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Polonia al voto, favorita la destra. Un vento insidioso soffia in Europa

Il sesto paese per numero di abitanti dell’Unione Europea vira a destra. Dopo aver vinto le presidenziali di maggio, il partito populista Diritto e Giustizia è il grande favorito delle odierne elezioni polacche, che dovrebbero sancire la sconfitta di Piattaforma Civica, i liberal-conservatori – ma europeisti – al governo dal 2007.

A differenza dei frequenti richiami al nazionalismo e alla parola d’ordine “Prima ai polacchi”, le rivendicazioni in materia economica di Diritto e Giustizia sono state incentrate sulla promessa di aumentare la spesa sociale, migliorare il livello dei salari e abbassare l’età pensionabile. Un programma di sinistra, in un paese dove la sinistra ha difeso il neoliberismo e occupa, oggi, una posizione del tutto marginale. Una vicenda, quest’ultima, che si è ripetuta anche in altre parti del continente.

Negli ultimi anni, ovunque in Europa è aumentata l’ostilità, di larga parte dell’opinione pubblica, verso la politiche di austerità imposte dalla Troika.

Il panorama politico europeo è mutato per effetto del successo di movimenti populisti (come l’UKIP in Inghilterra e il M5S in Italia) e della significativa avanzata delle forze dell’estrema destra.

Il primo di questi fenomeni ha avuto quali comuni denominatori l’euroscetticismo e una generica denuncia della corruzione del sistema. Il secondo, invece, ha registrato un cambiamento nel discorso dei partiti xenofobi e nazionalisti che, alla classica distinzione tra destra e sinistra, hanno sostituito quella “tra l’alto e il basso”. In questa nuova polarizzazione, le forze dell’estrema destra si sono candidate a rappresentare quest’ultimo, il popolo, contro l’establishment e i poteri che hanno favorito lo strapotere del mercato.

Il “nuovo” volto della destra

L’impianto ideologico dell’estrema destra si è trasformato. La componente razzista è stata, in molti casi, messa in secondo piano rispetto alle tematiche economiche. L’opposizione alle, già cieche e restrittive, politiche sull’immigrazione, attuate dall’Unione Europea, si è rafforzata facendo leva sulla guerra tra poveri, ancor prima che sulla discriminazione basata sul colore della pelle o sul credo religioso. In un contesto di disoccupazione di massa e di grave conflitto sociale, la xenofobia è lievitata attraverso una propaganda che ha rappresentato i migranti quali principali responsabili dei problemi in materia di occupazione e servizi sociali.

Questo mutamento di rotta ha sicuramente influito sul risultato del Fronte Nazionale in Francia, che ha raggiunto il 25,2% alle amministrative del 2015.

In Europa, sono alleate del partito guidato da Marine Le Pen altre consolidate forze politiche, che chiedono, da tempo, l’uscita dall’euro, la revisione dei trattati sull’immigrazione e il ritorno alla sovranità nazionale. Tra esse, le più rappresentative sono il Partito della Libertà Austriaco, che la scorsa settimana ha sfiorato il 31% alle elezioni municipali di Vienna, e il Partito per la Libertà, terza forza politica in Olanda.

Le forze populiste hanno compiuto rilevanti avanzamenti anche in altre regioni d’Europa. Il Partito del Popolo Svizzero ha vinto, con quasi il 30% dei voti, le elezioni del 18 ottobre e in Scandinavia l’estrema destra costituisce, oramai, una realtà ben consolidata.

Nella patria del “modello nordico”, i Democratici Svedesi, nati attraverso la fusione di diversi gruppi neo-nazisti, sono stati, con il 12,8% delle preferenze, il terzo partito più votato alle legislative del 2014.

In Danimarca e in Finlandia vi sono stati risultati ancora più sorprendenti. Il Partito Popolare Danese è stato il movimento politico più votato alle ultime elezioni europee. Tale successo è stato confermato alle legislative del 2015, in seguito alle quali, con il 21% delle preferenze, è entrato nella maggioranza di governo. Dopo le elezioni del 2015, sugli scanni dell’esecutivo di Helsinki sono saliti anche i Veri Finlandesi, col 17,6% dei voti.

In Norvegia, infine, è arrivato per la prima volta al governo il Partito del Progresso, di vedute politiche analogamente reazionarie.

L’avanzata dell’estrema destra, in una regione dove le organizzazioni del movimento operaio hanno esercitato per lungo tempo un’indiscussa egemonia, non è avvenuta soltanto per merito di classiche campagne reazionarie, come quelle contro la globalizzazione, l’arrivo di nuovi richiedenti asilo e lo spettro della “islamizzazione” della società. Alla base del suo successo vi è stata la rivendicazione di politiche – tradizionalmente di sinistra, ma abbandonate dalle socialdemocrazie – in favore dello stato sociale. Si tratta, però, non più del welfare universale, inclusivo e solidale del passato, ma di un tipo diverso, basato sul principio di fornire diritti e servizi esclusivamente ai membri della già esistente comunità nazionale.

Al grande consenso ricevuto nelle zone rurali e di provincia, depopolate e con tassi di disoccupazione da primato (le stesse dove, in Grecia, raccolgono molti voti i neo-nazisti di Alba Dorata), i populisti scandinavi hanno, così, aggiunto quello di una parte della classe lavoratrice, che ha ceduto al ricatto “immigrazione o stato sociale”.

Pericolo a Est

L’estrema destra è riuscita a riorganizzarsi anche in diversi paesi dell’Est. L’Unione Nazionale Attacco in Bulgaria, il Partito Slovacco Nazionale e il Partito Grande Romania sono alcune delle forze politiche che hanno ottenuto buoni risultati elettorali e la presenza in parlamento.

In questa zona d’Europa, il caso più allarmante è quello dell’Ungheria. In seguito alla grave crisi deflazionistica, innescata dalle severe misure di austerità che sono state introdotte dai socialisti, in ossequio alle intimazioni della Troika, è giunto al potere il partito Fidesz. Dopo aver epurato la magistratura e messo sotto controllo i mass media, nel 2012 il governo ungherese ha introdotto una nuova costituzione dai connotati fortemente autoritari.

Inoltre, dal 2010, il Movimento per un’Ungheria Migliore (Jobbik) è diventato il terzo partito del paese (20,5% alle elezioni del 2014). A differenza delle forze presenti nell’Europa occidentale e scandinava, Jobbik rappresenta il classico esempio – oggi dominante a Est – di formazioni di estrema destra, che continuano a utilizzare l’odio contro le minoranze (in particolare quella Rom), l’antisemitismo e l’anticomunismo quali principali strumenti di propaganda e di azione.

In questi anni, dunque, i partiti della destra estrema hanno decisamente ampliato il loro consenso quasi in ogni parte d’Europa. In molte occasioni, sono stati in grado di egemonizzare il dibattito politico e, in alcuni casi, sono riusciti ad andare al governo. L’espansione dell’Unione Europea a levante ha decisamente spostato a destra il baricentro politico del continente, come hanno testimoniato le rigide posizioni oltranziste, assunte dai governi dell’Europa orientale, durante le recente crisi in Grecia e di fronte all’arrivo dei popoli in fuga dai teatri di guerra.

Si tratta di un’epidemia molto preoccupante, alla quale non si può certo pensare di rispondere senza combattere il virus che l’ha generata: il mantra neoliberista oggi ancora tanto in voga a Bruxelles.

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A megfelelő ember a megfelelő helyen

A kezdeti lépések
1864. szeptember 28-án a London szívében található St. Martin’s Hallt a megjelent mintegy kétezer munkás zsúfolásig megtöltötte. A munkásokat az angol szakszervezeti vezetők és a kontinensen élő munkások egy kis csoportja hívta össze: az előzetes közlemények „a párizsi munkások által szervezett küldöttségről” beszéltek, amely „átadja majd válaszukat angol testvéreik üdvözletére, továbbá átnyújt egy tervezetet, amelyet a népek közötti megértés fejlesztése érdekében dolgoztak ki”. (Rjazanov 1925, 171).

A kezdeményezés szervezői nem tudták elképzelni – és nem is láthatták előre –, lépésük milyen eredményre vezet. Eredeti tervük az volt, hogy nemzetközi fórumot hoznak létre, ahol a munkásokat érintő legfontosabb problémákat meg lehet vizsgálni és meg lehet vitatni, de nem azzal a szándékkal, hogy újfajta szervezetet akarnak megalapítani, amely koordinálná a szakszervezetek és a munkásság politikai akcióit. Ugyanígy, ideológiájukat eredetileg általános etikai-humanitárius elemek hatották át, például a népek közötti testvériség és a világbéke eszméjének fontossága, és sokkal kevésbé foglalkoztatta őket az osztályharc és az egyértelműen megfogalmazott politikai célok. E korlátok miatt a St. Martin’s Hallban tartott gyűlés is egyike lehetett volna annak a számos, korabeli, tétova demokratikus kezdeményezésnek, amelyek rövid idő alatt elhaltak. Valójában azonban itt született meg a munkás- mozgalom minden olyan későbbi szervezetének prototípusa, amelyet a reformisták és a forradalmárok is viszonyítási pontnak tekintettek a továbbiakban: itt formálódott meg a Nemzetközi Munkásszövetség, rövidebb elnevezéssel az Internacionálé.

Az Internacionálénak köszönhető, hogy a munkásmozgalom világo- sabban megértette a kapitalista termelési mód mechanizmusát, hogy tudatosabban felmérhette saját erejét, és hogy a küzdelem újabb, fejlettebb formáit alakíthatta ki.Másrészt viszont az uralkodó osztályok köreiben a szervezet megalapítása rémületet váltott ki. Jeges borzongással töltötte el őket az az elképzelés, hogy a munkások is aktívan részt kívánnak venni a történelemben, és nem is egy kormány alapvető céljául tűzte ki az Internacionálé felszámolását, és a rendelkezésére álló minden eszközt bevetve üldözte a szervezetet.

Az Internacionálét alapító munkásszervezetek nagyon vegyes képet mutattak. A legjelentősebb mozgatóerő a brit szakszervezeti mozgalom volt, amelynek vezetőit – világlátását tekintve gyakorlatilag mindegyikük reformista volt – elsősorban gazdasági kérdések foglal- koztatták; harcoltak a munkásság munkafeltételeinek javításáért, de magának a kapitalizmusnak a létezését nem vonták kétségbe. Ők az Internacionálét olyan eszköznek tekintették, amely elősegítheti céljaik megvalósulását, amennyiben megakadályozza külföldi sztrájktörők behozatalát Nagy-Britanniába.

A szervezeten belül ugyancsak jelentős erőt képviseltek a mutualisták, akik Franciaországban régóta túlsúlyban voltak, de erősek voltak Belgiumban és Svájc francia nyelvű területein is. Pierre-Joseph Proudhon (1809–1865) elmélete alapján elutasították, hogy a munkásosztály bármilyen értelemben részt vegyen a politikában, és ellenezték a sztrájkot is mint harci eszközt, továbbá konzervatív nézeteket vallottak a nők emancipációjának kérdésében. Proudhon követői föderalista elvek szerint működő szövetkezeti rendszert képzeltek el, és úgy gondolták, ha mindenkinek egyenlő feltételeket biztosítanak a banki hitelek felvételekor, akkor sikerül majd a kapita- lizmust megváltoztatni. Azt mondhatjuk, hogy végül aztán ők alkották az Internacionálé jobb szárnyát.

E két, számszerű többséget alkotó csoport mellett akadtak további, a fent említettektől eltérő árnyalatot képviselő résztvevők is. A harma- dik legjelentősebb csoportot a kommunisták alkották, akik Karl Marx (1818–1883) körül tömörültek, és csekély befolyással rendelkező, kis csoportosulásokban voltak aktívak – mindenekelőtt német és svájci városokban, illetve Londonban. Ők antikapitalisták voltak, azaz eluta- sították a fennálló termelési rendszert, és támogatták a politikai akciók szükségességének elvét a rendszer megdöntése érdekében.

Alapítása idején az Internacionálé soraiban olyan elemek is felbuk- kantak, akiknek semmi közük sem volt a szocialista tradícióhoz, így például kelet-európai emigránsok egyes csoportjai, akiket homályos demokratikus elvek mozgattak. Köztük voltak Giuseppe Manzini (1805–1872) követői, akinek osztályokon átívelő koncepciója, melyet elsődlegesen nemzeti követelések fűtöttek, az Internacionáléban olyan fórumot látott, amely hasznos és alkalmas arra, hogy általános felhívást intézzenek szélesebb körben az elnyomott népek felszabadításának érdekében.

A képet tovább bonyolítja az a tény, hogy az Internacionáléhoz csat- lakozott egyes francia, belga és svájci munkáscsoportok a legkülön- félébb zavaros ideológiákat hozták magukkal, melyek között utópikus elképzelések is megfogalmazódtak. Ezek a csoportok a maguk komplex kulturális hálózatával és politikai/ szakszervezeti tapasztalataival rajta hagyták kezük nyomát a szüle- tőben lévő Internacionálén. Valóban fáradságos feladat volt egy álta- lános működési keret kiépítése, és ilyen tág szervezet egybentartása még föderális alapon is. Ezen kívül, miután sikerült közös porgramot elfogadniuk, minden egyes irányzat továbbra is (időnként centrifugális) befolyást gyakorolt a helyi szekciókban, ahol többséget alkotott.

Marx érdeme, hogy mindezen áramlatok együtt tudtak működni egyazon szervezeten belül olyan program alapján, amelytől az egyes csoportok kiinduló elvei fényévnyi távolságra álltak. Marx politikai tehetsége lehetővé tette számára, hogy összebékítse a látszólag összebékíthetetlent, így biztosítva, hogy az Internacionálé sok korábbi munkásszervezettel ellentétben ne tűnjön el a történelem a süllyesztőjében (Collins–Abramsky 1965. 34). Marx volt az, aki világos célt adott az Internacionálénak, és az is Marx érdeme, hogy sikerült szilárd osztályalapokon álló, de nem kirekesztő politikai programot megfogalmazni, amely a szervezetnek minden szektarianizmuson túl tömegjelleget biztosított. A Főtanács politikai szelleme mindig Marx volt: ő szövegezte meg minden határozatukat, és ő készítette min- den egyes kongresszusi jegyzőkönyvüket (kivételt jelent az 1867-es lausanne-i kongresszus, amikor minden idejét A tőke korrektúrájának szentelte). Ő volt „a megfelelő ember a megfelelő helyen” ahogyan azt a német munkásvezér, Johann Georg Eccarius (1818–1889) egy helyütt megfogalmazta.

Elsősorban Marx munkabírásának köszönhető, hogy az Internaci- onálé fokozatosan a politikai szintézis funkcióját látta el, a sokszínű nemzeti irányzatokat közös harci célkitűzésben egységesítve, ami elismerte alapvető autonómiájukat, ha az irányító centrumtól való teljes függetlenségüket nem is tarthatták meg. Az egység fenntartása időnként iszonyú erőfeszítésekbe került, főképpen azért, mert Marx an- tikapitalizmusa sohasem vált a szervezeten belül meghatározó politikai pozícióvá. Az idők során azonban, részben éppen állhatatosságának köszönhetően, részben pedig az időnként bekövetkező kiválások miatt, Marx eszméje lett a hegemón doktrína. Nehez küzdelem, de a politikai megformálódás erőfeszítései a későbbi évek harcaiban jelentősen megtérültek. A munkások mozgósításának jellege, a párizsi kommün- nek a rendszer elleni tiltakozása, az a korábban soha nem tapasztalt feladat, hogy ilyen hatalmas és komplex szervezetet egyben tartsanak, a munkásmozgalmon belül jelentkező más irányzatokkal folytatott állandó polémia a legkülönfélébb elméleti és politikai kérdésben: mindezek a körülmények Marxot a politikai gazdaságtan határainak átlépésére ösztökélték, ami korábban gyelmének jórészét lekötötte az 1848-as forradalom bukását és a legprogresszívebb erők hanyatlását követően. Egyidejűleg ezek a tapasztalatok arra késztették, hogy to- vább fejlessze vagy felülvizsgálja nézeteit, hogy régi bizonyosságokatvita tárgyává tegyen és új kérdéseket fogalmazzon meg önmagának, különösen pedig is arra, hogy kapitalizmuskritikáját tovább élesítse a kommunista társadalom nagy vonalakban történő felvázolásával. Az ortodox szovjet álláspont Marxnak az Internacionáléban játszott szerepét illetően – amely szerint Marx mechanikusan alkalmazta korábban, dolgozószobája elzártságában kigondolt politikai elméletét a történelem adott fejlődési fokára – a fentiek következtében teljesen ellentmond a valóságnak.1

A mutualisták veresége
Mivel a legfontosabb szervezeti ügyek és az Internacionálé története idején bekövetkezett jelentős politikai események nincsenek szinkronban egymással, ezért nehéz a szervezet történetét időrendi sorrendben rekonstruálni. A szervezeti szempontú megközelítésben a jelentősebb állomások a következők voltak: 1. az Internacionálé megszületése (1864–1866), alapításától az első kongresszusig (Genf, 1866); 2. a terjeszkedés korszaka (1866–1870); 3. a forradalmi hullám és a Pári- zsi Kommün leverését követő megtorlás (1871–1872); 4. a szakadás és válság (1872–1877). Elméleti szempontból vizsgált fejlődésében ugyanakkor a következő állomások szerepelnek: 1. számtalan alapító szervezete közötti kezdeti viták és a szervezet alapjainak lefektetése (1864–1865); 2. a kollektivisták és a mutualisták közötti küzdelem a hegemóniáért (1866–1869); és 3. a centralisták és az autonomisták közötti összecsapás (1870–1877). Az alábbi kifejtés csak az elméleti szempontú fejlődési állomásokat vizsgálja részletesebben, melyek elsősorban a 2. és a 3. pontokhoz kapcsolódnak2.

Az Internacionálé legmérsékeltebb szárnyát négy éven át a mutua- listák alkották. A brit szakszervezetek, amelyek a szervezet többségét alkották, nem osztották Marx antikapitalista nézeteit, és nem is volt a szervezet politikájára olyan erős befolyásuk, mint amilyet Proudhon hívei gyakoroltak rá.

A francia anarchista elméletét alapul véve a mutualisták azt állították, hogy a munkásság gazdasági emancipációjához termelési szövetke- zetek és egy központi népi bank alapítása vezet majd el. Szilárdan elutasítottak mindenféle állami beavatkozást, ellenezték a föld és a termelőeszközök társadalmasítását és ellenezték a sztrájnak mint po- litikai fegyvernek az alkalmazását is. 1868-ban például még mindig sok olyan szekció létezett az Internacionáléban, amely ennek a harci esz- köznek negatív, gazdaságellenes értéket tulajdonított. Emblematikus ebből a szempontból a liège-i szekciónak a sztrájkról szóló jelentése: „A sztrájk harc. Ennek következtében alkalmas a nép és a polgárság közötti gyűlölet felszítására, ezzel még inkább eltávolítja egymástól azt a két osztályt, amelyiknek egybe kellene olvadnia és egyesülniekellene egymással” (Maréchal 1962, 268). A Főtanács álláspontjától és téziseitől aligha lehetett volna nagyobb a távolság.

Marx kétségkívül kulcsszerepet játszott abban a hosszú küzdelemben, aminek során Proudhonnak az Internacionáléra gyakorolt befolyá- sa fokozatosan csökkent. Maguk a munkások azoban már kezdték fél- retenni a proudhoni doktrínákat; mindenekelőtt a sztrájkok elburjánzása győzte meg a mutualistákat elméletük hibás voltáról. A proletárharcok azt mutatták, hogy a sztrájkra az adott állapotok javításának azonnali eszközeként van szükség, illetve azt, hogy a sztrájkok megerősítik az osztályöntudatot, ami az eljövendő társadalom megteremtésének elengedhetetlen feltétele. Hús-vér fér ak és nők akadályozták meg a kapitalista termelést, hogy jogokat és társadalmi igazságosságot követeljenek maguknak, ezáltal elmozdították ez erőviszonyokat az Internacionálén belül és – ami még jelentősebb – a társadalom egészé- ben is. A párizsi bronzöntők, Rouen és Lyons szövőmunkásai, Saint- Étienne szénbányászai voltak azok, akik – sokkal erőteljesebben, mint bármilyen elméleti vita – meggyőzték az Internacionálé francia vezetőit arról, hogy a földeket és az ipart társadalmasítani kell. És Proudhon nézeteivel szemben a munkásmozgalom demonstrálta, hogy lehetetlen leválasztani a társadalmi-gazdasági kérdéseket a politikai kérdésről. (Freymond 1962, I. XIV).

Az 1868. szeptember 6–13. között 99 küldött (akik Franciaországból, Svácból, Németországból, Sapnyolországból és Belgiumból érkez- tek) részvételével megtartott brüsszeli kongresszuson végül sikerült a mutualisták szárnyait lenyesni. A csúcspont akkor következett be, amikor a gyűlés elfogadta De Paepe javaslatát a termelési eszközök társadalmasításáról – ez meghatározó jelentőségű előrelépés volt a szocializmus gazdasági alapjainak meghatározásában, és ettől kezdve már nemcsak egyes értelmiségiek írásaiban, hanem egy nagy nemzetközi szervezet programjában is szerepelt (Musto 2014, 3. dokumentum).

