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Alienati di tutto il mondo unitevi

L’alienazione è stata una delle teorie più dibattute del XX secolo. La prima esposizione filosofica del concetto avvenne già nel 1817 e fu opera di Georg W. F. Hegel.

Nella Fenomenologia dello spirito, egli ne fece la categoria centrale del mondo moderno e adoperò il termine per rappresentare il fenomeno mediante il quale lo spirito diviene altro da sé nell’oggettività. Tuttavia, nella seconda metà dell’Ottocento, l’alienazione scomparve dalla riflessione filosofica e nessuno tra i maggiori pensatori vi dedicò attenzione.

La riscoperta di questa teoria avvenne con la pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico filosofici del 1844, un inedito appartenente alla produzione giovanile di Karl Marx, in cui, mediante la categoria di «lavoro alienato», egli aveva traghettato la problematica dalla sfera filosofica a quella economica. L’alienazione venne descritta come il fenomeno attraverso il quale il prodotto del lavoro si manifesta «come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente». Contrariamente a Hegel, che l’aveva rappresentata come una manifestazione ontologica del lavoro, che coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, Marx concepì questo fenomeno come la caratteristica di una determinata epoca della produzione: quella capitalistica.

Le concezioni non marxiste

Ci sarebbe voluto ancora molto tempo, però, prima che una concezione storica, e non ontologica, dell’alienazione potesse affermarsi. Infatti, la maggior parte degli autori che, nei primi decenni del Novecento, si occuparono di questa problematica lo fecero sempre concependola un aspetto universale dell’esistenza umana. In Essere e tempo, ad esempio, Martin Heidegger la considerò come una dimensione fondamentale della storia, la tendenza dell’Esserci (Dasein) a perdersi nell’inautenticità e nel conformismo del mondo che lo circonda. Anche Herbert Marcuse identificò l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. A suo giudizio, esisteva una «negatività originaria del fare lavorativo», che egli reputava appartenere alla «essenza stessa dell’esistenza umana». La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. E il suo superamento fu ritenuto possibile soltanto attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali, unici momenti nei quali l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva.

Nella seconda parte del Novecento, il concetto di alienazione approdò anche alla psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud, per la quale, nella società borghese, l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione, deve necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni. Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta a un mero fenomeno soggettivo.

Tra le principali elaborazioni non marxiste dell’alienazione vi fu anche quella degli esistenzialisti francesi. A partire dal secondo dopoguerra, questa problematica fu da loro assunta come riferimento ricorrente sia in filosofia che in narrativa. Tuttavia, con essi l’alienazione assunse un profilo molto generico, identificata con un indistinto disagio dell’uomo nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, pertanto, come condition humaine non sopprimibile.

L’irrestibile fascino della teoria dell’alienazione

A partire dagli anni Sessanta esplose una vera e propria modaper la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri sul tema. Fu il tempo dell’alienazione tout-court. Il periodo nel quale numerosi autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifestava nel rapporto con le nuove tecnologie; e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, o all’inquinamento ambientale. La popolarità del concetto e la sua applicazione indiscriminata crearono, però, una profonda ambiguità terminologica. Nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e lo spropositato ampliamento del suo utilizzo generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno tanto esteso da apparire immodificabile.

Con il libro di Guy Debord La società dello spettacolo, uno dei manifesti della generazione del 1968, la teoria dell’alienazione approdò alla critica della produzione immateriale. Riprendendo alcune tesi avanzate da Max Horkheimer e Theodor Adorno in Dialettica dell’illuminismo, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente, Debord affermò che, quando il capitalismo è più sviluppato, l’operaio viene «apparentemente trattato come una persona vera, con cortesia premurosa e ciò perché ora l’economia politica può e deve dominare gli svaghi e l’umanità del lavoratore». Tale riflessione lo spinse a porre al centro della sua analisi il mondo dello spettacolo: «nella società odierna lo spettacolo corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione». Per il teorico francese, con esso l’alienazione si affermava a tal punto da diventare persino un’esperienza entusiasmante per gli individui, i quali, spinti da questo nuovo oppio del popolo al consumo e a «riconoscersi nelle immagini dominanti», si allontanavano sempre più dai propri desideri ed esistenze reali.

Anche Jean Baudrillard utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi, del 1970, egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna. Secondo Baudrillard «l’era del consumo», in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche «l’era dell’alienazione radicale: la logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi non regola solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali, ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane. Tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili».

Negli anni Cinquanta, il concetto di alienazione era entrato anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Infatti, nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come problematica inerente il singolo essere umano, non le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente e non nelle pratiche collettive volte a mutare la società. Questo approccio finì col mettere ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione dell’analisi di questa nozione, che venne assunta anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, non più come una questione sociale, ma quale una patologia individuale la cui cura riguardava i singoli individui.

