Coloro che, visitando il Sudafrica (SA), desiderano comprendere gli eventi che hanno contraddistinto la drammatica storia di questo paese non possono tralasciare il Museo dell’Apartheid. Situato a pochi chilometri dal centro di Johannesburg, esso rappresenta, infatti, uno dei luoghi più significativi dal quale intraprendere l’angosciante viaggio a ritroso nella storia di uno dei peggiori casi del colonialismo europeo e, al contempo, del razzismo del XX secolo.
L’atmosfera festosa che si respira all’esterno, per la presenza delle scolaresche che, fra canti e dolcissimi sorrisi, si dispongono in una fila di vestiti e zainetti colorati prima di entrare, cessa bruscamente sull’uscio d’ingresso. Al museo non si accede tutti insieme. Uno ad uno, studenti o membri di famiglie in visita, vengono separati in base al numero del biglietto acquistato e per un’ora, prima di ricongiungersi accanto a una fotografia di Nelson Mandela, rivivranno la tragedia della segregazione. Quelli con i numeri pari entrano dal passaggio riservato ai “bianchi”, dei quali, nel corso della visita, si rammentano i privilegi goduti e le atrocità commesse; mentre i dispari, dal varco accanto, ripercorrono il tragitto delle brutalità subite dai “non bianchi”, ovvero i neri e i coloured. Tutti seguono lo stesso percorso, potendosi spesso guardare e, talvolta, camminare anche fianco a fianco, ma restano sempre divisi da una fredda gabbia di metallo; non si toccano mai e attraversano racconti, documenti ed esperienze di vita completamente differenti.
RAZZISMO E APARTHEID
La data in cui prese avvio la colonizzazione europea è il 1486, anno in cui il navigatore portoghese Bartolomeu Dias superò l’estremo meridionale dell’Africa. Nel 1652, alcuni pionieri olandesi di estrazione calvinista, dediti all’agricoltura e per questo chiamati boeri (contadini), costruirono un primo insediamento come scalo per le navi della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, la futura Città del Capo.
All’inizio del Settecento, per distinguersi dai colonizzatori inglesi giunti dopo di loro, iniziarono a denominarsi Afrikaner, ma l’evento che sconvolse la storia di questa terra fu la scoperta, nel 1887, delle incredibili ricchezze del suo sottosuolo. In pochi anni tutto mutò: prima della fine dell’Ottocento in SA veniva prodotto oltre un quarto dell’oro di tutto il globo e la fama dei suoi preziosissimi diamanti non fu da meno. Il razzismo divenne un elemento essenziale della cultura della popolazione di origine europea e finanche il Partito Comunista Sudafricano (CPSA), nel 1922, chiamò i minatori alla lotta per un “Sudafrica bianco e socialista”.
Nell’aprile del 1994, le televisioni di tutto il mondo mostrarono sterminate code di sudafricani che, per ore, con pazienza e orgoglio, restarono ad attendere un momento a lungo sperato: il primo voto e la fine della segregazione razziale. A distanza di quasi venti anni si può affermare che le speranze di quei milioni di donne e uomini sono state disattese. La lotta per un SA veramente democratico è stata fermata dalle politiche neoliberali adottate dall’African National Congress (ANC). Il brutale massacro di Marikana dello scorso agosto, così tanto simile alle stragi dei tempi dell’apartheid, nel quale hanno perso la vita 47 minatori in sciopero per l’aumento del loro salario (appena 250 euro al mese dopo 18 anni di democrazia), rappresenta perfettamente il paradosso di questa nazione.
A fronte della straordinaria concentrazione di ricchezza ancora esistente – un recente studio di Citigroup afferma che il SA possiede tutt’oggi il sottosuolo più ricco del pianeta, stimando il valore delle sue riserve minerarie in oltre 2.5 bilioni di dollari, – nel dopoguerra questo paese si distingueva, esclusa la popolazione di origine europea, per l’indice di mortalità più alto del mondo. Più della metà degli uomini di origine africana viveva confinata nei Bantustan (che coprivano appena il 13% della sua superficie), territori in cui il potere bianco relegò – e talvolta deportò – le popolazioni locali in base alle etnie di provenienza; mentre la restante parte abitava le township, baraccopoli limitrofe a tutte le città dei “bianchi”, nelle quali era ammassata, senza godere di alcun diritto civile, la forza lavoro nera che sorreggeva l’intera economia sudafricana. In queste zone la miseria era estrema. Le scarpe giunsero soltanto nel 1979, grazie alla Croce Rossa.