Ezzel Brüsszelben az Internacionálé nyilvánosságra hozta első, egyértelmű nyilatkozatát a termelési eszközöknek az államhatalom általi társadalmasítása mellett. Ez a Főtanács jelentős győzelmét mutatta, és a szocialista elvek első ízben jelentek meg egy fajsúlyos munkásszervezet politikai programjában. Ha az Internacionálé kollektivista fordulatára a brüsszeli kongresszuson került sor, akkor a következő év szeptember 2–12. között rendezett bázeli kongresszus meghatározó eseménye a konszolidáció volt, ami még francia földön is felszámolta a proudhonizmust. Ezen a kong- resszuson 78 küldött vett részt, akik már nemcsak Franciaországból, Svájcból, Németországból, Nagy-Britanniából és Belgiumból érkeztek, hanem a bővülés egyértelmű jeleként Spanyolországból, Olaszország- ból és Ausztriából is jöttek, sőt, az észak-amerikai Nemzeti Munkás Egyesület is képviseltette magát egy küldöttel.

A bázeli kongresszus küldöttei egyetértőleg megerősítették a brüsszeli kongresszusnak a földbirtokról hozott határozatait, 54 igen, 4 nem és 13 tartózkodás mellett. A francia delegáció mind a tizenegy tagja elfogadta azt az új szövegezést, amely kijelentette „hogy a társadalomnak jogában áll felszámolni a föld magántulajdonát és azt a közösségnek átadni”. (Burgelin 1962, II. 74). Bázelt követően az Internacionálé francia szekciója már nem volt mutualista.

A bázeli kongresszus azért is volt is érdekes, mert küldöttként részt vett a folyamatok alakításában Mihail Bakunyin is. Miután nem tudta megszerezni a Liga a Békéért és a Szabadságért nevű szervezet ve- zetését, 1868-ban Genfben megalapította a Szocialista Demokrácia Egyesülést, és decemberben ez utóbbi szervezet kérte felvételét az Internacionáléba. A következő évben Bakunyin eszméi számos köve- tőre találtak sok városban, elsősorban Dél-Európában és szélsebesen sikert arattak Spanyolországban.

Az Internacionálé és a párizsi kommün
1870 szeptemberében az Internacionálé előkészületeket tett ötödik kongresszusa lebonyolítására. Eredetileg Párizsban akarták megren- dezni, de akkor – 1870. július 19-én – a francia-porosz háború kitörése miatt nem maradt más választás, mint lemondani a kongresszust.

A németek Sedannál aratott győzelmét és Bonaparte elfogását követően, 1870. szeptember 4-én Franciaországban kikiáltották a harmadik köztársaságot. A következő év januárjában véget ért Párizs négy hónapig tartó ostroma, amikor a franciák elfogadták Bismarck feltételeit; az ezt követő tűzszünet lehetővé tette választások lebonyo- lítását és Adolphe Thiers (1797–1877) köztársasági elnöki kinevezését óriási legitimista és orleanista többségi támogatással. A fővárosban azonban a progresszív-köztársasági erők elsöprő fölénnyel nyertek, és széles körű népi elégedetlenség bontakozott ki. Amikor a párizsiak azzal szembesültek, hogy a kormány le akarja fegyverezni a várost, és minden társadalmi reformot meg akar akadályozni, szembefordultak Thiers-rel és március 18-án kezdetét vette a munkásmozgalom első nagyszabású politikai eseménye: a Párizsi Kommün.

Noha Bakunyin sürgette, hogy a munkások a honvédő háborút for- dítsák át forradalmi harcba, a Főtanács kezdetben a hallgatás mellett szavazott. A Kommün győzelmét ünneplő szenvedélyes nyilatkozat azzal a kockázattal járt volna, hogy hiú ábrándokat kelt az aurópai munkásság köreiben, végső soron pedig a demoralizálódás és a hiteltelenség forrásává lett volna. Marx tehát úgy határozott, hogy el- halasztja a bejelentést, és hosszú heteken át távol maradt a Főtanács űléseiről. Nyomasztó jóslatai hamarosan túlzottan is megalapozottak- nak bizonyultak, és május 28-án, alig több mint két hónappal kikiáltásátkövetően a Párizsi Kommünt vérbe fojtották. Két nappal később Marx megjelent a Főtanácsban és magával hozott egy kéziratot ezzel a címmel: A polgárháború Franciaországban. A dokumentumnak a következő néhány hétben óriási hatása volt, sokkal nagyobb, mint bármelyik másik XIX. századi munkásmozgalmi dokumentumnak.

A „véres hét” (május 21–18) során, ami a „Versaillais” (a Versaillesiak), vagyis az ellenforradalmi erők betörését követte Párizsban, több tízezer kommünár vesztette éltét az összecsapásokban, vagy pedig egyszerűen kivégezték őket; ez volt a francia történelem leg- véresebb mészárlása. További 43 000 embert, vagy talán ennél is többet vetettek börtönbe, közülük később 13 500 főt halálra ítéltek, bebörtönöztek, kényszermunkára ítéltek vagy deportáltak (sokakat a távoli új-kaledóniai gyarmatra). További 7 000 embernek sikerült elmenekülnie, ők Angliában, Belgiumban vagy Svájcban telepedtek le. Az európai konzervatív és liberális sajtó fejezte be a Thiers katonái által elkezdett munkát, amikor azzal vádolták a kommünárokat, hogy szörnyű bűntetteket követtek el, és diadalmasan írtak arról, hogyan győzedelmeskedett a „civilizáció” a pimasz munkáslázadás fölött. Ettől kezdve az Internacionálé állt a vihar középpontjában, minden egyes, a fennálló rendszerrel szembeni lépésért őket okolták. Marx keserű iróni- ával jegyezte meg: „A chicagói nagy tűzvészt a távíró az Internacionálé pokoli műveként adta hírül az egész világnak, és valóban csodálatos, hogy a Nyugat-Indián végigsöprő orkánt nem az Internacionálé démoni behatásának tulajdonították.” (MEM, 18. 1969, 125)

Marxnak egész napokat azzal kellett töltenie, hogy válaszoljon a sajtónak az Internacionáléra szórt és a személyét érintő rágalmakra: „pillanatnyilag” – írta, [ő volt] „a legtöbbször megrágalmazott és a leg- fenyegetettebb ember Londonban”.

A párizsi véres megtorlás, a rágalomhadjárat és más európai kor- mányzatok repressziója ellenére az Internacionálé megerősödött és jóval szélesebb körben vált ismertté a kommün nyomán. A szervezet- re a kapitalisták és a középosztályok úgy tekintettek, mint a fennálló rend elleni veszélyre, de a munkásokban táplálta a reményt: olyan világ reményét, amelyben nincs kizsákmányolás és igazságtalanság. (Haupt 1978, 28). A lázadó Párizs megerősítette a munkásmozgal- mat, és arra késztette, hogy még radikálisabb pozíciót képviseljen, és fokozza harcias szellemét. A tapasztalat bebizonyította, hogy a forradalom lehetséges, s hogy lehet és kell is legyen az a cél, hogy a kapitalista rendszertől gyökeresen különböző társadalom épüljön fel; de egyidejűleg az is megmutatkozott, hogy e cél elérése érdekében a munkásoknak rugalmas, jól szervezett politikai szövetségeket kell kialakítaniuk. (Haupt 1978, 93–95).

Az 1871-es londoni konferencia
Két év telt el az Internacionálé legutóbbi kongresszusa óta, ám a fennálló körülmények között nem nyílt lehetőség újabb tanácskozás megrendezésére. A Főtanács ezért úgy határozott, hogy konferenciát hív össze Londonban; erre 1871. szeptember 17. és 23. között került sor. A találkozón jelen volt 22 brit küldött (első ízben Írországnak is volt képviselője), jöttek Belgiumból, Svájcból és Spanyolországból, illetve ott voltak még a francia menekültek. Bár a szervezők minden lehetsé- ges eszközzel igyekeztek az eseményt a lehető legreprezentatívabbá formálni, valójában inkább a Főtanács kibővített ülésének tűnt.

Marx már korábban bejelentette, hogy a konferenciát „kizárólag a szervezeti és a politikai kérdéseknek” (MEM 1962-68, IV, 259) szentelik, az elméleti vitákat félreteszik egy időre. Ezt az első ülésen világosan megmondta:

„A Főtanács konferenciát hívott össze, hogy a különböző országok- ból érkezett küldöttekkel megállapodjon azokról az intézkedésekről, melyeket a sok országban működő Munkásszövetséget fenyegető veszélyekkel szemben kell megtennünk, és lépéseket kell tennünk egy új szervezet létrehozása érdekében, amely a helyzet kívánta szük- ségletekhez jobban igazodik. Másodsorban ki kell dolgoznunk, milyen választ adjunk azoknak a kormányoknak, melyek szakadatlanul azon dolgoznak, hogy minden eszközzel megsemmisítsék a Munkásszövet- séget. Végül pedig le kell zárnunk a svájciakkal folytatott vitát egyszer és mindenkorra.” (MEM 1975, 225).

Marx minden energiáját a következő céloknak rendelte alá: az Internacionálé újjászervezése, az ellenséges erőktől való megvédel- mezése és Bakunyin erősödő befolyásának kézben tartása. Mint a konferencia kiemelkedően legaktívabb résztvevője, Marx 102 alka- lommal szólalt fel, meggátolta, hogy olyan javaslatokat terjesszenek be, amelyek nem estek egybe az ő terveivel, és sikerült meggyőznie azokat, akik még kételkedtek. (Molnár 1963, 127). A londoni tanács- kozás megerősítette a szervezeten belüli pozícióját: egyértelmű lett, hogy Marx egyfelől a politikai irányvonalat kidolgozó szellemi vezető, másfelől pedig a szervezet egyik legharciasabb és legfelkészültebb aktivistája.

A konferencia legfontosabb döntése, ami később is emlékeze- tessé tette a találkozást, Vaillant IX. határozatának elfogadása volt. A blanquisták vezetője – akiknek megmaradt erői csatlakoztak az Internacionáléhoz a Kommün bukása után – azt javasolta, hogy a szer- vezet a Főtanács irányítása alatt álló centralizált, fegyelmezett párttá alakuljon át. Bár akadt némi nézeteltérés – különösen a blanquistáknak azon álláspontja váltott ki ellenkezést, hogy egy szigorúan szervezett, harcias nukleusz is elegendő a forradalom kivívásához –, Marx egy percig sem habozott, hogy Vaillant csoportjával szövetséget kössön:nem pusztán azért, hogy az Internacionálé keretein belül megerősítse a bakunyinista anarchisták elleni csoportosulást, hanem mindenekelőtt azért, hogy szélesebb konszenzust biztosítson azokhoz a változások- hoz, amelyeket az osztályharc új szakaszában szükségesnek tartott. Így a Londonban elfogadott határozat kijelentette:

„[…] tekintettel arra, hogy a vagyonos osztályok ezen egyesített hatalma ellen a munkásosztály mint osztály csak akkor léphet fel, ha politikai párttá szerveződik, amely minden régi, a vagyonos osztályok által alakított párttól különbözik és velük szemben áll; hogy a munkásosztálynak erre a politikai párttá szerveződésre azért van szüksége, hogy biztosítsa a társadalmi forradalom győzelmét és végső célját – az osztályok megszüntetését; hogy a munkásosztály erőinek egyesítése, melyet gazdasági harcaival már megvalósított, ugyanakkor emelőül kell hogy szolgáljon a földtulajdonosok és tőkések politikai hatalma ellen vívott harcában.” (MEM 1968, 17. 388)

A következtetés egyértelmű volt: „[…] a munkásosztály harci állapotában gazdasági mozgalma és politikai tevékenysége elválaszthatatlan egységbe forr össze.” (MEM 1968, 17. 389)
Míg az 1866-os gen kongresszus a szakszervezetek jelentőségét alapozta meg, az 1871-es londoni konferencia a hangsúlyt áthelyezte a modern munkásmozgalom másik kulcsfontosságú instrumentumára: a politikai pártra. Ugyanakkor, hangsúlyozni kell, hogy ennek értelme- zése sokkal tágabb körű volt, mint amivé a huszadik században vált. Marx koncepcióját tehát meg kell különböztetnünk a blanquistákétól is – a két nézet később nyíltan is összeütközésbe került egymással – és Leninétől is, ahogyan azt az októberi forradalom után a kommunista szervezetek alkalmazták.3 Marx úgy látta, a munkásosztály önfelsza- badítása hosszú és veszélyes folyamat – tökéletes ellentéte ez Szergej Nyecsajev (1847–1882) Egy forradalmár katekizmusa című művében felvázolt elméletének és gyakorlatának, aki támogattta a titkos társa- ságok létrejöttét. Ezt a koncepcióját a londoni küldöttek elítélték, de Bakunyin lelkesen támogatta.

A londoni konferencián mindössze négy küldött ellenezte a IX. számú határozatot, ők azzal érveltek, hogy „a tartózkodás” politikáját kellene alkalmazni és nem kellene a politikában részt venni; ám Marx győzel- me hamarosan kérészéltűnek bizonyult. A felhívásnak, mely később minden országban politikai pártok megalapítását eredményezte és nagyobb hatalmat ruházott a Főtanácsra, súlyos utóhatásai lettek az Internacionálé belső életében; a szervezet nem tudott elég gyorsan ru- galmas szervezetből politikailag uniform szervezeti modellbe átváltani (Freymond – Molnár 1966, 27).

Marx meg volt győződve arról, hogy gyakorlatilag minden nagyobb föderáció és helyi szekció támogatni fogja a konferencia határozatait, de hamarosan szembesülnie kellett ennek az ellenkezőjével. Novem- ber 12-én a Jura Föderáció saját kongresszust hívott össze a Sonvilierközségben, és bár Bakunyin nem tudott jelen lenni, hivatalosan is kezdeményezték az ellenzéket az Internacionálén belül.

Noha a Jura Föderáció álláspontja (itt volt Bakunyin működésének központja) nem volt váratlan, Marxot talán meglepte, amikor a nyug- talanság, sőt lázadás jelei mutatkoztak máshol is a Főtanács politikai vonalával szemben. Számos országban a londoni döntéseket a helyi politikai autonómia elfogadhatatlan korlátozásának tekintették.

A Főtanáccsal szembeni ellenzék sokféle formát öltött, és néha fő- képp személyes motivációk mozgatták; furcsa erők tartották egyben, és az Internacionálé irányítását még jobban megnehezítették. Mégis, túl azon, hogy Bakunyin elmélete bizonyos országokban jelentős vonzerőt képviselt, és Guillaume képessége, hogy a különböző ellenzékeket egységesítse, „A munkásosztály politikai akciója” címet viselő határo- zattal szembeni fellépés legfőbb mozgatója, az a környezet volt, amely nem volt hajlandó a Marx által javasolt minőségi előrelépést elfogadni. Mert minden kapcsolódó haszon ellenére is, a londoni fordulatot sokan úgy tekintették, mint súlyos összeütközést; és nemcsak a Bakunyinhoz kapcsolódó csoport, hanem a föderációk és a helyi szekciók többsége is úgy vélte, az autonómia és az Internacionálét alkotó, különböző való- ságok iránti tisztelet elve az Internacionálé egyik sarkpontja. Marxnak ez a téves számítása felgyorsította a szervezet válságát (Freymond- Molnár 1966, 27–28).

Az Internacionálé válsága
A végső összecsapásra 1872-ben, nyár végén került sor. A megelőző három év szörnyű eseményei – a francia–porosz háború, a Párizsi Kommün bukását követő megtorlási hullám, a számtalan belső csatá- rozás – után az Internacionálé végre újra kongresszust tudott tartani. Az Internacionálé ötödik kongresszusára Hágában került sor szeptem- ber 2. és 7. között. A találkozón összesen 14 ország 65 küldötte vett részt. Az Internacionálé történetének kétség kívül legreprezentatívabb találkozója volt ez.

Az esemény döntő fontossága arra késztette Marxot, hogy Engels társaságában személyesen is jelen legyen4. A Hágában született leg- jelentősebb döntésnek megfelelően az 1871-es londoni konferencia IX. határozatát mint a 7a számú új cikkelyt belefoglalták a Munkásszövet- ség alapszabályába. Mostanra a társadalom átalakításának a politikai harc lett a megfelelő eszköze, mivel: „a föld és a tőke urai mindig fel fogják használni politikai kiváltságaikat gazdasági monopóliumaik meg- védésére és megörökítésére. Nemcsak hogy nem segítik elő a munka felszabadítását, hanem továbbra is minden lehetséges módon akadályt fognak gördíteni útjába […] Ezért a politikai hatalom meghódítása a munkásosztály nagy kötelessége” (MEM 1968, 17. 388.)

Az Internacionálé mostanra már gyökeresen különbözött attól a szer- vezettől, amilyen alapításakor volt: a radikális-demokratikus elemek kiváltak belőle, miután fokozatosan marginalizálódtak; a mutualisták vereséget szenvedtek és közülük sokan átálltak; a reformisták már nem alkották a szervezet meghatározó többségét (Nagy-Britannia kivételé- vel); az antikapitalizmus lett az egész Munkásszövetség politikai vezér- fonala, valamint a nemrégiben formálódott irányzatok, így például az anarcho-kollektivisták vezéreszméje is.

Annak ellenére, hogy az Inter- nacionálé működésének évei alatt a világban bizonyos fokú gazdasági prosperitás volt jellemző, ami egyes esetekben a munkafeltételeket megkönnyítette, a munkások megértették, hogy valódi változást nem az effajta tünetenyhítéstől várhatnak, hanem csakis a kizsákmányolás felszámolásától. Egyre inkább saját anyagi szükségleteikre alapozták küzdelmeiket, s sokkal kevésbé azon csoportok kezdeményezéseire, melyekhez adott esetben maguk tartoztak.

A tágabb kép is radikálisan megváltozott. Németország 1871-es egyesítése egy új korszak hajnalát jelentette, amelyben a nemzet- államok alkotják a politikai, jogi és területi identitás döntő formáját; ez viszont megkérdőjelezte bármilyen nemzetek feletti testület létét, ami a tagok be zetéseiből tartotta fenn magát minden egyes országban, és azt követelte tagjaitól, hogy a központi testület javára mondjanak le a helyi politikai irányítás nagy részéről. Ugyanakkor a nemzeti mozgalmak és szervezetek közötti növekvő különbsé- gek elképesztően megnehezítették a Főtanács dolgát, vagyis azt a feladatot, hogy olyan politikai szintézist dolgozzanak ki, amely mindenki igényeit képes kielégíteni. Igaz, hogy az Internacionálé kezdetektől fogva a szakszervezeteknek és politikai egyesületeknek olyan halmaza volt, melyben a részvevőket cseppet sem volt könnyű egymással összhangba hozni, ahogyan az is igaz, hogy ezek az átlagos szervezeteknél mindig is jóval súlyosabb érzékenységeket és politikai irányzatokat képviseltek. 1872-re azonban a Munkásszö- vetség különféle alkotóelemei – és tágabb értelemben a munkásság küzdelmei – sokkal élesebb körvonalakat és struktúrát kaptak. A brit szakszervezetek legalizációja hivatalosan is a nemzeti politikai élet szereplőivé tette őket; az Internacionálé belga föderációja szerte- ágazó szervezet volt olyan központi vezetéssel, amely képes volt jelentős és autonóm elméleti tevékenységre; Németországban két munkáspárt is létezett, mindkettőnek volt parlamenti képviselete; a francia munkások Lyon-tól Párizsig már megpróbálták „az eget ostromolni”; a spanyol föderáció olyan mértékben kiterjeszkedett, hogy gyakorlatilag a tömegszervezetté való átalakulás várt rá. Más országokban is hasonló változások zajlottak le.

Ilyenformán az Internacionálé eredeti szerkezete idejétmúlttá vált, ahogyan eredeti küldetése is végéhez közeledett. A feladat ekkoriban már nem abban állt, hogy Európa-szerte támogatást szervezzen egyessztrájkoknak, hogy kongresszusokat hívjon össze a szakszervezetek hasznossága vagy a föld és a termelési eszközök társadalmasításának szükségessége tárgyában. Ezek a témakörök ekkorra már átmentek a szervezet egészének kollektív örökségébe. A Párizsi Kommün után a munkásmozgalomra váró valódi kihívás forradalmi természetű volt: ho- gyan kell szerveződni ahhoz, hogy fel lehessen számolni a kapitalista termelési módot és meg lehessen dönteni a polgári világ intézményeit. Többé már nem az volt a kérdés, hogyan kell megreformálni a létező társadalmat, hanem az, hogyan kell újat építeni.

A hágai kongresszus időszakában nem egy szavazást éles viták előztek meg, ez történt többek között Bakunyin kizárásakor és a Főtanács Londonból New Yorkba való áthelyezésekor. Ez a döntés Marxnak azt a nézetét tükrözte, hogy helyesebb, ha felszámolják az Internacionálét, mint ha megvárják, hogy ellenfelei kezében szektás szervezetté silányuljon. Úgy vélte, az Internacionálé felszámolása, ami kétségtelenül bekövetkezik majd a Főtanács New Yorkba való áthelyezésével, ezerszer jobb volt, mint a hosszadalmas és hiábavaló testvérgyilkos harcok sorozata.