Questo profondo mutamento della concezione dell’alienazione, manifestatosi nell’ambito delle scienze sociali, fu arginato dalla pubblicazione di nuovi inediti marxiani, in particolare dai Grundrisse, i manoscritti preparatori de Il capitale, o dalle celebri pagine sul «feticismo delle merci», contenute nel primo volume del suo magnum opus. La comprensione dell’alienazione tornò a essere finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita del proletariato. Con la diffusione di questi testi, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e divenire critica sociale.

La vittoria del neoliberismo ha completamente stravolto questo scenario. Negli ultimi 20 anni si sono susseguiti significativi mutamenti politici ed economici che hanno visto aumentare drammaticamente il distacco tra l’accumularsi delle ricchezze di élite sempre più ristrette e la crescente marginalità e pauperizzazione delle classi lavoratrici.

Dopo essere stato protagonista indiscusso del XX secolo, il mondo del lavoro è divenuto un attore muto nel dibattito politico e culturale contemporaneo, in conseguenza anche della maggiore difficoltà da parte delle forze sindacali – in un contesto in cui la prestazione lavorativa è stata piegata a forme sempre più precarie, flessibili e senza diritti – di rappresentare e organizzare nuove generazioni e lavoratori migranti. Al contempo, i movimenti globali di protesta si sono contraddistinti, sino ad oggi, per una generica rivendicazione di maggiore eguaglianza sociale, alla quale è spesso mancata, però, una adeguata riflessione sulla centralità del lavoro, delle sue nuove problematiche e delle sue radicali trasformazioni.

In un’era in cui la produzione, a dispetto delle tesi, di fine secolo scorso, che annunciarono con grande clamore la «fine del lavoro», assume nuovamente gli standard di sfruttamento e di ingiustizia sociale ottocenteschi – vicende come quella dello stabilimento cinese della multinazionale Foxconn sono, oramai, all’ordine del giorno in tutto il mondo – c’è da augurarsi che la critica dell’alienazione ritorni tra le bandiere e le rivendicazioni di un nuovo movimento operaio. In fondo il vento soffia ancora.

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Quel Cristo latinoamericano

La mattina dell’11 di ottobre del 1962, 2.540 cardinali, vescovi e patriarchi, provenienti da ogni parte del mondo, si disposero in una solenne fila di abiti bianchi e di nicchi rosso porpora per entrare nella Basilica di San Pietro, dando così inizio a uno dei principali avvenimenti religiosi del Novecento, destinato a mutare il volto della chiesa cattolica: il Concilio Vaticano II (CV II).

Il ventunesimo concilio ecumenico si svolse tra l’ottobre del 1962 e il dicembre del 1965, sotto i pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI. La sua assemblea deliberativa, la più numerosa nella storia della chiesa, riformò la liturgia ecclesiale, introducendo le lingue nazionali nel rito per le messa, e avviò il dialogo con le religioni non cristiane, tramite la dichiarazione sul principio di libertà religiosa. Rispetto ai due precedenti concili, quello di Trento del 1545-63 e il CV I del 1869-70, nati dall’esigenza di rispondere a due eventi che avevano sconvolto la chiesa – le lacerazioni seguite alla riforma protestante e il processo di laicizzazione generato dalla Rivoluzione Francese -, il CV II originò, invece, dalla necessità di esprimere una nuova fase pastorale, al fine di rinvigorire le istituzioni cattoliche e meglio adattarle alle esigenze dei nuovi tempi che stavano sorgendo.

L’Opzione Preferenziale Per I Poveri

Tuttavia, come osservato dalla maggioranza dei commentatori, a partire dagli anni Settanta, le riforme avviate vennero interrotte. Diversamente accadde in Sud America dove i cambiamenti del CV II trovarono un terreno più fertile per germogliare.

In quegli anni, infatti, mentre nei paesi capitalistici più avanzati, si realizzò un miglioramento dello standard di vita anche per le classi lavoratrici, in America latina le diseguaglianze sociali aumentarono e gli indici di povertà crebbero ulteriormente. Guidati dall’illusoria concezione dell’esistenza di un tempo storico unilineare, che avrebbe dovuto riprodurre gli stessi stadi di avanzamento in tutte le società, esperti di vari organismi internazionali elaborarono piani di sviluppo per il Cono Sur. Nel 1961, ad esempio, l’amministrazione Kennedy avviò l’Alleanza per il Progresso(AP), progetto con il quale vennero stanziati 20 miliardi di dollari allo scopo di eliminare “le basi del comunismo”, pericolo apparso ancora più concreto dopo la rivoluzione castristra a Cuba. Tuttavia, l’operazione si risolse in un clamoroso fallimento, osteggiata non solo dai latifondisti locali, ma anche dalle compagnie nordamericane, e il periodo di AP si contraddistinse per i colpi di stato, quasi tutti avallati dagli USA, che fecero poi sprofondare l’intero continente in una spirale di violenza e morte.

