonista indiscusso del XX secolo, il mondo del lavoro è divenuto un attore muto nel dibattito politico e culturale contemporaneo, in conseguenza anche della maggiore difficoltà da parte delle forze sindacali – in un contesto in cui la prestazione lavorativa è stata piegata a forme sempre più precarie, flessibili e senza diritti – di rappresentare e organizzare nuove generazioni e lavoratori migranti. Al contempo, i movimenti globali di protesta si sono contraddistinti, sino ad oggi, per una generica rivendicazione di maggiore eguaglianza sociale, alla quale è spesso mancata, però, una adeguata riflessione sulla centralità del lavoro, delle sue nuove problematiche e delle sue radicali trasformazioni.
In un’era in cui la produzione, a dispetto delle tesi, di fine secolo scorso, che annunciarono con grande clamore la «fine del lavoro», assume nuovamente gli standard di sfruttamento e di ingiustizia sociale ottocenteschi – vicende come quella dello stabilimento cinese della multinazionale Foxconn sono, oramai, all’ordine del giorno in tutto il mondo – c’è da augurarsi che la critica dell’alienazione ritorni tra le bandiere e le rivendicazioni di un nuovo movimento operaio. In fondo il vento soffia ancora.