Mégsem tűnik meggyőzőnek, ha azt állítjuk – amit sokan meg is tették –, hogy az Internacionálé hanyatlásának kulcsfontosságú oka két áramlatának kon iktusa, jobban mondva két fér : Marx és Bakunyin ellentéte volt, akármilyen szellemi nagyságok voltak is. Sokkal inkább azok a változások a felelősek az Internacionálé elavulásáért, amelyek a világban zajlottak. A munkásmozgalom szervezeteinek fejlődése és átalakulása, a nemzetállamok megerősödése az olasz és a német egyesülést követően, az Internacionálé térhódítása olyan országokban, mint Spanyolország és Olaszország (ahol a gazdasági és politikai kö- rülmények gyökeresen eltértek a brit vagy francia viszonyoktól), a brit szakszervezeti mozgalomban tapasztalható igény a még erőteljesebb mértékletesség irányában, a párizsi kommünt követő megtorlások: mindezek a tényezők együttesen okozták, hogy az Internacionálé eredeti szerkezete alkalmatlannak bizonyult az új idők új feladatainak megoldásához.

Ilyen háttéresemények közepette, a centrifugális erők túlsúlyával, az Internacionálé életében bekövetkező fejlemények és a szervezet irányítói természetesen szintén jelentős szerepet játszottak. A londoni konferencia például távolról sem bizonyult annak a mentőakciónak, aminek Marx szándékai szerint lennie kellett volna; valójában a szi- gorú irányítási elv jelentősen növelte belső válságát, mivel nem vette gyelembe a túlsúlyban lévő hangulatot vagy nem volt képes azt az előrelátást tanúsítani, amely Bakunyin és csoportja megerősödésének útját állta volna. (Molnár 1962, 144). Pirruszi győzelemnek bizonyult Marx számára – megpróbálta megoldani a belső kon iktusokat, ám éppen az ellenkezője történt: ezek még hangsúlyosabbakká váltak. Azonban a helyzet továbbra is az maradt, hogy a Londonban megho-zott döntések csak felgyorsították azt a folyamatot, ami már korábban megindult, és képteleség volt visszafordítani.

Mindezen történelmi és szervezeti megfontolásokon túl akadtak még további problémák is, melyeknek aligha volt kisebb súlyuk a főszerep- lőre, Marxra nézve. Ahogyan Marx 1871-ben a londoni konferencia egyik szekciójában emlékeztette a küldötteket: „a Főtanács munkája hatalmasra duzzadt, mivel mostanra már kénytelen volt mind az álta- lános kérdésekkel, mind a nemzeti kérdésekkel foglalkozni.” (Burgelin 1962, II. 217) A szervezet már nem az 1864-es kicsi alakulat volt, mely angol és francia lábakon állt; mostanra már minden európai országban jelen volt, és minden egyes nemezeti szekciójának megvoltak a maguk sajátos problémái és jellemző vonásai. Nem elég, hogy a szervezet gyakorlatilag mindenhol belső bajokkal küzdött, újabb gondokkal járt a lehető legtarkább eszmei málhával felszerelkezett, száműzött kom- münárok Londonba érkezése, és még tovább nehezítette a Főtanács számára a politikai szintézis megteremtének feladatát.

Marx súlyos megpróbáltatásokat élt át az Internacionáléban végzett nyolc évnyi intenzív tevékenysége során. Miután tisztában volt azzal, hogy a munkásság erői a Párizsi Kommün vereségét követően meg- csappantak – és számára ez jelenette az adott időszak legfontosabb tényét –, ezért végül úgy döntött, hátralevő éveit arra fordítja, hogy megpróbálja befejezni A tőke megírását. Amikor átkelt a La Manche- csatornán, hogy Hollandiába menjen, minden bizonnyal érezte, hogy az előtte álló küzdelem az utolsó olyan jelentős tevékenysége lesz, amelyben maga játssza a főszerepet.

Abból a szótlan résztvevőből, akinek 1864-ben a St. Martin Hallban tartott első gyűlésen mutatkozott, mostanra az Internacionálé veze- tőjévé vált, akit nemcsak a kongresszusi küldöttek és a Főtanács, hanem a szélesebb közönség is megismert. Így, bár az Internaci- onálé kétségtelenül óriási köszönettel tartozott Marxnak, nagyban hozzájárult ahhoz is, hogy Marx élete megváltozzék. A szervezet megalapítása előtt csak a politikai aktivisták kis csoportjainak körében ismerték. Később, de mindenekelőtt a Párizsi Kommün bukása után, illetve természetesen azt követően, hogy 1867-ben kiadta fő művét, hírneve sok európai országban ismertté lett a forradalmárok köré- ben, olyannyira, hogy a sajtó egyenesen „a vörös terror doktorá”-nak nevezte. Az Internacionáléban betöltött szerepéből adódó felelősség – ami lehetővé tette számára, hogy közelről megtapasztaljon oly sok gazdasági és politikai küzdelmet – további hajtóerőt jelentett a kom- munizmussal foglalkozó elmélkedéseiben, és alapvetően gazdagította az antikapitalista elmélet egészét.

Marx versus Bakunyin
A két tábor közötti küzdelem a hágai kongresszust követő hónapokban lángolt fel, de csak néhány alkalommal foglalkozott a felek valódi elmé- leti és ideológiai ellentéteivel. Marx gyakorta gurázta ki Bakunyin ál- láspontját, és „az osztályegyenlőség” szószólójaként festette le (amivel a Szocialista Demokrácia Egyesülés 1869-es programjának alapelveire utalt), vagy egész egyszerűen a politikai tartózkodás hívének nevezte. Ami az orosz anarchistát illeti, aki ellenfelével szemben kevéssé volt elméletileg felkészült, ő előnyben részesítette a személyes vádaskodás és a sértegetés eszközeit.

Így, noha Bakunyin – Proudonhoz hasonlóan – hajhatatlan ellenzéke volt mindenfajta politikai tekintélynek, s különösen annak közvetlen formáját, az államot utasította el, mégis tévedés lenne őt ugyanolyan feketére festeni, mint a mutualistákat. Míg az utóbbiak ténylegesen tartózkodtak mindenféle politikai tevékenységtől, súlyosan ránehe- zedve az Internacionáléra a kezdeti években, az autonomisták – aho- gyan Guillaume hangsúlyozta egyik utolsó felszólalásában a hágai kongresszuson – „a társadalmi forradalom politikájáért harcoltak, a burzsoá politika és az állam felszámolását követelték” (Musto 2014, 76. dokumentum). El kell ismerni, hogy az Internacionálé forradalmi szárnyához tartoztak, és hogy értékes kritikai szempontokkal járultak hozzá a munkához a politikai hatalom, az állam és a bürokrácia kérdéseiben.

Akkor hát miben is különbözött a „negatív politika”, amit az autonomisták az egyetlen lehetséges akcióformának tekintettek, a centra- listák által képviselt „pozitív politikától”? Az olasz föderáció javaslatára 1872. szeptember 15–16. között Saint-Imier-ben megrendezett nem- zetközi kongresszus, melyen a Hágából visszatért más delegációk képviselői is részt vettek, határozataiban megállapítja, hogy „egyetlen politikai szervezet sem lehet más, csak és kizárólag az uralom szerve- zete, amely az egyik osztályt előnyben részesíti a tömegek rovására, és ha a proletariátus megkísérelné megragadni a hatalmat, akkor maga válna domináns és kizsákmányoló osztállyá.” Következésképpen, „a proletariátus első feladata minden politikai hatalom lerombolása”, és „az ún. ideiglenes és forradalmi politikai hatalom bármilyen szervezete, amely ilyen rombolást hoz létre, csak további megtévesztésül szolgálna, és éppen olyan veszélyes volna a proletariátusra nézve, mint a ma létező összes kormány” (Musto 2014,78. dokumentum).

Annak ellenére, hogy a két oldal egyetértett abban, hogy fel kell számolni az osztályokat és az állam politikai hatalmát a szocialista társadalomban, nézeteik gyökeresen eltértek egymástól azokban az alapvető kérdésekben, hogy milyen utat kell követni, és a kívánt válto- zás eléréséhez milyen társadalmi erőkre van szükség. Míg Marx szá- mára a forradalom alanya par excellence egy meghatározott osztály, agyáripari munkásság volt, Bakunyin a „nagy gyülevész néphez”, az ún. „lumpenproletariátushoz” fordult, amely, mivel „szinte érintetlen maradt a burzsoá civilizációtól, belső lényegében és inspirációiban, kollektív életének minden szükségletében és nyomorúságában hordozza a jövő szocializmusának magvait.” (Bakunyin 2014, 294) A kommunista Marx megtanulta, hogy a társadalmi átalakulás speci kus történelmi feltételeket, hatékony szervezetet és a tömegek körében hosszú ideig, lassan fejlődő osztálytudatot igényel; az anarchista Bakunyin viszont meg volt győződve arról, hogy az emberek, az ún. „gyülevész nép” egyaránt „legyőzhetetlen és igazságos”, és önmagában is elegendő erőt képvisel ahhoz, hogy „a társadalmi forradalmat bevezesse és győzelemre vigye.” (Bakunyin 2014, 294–295)

Egy másik nézeteltérést a szocializmus megvalósításához szüksé- ges eszközök mibenléte okozott. Bakunyin harcias tevékenységének jó része abban állt, hogy kis, főképpen értelmiségiekből álló „titkos társaságokat” épített ki (vagy ezek kiépítéséről fantáziált): egyfajta „forradalmi vezérkart, amely elkötelezett, energikus, intelligens egyé- nekből áll, akik mindenekelőtt a nép barátai” (Bakunyin 1973, 155), akik előkészítik a felkelést és véghez viszik a forradalmat. Marx viszont a munkásosztály önfelszabadításában hitt, és meg volt győződve arról, hogy a titkos társaságok léte „ellenkezik a proletármozgalom fejlődésé- vel, mert ezek a társaságok a munkások oktatása helyett autoritatív és misztikus törvényeknek vetik alá őket, melyek fékezik függetlenségüket és hamis irányba terelik gondolkodásukat.” (MEM 1968. 17. 610) Az orosz emigráció a munkásosztály minden olyan politikai akcióját elle- nezte, ami nem segítette elő közvetlenül a forradalom kirobbanását, míg az állam nélküli ember, akinek Londonban volt állandó lakhelye, nem tartotta rangján alulinak, hogy társadalmi reformok és részleges célok érdekében mozgósítson, és közben teljességgel meg volt győ- ződve arról, hogy ezeknek erősíteniük kell a munkásosztály harcait, melyek célja a kapitalista termelési mód legyőzése, nem pedig a rendszerbe integrálódás.

Az új Internacionálé
A későbbi években Marx nyerte meg a politikai csatát az anarchistákkal szemben, a munkásosztály szocialista programot fogadott el, egész Európában megvetette lábát, és a nemzetek feletti együttműködés új struktúráit építette ki. Az elnevezés folytonosságától eltekintve (a II. Internacionálé 1889–1916; a III. Internacionálé 1919–1943) mindezek a struktúrák minden lépésükben az I. Internacionálé értékeire és tan- tételeire hivatkoztak. Így aztán az Internacionálé forradalmi üzenete elképesztően termékenynek bizonyult, és olyan gyümölcsöket érlelt, amelyek jócskán túltettek a létezése idején elért eredményein.

Az Internacionálé lehetővé tette, hogy a munkások megértsék, a munka felszabadítása nem vihető végbe egyetlen országban, hanem csak globális méretekben. Továbbá tudatosította köreikben, hogy a célt nekik maguknak kell elérniük saját szervezeti képességeik révén, nem pedig úgy, hogy céljaikat valami más erőre testálják át; azt is tu- datosította bennük, hogy – és ebben Marx elméleti munkája bizonyult alapvetőnek – a kapitalista termelési mód és a bérmunka felszámolása a legfontosabb lépés, mivel egy létező rendszeren belüli javulás, amit szükséges ugyan követelni, de nem tudja megszüntetni a munkaadói oligarchiáktól való függést.

Óriási szakadék választja el azon időszak reményeit a mi korunkra oly jellemző bizalmatlanságtól, az Internacionálé korának rendszer- ellenes szellemiségét és szolidaritását a neoliberális versengés és a privatizáció alakította világ ideológiai alárendeltségétől és individualiz- musától. A Londonban 1864-ben gyülekező munkásságnak a politika iránt tanúsított szenvedélye éles ellentétben áll korunk apátiájával és rezignáltságával.

És mégis, míg mára a munka világa visszatért a tizenkilencedik században tapasztalt kizsákmányolás feltételei közé, az Internacio- nálé projektuma újra kiemelkedően aktuálissá vált. A „világrendszer” mostani barbársága, a jelenlegi termelési mód okozta katasztrofális környezeti állapotok, az egyre mélyülő szakadék a kizsákmányoló kevesek gazdagsága és az óriási többség nyomora között, a nők elnyomása, a háborúk, a rasszizmus és a sovinizmus viharai a mai munkásmozgalomnak sürgető feladatává teszik, hogy újjászervezze magát az Internacionálé két kulcsfontosságú jellemzőjének megfelelő- en: egyfelől struktúráinak sokfélesége, másfelől céljainak radikalizmusa alapján. A Londonban 150 évvel ezelőtt alapított szervezet céljai ma még elevenebbek, mint valaha. Hogy felnőjön korunk kihívásaihoz, az új Internacionálé nem kerülheti meg kettős előfeltételét: plurálisnak és antikapitalistának kell lennie.

Fordította: Baráth Katalin

References
1. Lásd Rubel, Maximilien 1974: Marx, critique du marxisme, Paris, Payot, 41: „csak a mitológia – netán a misztifikálás – iránti igény sarkallhatta őket arra, hogy ebben a [politikai programban] a »marxizmus« következményét lássák, azaz a teljesen virágba szökkent doktrínát, amelyet kívülről egy mindenható tudat erőszakol rá az amorf és tehetetlen embertömegre a társadalmi gyógyír keresése során.”
2. Az Internacionálé történetének összefoglaló áttekintéséhez lásd Marcello Musto (ed.) 2014: Introduction in Workers Unite! The International 150 Years After. New York/London, Bloomsbury, 1–68.
3. Az 1870-es évek elején a munkásosztály mozgalmát csak Németországban szervezték politikai pártba. A „pártnak” mint fogalomnak a használata – akár Marx, akár Bakunyin követőire gondolunk – nagyon zavaros volt. Maga Marx is meglehetős homályban hagyta a szó jelentését. Rubel szerint Marx számára (Musto 2014, 183) „a párt koncepciója […] az osztály koncepciójával esik egybe.” Végül, fontos hangsúlyozni, hogy az Internacionáléban 1871 és 1872 között végbement konfliktus nem a politikai párt megteremtésének kérdésében folyt (a kifejezést magát a londoni konferencián mindössze kétszer használták és ötször a hágai kongresszuson), hanem inkább „a ’politikai’ jelző használatán” (Haupt 1978, 84).
4. Ld. Marxnak Ludwig Kugelmannhoz írt levelét (MEM 1975. 33. kötet, 486), ahol Marx megjegyezte, hogy ez a kongresszus „élet-halál kérdése lesz az Internacionálé számára; és mielőtt lemondok, legalább meg akarom védeni a bomlasztó elemektől.”

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Revisitando la concepción de la alienación en Marx

I. Introducción
La alienación puede situarse entre las teorías más relevantes y discutidas del siglo XX, y la concepción de la misma elaborada por Marx asume un rol determinante en el ámbito de las discusiones desarrolladas sobre el tema. Sin embargo, a diferencia de lo que se podría imaginar, el curso de su afirmación no fue en absoluto lineal, y la publicación de algunos textos inéditos de Marx conteniendo reflexiones sobre la alienación, han representado hitos significativos en la transformación y propagación de esta teoría.

A lo largo de los siglos, el término alienación fue utilizado muchas veces y con diferentes significados. En el discurso teológico, designaba la distancia entre el hombre y Dios; en las teorías del contrato social, servía para indicar la pérdida de la libertad originaria del individuo; mientras que en la economía política inglesa, fue utilizado para describir a la cesión de la propiedad privada de la tierra o de la mercancía. Sin embargo, la primera exposición filosófica sistemática de la alienación sólo apareció a comienzos del siglo XIX y fue obra de G. W. F. Hegel. En La fenomenología del espíritu (1807), Hegel hizo de la misma la categoría central del mundo moderno y adoptó los términos Entäusserung (literalmente, auto-exteriorización o renunciamiento) y Entfremdung (extrañamiento, escisión) para representar el fenómeno por el cual el espíritu deviene el otro de sí mismo en la objetividad. Esta problemática fue muy importante también para los autores de la izquierda hegeliana, y para la concepción de la alienación religiosa expuesta por Feuerbach en La esencia del cristianismo (1841) – o sea, la crítica del proceso por el cual el ser humano se convence de la existencia de una divinidad imaginaria y se somete a ella – contribuyendo en forma significativa al desarrollo del concepto. Posteriormente la alienación desapareció de la reflexión filosófica, y ninguno de los principales pensadores de la segunda mitad del siglo XIX le prestó una particular atención. Hasta el mismo Marx usó raramente el término en las obras publicadas durante su vida, y el término también estuvo totalmente ausente en el marxismo de la Segunda Internacional (1889-1914).

Sin embargo, durante este período, varios autores desarrollaron conceptos que luego serían asociados con la alienación. Émile Durkheim, por ejemplo, en sus obras La división del trabajo (1893) y El suicidio (1897), utilizó el término “anomia” para indicar un conjunto de fenómenos que se manifestaban en la sociedad, en los que las normas que garantizaban la cohesión social entraban en crisis a raíz del alto desarrollo de la división del trabajo. Las tendencias sociales que han tenido lugar luego de los inmensos cambios en el proceso productivo también constituyeron el fundamento de las reflexiones de sociólogos alemanes. George Simmel, en La filosofía del dinero (1900), dedicó mucha atención al predominio de las instituciones sociales sobre los individuos y la creciente despersonalización de las relaciones humanas, mientras Max Weber, en su Economía y sociedad (1922), explicó largamente los conceptos de la “burocratización” y el “cálculo racional” en las relaciones humanas, considerándolos como la esencia del capitalismo. Pero estos autores consideraban a estos fenómenos como hechos inevitables, y sus reflexiones reflejaban el deseo de mejorar el orden social y político existente, y por cierto, no el de reemplazarlo por otro diferente.

II. El redescubrimiento de la alienación
Fue gracias a György Lukács que se redescubrió la teoría de la alienación, cuando en Historia y conciencia de clase (1923) se refirió a ciertos pasajes de El capital de Marx (1867), en particular en el párrafo dedicado al “fetichismo de la mercancía” (Der Fetsichcharakter der Ware ) e elaboró el concepto de reificación (Verdinglichung, Versachlichung) para describir el fenómeno por el que la actividad laboral se contrapone al hombre como algo objetivo e independiente, y lo domina mediante leyes autónomas y ajenas a él. Pero en los tramos fundamentales, la teoría de Lukács era todavía similar a la hegeliana, pues concebía la reificación como “un hecho estructural fundamental”. Posteriormente, luego de que la aparición de una traducción francesa [1] le diera a esta obra una gran influencia entre los estudiosos y los militantes de izquierda, Lukács decidió republicar su texto en una nueva edición con un largo prólogo autocrítico (1967), en el cual, para aclarar su posición, afirmó que “Historia y conciencia de clase sigue a Hegel en la medida que, también en este libro, identifica a la extrañación con la objetificación”. [2]

Otro autor que en la década de 1920 prestó gran atención a esta temática fue Isaak Rubin, en cuyo libro Ensayos sobre la teoría marxista del valor (1928) afirmaba que la teoría del fetichismo de la mercancía constituía “la base de todo el sistema económico de Marx, y en particular de su teoría del valor”. [3] Para este autor ruso, la reificación de las relaciones sociales de producción representaba “un fenómeno real de la economía mercantil-capitalista”, [4] y consistía en la “materialización” de las relaciones de producción, y no una simple “mistificación” o ilusión ideológica: Esa es una de las características de la estructura económica de la sociedad contemporánea (…) El fetichismo no sólo es un fenómeno de la conciencia social, sino del ser social.” [5]

A pesar de estas lúcidas ideas, proféticas sin consideramos la época en que fueron escritas, la obra de Rubin no logró contribuir a estimular el conocimiento de la teoría de la alienación, dado que sólo fue conocida en Occidente cuando se la tradujo al inglés en 1972 (y del inglés a otros idiomas). El hecho decisivo que revolucionó finalmente la difusión del concepto de alienación fue la aparición en 1932 de los Escritos económico-filosóficos de 1844, un texto inédito, perteneciente a la producción juvenil de Marx. De este texto emerge el rol principal o de primer plano que había conferido Marx a la teoría de la alienación durante una importante fase de la formación de su concepción: la del descubrimiento de la economía política. [6] En efecto, Marx, mediante la categoría del trabajo alienado (entfremdete Arbeit), [7] no sólo desplazó la problemática de la alienación desde la esfera filosófica, religiosa y política a la económica de la producción material; sino también hizo de esta última la premisa para poder comprender y superar las primeras. En los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, se describe a la alienación como el fenómeno mediante el cual el producto del trabajador surge frente a este último “como un ser ajeno, como una fuerza independiente del productor”. Para Marx:

… la enajenación [Entäusserung] del trabajador en su producto significa no solo que el trabajo de aquel se convierte en un objeto, en una existencia externa, sino que también el trabajo existe fuera de él, como algo independiente, ajeno a él; se convierte en una fuerza autónoma de él: significa que aquella vida que el trabajador ha concedido al objeto se le enfrenta como algo hostil y ajeno. [8]

Junto a esta definición general, Marx enumeró cuatro diferentes tipos de alienaciones que indicaban como era alienado el trabajador en la sociedad burguesa: a) del producto de su trabajo, que deviene “un objeto ajeno que tiene poder sobre él”; b) en su actividad laboral, que él percibe como “dirigida contra sí mismo”, como si “no le perteneciera a él” [9] ; c) del “ser genérico del hombre”, que se transforma en “un ser ajeno a él”; y d) de otros seres humanos , y en relación con su trabajo y el objeto de su trabajo. [10]

Para Marx, a diferencia de Hegel, la alienación no coincidía con la objetivación como tal, sino con una precisa realidad económica y con un fenómeno específico: el trabajo asalariado y la transformación de los productos del trabajo en objetos que se contraponen a sus productores. La diferencia política entre estas dos posiciones es enorme. Contrariamente a Hegel, que había representado la alienación como una manifestación ontológica del trabajo, Marx concebía este fenómeno como la característica de una determinada época de la producción, la capitalista, considerando que era posible superarla, mediante “la emancipación de la sociedad respecto de la propiedad privada”. [11] Consideraciones análogas fueron desarrolladas en los cuadernos que contenían extractos de Elementos de economía política, de de James Mill:

El trabajo sería la manifestación libre de la vida y por consiguiente, el disfrute de la vida. Pero en el marco de la propiedad privada, eso es la alienación de la vida, pues trabajo para vivir, para procurarme los medios de vida. Mi trabajo no es vida. Más aún, en mi trabajo se afirmaría el carácter específico de mi individualidad porque sería mi vida individual. El trabajo sería pues mi auténtica y activa propiedad. Pero en las condiciones de la propiedad privada mi individualidad es alienada hasta el punto en que esta actividad me es odiosa, para mí es una tortura y sólo la apariencia de una actividad y por lo tanto solo es una actividad forzada que se me impone, no por una necesidad interna, sino por una necesidad exterior arbitraria. [12]

De este modo, aún en estos fragmentarios y a veces vacilantes textos juveniles, Marx trató a la alienación siempre desde un punto de vista histórico, nunca desde un punto de vista natural.