In questo contesto, presero corpo, in forme differenti, alleanze tra i settori più progressisti del mondo cristiano e di quello marxista. Dall’esempio di Camilo Torres, il famoso sacerdote scomparso nel 1966 dopo aver aderito all’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano; ai Cristiani per il socialismo, movimento nato in Cile nel 1972 durante il governo di Salvador Allende; dalla Patagonia al Messico sorsero gruppi di fedeli, spesso impegnati politicamente a sinistra, che reclamavano una chiesa diversa, lontana dal potere e solidale con i più deboli.

Tali esigenze si manifestarono anche all’interno della Conferenza Episcopale Latinoamericana (CELAM), organismo sorto nel 1955 e che celebrò a Medellin, nel 1968, la sua seconda assise generale, per riorganizzarsi in base alle decisioni assunte al CV II. Questo incontro rappresentò una vera svolta per la chiesa del continente. Anche se il termine Teologia della Liberazione (TdL) non venne mai utilizzato nei suoi documenti finali – era stato coniato solo poche settimane prima dal sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez -, a Medellin nacque un nuovo modo di fare teologia. Una chiesa popolare al servizio dei poveri e basata sul protagonismo delle Comunità Ecclesiali di Base (CEB), gruppi di persone che si incontravano regolarmente per leggere il Vangelo alla luce della propria realtà sociale.

Negli anni successivi si susseguirono iniziative e incontri per meglio delineare il carattere di questa svolta. La principale opera, tradotta poi in 20 lingue e stampata in numerosissime edizioni, che mise a fuoco gli snodi centrali della TdL apparve nel 1971, ad opera dello stesso Gutiérrez: Teologia della liberazione. Prospettive. Secondo l’autore la scelta centrale della TdL stava nella “opzione preferenziale per i poveri”. Essi facevano finalmente irruzione nella chiesa, divenendone interlocutore privilegiato e soggetto protagonista di una possibile trasformazione sociale. Con la TdL i poveri avrebbero acquisito il diritto a pensare, non solamente a subire e praticare in forma passiva, la loro fede. Divenivano artefici, mediante un processo di “coscientizzazione” – secondo l’espressione del celebre pedagogo brasiliano Paulo Freire -, della loro liberazione; non più affidata all’aldilà, ma divenuta obiettivo concreto da perseguire nella vita terrena. Altra innovazione della TdL stava nell’avvalersi degli strumenti critici delle scienze sociali. Particolare importanza venne conferita alla Teoria della dipendenza, la concezione – sviluppata, tra gli altri, da André Gunder Frank, Fernando Henrique Cardoso e Theotonio Dos Santos – che individuava un legame diretto tra il sottosviluppo latinoamericano e l’espansione capitalistica dei paesi industrializzati. Infine, secondo Gutiérrez, l’altro elemento dirimente della TdL stava nel concepire la teologia come un “atto secondo”, che doveva sempre presupporre la partecipazione al processo di liberazione dell’uomo (“atto primo”). L’impegno al fianco degli ultimi divenne, così, una conditio sine qua non. Se Karl Marx aveva scritto: “ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi”, Gutiérrez sostenne che “tutte le teologie politiche, della speranza, della liberazione, della rivoluzione, non valgono un gesto di solidarietà autentica con le classi oppresse”.

L’influenza della TdL nelle CEB, proliferate soprattutto in Brasile, accrebbe di peso. Al magistero tradizionale impartito nelle parrocchie, andò ad affiancarsi una diffusa catechesi popolare nelle aree urbane e rurali più marginali. L’ecclesiocentrismo tradizionale definito dalla formula “fuori dalla chiesa non c’è salvezza” fu rovesciato in “fuori dal mondo (ossia lontano dai poveri) non c’è salvezza”. Leonardo Boff parlò di una nuova ecclesiogenesi, una rinascita della chiesa a partire dalla riappropriazione della Bibbia anche attraverso ministeri laici.

Le reazioni furono durissime. La terza riunione della CELAM (Puebla, 1979), dalla quale vennero esclusi tutti i principali esponenti della TdL, sancì il mutamento dei tempi. Giovanni Paolo II, insediatosi nel 1978, introdusse l’evento esortando a vigilare sulla “purezza della dottrina” contro il rischio dell’eccessiva politicizzazione del Vangelo e le gerarchie ecclesiastiche si scagliarono contro le CEB, considerate un intollerabile ministero parallelo, mentre le sue riletture bibliche vennero definite cristologia della guerriglia.

Alla reazione interna alla chiesa si aggiunse quella degli USA. Il Documento di Santa Fe (1980) – la piattaforma politica di Ronald Reagan – conteneva un esplicito riferimento alla TdL giudicata una pericolosa “dottrina politica, ormai deviata della credenza religiosa, con un significato antipapale e antiliberista”. L’amministrazione da lui guidata si contraddistinse, poi, investendo miliardi di dollari – anche mediante intelligence e supporti mass-mediatici -, per favorire la diffusione di sette fondamentaliste, intrise di fanatismo religioso, in tutti i paesi latinoamericani considerati “a rischio comunista”.

