In un ventoso pomeriggio dell’inverno del 1882, un piroscafo diretto in Algeria si preparava a salpare dal porto di Marsiglia. Ad attenderne la partenza sulla banchina, in coda tra gli altri viaggiatori, c’era un signore di media statura, dall’aspetto affaticato e solitario. Veniva da Londra e aveva una valigia nella quale erano stipati vestiti pesanti, medicinali e qualche libro
Tedesco di nascita, era diventato apolide, dopo essere stato espulso dai governi francese, belga e prussiano, in seguito alla rivoluzione del 1848. Autore di una voluminosa critica del modo di produzione capitalistico, pubblicata nel 1867, era stato il principale dirigente della Associazione Internazionale dei Lavoratori. Il suo nome, Karl Marx, era apparso sulle pagine dei quotidiani di mezza Europa, quando, nel 1871, dopo la nascita della Comune di Parigi, la stampa l’aveva soprannominato il “dottore del terrore rosso”.
Prossimo ai 64 anni e segnato da una vita di stenti, aveva attraversato la Francia in treno, poco dopo la morte dell’amatissima moglie. Era molto malato. Si era appena rimesso dalla pleurite, ma continuava a essere perseguitato dalla bronchite e da una tosse fortissima che gli provocava l’insonnia. Per giunta, per poter passeggiare, senza troppi affanni, era spesso costretto a usare un respiratore, il cui utilizzo trovava mortificante come quello di “una museruola”. Ciò a cui, però, non avrebbe mai rinunciato era l’ironia. La veemenza con la quale i giornali borghesi in Germania ne avevano falsamente annunciato la morte l’aveva, infatti, “molto divertito”.
Un serio tentativo di guarigione imponeva di soggiornare in un luogo caldo. L’isola di Wight, dove era stato più volte in passato, non aveva funzionato. Gibilterra era da escludere dal momento che, per entrarvi, egli avrebbe dovuto fornire il passaporto che non aveva. L’impero di Bismarck era coperto dalla neve e a lui sempre interdetto; mentre l’Italia non era da prendere in considerazione, poiché, come affermò il suo amico Engels, “la prima prescrizione per i convalescenti è quella di evitare le molestie della polizia”. Assieme ai suoi dottori, Engels lo convinse, ad andare ad Algeri, che al tempo nutriva di una buona reputazione, in Inghilterra, tra i pochi che si potevano permettere di allontanarvisi durante i mesi più freddi dell’anno. Fu così che Marx acquistò il biglietto per l’Africa, per ottenere il quale, al tempo, bastava indicare soltanto il nome e il cognome del passeggero.
Ad Algeri tra malattie e malinconie donchisciottiane
Giunto a destinazione, dopo una burrascosa traversata di 34 ore, il 20 febbraio Marx scrisse a Engels che il suo “corpus delicti era sbarcato ad Algeri congelato fin nelle midolla”. Vi restò per 72 giorni: l’unico periodo della sua vita trascorso lontano dall’Europa.
Marx trovò posto in una pensione sulle colline, poco più a sud della famosa Casbah immortalata da Gillo Pontecorvo, quasi un secolo dopo, nella celebre pellicola dedicata alla lotta del Fronte di Liberazione Nazionale. Situata in una posizione perfetta, con vista sul porto da un lato e con le montagne della Cabilia come orizzonte dall’altro, la sua stanza offriva un “panorama favoloso”, che permetteva di apprezzare il “meraviglioso mélange tra Europa e Africa”.
L’unica persona che conosceva l’identità di quel signore poliglotta, appena arrivato in città, era Albert Fermé, un giudice di pace giunto ad Algeri nel 1870, dopo un periodo di prigionia dovuto alla sua opposizione al Secondo Impero francese. Fu la sola vera compagnia di Marx, gli fece da guida nelle escursioni e rispose alle sue curiosità sul nuovo mondo che lo circondava.