Nonostante la risoluzione di condanna verso le politiche di apartheid, votata dall’ONU nel 1962, il veto opposto da Stati Uniti, Inghilterra e Francia, potenze che beneficiavano delle esportazioni del SA, impedì l’espulsione, proposta con la mozione del 1974, del paese dalle Nazioni Unite. Così, sulla rotta del Capo di Buona Speranza, trasportando oltre il 20% del petrolio consumato negli USA e il 70% delle materie prime strategiche (in particolare platino, cromo e manganese) dell’Europa occidentale, continuarono a navigare oltre 2.000 bastimenti l’anno e le blande sanzioni economiche applicate non intaccarono affatto l’economia e il regime del National Party.
POVERTÀ E NEOLIBERISMO
Al momento degli accordi di pace, seguiti alla straordinaria lotta di liberazione, il SA era una paese profondamente diviso. La popolazione di origine europea aveva il 7° reddito pro-capite più alto al mondo, mentre quella africana il 120°. Con l’affollamento delle città da parte della moltitudine di africani liberate dai sordidi ghetti della segregazione, dopo l’elezione di Mandela, i “bianchi” cominciarono a spostarsi in quartieri residenziali, lontani dai centri delle principali città, nei quali continuano a vivere tuttora, asserragliati in abitazioni lussuosissime, a metà tra ville in stile hollywoodiano e fortezze completamente circondate dal filo elettrico spinato e da guardie armate private.
Nei primi quindici anni del SA libero, accanto alla figura carismatica e internazionalmente riconosciuta di Mandela, si è distinta quella di Thabo Mbeki. Vicepresidente del primo quinquennio e poi alla guida della “nazione arcobaleno” fino al 2008, è stato Mbeki a definire gli indirizzi economici del paese.
Nel 1994, l’Alliance, coalizione elettorale composta dall’ANC, dal CPSA e dal COSATU, la principale e più combattiva federazione sindacale sudafricana, con 1.8 milioni di iscritti, avviò, al fine di ridurre l’ingiustizia sociale, il Programma di Ricostruzione e Sviluppo (RDP), un insieme di misure miranti alla creazione di servizi primari, lavoro, abitazioni e riforma della proprietà terriera. Dopo due anni appena, l’RDP venne sostituito da un nuovo piano strategico, quello per la Crescita, Occupazione e Redistribuzione (GEAR), che avrebbe dovuto consentire, secondo le promesse di Mandela e Mbeki, l’arrivo di investimenti stranieri e, pertanto, del benessere generale. Con il GEAR, in realtà, a fare il loro ingresso in SA furono il neoliberismo e i suoi effetti devastanti.
Dopo aver accettato di ripagare il debito pubblico (25 miliardi di $) accumulato nell’era dell’apartheid – scelta che rese necessario l’avvalersi di un prestito del Fondo Monetario Internazionale e, dunque, di sottostare alle sue ricette economiche -, col GEAR il SA avviò una stagione di massicce privatizzazioni; di liberalizzazione degli scambi miranti all’importazione di merci a costi bassissimi; di ingenti tagli alla spesa accompagnati da corposi sgravi fiscali per tutte le grandi società (la cui tassazione è scesa dal 48% del 1994 all’attuale 30%); e di deregolamentazione del mercato. A dispetto delle promesse di maggiore efficienza, di creazione di nuovi posti di lavoro e conseguente riduzione della povertà, queste misure portarono all’aumento dei prezzi di elettricità, acqua e trasporti; all’abbassamento dei salari e alla flessibilità del lavoro; ai tagli al settore pubblico – in particolare sanità, scuola e pensioni – e al peggioramento della situazione ambientale, con l’enorme emissione di CO2 dovuta anche alla quantità di elettricità fornita alle multinazionali al prezzo più basso del mondo; e, infine, alla finanziarizzazione dell’economia con una crescita senza creazione di veri posti di lavoro (secondo l’Economist, il SA è il mercato emergente economicamente più vulnerabile). Qualsiasi seria analisi dell’attuale situazione economico-sociale del SA non può prescindere, quindi, da una rigorosa riflessione critica del GEAR e delle sue nefaste conseguenze.