Lo Scontro Con Roma

Al principio degli anni Ottanta le polarizzazioni all’interno della chiesa si acuirono, ma la TdL, grazie all’incessante lavoro di divulgazione di scritti e riflessioni, avviato nel decennio precedente, riuscì a conservare una presenza significativa in tutto il continente latinoamericano. L’assassinio di Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, e la partecipazione di alcuni sacerdoti al governo rivoluzionario sandinista in Nicaragua costituirono, inoltre, due episodi – di eclatante ferocia il primo e di enorme speranza il secondo – che diedero vita a manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo.

Tuttavia, gli equilibri interni al Vaticano erano mutati. Il clima di restaurazione si fece evidente con l’elezione del conservatore Lopez Trujillo alla presidenza della CELAM. Più in generale, Wojtyla favorì l’ascesa degli ultrareazionari dell’Opus Dei, organizzazione divenuta, nel 1982, prelatura personale – ovvero un’istituzione speciale che può evadere l’autorità delle diocesi territoriali -, ai massimi vertici del Vaticano e le scelte ecclesiali colpirono sempre più gli “elementi infetti”.

Sorse, così, un clima da scomuniche. Nel 1984 il prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (SCDF), l’allora cardinale Joseph Ratzinger, pubblicò la Istruzione su alcuni aspetti della “teologia della liberazione”. In questo documento affermò che la TdL doveva “essere criticata – pena rischi di gravi deviazioni ideologiche – non per singole affermazioni, ma per il punto di vista di classe che adotta a priori e che funge in essa come principio ermeneutico determinante”. La distanza tra le due concezioni era abissale. Per Ratzinger, valga da esempio un tema fondamentale, “le molteplici schiavitù di ordine culturale, economico, sociale e politico derivano, in definitiva, dal peccato”. Per Gutiérrez, al contrario: “il peccato nasce nello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, ha per radice una situazione di ingiustizia e di sfruttamento ed è impossibile comprendere il primo senza il secondo”.

La SCDF invitò l’episcopato peruviano a isolare Gutiérrez, accusato di “ammettere la concezione marxista della storia” e quello brasiliano a criticare Boff, condannato a un anno di silenzio per le sue tesi ecclesiologiche dichiarate “insostenibili e pericolose per la fede”. A nulla erano serviti i chiarimenti offerti dai teologi della liberazione per dimostrare che Marx non era il padrino della TdL (pantomina che ridicolizzava le teorie dell’uno come dell’altra), e che, invece, il marxismo era stato assunto criticamente per comprendere il mondo; poiché – pena la mistificazione della realtà – dopo Marx la teologia non poteva permettersi di sottovalutare il peso delle condizioni materiali nell’esistenza degli individui.

Nell’ultimo ventennio, il capitalismo ha dispiegato la sua incontrastata egemonia in tutte le sfere della vita sociale e anche la religione è stata piegata dalle “esigenze del mercato”. La scomparsa e la normalizzazione di tante CEB e l’indebolimento della TdL sono procedute di pari passo con la proliferazione di fenomeni di televendita della fede made in USA. Il complesso tentativo di rifondare la religione cattolica dalla periferia, e dalla parte dei dannati, è stato respinto. Ma l’odierna crisi ha riaperto vecchie ferite e nuove contraddizioni e il messaggio di emancipazione della “teologia militante che lotta per far scendere i poveri dalla croce” interroga nuovamente tutte le coscienze critiche.

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La ruta del Che

45 anos despues la muerte de Ernesto Guevara, un cuento sobre la ruta que siguió en las últimas semanas de su vida. Una fría y estrellada noche me lleva a Vallagrande.

Voy en un viejo y destartalado autobús, como todos los destinados a estos remotos trayectos, y comparto el largo viaje iniciado en Santa Cruz, por una carretera de montaña a ratos sin pavimentar, con lugareños que vuelven a casa después de un fatigoso domingo de mercado.

A mi alrededor los rostros curiosos de niños envueltos en coloreados sayos y los rostros de adultos marcados por el cansancio. Todos saben porque estoy allí. He venido a realizar La ruta del Che, los lugares donde Ernesto Guevara transcurrió las últimas semanas de su existencia. Aquellos lugares que yo buscaba en el atlas geográfico de mi abuelo durante el verano en que leí, por primera vez, Diario en Bolivia.