III. Las concepciones no marxistas de la alienación
Sin embargo, pasaría mucho tiempo antes de que se pudiera afirmar una concepción histórica, no ontológica, de la alienación. En efecto, la mayor parte de los autores que, en las primeras décadas del siglo XX, se ocupó de esta problemática, lo hacía siempre considerándola un aspecto universal de la existencia humana. Por ejemplo, en Ser y Tiempo, Martín Heidegger (1927), abordó el problema de la alienación desde un punto de vista meramente filosófico y consideró a esta realidad como una dimensión fundamental de la historia. La categoría que usó para describir la fenomenología de la alienación fue la de la “caída” (Verfallen): es decir, la tendencia a estar-ahí (Dasein), – que en la filosofía heideggeriana indica la constitución ontológica de la vida humana – a perderse en la inautenticidad y el conformismo hacia el mundo que lo circunda. Para él, “el estado de caída en el ‘mundo’ designa el absorberse en la convivencia regida por la habladuría, la curiosidad y la ambigüedad”; un territorio, por consiguiente, completamente diferente de la fábrica y de la condición obrera fabril, que se hallaba en el centro de las preocupaciones y de las elaboraciones teóricas de Marx. Además, esta condición de la “caída” no era considerada por Heidegger como una condición “mala y deplorable que, en una etapa más desarrollada de la cultura humana, pudiera quizás ser eliminada”, sino más bien como una característica ontológico-existencial, “un modo existencial de estar-en-el-mundo.” [13]

También Herbert Marcuse, que a diferencia de Heidegger conocía bien la obra de Marx, identificó la alienación con la objetivación en general, no con su manifestación en las relaciones capitalistas de producción. En un ensayo publicado en 1933, sostiene que “el carácter de ‘carga’ del trabajo” [14] no podía ser atribuido simplemente a “ciertas condiciones en la ejecución del trabajo, o sobre su condicionamiento técnico-social” [15] , sino que se debía considerar como uno de sus rasgos fundamentales:

Al trabajar, el trabajador está “en la cosa” tanto si está frente a una máquina, como desarrollando un plan técnico, tomando medidas de organización, investigando problemas científicos, o impartiendo enseñanzas, etc. En su hacer, él se deja guiar por la cosa, subordinándose y atándose a su normatividad, incluso cuando domina su objeto (…) En todo caso, el trabajador no está “consigo mismo”, (…) más bien se pone a disposición de lo-otro-que-él, está en ello, en eso-otro; incluso cuando ese hacer llena su propia vida, libremente aceptada. Esta enajenación y alienación de la existencia, (…) es por principio imposible de suprimir. [16]

Para Marcuse, por consiguiente, había una “negatividad esencial del trabajo” que él consideraba que pertenecía a “la negatividad enraizada en la entidad de la existencia humana misma.” [17] La crítica de la alienación deviene, así, una crítica de la tecnología y el trabajo en general. La superación de la alienación sólo se la consideraba posible en el momento del juego, momento en el cual el hombre podía alcanzar la libertad que se le negaba en la actividad productiva: “En un solo lanzamiento de una pelota del jugador, reside un triunfo infinitamente mayor de la libertad del ser humano sobre la objetividad que en la más grande realización de un trabajo técnico.” [18]

En Eros y civilización (1955), Marcuse tomó distancia de la concepción marxiana, de manera similar. Allí afirmó que la emancipación humana sólo podría realizarse mediante la liberación del trabajo y a través de la afirmación de la libido y el juego de las relaciones sociales. Descartaba definitivamente la posibilidad de superar la explotación mediante el nacimiento de una sociedad basada en la propiedad común de los medios de producción, puesto que el trabajo en general, no sólo el trabajo asalariado, era considerado como:

… trabajo que está al servicio de un aparato que ellos [la vasta mayoría de la población] no controlan, que opera como un poder independiente al que los individuos deben someterse si quieren vivir. Y este poder se hace más ajeno conforme la división del trabajo llega a ser más especializada. (…) Trabajan (…) enajenados (…). Porque el trabajo enajenado es la ausencia de gratificación, la negación del principio del placer.” [19]

La norma cardinal contra la que los seres humanos deberían rebelarse sería el “principio de actuación” impuesto por la sociedad. Pues, para Marcuse,

el conflicto entre la sexualidad y la civilización se despliega con este desarrollo de la dominación. Bajo el dominio del principio de actuación, el cuerpo y la mente son convertidos en instrumentos del trabajo enajenado; sólo pueden funcionar como tales instrumentos si renuncian a la libertad del sujeto-objeto libidinal que el organismo humano es y desea ser (…) El hombre existe (…) como un instrumento de la actuación enajenada. [20]

Por consiguiente, él sostiene que la producción material, aunque fuera organizada en forma justa y racional, “nunca podrá ser el campo de la libertad y la gratificación. (…) La esfera ajena al trabajo es la que define la libertad y su realización.” [21] La alternativa propuesta por Marcuse era abandonar el mito prometeico tan caro a Marx para llegar a un horizonte dionisíaco: la “liberación de Eros”. [22] A diferencia de Freud, quien había sostenido en La civilización y sus descontentos (1929) que una organización no represiva de la sociedad implicaría una regresión peligrosa del nivel de civilización alcanzado en las relaciones humanas, Marcuse estaba convencido de que, si la liberación de los instintos tuviera lugar en una “sociedad libre” tecnológicamente avanzada [23] al servicio del hombre, no sólo habría favorecido “un desarrollo del progreso” sino también creado “nuevas y durables relaciones de trabajo.” [24]
Pero sus indicaciones sobre cómo debería tomar cuerpo esta nueva sociedad fueron más bien vagas y utópicas. Marcuse terminó promoviendo la oposición al dominio tecnológico en general, por lo cual su crítica de la alienación ya no era más utilizada contra las relaciones capitalistas de producción, y comenzó a desarrollar reflexiones sobre el cambio social tan pesimistas como la de incluir a la clase obrera entre los sujetos que operaban en defensa del sistema.

La descripción de una alienación generalizada, producto de un control social invasivo y de la manipulación de las necesidades, creada por la capacidad de influencia de los medios de comunicación de masas, fue teorizada también por otros dos principales exponentes de la Escuela de Frankfurt, Max Horkheimer y Theodor Adorno. En Dialéctica del iluminismo (1944) afirmaron que “la racionalidad técnica es hoy la racionalidad del dominio. Y el carácter forzado (…) de la sociedad alienada de sí misma.” [25] De este modo, habían puesto en evidencia que, en el capitalismo contemporáneo, incluso la esfera del tiempo del ocio, libre y alternativa al trabajo, había sido absorbida en los engranajes de la reproducción del consenso.

Después de la Segunda Guerra Mundial, el concepto de la alienación también llegó al psicoanálisis. Quienes se ocuparon partieron de la teoría de Freud, por la cual, en la sociedad burguesa, el hombre está puesto ante la necesidad de elegir entre la naturaleza y la cultura, y para poder disfrutar la seguridad garantizada por la civilización debe necesariamente renunciar a sus propias pulsiones. [26] Algunos psicólogos relacionaron a la alienación con las psicosis que se manifestaban, en algunos individuos como resultado de esta conflictiva elección. Por consiguiente, toda la vasta problemática de la alienación quedaba reducida a un mero fenómeno subjetivo. El autor que más se ocupó de la alienación desde el psicoanálisis fue Erich Fromm. A diferencia de la mayoría de sus colegas, jamás separó sus manifestaciones del contexto histórico capitalista; en verdad, con sus libros La sociedad sana (1955) y El concepto del hombre en Marx (1961) se sirvió de este concepto para tratar de construir un puente entre el psicoanálisis y el marxismo. Pero asimismo, Fromm afrontó esta problemática privilegiando siempre el análisis subjetivo, y su concepción de la alienación, a la que resumió como “un modo de experiencia en el que el individuo se percibe a sí mismo como un extraño” [27] , siguió estando muy circunscripta al individuo. Además, su interpretación del concepto en Marx sólo se basó en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 y se caracterizó por una profunda incomprensión de la especificidad y la centralidad del concepto del trabajo alienado en el pensamiento de Marx. Esta laguna le impidió dar la debida importancia a la alienación objetiva (la del trabajador en el proceso laboral y respecto al producto de su trabajo) y lo llevó a sostener, precisamente por haber pasado por alto la importancia de las relaciones productivas, posiciones que parecen hasta ingenuas:

Marx creía que la clase trabajadora era la clase más enajenada (…) No previó la medida en la que la enajenación había de convertirse en la suerte de la gran mayoría de la gente (…) El empleado, el vendedor, el ejecutivo, están actualmente todavía más enajenados que el trabajador manual calificado. El funcionamiento de este último todavía depende de la expresión de ciertas cualidades personales, como la destreza, el desempeño de un trabajo digno de confianza, etc., y no se ve obligado a vender en el contrato su “personalidad”, su sonrisa, sus opiniones. [28]

Entre las principales teorías no marxistas de la alienación hay que mencionar, por último, la asociada con Jean-Paul Sartre y los existencialistas franceses. En la década de 1940, en un período caracterizado por los horrores de la guerra, de la consiguiente crisis de la conciencia y, en el panorama francés, del neohegelianismo de Alexandre Kojève [29] , el fenómeno de la alienación fue considerado como una referencia frecuente, tanto en la filosofía como en la literatura narrativa [30] . Sin embargo, también en estas circunstancias, la concepción de la alienación asume un perfil mucho más genérico que el que expuso Marx. Esa concepción se identificaba con un descontento confuso del hombre en la sociedad, con una separación entre la personalidad humana y el mundo de la experiencia, y, significativamente, como una condition humaine no eliminable. Los filósofos existencialistas no proporcionaban un origen social específico para la alienación, sino que la asimilaban con toda “facticidad” (sin duda, el fracaso de la experiencia soviética favoreció la afirmación de esta posición), concebían la alienación como un sentido genérico de la alteridad humana. En 1955, Jean Hippolyte expuso esta posición en una de las obras más significativas de esta tendencia filosófica: Ensayos sobre Marx y Hegel, del siguiente modo:

[la alienación] no parece ser reducible solamente al concepto de la alienación del hombre bajo el capitalismo, tal como la comprende Marx. Esta última sólo es un caso particular de un problema más universal de la autoconciencia humana que, no pudiendo autoconcebirse como un cogito aislado, sólo puede auto-reconocerse en un mundo que construye, en los otros yoes que reconoce y por quienes es ocasionalmente enajenado. Pero esta forma de autodescubrimiento a través del Otro, esta objetivación, siempre es más o menos una alienación, una pérdida del yo y simultáneamente un autodescubrimiento. De esta manera la objetivación y la alienación son inseparables, y su unión es simplemente la expresión de una tensión dialéctica observada en el mismo movimiento de la historia. [31]

Marx había contribuido a desarrollar una crítica del sometimiento humano, basada en el antagonismo con las relaciones capitalistas de producción. Los existencialistas, en cambio, siguieron una trayectoria opuesta, tratando de reabsorber el pensamiento de Marx, a través de aquellas partes de su obra juvenil que podían resultar más útiles para sus propias tesis, en una discusión sin una crítica histórica específica [32] y a veces meramente filosófica.

IV. El debate sobre el concepto de alienación en los escritos juveniles de Marx
En la discusión sobre la alienación que se desarrolló en Francia, se recurrió frecuentemente a la teoría de Marx. Sin embargo, en este debate, a menudo sólo se examinaban a los Manuscritos económico-filosóficos de 1844. Ni siquiera se ponían en consideración los fragmentos de El capital sobre los que Lukács había construido su teoría de la reificación en los años veinte. Más aún, a algunas frases de los Manuscritos de 1844 se las separaba completamente de su contexto y eran transformadas en citas sensacionalistas que supuestamente se destinaban a demostrar la existencia de un “nuevo Marx” radicalmente diferente de lo que hasta entonces se conocía, saturado de filosofía y exento del determinismo económico que atribuían algunos críticos a El capital (a menudo, sin haberlo leído). Aunque también respetaban al manuscrito de 1844, los existencialistas franceses privilegiaron exageradamente al concepto de la autoalienación (Selbstentfremdung), o sea el fenómeno de la alienación del trabajador respecto del género humano y de otros como él – un fenómeno que Marx había tratado en sus escritos juveniles, pero siempre en relación con la alienación objetiva.

El mismo error, pero más flagrante, lo cometió una exponente del primer plano del pensamiento filosófico-político de posguerra, Hannah Arendt. En La condición humana (1958), construyó su interpretación del concepto de la alienación en Marx sólo en base a los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, y además, privilegiando, entre las tantas tipologías de la alienación que indicaba Marx, exclusivamente la subjetiva. Esto le permitía afirmar:

(…) la expropiación y la alienación del mundo coinciden, y la época moderna, en contra de las intenciones de los personajes de la obra, comenzó a alienar del mundo a ciertos estratos de la población. (…) La alienación del mundo, y no la propia alienación, como creía Marx, ha sido la marca de contraste de la edad moderna. [33]

Una demostración de su escasa familiaridad con las obras de la madurez de Marx es el hecho de que al señalar que Marx “no desconocía por completo las implicancias de la alienación del mundo en la economía capitalista”, se refería sólo a unas pocas líneas en su muy temprano artículo, “Los debates sobre la Ley acerca del robo de leña” (1842), y no a las decenas de páginas, mucho más importantes, contenidas en El capital y en los manuscritos preparatorios que precedieron a este libro. Y su sorprendente conclusión fue que “esas ocasionales consideraciones desempeñan un papel menor en su obra, que permaneció firmemente enraizada en el extremo subjetivismo de la época moderna” [34] ¿Dónde y de qué modo Marx había privilegiado la “autoalienación” en sus análisis de la sociedad capitalista? Esta cuestión sigue siendo un misterio que Arendt jamás dilucidó en sus textos.

En la década de 1960, la exégesis de la teoría de la alienación en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 se convirtió en una de las principales manzanas de la discordia en la interpretación general de la obra de Marx. Es en este período que se concibe la distinción entre dos presuntos Marx: el “joven Marx” y el “Marx maduro”. Esta oposición arbitraria y artificial era alentada por quienes preferían al Marx de las primeras obras filosóficas y por quienes opinaban que el único Marx verdadero era el Marx de El capital (entre ellos Louis Althusser y los académicos rusos). Mientras que los primeros consideraban a la teoría de la alienación en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 como la parte más importante de la crítica social de Marx, los últimos exhibían una verdadera “fobia a la alienación” y al principio trataron de minimizar su relevancia; [35] o, cuando esta estrategia no fue más posible, descartaron todo el tema de la alienación como “un pecado de juventud, un residuo de hegelianismo” [36] posteriormente abandonado por Marx. Los primeros omitieron el hecho de que la concepción de la alienación contenida en los Manuscritos de 1844 había sido escrita por un autor de 26 años, que recién emprendía sus estudios principales; los segundos en cambio se negaron a reconocer la importancia de la teoría de la alienación en Marx, aún cuando la publicación de nuevos textos inéditos evidenció que él jamás había dejado de ocuparse de ella en el curso de su vida y que esta teoría, aun con modificaciones, había conservado un lugar relevante en las principales etapas de la elaboración de su pensamiento.

Sostener, como decían muchos, que la teoría de la alienación contenida en los Manuscritos de 1844 fuese el tema central del pensamiento de Marx es una falsedad que indica solamente la escasa familiaridad con su obra por parte de los que defienden esta tesis. [37] Por el otro lado, cuando Marx volvió a ser el autor más discutido y citado en la literatura filosófica mundial, precisamente por sus páginas inéditas relativas a la alienación, el silencio de la Unión Soviética sobre esta temática, y sobre las controversias asociadas con él, ofrece un ejemplo de la utilización instrumental que se hizo de sus escritos en ese país. Pues la existencia de la alienación en la Unión Soviética y sus satélites fue simplemente negada, y a todos los textos que trataban esta problemática se los consideraba sospechosos. Según Henri Lefebvre, “en la sociedad soviética, ya no debía, ya no podía haber una cuestión de alienación. El concepto debía desaparecer, por orden superior, por razones de estado”. [38] En consecuencia, hasta los años setenta, fueron muy pocos los autores que, en el llamado “campo socialista” escribieron sobre las obras en cuestión. En fin, también algunos escritores occidentales consagrados subestimaron la complejidad del fenómeno. Es el caso de Lucien Goldmann, que se ilusiona sobre la posible superación de la alienación en las condiciones económico-sociales de la época, y en sus Recherches dialectiques (1959) sostuvo que podría desaparecer, o revertirse, gracias al mero efecto de la planificación. “La reificación es en realidad un fenómeno estrechamente ligado a la ausencia de planificación y con la producción para el mercado”; el socialismo soviético en el Este y las políticas keynesianas en Occidente traerían “el resultado de una supresión de la reificación en el primer caso, y un debilitamiento progresivo en el segundo.” [39] La historia ha mostrado la falacia de sus pronósticos.

V. El irresistible encanto de la teoría de la alienación
A partir de los años sesenta estalló una verdadera moda relativa a la teoría de la alienación y, en todo el mundo aparecieron cientos de libros y artículos sobre el tema. Fue la época de la alienación tout court. Autores diversos entre sí por su formación política y competencia disciplinaria atribuyeron la causa de este fenómeno a la mercantilización, a la excesiva especialización del trabajo, a la anomia, a la burocratización, al conformismo, al consumismo, a la pérdida de un sentido del yo, que se manifiestan en la relación con las nuevas tecnologías, e incluso al aislamiento del individuo, a la apatía, la marginalización social o étnica, y a la contaminación ambiental.

El concepto de la alienación parecía reflejar a la perfección el espíritu de la época, y constituir también el terreno del encuentro, en la elaboración de la crítica a la sociedad capitalista, entre el marxismo filosófico y antisoviético y el catolicismo más democrático y progresista. Sin embargo, la popularidad del concepto, y su aplicación indiscriminada, crearon una profunda ambigüedad terminológica. [40] De este modo, en el curso de pocos años, la alienación se convirtió en una fórmula vacía que englobaba todas las manifestaciones de la infelicidad humana, y la enorme ampliación de sus nociones generó la convicción de la existencia de un fenómeno tan extendido que parecería ser inmodificable. [41] Con el libro de Guy Debord, La sociedad del espectáculo, que luego de su aparición en 1967, pronto se convirtió en un verdadero manifiesto de crítica social para la generación de estudiantes que se rebelaban contra el sistema, la teoría de la alienación se enlazó con la crítica a la producción inmaterial. Recuperando las tesis de Horkheimer y Adorno, según las cuales en la sociedad contemporánea hasta el entretenimiento estaba siendo subsumido en la esfera de la producción del consenso con el orden social existente. Debord afirmó que en las presentes circunstancias el no-trabajo ya no podía ser considerado como una esfera diferente de la actividad productiva:

Mientras que en la fase primitiva de la acumulación capitalista “la economía política no ve en el proletariado sino al obrero” que debe recibir el mínimo indispensable para la conservación de su fuerza de trabajo, sin considerarlo jamás “en su ocio, en su humanidad”, esta posición de las ideas de la clase dominante se invierte tan pronto como el grado de abundancia alcanzado en la producción de mercancías exige una colaboración adicional del obrero.