Purtroppo, col passare dei giorni, la salute di Marx non migliorò affatto. Anzi, il clima eccezionalmente freddo, piovoso e umido, che avvolse Algeri, favorì un nuovo attacco di pleurite. Sulla città si abbatté il peggiore inverno dei precedenti 10 anni e Marx scrisse a Engels: “l’unica differenza tra l’abbigliamento che uso ad Algeri e quello dell’isola di Wight è che ho sostituito il mio cappotto di rinoceronte con un cappotto più leggero”. Egli giunse fino a considerare l’ipotesi di spostarsi 400 km più a sud, a Biskra, un villaggio situato alle porte del Sahara, ma le pessime condizioni fisiche in cui si trovava avrebbero reso estremamente pericoloso un viaggio tanto disagevole. Cominciò, così, un lungo periodo di difficoltosi trattamenti.
Marx fu preso in cura dal miglior medico di Algeri, che gli prescrisse arseniato di sodio durante il giorno e una mistura di sciroppo e oppiacei a base di codeina, per riposare la notte. Gli impose di ridurre al minimo gli sforzi fisici e di non svolgere “alcun tipo di lavoro intellettuale, eccetto qualche lettura di distrazione”. Ciò nonostante, il 6 marzo la tosse diventò ancora più violenta e gli provocò varie emorragie. A Marx venne proibito, pertanto, di uscire dall’hotel e persino di conversare: “adesso pace, solitudine e silenzio sono per me un dovere civico”. Per lo meno, scrisse a Engels, tra i rimedi “il dottor Stéphann, come il mio caro dottor Donkin [di Londra], non ha dimenticato il cognac”.
La terapia più dolorosa risultò essere un ciclo di 14 vescicanti. Marx riuscì a realizzarla grazie all’aiuto di un altro paziente che, fortunatamente, era un giovane farmacista. Tramite numerose spennellature di collodio sul petto e sulla schiena e con la successiva incisione delle vesciche createsi, il signor Casthelaz riuscì a estrargli, poco alla volta, il liquido in eccesso dai polmoni.
Il 20 marzo Marx scrisse al genero, Paul Lafargue, che il trattamento era stato temporaneamente sospeso poiché, sia sul torace che sulle spalle, non aveva più un punto asciutto. La visione del suo corpo gli aveva ricordato quella di “un campo di meloni in miniatura”. L’agonia aumentò in seguito allo scoppio notturno delle vesciche, all’obbligo di restare fasciato e al divieto assoluto di grattarsi. Dopo aver appreso che, in seguito alla sua partenza, il tempo in Francia “era stato magnifico” e ripensando alla veloce guarigione che aveva inizialmente previsto, Marx comunicò a Engels che “un uomo non dovrebbe mai illudersi con visioni troppo ottimistiche”.
I dolori di Marx non si limitavano al corpo. Egli si sentiva solo e alla figlia Jenny scrisse che “niente sarebbe più incantevole della città di Algeri, se avessi intorno a me tutti i miei cari, in particolare i nipotini. Sarebbe come le 1000 e una notte”. Al compagno di una vita, confessò di avere “profondi attacchi di melanconia, simili a quelli del grande Don Chisciotte”. Il suo pensiero era “in gran parte assorbito” dal dolce ricordo della moglie. Per fortuna era sempre positivamente impressionato dallo spettacolo della natura intorno a lui e affermò di non essere “mai sazio di guardare il mare di fronte al [suo] balcone”.
Riflessioni sul Mondo Arabo
Marx era molto afflitto anche a causa della lontananza forzata dal lavoro. Fin dall’inizio del suo peregrinaggio, era sempre stato consapevole che quel viaggio avrebbe “comportato un’enorme perdita di tempo”, ma aveva finito con l’accettare le circostanze, dopo aver compreso che la “dannata malattia stava danneggiando anche la mente dell’infermo”.
A Jenny scrisse che ad Algeri la realizzazione di “qualsiasi lavoro era fuori discussione, finanche la correzione de Il capitale” per la terza edizione tedesca. Sulla situazione politica si limitò a leggere solo le notizie telegrafiche di un modesto giornale locale, Le Petit Colon, e dell’unico foglio operaio che gli spedirono dal vecchio continente, L’Égalité, circa il quale commentò, con il suo solito sarcasmo, che quello “non poteva essere considerato un giornale”.