A la entrada del pueblo hay una gran estatua de Jesús, bajo la cual, a pesar del enorme retraso del coche de línea y de la temperatura por debajo de cero, me espera Anastasio Kohmann. Alemán de nacimiento, llegó a Paraguay en los años sesenta, cuando entró de muy joven en una orden franciscana. Expulsado del país durante la dictadura fascista de Alfredo Stroessner, por su compromiso social en favor de la comunidad indígena guaraní, vive aquí desde entonces. Nunca más ha abandonado la “opción preferencial por los pobres” de la Teología de la Liberación y, desde hace algunos años, coordina las iniciativas de la Fundación Che Guevara en Vallagrande. Quien conoce América Latina bien sabe que esto no es una contradicción.

Con anterioridad, en Santa Cruz, me he encontrado con un hombre luchador y de gran simpatía. Debido a su baja estatura, desde siempre lo llaman el chato (el pequeño). Es un doctor que ha hecho de revolucionario y en su casa los libros de medicina se alternan con los de marxismo. Algunos de ellos, por ejemplo Un hombre de Oriana Fallaci, Senior Service de Carlo Feltrinelli o La Mujer Que Vengó Al Che Guevara de Jürgen Schreiber, cuentan la historia de su familia. Osvaldo Peredo es, en efecto, el hermano de Inti y Coco, los revolucionarios que acompañaron al Che en su campaña de Bolivia (Inti, uno de los combatientes más cercanos a Guevara, era el lugarteniente de las operaciones militares) y, desde hace años, el presidente de la Fundación Che Guevara de Bolivia.

Juntos, Anastasio y Osvaldo, me conducen a la lavandería del hospital Nuestro Señor de Malta, donde el cuerpo del Che se expuso al público por última vez y fue fotografiado, ya sin vida, pero con los ojos aun abiertos. Aquí, como en otros lugares de la zona, trabajan grupos de médicos cubanos llegados en los últimos años, gracias a un proyecto solidario impulsado por Fidel Castro, con el objetivo de crear nuevos y avanzados centros sanitarios que han mejorado notablemente los estándares de asistencia en la región.

En las afueras del núcleo habitado se encuentra la fosa común – transformada en museo – donde el Che, a quien fueron amputadas las manos como prueba definitiva de su muerte, fue sepultado en secreto, junto con otros guerrilleros de su columna, la noche del 10 al 11 de Octubre de 1967. El lugar se encuentra a poca distancia del puesto de mando militar y del pequeño aeropuerto desde donde rangers bolivianos y agentes de la CIA dirigieron las operaciones de rastreo por todo el territorio para capturarlo. Los restos han reaparecido treinta años después gracias a las investigaciones efectuadas por un grupo de antropólogos cubanos y argentinos en el lugar exacto de la inhumación. Hoy se conservan, en un mausoleo dedicado al Che, en Santa Clara, la ciudad cubana donde, en Diciembre de 1958, él dirigió la batalla decisiva que marcó la victoria de la revolución y el fin del régimen de Fulgencio Batista. En torno a la hipotética recuperación de estos lugares, hace algunas semanas, se han reunido representantes del los gobiernos argentino, boliviano y cubano con el ambicioso objetivo de realizar un itinerario con las etapas más significativas de la vida de Ernesto Guevara: esto es, la ruta del Che. Es de esperar que el proyecto, ya iniciado en Argentina, prosiga ahora en Bolivia, para rescatar la memoria del Che del monopolio mercantil de las agencias de viajes.

Por la montañas de America Latina

Para llegar a la Higuera se necesitan cerca de tres horas. Se accede solo con jeep ya que la carretera que conduce a este minúsculo pueblo, de apenas 50 casas y a más de 2000 metros de altitud, está totalmente sin asfaltar y llena de curvas. Es un sitio desolado, aislado del mundo. A lo largo del trayecto encuentro algunos campesinos. Cruzan la carretera interrumpida, caminando a paso lento. Melancólicos, con sus aperos de trabajo en la espalda. No parecer que haya cambiado mucho desde que el Che, que entró en el país a principios de Noviembre de 1966, durante la dictadura militar de general René Barrientos, atravesó estos valles. Él escogió Bolivia no porque estuviera guiado, como ingenuamente se le atribuyó, por la idea de aplicar de manera mecánica, en un contexto distinto, la estrategia política y militar operada en Cuba. Aún menos por perseguir un objetivo meramente nacional, sino porque estaba convencido de la necesidad de emprender un proceso revolucionario que abarcase todo el Cono Sur. Un proyecto supranacional, que de Bolivia se debería haber extendido rápidamente a Perú y Argentina, como única posibilidad de impedir a los Estados Unidos de intervenir golpeando a muerte los aislados y débiles núcleos de resistencia local. Este era su proyecto: “Crear dos, tres … muchos Vietnam” como había escrito en su artículo entregado a la Tricontinental algunos meses antes de su muerte. Por esta razón, Bolivia, en el centro del continente y colindante con cinco países, le pareció el lugar más adecuado para iniciar la formación de un grupo de cuadros a quien confiar, una vez adiestrados, la tarea de organizar varios frentes de lucha en toda América latina.