Este obrero redimido de repente del total desprecio que le notifican claramente todas las modalidades de organización y vigilancia de la producción, fuera de ésta se encuentra cada día tratado aparentemente como una persona importante, con solícita cortesía, bajo el disfraz de consumidor. Entonces el humanismo de la mercancía tiene en cuenta “el ocio y la humanidad” del trabajador, simplemente porque ahora la economía política ahora puede y debe dominar esas esferas. [42]

Para Debord, si el dominio de la economía sobre la vida social inicialmente se había manifestado mediante una “degradación del ser en el tener”, en la “fase presente” se verificaba un “deslizamiento generalizado del tener hacia el parecer.” [43] Tales reflexiones lo impulsaron a cuestionar en el centro de su análisis al mundo del espectáculo: “En la sociedad el espectáculo corresponde a una fabricación concreta de la alienación,” [44] el fenómeno mediante el cual “el principio del fetichismo de la mercancía (…) se cumple de un modo absoluto.” [45] En estas circunstancias, la alienación se afirmaba a tal punto de convertirse incluso en una experiencia entusiasmante para los individuos, los cuales, dispuestos por este nuevo opio del pueblo al consumo y a “reconocerse en las imágenes dominantes,” [46] se alejaban siempre más, al mismo tiempo, de sus propios deseos y existencia real:

El espectáculo señala el momento en que la mercancía ha alcanzado la ocupación total de la vida social (…) la producción económica moderna extiende su dictadura extensiva e intensamente (…) En este punto de la “segunda revolución industrial”, el consumo alienado se convierte para las masas, en un deber añadido a la producción alienada. [47]
Siguiendo a Debord, Jean Baudrillard también utilizó el concepto de alienación para interpretar críticamente las mutaciones sociales que intervinieron con el capitalismo maduro. En La sociedad de consumo (1970), identificó en el consumo al factor primario de la sociedad moderna, tomando así distancia de la concepción marxiana, anclada en la centralidad de la producción. Según Baudrillard, la “era del consumo”, en la que la publicidad y las encuestas de opinión creaban necesidades ficticias y consensos masivos, se convertía también en “la era de la alienación radical”.

La lógica de la mercancía se ha generalizado y hoy gobierna, no sólo al proceso del trabajo y los productos materiales, sino también la cultura en su conjunto, la sexualidad, las relaciones humanas, hasta las fantasías y las pulsiones individuales (…) Todo se vuelve espectáculo, es decir, todo se presenta, se evoca, se orquesta en imágenes, en signos, en modelos consumibles. [48]

Sin embargo, sus conclusiones políticas eran más bien confusas y pesimistas. Frente a una gran etapa de fermento social, él acusó a “los contestatarios del mayo francés” de haber caído en la trampa de “súper-reificar los objetos y el consumo dándoles un valor diabólico”; y criticó a “todos los discursos sobre la ‘alienación’, todo el escarnio del pop y el anti-arte”, por haber creado una “acusación que es parte del mito, de un mito que completan entonando el contracanto en la liturgia formal del Objeto.” [49] Así pues, alejado del marxismo, que veía en la clase obrera el sujeto social de referencia para cambiar el mundo, finalizó su libro con una apelación mesiánica, tan genérica cuanto efímera: “Habrá que esperar las irrupciones brutales y las disgregaciones súbitas que, de manera tan imprevisible pero segura, como las de mayo de 1968, terminen por desbaratar esta misa blanca.” [50]

VI. La teoría de la alienación en la sociología norteamericana
En la década de 1950, el concepto de la alienación también ingresó en el vocabulario de la sociología norteamericana. Pero el enfoque sobre el tema fue completamente diferente respecto al prevaleciente en Europa. De hecho, en la sociología convencional se volvió a tratar la alienación como una problemática inherente al ser humano individual, no a las relaciones sociales, [51] y se dirigió la búsqueda de soluciones para su superación hacia la capacidad de adaptación de los individuos al orden existente, y no hacia las prácticas colectivas para cambiar la sociedad. [52]

También en esta disciplina reinó por largo tiempo una profunda incertidumbre acerca de una definición clara y compartida. Algunos autores evaluaron este fenómeno como un proceso positivo, porque era un medio de expresión de la creatividad del hombre e inherente a la condición humana en general. [53] Otra característica difundida entre los sociólogos estadounidenses fue la de considerar a la alienación como algo que surgía de la escisión entre el individuo y la sociedad. [54] Por ejemplo, Seymour Melman identificó la alienación en la separación entre la formulación y la ejecución de las decisiones, y la consideró como un fenómeno que afectaba tanto a los obreros como a los gerentes. [55] En el artículo “Una medida de la alienación” (1957), que inauguró un debate sobre el concepto en la American Sociological Review, Gwynn Nettler empleó el instrumento de la encuesta en el intento de establecer una definición. Pero en una forma muy distante de la tradición de la rigurosa investigación sobre las condiciones laborales realizadas en el movimiento obrero, su formulación del cuestionario pareció inspirarse más en los cánones macartistas de esa época que en los cánones de la investigación científica. [56]

Nettler, de hecho, representando a las personas alienadas como sujetos guiados por “un coherente mantenimiento de una actitud hostil e impopular contra la familia, los medios de comunicación de masas, los gustos masivos, la actualidad, la educación popular, la religión tradicional y la visión teleológica de la vida, el nacionalismo y el sistema electoral” [57] , identificó la alienación con el rechazo de los principios conservadores de la sociedad estadounidense.

La pobreza conceptual presente en el panorama sociológico norteamericano cambió luego de la publicación del ensayo de Melvin Seeman “Sobre el significado de la alienación” (1959). En este breve artículo, que pronto se convirtió en una referencia obligada para todos los estudiosos de la alienación, catalogó aquellos que él consideraba que eran sus cinco formas principales: la falta de poder, la falta de significado (o sea, la dificultad del individuo para comprender los acontecimientos en los que está insertado), la carencia de normas, el aislamiento y el extrañamiento de sí mismo [58] . Este listado muestra cómo también Seeman consideraba la alienación bajo un perfil principalmente subjetivo.

Robert Blauner, en su libro Alienation and Freedom (1964), expuso el mismo punto de vista. El autor definió la alienación como “una cualidad de la experiencia personal que resulta de tipos específicos de configuraciones sociales”, [59] y también hizo pródigos esfuerzos en su investigación, que lo condujo a rastrear las causas en “el proceso del trabajo en las organizaciones gigantescas y burocracias impersonales que saturan a todas las sociedades industriales.” [60]

En el ámbito de la sociología norteamericana, por consiguiente, la alienación fue concebida como una manifestación relativa al sistema de producción industrial, prescindiendo de si éste era capitalista o socialista, y como una problemática inherente sobre todo a la conciencia humana. [61] Este enfoque finalizó colocando en los márgenes, o incluso excluyendo, al análisis de los factores histórico-sociales que determinan la alienación, produciendo una especie de hiper-psicologización del análisis de este concepto, que fue asumida también en esta disciplina, además de en la psicología. Es decir, ya no consideraba más que la alienación era una cuestión social, sino que era una patología individual cuya solución sólo incumbía a cada individuo. [62] Mientras que en la tradición marxista el concepto de la alienación representaba uno de los conceptos más incisivos del modo capitalista de producción, en la sociología sufrió un proceso de institucionalización y terminó siendo considerado como un fenómeno relativo a la falta de adaptación de los individuos a las normas sociales. De igual modo, el concepto de alienación perdió el carácter normativo que había tenido en la filosofía (aún para autores que pensaban a la alienación como un horizonte insuperable) y se transformó en un concepto no evaluativo, al cual se le había despojado el contenido crítico originario. [63]

Otro efecto de esta metamorfosis de la alienación fue su empobrecimiento teórico. De un fenómeno global, relativo a la condición laboral, social e intelectual del hombre, fue reducido a una categoría limitada, parcializada en función de las investigaciones académicas. [64] Los sociólogos estadounidenses afirmaron que esta elección metodológica permitiría liberar la investigación de la alienación de sus connotaciones políticas y conferirle una objetividad científica. En realidad, este presunto giro apolítico tenía fuertes y evidentes implicancias ideológicas, pues tras la bandera de la des-ideologización y la presunta neutralidad de los valores se ocultaba el apoyo a los valores y al orden social dominante.

La diferencia entre la concepción marxista de la alienación y la de los sociólogos estadounidenses no consistía, por consiguiente, en el hecho de que la primera era política y la segunda era científica, sino al contrario, que los teóricos marxistas sostenían valores completamente diferentes a los valores hegemónicos, mientras que los sociólogos estadounidenses sostenían los valores del orden social existente, hábilmente disfrazados como valores eternos del género humano. [65] En la sociología, por lo tanto, el concepto de alienación sufrió una verdadera distorsión y ha llegado a ser utilizado por los defensores de aquellas mismas clases sociales contra las que dicho concepto había sido dirigido durante tanto tiempo. [66]

VII. La alienación en El capital y en sus manuscritos preparatorios
Los escritos de Marx tuvieron, obviamente, un rol fundamental para quienes intentaban oponerse a la tendencia, manifestada en el ámbito de las ciencias sociales, de cambiar el sentido del concepto de la alienación. La atención puesta en la teoría de la alienación en Marx, inicialmente centrada en sus Manuscritos económico-filosóficos de 1844, se desplazó, luego de la publicación de inéditos ulteriores, sobre los nuevos textos y con eso fue posible reconstruir desarrollo de sus elaboraciones, de los escritos juveniles a El capital.

En la segunda mitad de la década de 1840, Marx no utilizó tan frecuentemente la palabra “alienación”. Con excepción de La sagrada familia (1845), escrito con la colaboración de Engels, donde el término fue utilizado en algunos pasajes polémicos sobre algunos exponentes de la izquierda hegeliana, referencias a este concepto se encuentran solamente en un largo fragmento de La ideología alemana (1845-6), también escrito en conjunto con Engels:

La división del trabajo nos brinda ya el primer ejemplo de cómo (…) los actos propios del hombre se erigen ante él en un poder ajeno y hostil, que lo sojuzga, en vez de ser él quien los domine. (…) Esta plasmación de las actividades sociales, esta consolidación de nuestros propios productos en un poder material erigido sobre nosotros, sustraído a nuestro control, que levanta una barrera ante nuestra expectativa y destruye nuestros cálculos, es uno de los momentos fundamentales que se destacan en todo el desarrollo histórico anterior. (…) El poder social, es decir, la fuerza de producción multiplicada, que nace por obra de la cooperación de los diferentes individuos bajo la acción de la división del trabajo, se les aparece a estos individuos, por no tratarse de una cooperación voluntaria, sino natural, no como un poder propio, asociado, sino como un poder ajeno, situado al margen de ellos, que no saben de dónde procede ni a dónde se dirige y que, por tanto, no pueden ya dominar, sino que recorre, por el contrario, una serie de fases y etapas de desarrollo peculiar e independiente de la voluntad y los actos de los hombres y que incluso dirige esta voluntad y estos actos. Con esta “enajenación”, para expresarnos en términos comprensibles para los filósofos, sólo puede acabarse partiendo de dos premisas prácticas. Para que se convierta en un poder “insoportable”, es decir en un poder contra el que hay que sublevarse, es necesario que engendre a una masa de la humanidad como absolutamente “desposeída” y, a la par con ello, en contradicción con un mundo existente de riquezas y de cultura, lo que presupone, en ambos casos, un incremento de la fuerza productiva, un alto grado de su desarrollo [67].

Abandonado por sus autores el proyecto de publicar este último libro, posteriormente, en Trabajo asalariado y capital, que era una colección de artículos redactados en base a los apuntes utilizados para una serie de conferencias que dio a la Liga de Trabajadores Alemanes en Bruselas en 1847, y fue enviado a la imprenta en 1849, Marx vuelve a exponer la teoría de la alienación, pero al no poder dirigirse al movimiento obrero con un concepto que habría parecido demasiado abstracto, decidió no utilizar esta palabra. Escribió que el trabajo asalariado no entraba en la “actividad vital” del obrero, sino que representaba, más bien, un momento de “sacrificio de su vida”. La fuerza de trabajo es una mercancía que el obrero está forzado a vender “para poder vivir”, y “el producto de su actividad no [era] el propósito de su actividad”: [68]

… para el obrero que teje, hila, taladra, tornea, construye, cava, machaca piedras, carga, etc., por espacio de doce horas al día, ¿son estas doce horas de tejer, hilar, taladrar, tornear, construir, cavar y machacar piedras la manifestación de su vida, su vida misma? Al contrario, para él la vida comienza allí donde terminan estas actividades, en la mesa de su casa, en el banco de la taberna, en la cama. Las doce horas de trabajo no tienen para él sentido alguno en cuanto a tejer, hilar, taladrar, etc., sino solamente como medio para ganar el dinero que le permite sentarse a la mesa o en el banco de la taberna y meterse en la cama. Si el gusano de seda hilase para ganarse el sustento como oruga, sería el auténtico obrero asalariado. [69]

En la obra de Marx no hubo más referencias a la teoría de la alienación hasta fines de la década de 1850. Luego de la derrota de las revoluciones de 1848, fue forzado a exiliarse en Londres y durante este período, para concentrar todas sus energías en el estudio de la economía política, con la excepción de algunos trabajos breves de carácter histórico, [70] no publicó ningún libro. Cuando comenzó a escribir nuevamente sobre economía, sin embargo, en los Elementos fundamentales para la crítica de la economía política (mejor conocidos como los Grundrisse), Marx volvió a utilizar repetidamente el concepto de alienación. Este texto recordaba, de muchas maneras, lo que se había expuesto en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, aunque, gracias a los estudios realizados mientras tanto, su análisis resultó ser mucho más profundo:

El carácter social de la actividad, así como la forma social del producto y la participación del individuo en la producción, se presentan aquí como algo ajeno y con carácter de cosa frente a los individuos; no como su estar recíprocamente relacionados, sino como su estar subordinados a relaciones que subsisten independientemente de ellos y nacen del choque de los individuos recíprocamente indiferentes. El intercambio general de las actividades y de los productos, que se ha convertido en condición de vida para cada individuo particular y es su conexión recíproca [con los otros], se presenta ante ellos mismos como algo ajeno, independiente, como una cosa. En el valor de cambio el vínculo social entre las personas se transforma en relación social entre cosas; la capacidad personal, en una capacidad de las cosas. [71]

En los Grundrisse, por consiguiente, la descripción de la alienación, adquiere un mayor espesor respecto de la realizada en los escritos juveniles, porque se enriquece con la comprensión de importantes categorías económicas y por un análisis social más riguroso. Junto al vínculo entre la alienación y el valor de cambio, entre los pasajes más brillantes que delinearon la característica de este fenómeno de la sociedad moderna figuran aquellos en los que la alienación fue puesta en relación con la contraposición entre el capital y la “fuerza viva del trabajo”:

Las condiciones objetivas del trabajo vivo se presentan como valores disociados, autónomos, frente a la capacidad viva de trabajo como existencia subjetiva; (…) las condiciones objetivas de la capacidad viva de trabajo están presupuestas como existencia autónoma frente a ella, como la objetividad de un sujeto diferenciado de la capacidad viva de trabajo y contrapuesto autónomamente a ella; la reproducción y valorización, esto es, la ampliación de estas condiciones objetivas, es al mismo tiempo, pues, la reproducción y producción nueva de esas condiciones como sujeto de la riqueza, extraño, indiferente, ante la capacidad de trabajo y contrapuesto a ella de manera autónoma. Lo que se reproduce y se produce de manera nueva no es sólo la existencia de estas condiciones objetivas del trabajo vivo, sino su existencia como valores autónomos, esto es, pertenecientes a un sujeto extraño, contrapuestos a esa capacidad viva de trabajo. Las condiciones objetivas del trabajo adquieren una existencia subjetiva frente a la capacidad viva de trabajo: del capital nace el capitalista. [72]

Los Grundrisse no fueron el único texto de la madurez de Marx en el cual la descripción de la problemática de la alienación se repite con frecuencia. Cinco años después de su redacción, de hecho, ella retornó en El capital, Libro 1, Capítulo VI, inédito (1863-4) (también conocido como los “Resultados del proceso inmediato de producción”), manuscrito en el cual el análisis económico y el análisis político de la alienación fueron puestos en una mayor relación entre ellos: “La dominación del capitalista sobre el obrero es por consiguiente la de la cosa sobre el hombre, la del trabajo muerto sobre el trabajo vivo, la del producto sobre el productor”. [73] En estos proyectos preparatorios de El capital, Marx pone en evidencia que en la sociedad capitalista, mediante “la trasposición de las fuerzas productivas sociales del trabajo en las propiedades objetivas del capital,” [74] se realiza una auténtica “personificación de las cosas y reificación de las personas,” o se crea la apariencia vigente de que “los medios de producción, las condiciones objetivas de trabajo, no aparecen subsumidos en el obrero, sino éste en ellas.” [75] En realidad, en su opinión:

El capital no es una cosa, al igual que el dinero no lo es. En el capital, como en el dinero, determinadas relaciones de producción entre personas se presentan como relaciones entre cosas y personas o determinadas relaciones sociales aparecen como cualidades sociales que ciertas cosas tienen por naturaleza. Sin trabajo asalariado, ninguna producción de plusvalía, ya que los individuos se enfrentan como personas libres; sin producción de plusvalía, ninguna producción capitalista, ¡y por ende ningún capital y ningún capitalista! Capital y trabajo asalariado (así denominamos el trabajo del obrero que vende su propia capacidad laboral) no expresan otra cosa que dos factores de la misma relación. El dinero no puede transmutarse en capital si no se intercambia por capacidad de trabajo, en cuanto mercancía vendida por el propio obrero. Por lo demás, el trabajo sólo puede aparecer como trabajo asalariado cuando sus propias condiciones objetivas se le enfrentan como poderes egoístas, propiedad ajena, valor que es para sí y aferrado a sí mismo, en suma: como capital. Por lo tanto, si el capital, conforme a su aspecto material, o al valor de uso en el que existe, sólo puede consistir en las condiciones objetivas del trabajo mismo, con arreglo a su aspecto formal estas condiciones objetivas deben contraponerse como poderes ajenos, autónomos, al trabajo, esto es, deben contraponérsele como valor –trabajo objetivado – que se vincula con el trabajo vivo en cuanto simple medio de su propia conservación y acrecimiento. [76]

En el modo capitalista de producción, el trabajo humano se convierte en un instrumento del proceso de valorización del capital, el que, al “incorporarse la capacidad viva de trabajo a los componentes objetivos del capital, éste se transforma en un monstruo animado y se pone en acción ‘cual si tuviera dentro del cuerpo el amor’.” [77] Este mecanismo se expande en una escala siempre mayor, hasta que la cooperación en el proceso de producción, los descubrimientos científicos y el empleo de maquinaria – o sea los progresos sociales generales de la colectividad – se convierten en fuerzas del capital que aparecen como propiedades de eso poseído por naturaleza y se yerguen extraños frente a los trabajadores como ordenamiento capitalista:

Las fuerzas productivas del trabajo social, así desarrolladas, [aparecen] como fuerzas productivas del capital. (…) La unidad colectiva en la cooperación, la combinación en la división del trabajo, el uso de las fuerzas de la naturaleza y las ciencias, de los productos del trabajo, como la maquinaria; todos estos confrontan a los trabajadores individuales autónomamente, como un ente ajeno, objetivo, preexistente a ellos, sin y a menudo contra su concurso, como meras formas de existencia de los medios de trabajo que los dominan a ellos y de ellos son independientes, en la medida en que esas formas [son] objetivas. Y la inteligencia y voluntad del taller colectivo encarnadas en el capitalista o sus representantes (understrappers), en la medida en que ese taller colectivo está formado por la propia combinación de aquellos, [se les contraponen] como funciones del capital que vive en el capitalista. [78]

Es mediante este proceso, por consiguiente, que, según Marx, el capital se convierte en un ser “extremadamente misterioso”. Y sucede, de este modo, que “las condiciones de trabajo se acumulan ante el obrero como poderes sociales, y de esta suerte están capitalizadas.” [79] La difusión, a comienzos de la década de 1960, de El capital, Libro 1, Capítulo VI, inédito y sobre todo, de los Grundrisse [80] abrió el camino para una nueva concepción de la alienación, diferente respecto a la que hasta entonces había sido hegemónica en la sociología y la psicología, cuya comprensión se dirigía a su superación práctica, o sea a la acción política de los movimientos sociales, partidos y sindicatos para cambiar las condiciones de trabajo y de vida de la clase obrera. La publicación de lo que (luego de la aparición en la década de 1930 de los Manuscritos económico-filosóficos de 1844) podría ser considerada como la “segunda generación” de los escritos de Marx sobre la alienación, proporcionaba no sólo una base teórica coherente para una nueva época de estudios sobre la alienación, sino sobre todo una plataforma ideológica anticapitalista para el extraordinario movimiento político y social que comenzaba a estallar en el mundo en ese período. Con la difusión de El capital y de sus manuscritos preparatorios, la teoría de la alienación salió de los papeles de los filósofos y las aulas universitarias, para irrumpir, a través de las luchas obreras, en las plazas y convertirse en una crítica social.