Le sue lettere mostrano quanto egli fosse “ansioso di tornare attivo e di abbandonare quello stupido mestiere di invalido”, così da poter mettere fine a quel tipo di “esistenza inutile, vuota e, per giunta, dispendiosa!” A Lafargue disse di essere così impegnato a non far nulla che sentiva di essere prossimo all’imbecillità. Da queste testimonianze traspare anche il timore di non poter tornare alla sua esistenza abituale.
Dati gli avvenimenti sfavorevoli che si susseguirono, Marx non riuscì a comprendere a fondo la realtà algerina, né, tantomeno, come Engels si augurava, a studiare le caratteristiche della “proprietà comune tra gli arabi”. Tuttavia, la sua permanente voglia di conoscenza non si arrestò neanche in presenza delle condizioni più complesse. Tra le osservazioni che riuscì a riassumere nelle 16 lettere inviate da Algeri, alcune elaborate anche attraverso la lente di una visione in parte ancora coloniale, spiccano quelle sulle relazioni sociali tra i musulmani.
Dopo essere stato profondamente colpito dal portamento dei mori – che “in Algeria sono chiamati arabi” – e dalla mescolanza esistente tra le loro classi sociali, il 14 aprile, Marx raccontò alla figlia Laura che aveva visto giocare a carte alcuni di essi “vestiti in modo pretenzioso, persino opulento” con altri che indossavano “camicie consunte e strappate”. Per un “vero musulmano” – commentò – “la fortuna e la sfortuna non rendono i figli di Maometto gli uni diversi dagli altri. L’assoluta uguaglianza nei loro rapporti sociali non viene da ciò influenzata. Al contrario, essi se ne accorgono solo se sono stati corrotti. Per quanto riguarda l’odio verso i cristiani e la speranza di una vittoria definitiva sugli infedeli, i loro politici considerano, a ragione, questo sentimento e questa prassi di assoluta uguaglianza (non di ricchezza e rango, ma delle persone) come una garanzia per mantenere vivo l’uno e non abbandonare l’altra. Ciò nonostante” – concluse – “senza un movimento rivoluzionario andranno in malora”.
Marx si stupì anche per la scarsissima presenza dello Stato: “in nessun’altra città sede del governo centrale, esiste un tale laissez-faire; laissez-passer. La polizia è ridotta al minimo indispensabile; una sfacciataggine pubblica mai vista. All’origine di tutto ciò vi è l’elemento moresco. In effetti, i musulmani non conoscono la subordinazione. Non sono né ‘sudditi’, né ‘amministrati’; nessuna autorità, salvo in politica, ma sembra che questo gli europei non l’abbiano capito”.
Di questi ultimi, infine, Marx attaccò, con sdegno, i violenti soprusi, i ripetuti atti provocatori e, non da ultimo, “la spudorata arroganza, la presunzione e l’ossessione di vendicarsi come Moloch” di fronte a ogni atto di ribellione di quelle che consideravano essere “razze inferiori”.
Dopo oltre due mesi di sofferenze, le sue condizioni migliorarono e il ritorno in Francia si rese finalmente possibile. Prima di partire, egli condivise con Engels un’ultima sorpresa: “per via del sole ho eliminato la barba da profeta e la parrucca che avevo in testa, ma – siccome per le mie figlie sto meglio così – mi sono fatto fotografare, prima di sacrificare i capelli sull’altare di un barbiere algerino”. Fu in questa circostanza, dunque, che venne scattata la sua ultima istantanea. L’immagine è completamente diversa dal profilo granitico delle tante statue, costruite nelle piazze delle capitali dei “socialismi reali”, con il quale il potere scelse, poi, di raffigurarlo. I suoi baffi, un po’ come le sue idee, non avevano perso il colore della giovinezza e il suo volto, nonostante le grandi amarezze della vita, appariva ancora bonario, modesto e sorridente.