Junto a él 46 guerrilleros participaron en la creación del Ejército de Liberación Nacional de Bolivia (Eln). Por ello Fidel Castro escribió, en la Introducción que acompañó la publicación del Diario en Bolivia “Nunca en la historia se ha visto un número tan reducido de hombres emprender un tarea tan gigantesca”.

La muerte llegó inesperadamente, 11 meses después del inicio de la guerrilla. El ocho de Octubre de 1967 el Che, sorprendido junto a 16 compañeros más en una garganta llamada la quebrada del Yuro, fue herido en la pierna izquierda y capturado después de tres horas de combate. Trasladado a la cercana La Higuera, fue asesinado al día siguiente, por orden de Barrientos y de la CIA, por el militar Mario Terán, el mismo que, en el 2006, será operado gratuitamente, recuperando la vista, por uno de los médicos cubanos llegados a Bolivia, con el proyecto solidario Operación Milagro, tras la elección de Evo Morales. El periódico Granma de La Habana escribió a propósito: “Cuatro decenios después de que Terán intentara destruir un sueño y una idea, el Che ha vuelto a vencer otra batalla. Ahora Terán puede apreciar de nuevo el color del cielo y del bosque y disfrutar de la sonrisa de sus nietos”.

Un icono imperecedero

La noticia de la muerte del Che dejó a todos perplejos, pero sus ideas se difundieron con una rapidez que en la historia del siglo XX hay pocos ejemplos que se le puedan comparar. A sus hijos les dejó sólo una carta, en la que, haciéndoles la recomendación de no olvidar que “cada uno de nosotros, solo, no vale nada”, les exhortó a ser “siempre capaces de sentir en lo más profundo cualquier injusticia cometida, contra quien fuese, en cualquier parte del mundo”. Un mensaje que apareció en las banderas del movimiento obrero internacional y que, aun hoy, habla a las generaciones jóvenes del planeta entero.

En Diciembre de 1964, El Che intervino en la Asamblea general de la ONU. Habló de América latina y de la lucha de liberación de sus pueblos, exponiendo la convicción de que esta no llegaría solo con la contribución de sujetos, aunque importantísimos, como partidos políticos e intelectuales progresistas. Junto “a los obreros explotados – dijo – esta epopeya que tenemos delante la escribirán las masas de indios y campesinos sin tierra”. A la mayoría les pareció el enunciado de un nuevo Quijote, a otros, incluso en la izquierda, las palabras de un visionario. Sin embargo, hoy, tras la derrota de las dictaduras militares que han martirizado un continente entero y con el avance, en aquellos mismos lugares, de una participación social – desde las organizaciones indígenas de Ecuador y Bolivia al Movimento dei Sem Terra en Brasil – impensable hasta hace pocos años, la herencia de su pensamiento se representa más actual que nunca.

Traducción de Carlos Soriano

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Cesare Pianciola, L’indice dei libri del mese

La locomotiva del progresso e le altre storie possibili

La gravità della crisi attuale ha ravvivato l’interesse per Marx; nel settembre 2008 la Frankfurter Allgemeine Zeitung scriveva: “La storia del capitalismo è la storia delle sue crisi.

Qui Marx aveva completamente ragione”. Vladimiro Giacché, che nel 2009 ha raccolto l’antologia di scritti marxiani Il capitalismo e la crisi (DeriveApprodi, pp. 176, € 15), al convegno “Marx e la crisi” (Università di Bergamo, 23 aprile 2010; cfr. http://wwwdata.unibg.it/dati/persone/46/3907) diceva:“Molte delle certezze su cui erano state edificate la visione del mondo e la filosofia della storia diffuse a livello di massa negli ultimi decenni sembrano oggi – se non proprio in frantumi – quantomeno incrinate. Per capire i motivi del rinnovato interesse nei confronti di Marx bisogna partire da qui”.

Diversi economisti si cimentano nella lettura della crisi con gli strumenti marxiani. Tra questi Riccardo Bellofiore in La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Asterios, Trieste 2012, pp. 82, € 7, una riconsiderazione delle teorie marxiane della crisi in rapporto alla teoria del lavoro astratto e del valore. Nessuno si aspetta dalla crisi generale la rivoluzione proletaria, come sperava Marx, ma molti concorderebbero con la conclusione di Bellofiore: “Le questioni di un diverso modo di lavorare e di un diverso modo di organizzare la riproduzione come condizioni dell’uscita da questo mulinello sempre più infernale tornano per questo più attuali che mai” (p. 71).