VIII. El fetichismo de la mercancía y la desalienación
Una de las mejores descripciones de la alienación realizada por Marx es la que se encuentra contenida en la célebre sección de El capital titulada “el carácter fetichista de la mercancía y su secreto”. En su interior pone en evidencia que, en la sociedad capitalista, los seres humanos son dominados por los productos que han creado y viven en un mundo en el cual las relaciones recíprocas aparecen, “no como relaciones directamente sociales entre las personas mismas, (…) sino por el contrario como relaciones propias de cosas y relaciones sociales entre las cosas”: [81]

Lo misterioso de la forma mercantil consiste (…) en que la misma refleja ante los hombres el carácter social de su propio trabajo como caracteres objetivos inherentes a los productos del trabajo, como propiedades sociales naturales de dichas cosas, y, por ende, en que también refleja la relación social que media entre los productores y el trabajo global, como una relación social entre los objetos, existente al margen de los productores. Es por medio de este quid pro quo como los productos del trabajo se convierten en mercancías, en cosas sensorialmente suprasensibles o sociales. (…) Lo que aquí adopta, para los hombres, la forma fantasmagórica de una relación entre cosas, es sólo la relación social determinada existente entre aquellos. De ahí que para hallar una analogía pertinente debamos buscar amparo en las neblinosas comarcas del mundo religioso. En éste los productos de la mente humana parecen figuras autónomas, dotadas de vida propia, en relación unas con otras y con los hombres. Otro tanto ocurre en el mundo de las mercancías con los productos de la mano humana. A esto llamo el fetichismo que se adhiere a los productos de trabajo no bien se los produce como mercancías, y que es inseparable de la producción mercantil. [82]

De esta definición emergen las características particulares que trazan una clara línea divisoria entre la concepción de la alienación en Marx y la de la mayoría de los autores que hemos estado examinando en este ensayo. El fetichismo, en realidad, no fue concebido por Marx como una problemática individual; siempre fue considerado un fenómeno social. No como una manifestación del alma, sino como un poder real, una dominación concreta, que se realiza en la economía de mercado, a continuación de la transformación del objeto en sujeto. Por este motivo, Marx no limitó el análisis de la alienación al malestar de los seres humanos individuales, sino que analizó los procesos sociales que estaban en su base, y en primer lugar, la actividad productiva. Además, el fetichismo en Marx se manifiesta en una realidad histórica específica de la producción, la del trabajo asalariado; no está ligado a la relación entre la cosa en general y el ser humano, sino a la relación entre éste y un tipo determinado de objetividad: la mercancía.

En la sociedad burguesa, la propiedad y las relaciones humanas se transforman en propiedad y relaciones entre las cosas. Esta teoría de lo que, después de la formulación de Lukács se lo designó como reificación, ilustraba este fenómeno desde el punto de vista de las relaciones humanas, mientras que el concepto de fetichismo lo trataba en relación a las mercancías. A diferencia de los reclamos de quienes han negado la presencia de reflexiones sobre la alienación en la obra madura de Marx, la misma no fue sustituida por el fetichismo de la mercancía, porque éste representa sólo un aspecto particular de ella. [83]

El progreso teórico que realizó Marx respecto a la concepción de la alienación desde los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 hasta El capital no consiste, sin embargo, solamente en su descripción más precisa, sino también en una diferente y más acabada elaboración de las medidas consideradas necesarias para su superación. Si en 1844 había considerado que los seres humanos eliminarían la alienación mediante la abolición de la producción privada y la división del trabajo, en El capital y en sus manuscritos preparatorios, el camino indicado para construir una sociedad libre de la alienación se convirtió en algo mucho más complicado. Marx consideraba que el capitalismo era un sistema en el que los trabajadores estaban subyugados por el capital y sus condiciones, pero también estaba convencido del hecho que eso había creado las bases para una sociedad más avanzada, y que la humanidad podría proseguir el camino del desarrollo social generalizando los beneficios producidos por este nuevo modo de producción. Según Marx, un sistema que producía una enorme acumulación de riqueza para pocos y expoliaciones y explotación para la masa general de los trabajadores debía ser reemplazado por “una asociación de hombres libres, que trabajen con medios de producción colectivos y empleen, conscientemente, sus muchas fuerzas de trabajo individuales como una fuerza de trabajo social.” [84] Este distinto tipo de producción se diferenciaría del que está basado en el trabajo asalariado porque pondría sus factores determinantes bajo el dominio colectivo, asumiendo un carácter inmediatamente general y transformando el trabajo en una verdadera actividad social. Es una concepción de la sociedad en las antípodas de la bellum omnium contra omnes de Thomas Hobbes. Y su creación no es un proceso meramente político, sino que implicaría necesariamente la transformación radical de la esfera de la producción. Como Marx escribió en los manuscritos que luego se convertirían en El capital. Crítica de la economía política. Tomo III:

La libertad, en este terreno, sólo puede consistir en que el hombre socializado, los productores asociados, regulen racionalmente ese metabolismo suyo con la naturaleza poniéndolo bajo su control colectivo, en vez de ser dominados por él como por un poder ciego; que lo lleven a cabo con el mínimo empleo de fuerzas y bajo las condiciones más dignas y adecuadas a su naturaleza humana. [85]

Esta producción de carácter social, junto con los progresos científico tecnológicos y científicos y la consiguiente reducción de la jornada laboral, crea la posibilidad para el nacimiento de una nueva formación social, en la que el trabajo coercitivo y alienado, impuesto por el capital y sometido a sus leyes es progresivamente reemplazado por una actividad consciente y creativa no impuesta por la necesidad, y en la que las relaciones sociales plenas toman el lugar del intercambio indiferente y accidental en función de la mercancía y el dinero. [86] Ya no será más el reino de la libertad para el capital, sino el reino de la auténtica libertad humana.

Traducción: Francisco T. Sobrino

Referencias
1. Histoire et conscience de clase, trad. Kostas Axelos y Jacqueline Bois, Paris: Minuit, 1960.
2. Georg Lukács, Historia y conciencia de clase, México: Grijalbo, 1969, xxv.
3. Isaak Illich Rubin, Ensayos sobre la teoría del valor de Marx, Buenos Aires: Pasado y Presente, 1974, 53.
4. Ibíd., 76.
5. Ibíd., 108.
6. En realidad, Marx ya había usado el concepto de alienación antes de haber escrito dichos Manuscritos. En un texto publicado en el Deutsch-Französische Jahrbücher (febrero de 1844) escribió: “Una vez desenmascarada la forma sagrada que representaba la autoalienación del hombre, la primera tarea de la filosofía que se ponga al servicio de la historia, es desenmascarar esa autoalienación bajo sus formas profanas. La crítica del cielo se transforma así en crítica de la tierra, la crítica de la religión en crítica del derecho, la crítica de la teología en crítica de la política.” Karl Marx, “Contribución a la crítica de la filosofía del derecho de Hegel. Introducción”, en Karl Marx, Crítica de la filosofía del derecho de Hegel, Buenos Aires: Ediciones Nuevas, 1965, 11.
7. En los escritos de Marx se halla el término Entfremdung tanto como Entäusserung. En Hegel estos términos tenían diferentes significados, pero Marx los utiliza como si fueran sinónimos. Ver Marcella D’Abbiero, Alienazione in Hegel. Usi e significati de Entäusserung, Entfremdung, Verüsserung, Roma: Edizioni Dell’Ateneo, 1970, 25-7.
8. Karl Marx, Manuscritos económico-filosóficos de 1844, 106-7.
9. Ibíd., 110.
10. Ibíd., 114. Para una explicación de la cuádruple tipología de la alienación en Marx, ver Bertell Ollman, Alienation, Nueva York: Cambridge University Press, 1971, 136-52.
11. Karl Marx, ibíd., 118-9.
12. Karl Marx, “Excerpts From James Mill’s Elements of Political Economy, en Early Writings, 278.
13. Martín Heidegger, Ser y tiempo, www.philosophia.cl/ Escuela de Filosofía Universidad ARCIS. En el prólogo de 1967 a su reeditado libro Historia y conciencia de clase, Lukács observó que en Heidegger la alienación se convertía en un concepto políticamente inocuo, que “sublimaba una crítica de la sociedad en un problema puramente filosófico” (Lukács, xxiv). Heidegger también trató de distorsionar el significado del concepto de la alienación de Marx. En su Carta sobre el humanismo (1946), elogió a Marx porque en él la “alienación alcanza una dimensión esencial de la historia” (Martín Heidegger, “Letter on Humanism”, en Basic Writings, Londres: Routledge, 1993, 243), lo cual es una afirmación falsa porque no está presente en ninguno de los escritos de Marx.
14. Herbert Marcuse, “Acerca de los fundamentos filosóficos del concepto científico-económico del trabajo”, en Ética de la revolución, Madrid: Taurus, 1970, 35.
15. Ibíd., 22.
16. Ibíd., 35.
17. Ibíd.
18. Ibíd., 18-19.
19. Herbert Marcuse, Eros y civilización, Buenos Aires: Ariel, 1985, 54.
20. Ibíd., 55. Georges Friedmann opinaba igual, y sostenía en The Anatomy of Work (New York: Glencoe Press, 1964) que la superación de la alienación sólo era posible luego de la liberación del trabajo.
21. Marcuse, Eros y civilización, 151.
22. Ibíd., 149.
23. Ibíd., 190.
24. Ibíd., 149. Cf. la evocación de “una ‘razón libidinal’ que no sólo sea compatible sino que inclusive promueva el progreso hacia formas más altas de libertad civilizada” (186). Sobre este tema cfr. El magistral libro de Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolístico, Einaudi, Torino 1978, en el cual el autor sigue los principios de “la visión marxista que no combate a la ciencia y la tecnología en cuanto tales, sino solo al modo en el cual son reducidas a instrumentos de dominio, con la creación, el mantenimiento y la profundización de un abismo entre las clases sociales” (ivi, pág. 6).
25. Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialéctica del iluminismo, Buenos Aires: Sudamericana, 1944, 147.
26. Ver Sigmund Freud, Civilisation and its Discontents, Nueva York: Norton, 1962, 62 (La civilización y sus descontentos).
27. Erich Fromm, The Sane Society, Nueva York: Fawcett, 1965, 111.
28. Erich Fromm, El concepto del hombre en Marx, México DF: F.C.E., 1978, 67. Esta incomprensión del carácter específico del trabajo alienado aparece en sus textos sobre la alienación en la década de 1960. En un ensayo publicado en 1965 dijo: “Para entender plenamente el fenómeno de la alienación (…) hay que examinar su relación con el narcisismo, la depresión, el fanatismo y la idolatría.” “La aplicación del psicoanálisis humanista a la teoría de Marx”, en Erich Fromm, ed., Humanismo socialista, Buenos Aires: Paidós, 1966, 266.
29. Ver Alexandre Kojève, Lectures on the Phenomenology of Spirit, Ithaca: Cornell University Press, 1980.
30. Cfr. Jean-Paul Sartre, La náusea, México DF: Ed.Época, s/f; y Albert Camus, El extranjero, http://www.ciudadseva.com/textos/novela/fra/camus/el_extranjero.htm .
31. Jean Hyppolite, Studies on Marx and Hegel, Nueva York/Londres: Basic Books, 1969, 88.
32. Cf. István Mészáros, Marx’s Theory of Alienation, Londres: Merlin Press, 1970, 241 ff.
33. Hannah Arendt, La condición humana, Buenos Aires: Paidós, 2009, 282-3.
34. Ibíd., 350.
35. Los directores del Instituto de Marxismo-Leninismo en Berlín hasta se las ingeniaron para excluir a los Manuscritos de 1844 de los tomos numerados de los canónicos Marx-Engels Werke, relegándolos a un tomo complementario con un tiraje más pequeño.
36. Adam Schaff, Alienation as a Social Phenomenon, Oxford: Pergamon Press, 1980, 21.
37. Cf. Daniel Bell, “The Rediscovery of Alienation: Some notes along the quest for the historical Marx”, Journal of Philosophy, vol. LVI, 24 (noviembre 1959), 933-52, que concluye: “leer este concepto como el tema central de Marx sólo es aumentar más el mito.” (935).
38. Henri Lefebvre, Obras, T. I. Crítica de la vida cotidiana, Buenos Aires: Peña Lillo, 1967, 236
39. Lucien Goldmann, Recherches dialectiques, Paris: Gallimard, 1959, 101.
40. De este modo, Richard Schacht (Alienation, Garden City: Doubleday, 1970) señaló que “casi no hay ni un aspecto de la vida contemporánea que no haya sido discutido en relación con la ‘alienación’ (lix), mientras Peter C. Ludz (“Alienation as a Concept in the Social Sciences”, reimpreso en Félix Geyer y David Schweitzer, eds., Theories of Alienation, Leiden: Martinus Nijhoff, 1976), comentaban que la “popularidad del concepto sirve para incrementar la ambigüedad terminológica existente.”(3).
41. Cf. David Schweitzer, “Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in Philosophy and the social sciences”, en Giora Shoham, ed., Alienation and Anomie Revisited, Tel Aviv: Ramot, 1982, para quien “el significado mismo de alienación frecuentemente está diluido hasta el punto de una virtual falta de sentido.” (57).
42. Guy Debord, La sociedad del espectáculo, Rosario: Kolectivo Editorial “Último Recurso”, 2007, 43.
43. Ibíd., 28.
44. Ibíd., 34.
45. Ibíd., 37.
46. Ibíd., 33.
47. Ibíd., 39.
48. Jean Baudrillard, La sociedad de consumo, Madrid: Siglo XXI, 2009, 244-5.
49. Ibíd., 250-1.
50. Ibíd., 251.
51. Ver por ejemplo John Clark, “Measuring alienation within a social system”, American Sociological Review, vol. 24, N° 6 (diciembre 1959), 849-52.
52. Ver Schweitzer, “Alienation, De-alientation, and Change” (nota 40), 36-7.
53. Un buen ejemplo de esta posición es “The Inevitability of Alienation”, de Walter Kaufman, que era su introducción al libro citado previamente, Alienation de Schacht. Para Kaufman, “la vida sin alienación casi no merece ser vivida; lo que importa es incrementar la capacidad de los hombres para hacer frente a la alienación (lvi).
54. Schacht, Alienation, 155.
55. Seymour Melman, Decision-making and Productivity, Oxford: Basil Blackwell, 1958, 18, 165-6.
56. Entre las preguntas formuladas por el autor a una muestra de sujetos considerados como inclinados a la “orientación alienada”, aparecían las siguientes preguntas: “¿le gusta ver la televisión? ¿Qué piensa del nuevo modelo de los automóviles americanos? ¿Lee Reader’s Digest? (…) ¿Participa de buen grado en actividades religiosas? ¿Le interesan los deportes nacionales (fútbol, béisbol)? (“A Measure of Alienación”, American Sociological Review, vol. 22, N° 6 (diciembre 1957), (675). Nettler está convencido de que una respuesta negativa a tales preguntas constituye una prueba de alienación; y en otra parte agregaba: “que debe haber pocas dudas sobre el hecho de que esta encuesta [y sus preguntas] mide una dimensión de la alienación de nuestra sociedad.”
57. Ibíd., 674. Para demostrar su opinión, Nettler señaló que “a la pregunta, ‘¿le gustaría vivir bajo una forma de gobierno diferente a la actual?’, todos han respondido en una forma posibilista y ninguno con rechazo abierto” (674). También llegó a afirmar en la conclusión de su ensayo “que la alienación [era] correlativa con la creatividad. Se formula como hipótesis que los científicos y los artistas (…) son individuos alienados (…) que la alienación está relacionada con el altruismo [y] que su enajenación conduce al comportamiento criminal” (676-7).
58. Melvin Seeman, “On the Meaning of Alienation”, American Sociological Review, vol. 24 N° 6 (diciembre 1959), 783-91. En 1972 agregó a la lista un sexto tipo: “la alienación cultural”. (Ver Melvin Seeman, “Alienation and Engagement” en Angus Campbell y Philip E. Converse, eds., The Human Meaning of Social Change, Nueva York: Russell Sage, 1972, 467-527).
59. Robert Blauner, Alienation and Freedom, Chicago: University of Chicago Press, 1964, 15.
60. Ibíd., 3.
61. Cf. Walter R. Heinz, eds., “Changes in the Methodology of Alienation Research”, en Felix Geyer y Walter R. Heinz, eds., Alienation, Society and the Individual, New Brunswick/Londres: Transaction, 1992, 217.
62. Ver Felix Geyer y David Schweitzer, “Introduction”, en idem, eds., Theories of Alienation (nota 39), xxi-xxii, y Felix Geyer, “A General Systems Approach to Psychiatric and Sociological De-alienation”, en Giora Shoham, ed. (nota 40), 141.
63. Ver Geyer y Schweitzer, “Introduction”, xx-xxi.
64. David Schweitzer, “Fetishization of Alienation: Unpacking a Problem of Science, Knowledge, and Reified Practices in the Workplace”, in Felix Geyer, ed., Alienation, Ethnicity, and Postmodernism, Westport/Londres: Greenwood Press, 1996, 23.
65. Cf. John Horton, “The Dehumanization of Anomie and Alienation: a problem in the ideology of sociology”, The British Journal of Sociology, vol. XV, N° 4 (1964), 283-300, y David Schweitzer, “Fetishization of Alienation”, 23.
66. Ver Horton, “Dehumanization”. Esta tesis la defiende orgullosamente Irving Louis Horowitz en “The Strange Career of Alienation: how a concept is transformed without permission of its founders”, en Felix Geyer, ed. (note 63), 17-19. Según Horowitz, “la alienación ahora es parte de la tradición en las ciencias sociales, en vez de una protesta social. Este cambio surgió cuando tuvimos una mayor comprensión de que los términos como estar alienado están tan cargados de valor como estar integrado. El concepto de alienación entonces “fue envuelto con conceptos de la condición humana; (…) una fuerza positiva más que una fuerza negativa. Más que considerar a la alienación como estructurada por la “enajenación” de la naturaleza esencial de un ser humano, como resultado de un cruel conjunto de exigencias industrial-capitalistas la alienación se convierte en un derecho inalienable, una fuente de energía creativa para algunos y una expresión excentricidad personal para otros” (18).
67. Marx y Engels, La ideología alemana, (Montevideo: Pueblos Unidos, 1959, págs. 33-35.
68. Karl Marx, Trabajo asalariado y capital, Buenos Aires: Anteo, 1987, 26.
69. Ibíd., 26-7.
70. El dieciocho brumario de Luis Bonaparte, Revelaciones concernientes al Juicio Comunista de Colonia, y Revelaciones sobre la historia diplomática secreta del siglo XVIII.
71. Karl Marx, Elementos fundamentales para la crítica de la economía política (borrador) 1857-1858, Buenos Aires: Siglo XXI, 1973, 84-5.
72. Ibíd., 423.
73. Karl Marx, Libro I, Capítulo VI inédito – Resultados del proceso inmediato de producción del capital, México: Siglo XXI, 1990, 20.
74. Ibíd., 101.
75. Ibíd., 96.
76. Ibíd., 38 (subrayado en el original).
77. Ibíd., 40.
78. Ibíd., 96 (subrayado en el original).
79. Ibíd., 98.
80. Ver Marcello Musto, ed., Karl Marx’s Grundrisse: Foundations of the Critique of Political Economy 150 years Later, Londres/Nueva York: Routledge, 2008, 177-280.
81. Karl Marx, El capital Tomo I, 89.
82. Ibíd., 88-9.
83. Cf. Schaff, Alienation as a Social Phenomenon, 81.
84. El capital , Tomo I, 96.
85. Karl Marx, El capital, Tomo III, 1044.
86. Por razones de espacio, se dejará para un futuro estudio la consideración de la naturaleza incompleta y parcialmente contradictoria del esbozo de Marx de una sociedad no alienada.

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Introducción

Los marxismos dominantes del siglo XIX y XX
Pocos hombres han conmovido al mundo como lo hizo Karl Marx. A su muerte, casi desapercibida en la gran prensa, siguieron los ecos de la fama en un período tan corto que casi no se lo puede comparar en la historia. Su nombre apareció prontamente en los labios de los obreros de Detroit y Chicago, y en los de los primeros socialistas indios en Calcuta. Su imagen formó parte del escenario del primer congreso bolchevique en Moscú, luego de la revolución. Su pensamiento inspiró los programas y estatutos de todas las organizaciones políticas y sindicales del movimiento obrero, desde la Europa continental hasta Shanghai. Sus ideas cambiaron a la filosofía, la historia y la economía en forma irreversible.