A questa “prima economia”, sempre più integrata nel mercato globale e vincolata ai settori minerario e finanziario, fu affiancata una “seconda”, marginale e simile alle ricette del nobel Muhammad Yunus. Attraverso la “miracolosa” trasformazione dei poveri in piccoli imprenditori e mediante la seducente illusione secondo la quale il micro-credito era la possibile panacea di tutti i mali, quest’ultima ha contribuito, anche in SA, a una depoliticizzazione della povertà e ha favorito la penetrazione del mercato in ambiti delle relazioni sociali da esso, in precedenza, ancora preservati. D’altronde, la “tecnicizzazione” della questione sociale, ovvero la rimozione delle sue cause economico-politiche, è un fenomeno oggi sempre più diffuso.
Mbeki ha guidato questa trasformazione anche mediante l’utilizzo di una retorica di sinistra, tinta di nazionalismo africano. Non a caso la sua politica è stata definita Talk left, walk right, ovvero dire cose di sinistra, mentre si va a destra. Impostazione dalla quale non si è affatto discostato Jacob Zuma, l’attuale presidente del SA che, nonostante fosse stato eletto nel 2009 enfatizzando la sua collocazione nella sinistra dell’ANC, ha tradito le aspettative di cambio auspicate dal COSATU e si è contraddistinto per una netta continuità col passato.
UN MONITO PER LA SINISTRA
La conquista dei diritti politici è stato un risultato importantissimo che non può essere sottovalutato, tantomeno in un paese con la storia drammatica del SA. Tuttavia, la svolta promessa dall’Alliance si è arrestata sulla soglia della questione sociale. Di fatto, l’ANC ha rimosso il tema della redistribuzione delle ricchezze dalla sua agenda e, rispetto al 1994, le diseguaglianze si sono addirittura accresciute (al tempo il salario di un lavoratore nero corrispondeva al 13,5% di quello di un bianco; oggi tale rapporto è calato al 13%). L’aumento del disagio sociale nelle aree urbane indica che anche la “Guerra alla povertà”, dichiarata dal governo nel 2008, è stata perduta. Il numero dei disoccupati è superiore a un quarto della forza lavoro del paese – un dato maggiore di quello dei tempi dell’apartheid – e la percentuale dei senza impiego sarebbe superiore al 30% se nel conteggio fossero inclusi anche i discouraged workers, cioè quanti hanno smesso di cercare un’occupazione. Inoltre, sono diventati precari e retribuiti con un salario inferiore mezzo milione dei precedenti posti di lavoro, mentre molti di quelli da poco creati vengono retribuiti con meno di 20 euro al mese. Questo drammatico quadro è peggiorato con gli effetti della crisi, ovvero a causa della bolla immobiliare (rispetto alla fine del secolo scorso i prezzi erano aumentati del 389%); del calo dei settori minerario e manifatturiero, dovuto alla forte riduzione della domanda globale; del declino degli investimenti; e della perdita di un milione di posti di lavoro nel corso del solo 2009.
Nel “nuovo Sudafrica” le ingiustizie ereditate dal regime segregazionista si sono ampliate. La nascita di una borghesia “nera” – politicamente influente quanto economicamente debole -, di un’altra elite predatoria affiancatasi a quella già esistente, ha arricchito un gruppo di uomini legati all’ANC, ma non ha certo mutato la condizione del popolo sudafricano. L’apartheid razziale si è trasformato in apartheid di classe, parola oggi non più di moda, ma sempre attualissima, e il fallimento sociale dell’Alliance è un monito per tutte le sinistre del mondo. Ci dice che anche i partiti politici di grandi tradizioni, specialmente quando diventano forze di governo, finiscono col tradire gli indirizzi riformistici se smarriscono il proprio radicamento sociale e non sono più sostenuti da una mobilitazione di massa. È da questa, ancora una volta, anche imparando dal SA, che bisogna saper ripartire.