Altri libri tracciano bilanci di vasto respiro su Marx e il marxismo. Ne indichiamo alcuni. Innanzitutto la raccolta di sedici scritti sull’argomento scritti a partire dal 1956, nel corso della sua lunga attività di studioso, da Eric Hobsbawm (Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Rizzoli, Milano 2011, pp. 482, € 22; ora riproposto nella BUR), che oltre ai saggi già editi – in gran parte tratti dalla Storia del marxismo Einaudi – ne contiene di nuovi. La prima parte è dedicata a Marx e Engels, la seconda ai vari marxismi, tra i quali lo storico inglese mostra una particolare predilezione per Gramsci. Sono fallite le esperienze storiche del comunismo e della socialdemocrazia, e “l’integralismo del mercato” ci spinge in una crisi disastrosa. Hobsbawm conclude il primo saggio, su Marx oggi, affermando: “Non possiamo prevedere le soluzioni ai problemi che il mondo deve affrontare nel XXI secolo, ma se si vuole avere una chance di successo bisogna porre le stesse domande che si pose Marx, rifiutando al contempo le risposte dei suoi vari discepoli”.

Dal decano degli storici marxisti a un giovane studioso professore di Teoria politica a Toronto: Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi. Studi e saggi (Carocci, Roma 2011, pp. 373, € 33), che raccoglie scritti pubblicati tra il 2005 e il 2010. La prima parte ricostruisce la biografia intellettuale di Marx fino al 1860; la seconda analizza la diffusione e la ricezione dell’opera di Marx, mettendo in rilievo le recenti acquisizioni filologiche dovute alla pubblicazione in corso della nuova edizione critica delle opere complete di Marx ed Engels, la MEGA2, della quale sono usciti 58 volumi sui 114 previsti (ognuno dei quali in tomi comprendenti il testo e accuratissimi apparati critici ad opera di una équipe internazionale). L’importanza della MEGA2 è bene illustrata nel capitolo L’odissea della pubblicazione degli scritti di Marx (pp. 189-224). Marx – tra i tormenti quotidiani della miseria e dei debiti, della morte di figli in tenera età, di malattie sue e della moglie – era un divoratore insaziabile e sempre insoddisfatto di libri, soprattutto di storia e di economia politica, ma anche di discipline che spaziano dall’antropologia alla chimica, da cui traeva montagne di estratti, riassunti, commenti a margine, quaderni di abbozzi incompiuti, sempre promettendo a Engels e agli editori di concludere un’opera che vedrà parzialmente la luce solo nel 1859 (Per la critica dell’economia politica) e nel 1867 (il primo libro del Capitale).L’operazione di chiudere questo “gigantesco cantiere di teoria critica” (p. 15) in una dottrina sistematica e conclusa fu perseguita già a partire dalla pubblicazione da parte di Engels dei libri secondo e terzo del Capitale, rielaborando manoscritti di diverse epoche. Kautsky curò poi il cosiddetto libro quarto sulle teorie del plusvalore; seguirono la ricomposizione con dubbi criteri ad opera dell’Istituto Marx-Engels di Mosca de L’ideologia tedesca e il montaggio, nel 1932, in due versioni differenti (Landshut e Mayer, molto scorretta, e Adoratskij, filologicamente più accurata ma insoddisfacente), dei celebri Manoscritti economico-filosofici del 1844, che finirono di essere separati dagli altri quaderni di estratti e commenti parigini, e di essere considerati un’opera alla pari di quelle pubblicate dal pensatore di Treviri. Essa mostrerebbe il vero e originario Marx secondo una schiera numerosa di interpreti occidentali, un pericoloso Marx umanista da confinare in edizioni per specialisti secondo i custodi dell’ortodossia sovietica, la preistoria ideologica della scienza della storia inaugurata dalla coupure del 1845 secondo Althusser e la sua scuola. Per Musto i Manoscritti, pur indispensabili “per poter comprendere meglio l’evoluzione e le differenti tappe del pensiero marxiano”, sono uno “schizzo incompleto di un giovane e inesperto studioso di economia politica” (p. 237), che indebitamente ha alimentato il “mito del giovane Marx” ed è servito a “creare la fuorviante immagine di un ‘Marx filosofo’” (p. 243): un giudizio che sarebbe assai riduttivo se non volesse forse dire semplicemente che le pagine dei Manoscritti sull’alienazione non vanno isolate ma inserite come prima elaborazione di temi che si svolgono con revisioni e arricchimenti successivi in molte pagine dei Grundisse, del VI Capitolo inedito, del primo e terzo libro del Capitale e in altri testi (come suggerisce l’antologia curata dallo stesso Musto: K. Marx, L’alienazione, Donzelli, Roma 2010, pp. 125, € 7). Oltre alla rassegna critica sulla fortuna dei Manoscritti, il libro contiene – tra l’altro – interessanti notizie sulla diffusione dei Grundrisse e l’analisi della celebre Introduzione del 1857, testo metodologico imprescindibile per la critica dell’economia politica (Musto ne ha curato una nuova edizione da Quodlibet, Macerata 2010, pp. 142, € 12).