Pero no tardó mucho en que surgieron los intentos para convertir sus teorías en una ideología rígida. Su pensamiento, indiscutiblemente crítico y abierto, aunque a veces tentado por el determinismo, cedió a la presión del clima cultural de la Europa de fines del siglo XIX. Era una cultura impregnada por concepciones sistemáticas, sobre todo la del darwinismo. Para responder a esta presión, el “marxismo ortodoxo”, recién nacido en las páginas de la revista Die neue Zeit, de Karl Kautsky, tomó rápidamente las formas de este modelo. Un factor decisivo que ayudó a consolidar esta transformación de la obra de Marx fueron las formas en que este pensamiento llegó al público lector. Se priorizaron las abreviaciones, los sumarios, los resúmenes y compendios truncados, como podemos ver en la reducida impresión de sus principales obras. Algunas llevaban las marcas de una instrumentalización ideológica, y algunos textos fueron reformados por quienes en cuyo cuidado se los había confiado. A esta práctica, alentada por el estado incompleto de muchos manuscritos cuando falleció Marx, se la agravó por una especie de censura. Al dárseles una forma de manual, aunque ciertamente era una manera eficaz de difundirlas mundialmente, llevó a considerables distorsiones de su pensamiento complejo; en particular, la influencia del positivismo, tradujo a este pensamiento en una versión teóricamente empobrecida del original. [1]

Estos procesos dieron lugar a una doctrina esquemática, una interpretación evolucionista elemental empapada en un determinismo económico: el marxismo de la II Internacional (1889-1914). Guiado por una creencia firme aunque ingenua en el progreso automático de la historia, y en consecuencia en el inevitable reemplazo del capitalismo por el socialismo, resultó incapaz de comprender los acontecimientos reales, y al romper el necesario vínculo con una praxis revolucionaria, produjo una suerte de pasividad fatalista que contribuyó a la estabilización del orden existente. [2]

La teoría del colapso inminente de la sociedad capitalista burguesa [Zusammenbruchstheorie], que halló un suelo fértil en la gran depresión de veinte años luego de 1873, fue proclamada como la esencia fundamental del “socialismo científico”. Los análisis de Marx, que buscaban delinear los principios dinámicos del capitalismo y describir sus tendencias generales del desarrollo, [3] se transformaron en leyes históricas universalmente válidas, a partir de las cuales era posible deducir el curso de los acontecimientos, hasta en sus detalles específicos.

La idea de un capitalismo en su agonía mortal, condenado a fracasar por sus propias contradicciones, también estaba presente en el marco teórico de la primera plataforma totalmente marxista de un partido político, el Erfurt Programme de 1891 de la socialdemocracia alemana. De acuerdo al comentario de Kautsky en su presentación del mismo, “el inexorable desarrollo económico conduce a la bancarrota del modo capitalista de producción con la necesidad de una ley de la naturaleza. La creación de una nueva forma de sociedad en lugar de la actual ya no es algo meramente deseable, sin que se ha hecho inevitable” [4] Esto demostraba claramente los límites de las concepciones que prevalecían, así como su enorme distancia respecto del hombre que las había inspirado.

El marxismo ruso, que en el curso del siglo XX jugó un papel fundamental en la popularización del pensamiento de Marx, siguió esta forma de sistematizar y vulgarizar aún con mayor rigidez. En verdad, para su pionero más importante, George Plejanov, “el marxismo es una visión mundial integral”, [5] imbuido de un monismo simplista, de acuerdo al cual las transformaciones superestructurales de la sociedad se dan simultáneamente con las modificaciones económicas. A pesar de los duros conflictos ideológicos de esos años, muchos de los elementos teóricos característicos de la II Internacional se transmitieron a los que marcarían la matriz cultural de la III Internacional. Esta continuidad estuvo claramente manifiesta en la Teoría del materialismo histórico, publicado en 1921 por Nicolás Bujarin, según la cual “en la naturaleza y en la sociedad existe una regularidad “definida”, una ley natural “fija”. La determinación de esta ley natural es la primera tarea de la ciencia.” [6] Como consecuencia de este determinismo social, completamente centrado en el desarrollo de las fuerzas productivas, se generó una doctrina en la que “la diversidad de las causas que operan en la sociedad no contradice la existencia de una sola ley causal unificada en la evolución social”. [7]

La degradación del pensamiento de Marx alcanzó su clímax en la interpretación del marxismo-leninismo, que tomó forma definitiva en el “Diamat” al estilo soviético (dialekticheskii materializm) “la perspectiva mundial del partido marxista-leninista”. [8] Al ser despojada de su función como una guía para la acción, la teoría pasó a ser su justificación a posteriori. El folleto de J. V. Stalin, publicado en 1938, Sobre el materialismo dialéctico y el materialismo histórico, que fue distribuido ampliamente, fijó los elementos esenciales de esta doctrina: los fenómenos de la vida colectiva son regulados por las “leyes necesarias del desarrollo social” que son “perfectamente reconocibles”, y “la historia de la sociedad aparece como un desarrollo necesario de ella, y el estudio de la historia de la sociedad se convierte en una ciencia”. Esto “significa que la ciencia de la historia de la sociedad, a pesar de toda la complejidad de los fenómenos de la vida social, puede convertirse en una ciencia tan exacta como por ejemplo, la biología, capaz de utilizar las leyes del desarrollo de la sociedad para usarlas en la práctica”; [9] por consiguiente, la tarea del partido del proletariado es basar su actividad en estas leyes. Los conceptos de “científico” y “ciencia” implican aquí un equívoco evidente. Al carácter científico del método de Marx, fundamentado en criterios teóricos escrupulosos y coherentes, lo reemplaza una metodología en la que no hay margen para la contradicción y se supone que las leyes históricas objetivas operan como leyes de la naturaleza, independientemente de la voluntad humana.

En este catecismo ideológico, pudo hallar un amplio espacio el dogmatismo más rígido y estricto. La ortodoxia marxista-leninista impuso un monismo inflexible que también produjo efectos perversos en la interpretación de los textos de Marx. Indudablemente, con la revolución soviética el marxismo disfrutó de un momento significativo de expansión y circulación en zonas geográficas y clases sociales de las que hasta entonces había sido excluido. No obstante, este proceso de difusión consistió mucho más en manuales, guías y antologías específicas partidarias que en los textos del propio Marx.

La cristalización de un corpus dogmático precedió a una identificación de los textos que hubieran sido necesarios leer para comprender la formación y la evolución del pensamiento de Marx. [10] Los escritos tempranos, de hecho fueron publicados en los MEGA sólo en 1927 (Crítica de la filosofía del derecho de Hegel) y en 1932 ( Manuscritos económico-filosóficos de 1844 y La ideología alemana), en ediciones que – como ya había sucedido en el caso de los tomos II y III de El capital – las hacían aparecer como obras completadas; esta decisión sería luego la fuente de muchos rumbos interpretativos falsos. [11] Más adelante, algunos de los trabajos preparatorios importantes para El capital (en 1933 el borrador del capítulo 6 de El capital sobre los “resultados del proceso inmediato de producción”, y entre 1939 y 1941 los Fundamentos de la crítica de la economía política, más conocidos como los Grundrisse) se publicaron en tiradas de impresión que sólo les asegurarían una circulación muy limitada. [12] Más aún, cuando no eran ocultados por temor a que pudieran erosionar al canon ideológico dominante, estos y otros textos previamente inéditos fueron sometidos a una exégesis políticamente motivada, con orientaciones mayormente establecidas de antemano; y jamás daban por resultado una comprensión seria de la obra de Marx.

Aunque la exclusión selectiva de textos pasó a ser una práctica común, a otros se los desmembraba y manipulaba: por ejemplo, a través de la inserción en recopilaciones de citas para un propósito determinado. A menudo estas eran tratadas de la misma forma en que el bandido Procusto trataba a sus víctimas: si eran demasiado largas, las amputaban, y si eran demasiado cortas, las alargaban.
Al ser distorsionado para servir a las necesidades políticas contingentes, ante los ojos de muchas personas Marx pasó a ser identificado con esas maniobras, y como resultado, a menudo fue denostado. Su teoría pasó a ser un conjunto de versos al estilo de la biblia que daban lugar a las paradojas más impensables. Lejos de atender su advertencia contra las “recetas de cocina para el bodegón del porvenir”, [13] los responsables de esas manipulaciones lo transformaron en el progenitor de un nuevo sistema social. A pesar de haber sido un riguroso crítico que jamás había estado autocomplaciente con sus conclusiones, se convirtió en la fuente del doctrinarismo más obstinado. A él, un firme defensor de la concepción materialista de la historia, se lo eliminó más que a ningún otro autor de su contexto histórico. A pesar de estar convencido de que “la emancipación de las clase obrera debe ser obra de los obreros mismos”, [14] quedó atrapado en una ideología que daba primacía a las vanguardias y partidos políticos en su rol de paladines de la conciencia de clase y dirigentes de la revolución. Fue un defensor de la idea de que para el florecimiento de las capacidades humanas era esencial una jornada de trabajo más corta, pero fue asimilado al credo productivista del stajanovismo. Estaba convencido de la necesidad de que el estado desapareciera, pero se lo identificó con él y fue usado para apoyarlo. Estaba interesado como muy pocos pensadores en el libre desarrollo de la individualidad humana, argumentando contra el derecho burgués (que oculta la disparidad social detrás de la igualdad meramente legal) que “el derecho tendría que ser, no igual, sino desigual”, [15]  y sin embargo se lo incluyó en una concepción que neutralizaba la riqueza de la dimensión colectiva de la vida social en la homogenización indiferenciada.

Los regresos a Marx
Ya sea por las disputas teóricas o por los eventos políticos, el interés en la obra de Marx ha fluctuado con el tiempo y ha pasado por períodos indiscutibles de declinación. Desde la “crisis del marxismo” a comienzos del siglo XX hasta la disolución de la II Internacional, y desde los debates sobre las contradicciones de la teoría económica de Marx hasta la tragedia del “socialismo realmente existente”, la crítica de las ideas de Marx parecieron persistentemente apuntar más allá del horizonte conceptual del marxismo. Pero siempre ha habido un “regreso a Marx”. Se desarrolla una nueva necesidad de tomar como referencia su obra – ya sea la crítica de la economía política, las formulaciones sobre la alienación, o las páginas brillantes de las polémicas políticas – y ese pensamiento ha continuado ejerciendo una fascinación irresistible para seguidores y opositores.

Declarado muerto luego de la caída del muro de Berlín, Marx nuevamente se convierte en el centro de un interés generalizado. Su “renaissance” se basa en su permanente capacidad para explicar el presente; es más, su pensamiento sigue siendo un instrumento indispensable con el cual entenderlo y transformarlo. Frente a la crisis de la sociedad capitalista y las profundas contradicciones que la atraviesan, este autor al que se desechó precipitadamente luego de 1989, se lo está considerando nuevamente y se lo vuelve a interrogar. Así es que la afirmación de Jacques Derrida, que “siempre será un error no leer y releer y discutir a Marx” [16] , que hace unos pocos años parecía una provocación aislada, ha recibido una creciente aprobación. [17]

Por otra parte, la literatura secundaria sobre Marx, que casi se había agotado hace veinte años, está mostrando señales de resurgimiento en muchos países, en la forma de nuevos estudios y en folletos en distintos lenguajes con títulos como ¿Porqué leer a Marx hoy? [18] Las revistas están cada vez más abiertas a colaboraciones sobre Marx y los marxismos, así como hay ahora muchas conferencias internacionales, cursos universitarios y seminarios sobre el tema. En particular, desde el comienzo de la crisis económica internacional en 2008, académicos y teóricos de economía de diversos antecedentes políticos y culturales se están basando en los análisis de Marx sobre la inestabilidad intrínseca del capitalismo, cuyas crisis cíclicas autogeneradas tienen graves efectos sobre la vida política y social. Finalmente, aunque en forma tímida y confusa, se está haciendo sentir en la política una nueva demanda por Marx; desde Latinoamérica hasta el movimiento de la globalización alternativa.

Marx y la primera crisis financiera mundial
Luego de la derrota del movimiento revolucionario que surgió por toda Europa en 1848, Marx se convenció de que sólo a partir del estallido de una nueva crisis surgiría una nueva revolución. Instalado en Londres en marzo de 1850, pues había recibido órdenes de expulsión de Bélgica, Prusia y Francia, dirigió la Neue Rheinische Zeitung. Politischökonosmische Revue, una publicación mensual que planeaba como el lugar para “la investigación integral y científica de las condiciones económicas que forman el fundamento de todo el movimiento político”. [19] En Las luchas de clases en Francia, que apareció como una serie de artículos en esa revista, afirmaba que “una verdadera revolución (…) no es posible más que en los períodos en que (…) las fuerzas productivas modernas y las formas de producción burguesas, entran en conflicto las unas con las otras (…) Una nueva revolución solamente será posible como consecuencia de una nueva crisis.” [20]

Durante ese mismo verano de 1850, Marx profundizó el análisis económico que había comenzado antes de 1848, y en el número de mayo-octubre de 1850 de la Neue Rheinische Zeitung. Politischökonosmische Revue llegó a la importante conclusión de que “la crisis comercial contribuyó infinitamente más a las revoluciones de 1848 que la revolución a la crisis comercial”. [21] Desde ahora en adelante la crisis económica sería fundamental para su pensamiento, no solo económicamente sino también sociológicamente y políticamente. Más aún, al analizar los procesos de especulación y sobreproducción desenfrenados, se arriesgó a predecir que “si el nuevo ciclo de desarrollo industrial que comenzó en1848 sigue el mismo curso como el de 1843-47, la crisis estallará en 1852”. La futura crisis, subrayó, también estallaría en el campo, y “por primera vez la crisis industrial y comercial coincidiría con una crisis en la agricultura”. [22]

Los pronósticos de Marx sobre este período de más de un año resultaron ser equivocados. Sin embargo, aún en los momentos en que estaba más convencido de que era inminente una nueva ola revolucionaria, sus ideas eran muy diferentes de las de otros líderes políticos europeos exiliados en Londres. Aunque se equivocó sobre cómo se desarrollaría la situación económica, consideraba que a los efectos de la actividad política era indispensable estudiar el estado en que se hallaban las relaciones económicas y políticas. Por el contrario, la mayoría de los líderes democráticos y comunistas de esa época, a quienes los caracterizaba como “alquimistas de la revolución”, pensaban que el único prerrequisito para una revolución victoriosa era “la adecuada preparación de su conspiración”. [23]

Durante este período, Marx también profundizó sus estudios de la economía política y se concentró, en particular, en la historia y las teorías de las crisis económicas, prestando mucha atención a la forma dineraria y el crédito intentando comprender sus orígenes. A diferencia de otros socialistas de la época, como Proudhon, que estaban convencidos de que a las crisis económicas se las podía evitar mediante una reforma del sistema monetario y crediticio, Marx llegó a la conclusión de que, dado que el sistema crediticio era una de las condiciones subyacentes, las crisis como máximo podían agravarse o mitigarse por el uso correcto o incorrecto de la circulación monetaria; las verdaderas causas de las crisis debían buscarse, en cambio, en las contradicciones de la producción. [24]

A pesar de la prosperidad económica, Marx no perdió su optimismo en lo concerniente a la inminencia de una crisis económica, y a fines de 1851 escribió al famoso poeta Ferdinand Freiligrath, un viejo amigo suyo: “La crisis, controlada por todo tipo de factores (…), debe estallar cuanto más en el otoño próximo. Y luego de los acontecimientos más recientes, estoy más convencido que nunca de que sin una crisis comercial no será una revolución seria.” [25] Marx no reservaba esas afirmaciones sólo para su correspondencia, sino también las mencionaba en el New-York Tribune. Entre 1852 y 1858, la crisis económica era un tema constante en sus artículos para el periódico estadounidense. Marx no concebía al proceso revolucionario de una manera determinista, pero estaba seguro de que la crisis era un prerrequisito indispensable para que se cumpliera. En un artículo de junio de 1853 sobre “La revolución en China y en Europa”, escribió: “Desde el comienzo del siglo XVIII no ha habido en Europa ninguna revolución seria que no haya sido precedida por una crisis comercial y financiera. Esto se aplica tanto a la revolución de 1789, como a la de 1848.” [26] El mismo tema se subrayó a fines de septiembre de 1853, en el artículo “Movimientos políticos: escasez del pan en Europa”:

Ni la declamación de los demagogos, ni las trivialidades de los diplomáticos conducirán a una crisis, pero (…) hay desastres económicos y convulsiones sociales que se aproximan que deben ser los seguros precursores de la revolución europea. Desde 1849 la prosperidad comercial e industrial ha estirado el período en el que la contrarrevolución ha dormido tranquilamente. [27]

En la correspondencia con Engels también se pueden hallar rastros del optimismo con el que Marx aguardaba los sucesos. Por ejemplo, en una carta de septiembre de 1853, escribió: “Las cosas están saliendo maravillosamente. En Francia se desatará un jaleo tremendo cuando estalle la burbuja financiera.” [28] Pero la crisis todavía no llegaba.

Sin perder sus esperanzas, Marx escribió otra vez sobre la crisis para el New-York Tribune en 1855 y 1856. En marzo 1855, en el artículo “La crisis en Inglaterra”, afirmaba:

Unos pocos meses más y la crisis llegará a una altura que no se había alcanzado en Inglaterra desde 1846, quizás desde 1842. Cuando sus efectos comiencen a sentirse plenamente entre las clases trabajadoras, entonces comenzará de nuevo ese movimiento político, que ha estado latente durante seis años (…) Entonces se encontrarán cara a cara los dos verdaderos partidos contendientes en ese país: la clase media y las clases trabajadoras, la burguesía y el proletariado. [29]

Y en “La crisis en Europa”, que apareció en noviembre de 1856, en una época en que todos los columnistas predecían confiadamente que lo peor ya había pasado, sostenía:

Las indicaciones que llegan de Europa (…) parecen posponer sin duda hacia un día futuro al colapso final de la especulación y actividad bursátil, que los hombres a ambos lados del mar anticipan instintivamente como una previsión temerosa de algún destino inevitable. No obstante este aplazamiento, ese colapso es seguro; de hecho, el carácter crónico que asumió la crisis financiera existente solo presagia para ella un fin más violente y destructivo. Cuando más dure la crisis, peor será el juicio final. [30]

Durante los primeros meses de 1857, los bancos neoyorquinos aumentaron el volumen de sus préstamos, a pesar de la declinación en los depósitos. El crecimiento resultante en la actividad especulativa empeoró las condiciones económicas generales, y luego de que la sucursal en Nueva York de la Ohio Life Insurance and Trust Company se declaró insolvente, el pánico prevaleciente condujo a numerosas bancarrotas. La pérdida de confianza en el sistema bancario produjo entonces una contracción del crédito, una disminución de los depósitos y la suspensión de los pagos. Desde Nueva York, la crisis se propagó rápidamente al resto de los Estados Unidos y, en pocas semanas, a todos los centros del mercado mundial en Europa, Sudamérica y el Oriente, convirtiéndose en la primera crisis financiera internacional en la historia.

Luego de la derrota de 1848, Marx había enfrentado toda una década de reveses políticos y un profundo aislamiento personal. Pero con el estallido de la crisis, percibió la posibilidad de tomar parte en una nueva ronda de revueltas sociales y consideró que su tarea más urgente era analizar los fenómenos económicos que serían tan importantes para el comienzo de una revolución. En ese período, el trabajo de Marx fue notable y de gran amplitud. Desde agosto de 1857 a mayo de 1858 llenó los ocho cuadernos conocidos como los Grundrisse, mientras que como corresponsal del New-York Tribune, escribió muchos artículos sobre el desarrollo de la crisis en Europa. Por último, desde octubre de 1857 hasta febrero de 1858, compiló tres libros de extractos, llamados los Libros de la crisis [31] .

Sin embargo, en realidad no había señales del movimiento revolucionario tan esperado que se suponía que surgiría junto a la crisis; y esta vez, también otra razón para el fracaso de Marx en completar el manuscrito fue su conciencia de que todavía estaba lejos de un pleno dominio crítico del material. Por consiguiente, los Grundrisse quedaron solamente como un borrador preliminar. En 1859 publicó un libro pequeño que no tuvo resonancia pública: Una contribución a la crítica de la economía política. Pasarían otros ocho años de un estudio febril y enormes esfuerzos intelectuales, antes de la publicación de El capital – Tomo I.

El capitalismo como un modo de producción histórico
Los escritos que compuso Marx hace un siglo y medio no contienen, por supuesto, una descripción precisa del mundo de hoy. Sin embargo, deberíamos hacer hincapié en que el centro de El capital tampoco estaba puesto en el capitalismo del siglo XIX, sino – como Marx lo dijo en el tercer tomo de su magnum opus – en la “organización interna del modo capitalista de producción, por así decirlo, en su término promedio ideal” [32] y por consiguiente en su forma más completa y más general.

Cuando estaba escribiendo El capital, la produccion industrial se había desarrollado solamente en Inglaterra y en unos pocos centros industriales europeos. Sin embargo, él previó que el capitalismo se expandiría en una escala global, y formuló sus teorías sobre esa base. Es por esto que El capital no solo es un gran clásico del pensamiento económico y político, sino que todavía nos ofrece, a pesar de todas las profundas transformaciones que han intervenido desde la época en que fue escrito, una rica variedad de herramientas con las cuales comprender la naturaleza del desarrollo capitalista. Esto se ha hecho más evidente desde el colapso de la Unión Soviética y la propagación del modo capitalista de producción a nuevas áreas del planeta, como China. El capitalismo se ha convertido en un sistema verdaderamente universal, y algunas de las ideas de Marx han revelado su importancia aún más claramente que en su propia época. Él demostró la lógica del sistema con más profundidad que cualquier otro pensador moderno, y su obra, si se la actualiza y aplica a los acontecimientos más recientes, puede ayudar a explicar muchos problemas que no se manifestaban plenamente cuando aún vivía. Por último, el análisis del capitalismo por Marx no era meramente una investigación económica sino que era también relevante para la comprensión de las estructuras del poder y las relaciones sociales. Con la extensión del capitalismo en la mayoría de los aspectos de la vida humana, su pensamiento resulta haber sido extraordinariamente profético en muchos terrenos no abordados por el marxismo ortodoxo del siglo XX. Uno de estos terrenos es por cierto las transformaciones causadas por la denominada globalización.