Tra i numerosi interpreti commentati da Musto dispiace notare l’assenza di Lucio Colletti, che pure ha detto cose di rilievo su alienazione e feticismo. Ne approfittiamo per segnalare la pubblicazione delle sue lezioni degli inizi degli anni Settanta sul Capitale (Il paradosso del Capitale. Marx e il primo libro in tredici lezioni inedite, a cura di Luciano Albanese, Liberal edizioni, Roma 2011, pp. 207, €13).

Un libro appassionato, ispirato a Ernst Bloch e soprattutto a Walter Benjamin, è Strati di tempo. Karl Marx materialista storico (Jaca Book, Milano 2011, pp. 290, € 29) di Massimiliano Tomba, docente all’Università di Padova, studioso di Bruno Bauer e dei suoi rapporti con il giovane Marx. Tomba mette in rilievo e valorizza tutti gli aspetti del pensatore di Treviri che contrastano con una teoria storicistica della successione unilineare dei modi di produzione e su una filosofia della storia del progresso dialettico. In Marx c’è anche questo, ma non c’è solo questo, e Tomba, facendo anche riferimento a una vastissima letteratura secondaria, ripercorre gli anni in cui Marx elabora il modello del proletariato come classe con compiti universali e prospetta una rivoluzione sociale in grado di interrompere il processo storico di rafforzamento dello Stato moderno. Ma i risultati della ricerca sono particolarmente interessanti nella seconda parte del libro, dove Tomba documenta come e in che misura Marx abbandona la visione eurocentrica della missione civilizzatrice del capitale, ancora presente nei Grundrisse, e si orienta di più sui caratteri distruttivi dello sviluppo capitalistico, sia nelle periferie colonizzate che nel cuore della produzione industriale. Ora Marx studia la produzione di plusvalore al livello della concorrenza dei capitali sul mercato mondiale, dove il plusvalore relativo, ottenuto con l’innovazione tecnologica in alcuni punti, si intreccia all’estorsione di plusvalore assoluto, con l’allungamento della giornata lavorativa, in altri e anche a forme di sfruttamento schiavistico “che non sono residui di epoche passate, ma un genuino prodotto della modernità capitalistica” (p. 245). La composizione dei diversi strati di tempo nel sistema capitalistico globale porta Marx a ristudiare le forme non e pre-capitalistiche, a scrivere quaderni di appunti sugli antropologi e a discutere con i populisti russi la possibilità di far leva su forme comunitarie apparentemente arcaiche. Invece di accelerare la locomotiva del “progresso”, il materialista storico si ricollega alle possibilità di altre storie che a tratti sono balenate nelle lotte degli oppressi e a forme di vita negate e distrutte dalla modernità. “In qualsiasi momento il suo corso poteva essere interrotto. Da questa prospettiva non c’è nel capitalismo alcun elemento progressivo” (p. 20).

Alcune tesi sul metodo marxiano – letto attraverso il filtro di Benjamin – ci sembrano però una forzatura: “Lo storiografo materialista non è alla ricerca di una descrizione oggettiva. Egli sa bene che non solo le tradizioni sono sempre costruzioni, ma anche che gli stessi fatti sono interpretazioni. Lo storiografo materialista mette in luce il soggettivo dell’oggetto, la forza costituente di una pratica di classe all’interno di un fenomeno storico. […] Prende parte in quel conflitto politicizzando la storiografia” (p. 112). Sicché la verità della storiografia materialistica “si misura non in termini di oggettività, ma in forza della sua capacità di produrre l’immagine dell’ingiustizia” (p. 82).

Da segnalare infine A lezione da Marx. Nuove interpretazioni di Stefano Petrucciani (Manifestolibri, Roma 2012, pp. 173, € 20), che discute nella prima parte Marx oggi; nella seconda alcuni temi fondamentali, tra cui Marx teorico della libertà; nella terza alcune interpretazioni del pensiero di Marx in autori contemporanei come Rawls, Habermas e il “marxismo analitico” dei teorici anglosassoni che hanno ripreso il pensiero marxiano in rapporto ai temi rawlsiani e postrawlsiani della giustizia e della libertà. Petrucciani apprezza soprattutto e discute a fondo le tesi di Jacques Bidet (del quale ha presentato insieme a Michela Russo “Il Capitale”. Spiegazione e ricostruzione, Manifestolibri, Roma 2010, pp. 286, € 32). Non si tratta solo di ricostruire il pensiero di Marx in modo più corretto e libero, ma di metterlo a confronto con quanto di meglio offre il pensiero socio-politico contemporaneo, “senza timore di mettere in risalto tutte le aporie e i nodi irrisolti del suo pensiero” (p. 7), come Petrucciani ribadisce anche nella introduzione alla raccolta di contributi di vari autori che hanno partecipato a un convegno da lui promosso insieme a Corrado Ocone: Leggere Marx oggi, a cura di Paolo Granata e Roberto Pierri (Rubbettino, Soveria Manneli 2012, pp. 198, € 18).