En su crítica del modo capitalista de producción, uno de los blancos polémicos permanentes de Marx era “las robinsonadas del siglo XVIII”, o sea, el mito de Robinson Crusoe como el paradigma del homo oeconomicus, o la proyección de los fenómenos típicos de la era burguesa en cualquier otra sociedad que ha existido desde las épocas más remotas. Esa concepción presentaba al carácter social de la producción como una constante en todo proceso de trabajo, no como una peculiaridad de las relaciones capitalistas. Del mismo modo, la sociedad civil [bürgerliche Gesselschaft], cuyo surgimiento en el siglo XVIII había creado las condiciones a través de las cuales “cada individuo aparece como desprendido de los lazos naturales, etc., que en las épocas históricos precedentes hacen de él una parte integrante de un conglomerado humano determinado y circunscrito”, era retratado como si siempre hubiera existido. [33] En El capital, Tomo I, al hablar de “la tenebrosa Edad Media europea”, Marx afirma que “en lugar del hombre independiente nos encontramos con que aquí todos están ligados por lazos de dependencia: siervos de la gleba y terratenientes, vasallos y grandes señores, seglares y clérigos. La dependencia personal caracteriza tanto las relaciones sociales en que tiene lugar la producción material como las otras esferas de la vida estructurada sobre dicha producción”. [34] Y cuando él examinaba la génesis del intercambio de productos, recordaba que el mismo comenzó con los contactos entre diferentes familias, tribus o comunidades, “puesto que en los albores de la civilización no son personas particulares, sino las familias, tribus, etc., las que se enfrentan, de manera autónoma.” [35]

Los economistas clásicos habían invertido esta realidad, sobre la base de lo que Marx consideraba como fantasías inspiradas en la ley natural. En particular, Adam Smith había descrito una condición primaria donde los individuos no sólo existían, sino que eran capaces de producir por fuera de la sociedad. Una división del trabajo dentro de las tribus de cazadores y pastores supuestamente había logrado la especialización de los oficios: la mayor destreza de una persona en fabricar arcos y flechas, por ejemplo, o en construir chozas de madera, lo había hecho una especie de armero o carpintero, y la seguridad de poder intercambiar la parte no consumida del producto del trabajo de uno por el excedente de otros “alentó a todos a consagrarse a una ocupación específica”. [36] David Ricardo cometió un anacronismo similar cuando concibió a la relación entre cazadores y pescadores primitivos en las primeras etapas de la sociedad como un intercambio entre poseedores de mercancías sobre la base del tiempo de trabajo materializado en ellas. [37]

De esta manera, Smith y Ricardo describieron un producto altamente desarrollado de la sociedad en la que vivían – el individuo burgués aislado – como si fuera una manifestación espontánea de la naturaleza. Lo que surgió de las páginas de sus obras era un individuo mitológico, atemporal, “conforme a la naturaleza”, [38] cuyas relaciones sociales eran siempre las mismas y cuya conducta económica tenía un carácter antropológico ahistórico. De acuerdo a Marx, los intérpretes de cada nueva época histórica regularmente se han auto-engañado planteando que los rasgos más distintivos de su propia época han estado presentes desde tiempos inmemoriales.

Contra quienes retrataron al individuo aislado del siglo XVIII como el arquetipo de la naturaleza humana, “no como un resultado histórico sino como el punto de partida de la historia”, Marx sostuvo que ese individuo solamente emergió con las relaciones sociales más desarrolladas. Así, dado que la sociedad civil ha surgido solo con el mundo moderno, el trabajador asalariado libre de la época capitalista había aparecido solo luego de un largo proceso histórico. De hecho, era “el producto, por un lado, de la disolución de las formas feudales de la sociedad, y por el otro lado, de las nuevas fuerzas productivas desarrolladas desde el Siglo XVI. [39]

La mistificación que practicaban los economistas consideraba también el concepto de la producción en general. En la “Introducción” de 1857, Marx argumentaba que, aunque la definición de los elementos generales de la producción está “segmentada muchas veces y dividida en diferentes determinaciones”, algunas de las cuales “pertenecen a todas las épocas, y otras, a sólo unas pocas”, [40] seguramente hay, entre sus componentes universales, trabajo humano y material proporcionado por la naturaleza. Pues sin un sujeto productor y un objeto trabajado, no podría haber ninguna producción. Pero los economistas introdujeron un tercer prerrequisito general de la producción: “un stock, previamente acumulado, de los productos del antiguo trabajo”, o sea, el capital. [41] La crítica de este último elemento era esencial para Marx, para revelar lo que él consideraba que era una limitación fundamental de los economistas. También le pareció evidente que ninguna producción sería posible sin un instrumento de trabajo, aunque fuera la mano humana, o sin trabajo pasado acumulado, aunque sólo fuera en la forma de los ejercicios repetidos del hombre primitivo. Sin embargo, aunque aceptaba que el capital era trabajo pasado y un instrumento de producción, no llegó a la conclusión, como Smith, Ricardo y John Stuart Mill, de que había existido siempre.

En una sección de los Grundrisse se ha discutido este tema más en detalle, donde a la concepción del capital como algo eterno, se lo ve como una forma de tratarlo solamente como materia, sin consideración alguna para su “determinación formal” esencial (Formbestimmung), de acuerdo a esto:

… el capital habría existido en todas las formas de la sociedad, lo que es cabalmente ahistórico. (…) el brazo, sobre todo la mano, serían capital, pues el capital sería un nuevo nombre para una cosa tan vieja como el género humano, ya que todo tipo de trabajo, incluso el menos desarrollado, la caza, la pesca, etc., presupone que se utilice el producto del trabajo precedente como medio para el trabajo vivo e inmediato.(…) Si de este modo se hace abstracción de la forma determinada del capital y sólo se pone el énfasis en el contenido, (…) nada más fácil, naturalmente que demostrar que el capital es una condición necesaria de toda producción humana. Se aporta la prueba correspondiente mediante la abstracción de las determinaciones específicas que hacen del capital el elemento de una etapa histórica, particularmente desarrollada de la producción humana. [42]

Si se comete el error de concebir al “capital [atendiendo] únicamente a su aspecto material, a su calidad de instrumento de producción, prescindiendo totalmente de la forma económica que convierte al instrumento de producción en capital”, [43] se cae en la “burda incapacidad de captar las diferencias reales” y se llega a creer que existe una sola relación económica, la cual adopta diversos nombres” [44] . Ignorar las diferencias expresadas en la relación social significa abstraer la differentia specifica, que es el punto nodal de todo. [45] Por eso, en la “Introducción” de 1857, Marx escribe que “el capital sería una relación natural, universal [allgemeines] y eterna”, “pero lo es si dejo de lado lo específico, lo que hace de un ‘instrumento de producción’, del ‘trabajo acumulado’, un capital”. [46]

De hecho Marx ya había criticado a la falta de sentido histórico de los economistas en La miseria de la filosofía:

Los economistas razonan de singular manera. Para ellos no hay más que dos clases de instituciones: las unas, artificiales, y las otras, naturales. Las instituciones del feudalismo son artificiales, y las de la burguesía son naturales. En esto los economistas se parecen a los teólogos, que a su vez establecen dos clases de religiones. Toda religión extraña es pura invención humana, mientras que su propia religión es una emanación de Dios. Al decir que las actuales relaciones – las de la producción burguesa – son naturales, los economistas dan a entender que se trata precisamente de unas relaciones bajo las cuales se crea la riqueza y se desarrollan las fuerzas productivas de acuerdo con las leyes de la naturaleza. Por consiguiente, estas relaciones son en sí leyes naturales, independientes de la influencia del tiempo. Son leyes eternas que deben regir siempre la sociedad. De modo que hasta ahora ha habido historia, pero ahora ya no la hay. [47]

Para que esto sea plausible, los economistas describieron las circunstancias históricas previas al nacimiento del modo capitalista de producción como “resultados de su existencia” [48] con sus propios rasgos. Como Marx sostiene en los Grundrisse:

Los economistas burgueses, que consideran al capital como una forma productiva eterna y conforme a la naturaleza (no a la historia) tratan siempre de justificarlo tomando las condiciones de su devenir por las condiciones de su realización actual. Esto es, tratan de hacer pasar los momentos en los que el capitalista practica la apropiación como no-capitalista – porque tan solo deviene tal -, por las condiciones mismas en las cuales practica la apropiación como capitalista. [49]

Desde un punto de vista histórico, la profunda diferencia entre Marx y los economistas clásicos es que en su opinión, “el capital no empezó el mundo desde un principio, sino que encontró, preexistentes, producción y productos, antes de someterlos a su proceso”. [50] En forma similar, la circunstancia en la cual los sujetos productores son separados de los medios de producción – lo que permite al capitalista hallar a trabajadores desposeídos y capaces de realizar el trabajo abstracto (el requisito necesario para el intercambio entre el capital y el trabajo vivo) – es el resultado de un proceso que los economistas cubren con el silencio, que “constituye la historia de la génesis del capital y del trabajo asalariado” [51] .

No pocos fragmentos de los Grundrisse critican la forma en la que los economistas presentan a las realidades históricas como realidades naturales. Para Marx es evidente, por ejemplo, que el dinero es un producto de la historia: “entre las propiedades naturales del oro y de la plata no se cuenta la de ser dinero”, [52] sino solo una determinación que adquieren primero en un momento preciso del desarrollo social. Lo mismo es cierto con el crédito. De acuerdo a Marx, dar y tomar en préstamo era un fenómeno común a muchas civilizaciones, como también lo era la usura, pero “en modo alguno son sinónimo de crédito, del mismo modo que trabajar no lo es de trabajo industrial o de trabajo asalariado libre. Como relación de producción desarrollada, esencial, el crédito se presenta históricamente sólo en la circulación basada sobre el capital” [53] .

Los precios y el intercambio también existían en la sociedad antigua, “pero tanto la determinación progresiva de los unos a través de los costos de producción, como el predominio del otro sobre todas las relaciones de producción se desarrollan plenamente por primera vez, y se siguen desarrollando cada vez más plenamente, sólo en la sociedad burguesa, en la sociedad de la libre competencia. Lo que Adam Smith, a la manera tan propia del siglo XVIII, sitúa en el período prehistórico y hace preceder a la historia, es sobre todo el producto de ésta.” [54] Más aún, así como criticaba a los economistas por su falta de sentido histórico, Marx se burlaba de Proudhon y todos los socialistas que pensaban que el trabajo que producía valor de cambio podría existir sin convertirse en trabajo asalariado, que el valor de cambio podría existir sin convertirse en capital, o que podría haber capital sin capitalistas. [55] Por consiguiente, Marx aspiraba a sostener la especificidad histórica del modo capitalista de producción: demostrar, como nuevamente lo afirmaría en El capital, Tomo III, que “no es un modo de producción absoluto” sino “solamente histórico y transitorio”. [56]

Este punto de vista implica una forma diferente de ver muchas cuestiones, incluyendo al proceso de trabajo en sus diversas características. En los Grundrisse, Marx escribió que “los economistas burgueses están tan enclaustrados en las representaciones de determinada etapa histórica de desarrollo de la sociedad, que la necesidad de que se objetiven los poderes sociales del trabajo se les aparece como inseparable de la necesidad de que los mismos se enajenen con respecto al trabajo vivo.” [57] Marx discrepó repetidamente con esta presentación de las formas específicas del modo capitalista de producción como si fueran constantes del proceso como tal. Representar al trabajo asalariado, no como una relación característica de una forma histórica específica de producción, sino como una realidad universal de la existencia económica del hombre era implicar que la explotación era dar a entender que la explotación y la alienación siempre habían existido y siempre seguirían existiendo.

Por consiguiente, cuando se evadía a la especificidad de la producción capitalista se obtenían consecuencias epistemológicas y políticas. Por un lado, eso impedía entender los niveles históricos concretos de producción; por el otro, al definirse las condiciones presentes como constantes e invariables, esto presentaba a la producción capitalista como la producción en general y a las relaciones sociales burguesas como relaciones humanas naturales. En consecuencia, la crítica de Marx a las teorías de los economistas tenía un doble valor. Así como se subrayaba que era indispensable una caracterización histórica para comprender la realidad, tenía el propósito político preciso de refutar al dogma de la inmutabilidad del modo capitalista de producción. Una demostración de la historicidad del orden capitalista también sería una prueba del su carácter transitorio y de la posibilidad de su eliminación. El capitalismo no es la única etapa en la historia humana, ni tampoco la final. Marx prevé que lo sucederá “una asociación de hombres libres, que trabajen con medios de producción colectivos y empleen, conscientemente sus muchas fuerzas de trabajo individuales como una fuerza de trabajo social”. [58]

¿Porqué otra vez Marx?
Liberado de la aberrante función de instrumentum regni, a la que había sido asignado en el pasado, y de las cadenas del marxismo-leninismo del que está ciertamente separado, la obra de Marx ha sido reasignada para nuevos terrenos del saber y se la está leyendo otra vez en todo el mundo. Una vez más, se ha abierto la posibilidad del pleno desarrollo de este precioso legado teórico, arrancado a presuntuosos propietarios y a las estrechas formas de utilización. Sin embargo, si Marx ya no se presenta más como una esfinge tallada en piedra que protege al grisáceo “socialismo realmente existente” del siglo XX, sería igualmente equivocado creer que se pueda confinar a su legado teórico y político a un pasado que ya no tiene nada que ofrecer a los conflictos actuales. El redescubrimiento de Marx se basa en su persistente capacidad de explicar el presente: sigue siendo un instrumento indispensable para comprenderlo y transformarlo.

Luego de años de manifiestos postmodernos, del solemne discurso del “fin de la historia” y de la infatuación con las vacías ideas “biopolíticas”, ahora se reconoce otra vez cada vez más extensamente el valor de las teorías de Marx. ¿Qué queda hoy de Marx? ¿Cuál es la utilidad de su pensamiento para la lucha obrera por la libertad? ¿Cuál es la parte de su obra más fértil para estimular la crítica de nuestra época? Estas son algunas de las preguntas para las que hay una gama muy amplia de respuestas. Si hay algo que es cierto sobre el resurgimiento contemporáneo de Marx, es un rechazo a las ortodoxias que han dominado y profundamente condicionado a la interpretación de su pensamiento. Aunque caracterizada por límites evidentes y por el riesgo del sincretismo, este nuevo período se diferencia por la multiplicidad de enfoques teóricos. [59] Luego de la era de los dogmatismos, quizás no podía ser de otra manera. La tarea de responder al desafío, mediante investigaciones teóricas y prácticas, le corresponde a una generación emergente de estudios y activistas políticos.

Entre los “Marxes” que siguen siendo indispensables, podemos mencionar al menos a dos. Uno es el crítico del modo capitalista de producción: el incansable investigador que estudió su desarrollo a escala mundial y dejó una descripción incomparable de la sociedad burguesa; el pensador que, rehusándose a concebir al capitalismo y al régimen de la propiedad privada como escenarios inmutables, e inherentes a la naturaleza humana, aún ofrece propuestas cruciales para quienes buscan y procuran alternativas. El otro es el teórico del socialismo: el autor que repudiaba la idea del socialismo de estado, que ya se había propagado en su época por Lassalle y Rodbertus, y concebía la posibilidad de una completa transformación de las relaciones productivas y sociales, no solo un paquete de anodinos paliativos para los problemas de la sociedad capitalista. Sin Marx, estaríamos condenados a la afasia crítica. Por consiguiente, la causa de la emancipación humana seguirá necesitándolo. Su “espectro” está destinado a inquietar al mundo y conmover a la humanidad durante un buen tiempo.

Apéndice: Tabla cronológica de los textos de Marx
Dado el tamaño de la producción intelectual de Marx, la siguiente cronología solo puede incluir a sus escritos más importantes; su propósito es destacar el carácter incompleto de muchos de los textos de Marx y la historia accidentada de su publicación. En relación al primer punto, los títulos de los manuscritos que él no envió a la imprenta se hallan puestos entre corchetes, para diferenciarlos de los libros y artículos completados. De inmediato se nota el mayor peso de los primeros en comparación con los segundos. La columna relativa al segundo punto contiene el año de la primera publicación, la referencia bibliográfica y, donde sea relevante, el nombre del editor o editores. También se indican cualquier cambio que se haya hecho a los originales. Cuando un libro o manuscrito publicado no fue escrito en alemán, se especifica el idioma original. Finalmente, en la tabla se han usado las siguientes abreviaturas: MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe, 1927-1935); SOC (K. Marks i F. Engel’s Sochineniia, 1928-1946); MEW (Marx-Engels-Werke, 1956-1968); MECW (Marx-Engels Collected Works, 1975-2005); MEGA2 (Marx-Engels-Gesamtausgabe, 1975- ); IISG ( International Institute of Social History).

AÑO TÍTULO DE LA OBRA INFORMACIÓN SOBRE LAS EDICIONES
1841 [Diferencia entre la filosofía de la naturaleza de Demócrito y la de Epicuro] 1902: en Aus dem literarischen Nachlass von Karl Marx, Friedrich Engels und Ferdinand Lassalle, compilada por Mehring (version parcial).
1927: en MEGA I/1.1, compilada por Riazanov.
1842-43 Artículos para la Gaceta Renana Periódico que se imprimía en Colonia
1844 [Sobre la crítica de la filosofía hegeliana del derecho público] 1927: en MEGA I/1.1, a cargo de Riazanov.
1844 Ensayos para los Anales Franco-Alemanes Incluidos en Sobre la cuestión judía y Para la crítica de la filosofía del derecho de Hegel. Introducción. Número único publicado en París. La mayor parte de los ejemplares fue confiscada por la policía.
1845 [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] 1932: en Der historische Materialismus, a cargo de Landshut y Mayer y en MEGA I/3, a cargo de Adoratsky (las ediciones difieren en su contenido y en el orden de las partes). El texto fue excluido de los volúmenes numerados de la MEW y publicado por separado.
1845 La Sagrada Familia (con Engels) Publicado en Frankfort sobre el Mein.
1845 [Tesis sobre Feuerbach] 1888: en apéndice a la reimpresión de Ludwig Fuerbach y el fin de la filosofía clásica alemana de Engels.
1845-46 [La ideología alemana] (con Engels) 1903-1904: en Dokumente des Sozialismus, a cargo de Bernstein (versión parcial y manipulada).
1932: en Der historische Materialismus, a cargo de Landshut y Mayer, y en MEGA I/3, a cargo de Adoratsky (las ediciones difieren en su contenido y en el orden de las partes).
1847 Miseria de la filosofía Impreso en Bruselas y París. Texto en francés.
1848 Discurso sobre la cuestión del libre cambio Publicado en Bruselas. Texto en francés.
1848 Manifiesto del partido comunista (con Engels) Impreso en Londres. Conquistó cierta difusión a partir de los años setenta.
1848-49 Artículos para la Nueva Gaceta Renana Periódico de Colonia. Entre ellos figura Trabajo asalariado y capital.
1850 Artículos para la Nueva Gaceta Renana. Revista político-económica Fascículos mensuales impresos en Hamburgo y de exiguo tiraje. Comprenden Las luchas de clase en Francia desde 1848 a 1850.
1851-62 Artículos para el New-York Tribune Muchos artículos fueron redactados por Engels.
1852 El dieciocho Brumario de Luis Bonaparte Publicado en Nueva York en el primer fascículo de Die Revolution. La mayor parte de los ejemplares no pudo ser retirada de la imprenta por dificultades financieras. A Europa llegó solamente un número insignificante de copias. La segunda edición –reelaborada por Marx – apareció sólo en 1869.

1852

 

[Los grandes hombres del exilio] (con Engels) 1930: en “Archiv Marksa i Engel’sa” (edición rusa). El manuscrito había sido ocultado precedentemente por Bernstein.
1853 Revelaciones sobre el proceso contra los comunistas de Colonia Impreso como anónimo en Basilea (casi todos los dos mil ejemplares fueron secuestrados por la policía) y en Boston. En 1874 fue reimpreso en el Volksstaat y Marx aparece como autor; en 1875 versión en libro.
1853-54 Lord Palmerston Texto en inglés. Publicado como artículos en el New-York Tribune y The People’s Paper, y posteriormente como folleto.
1854 El caballero de la noble conciencia Publicado en Nueva York como folleto.
1856-57 Revelaciones sobre la historia diplomática del siglo dieciocho Aunque había sido ya publicado por Marx, después fue omitido y sólo fue publicado en Europa oriental en 1986 en la MECW. Texto en inglés.
1857-58 [Introducción a los Lineamientos fundamentales de la crítica de la economía política] 1903: en Die Neue Zeit, a cargo de Kautsky, con notables discordancias con el original.
1859 Para la crítica de la economía política Impreso en Berlín en mil ejemplares.
1860 Herr Vogt Impreso en Londres con escasa resonancia.
1861-63 [Para la crítica de la economía política (Manuscrito 1861-1863)] 1905-1910: Teorías sobre la plusvalía; a cargo de Kautsky (versión manipulada). El texto fiel al original recién apareció en 1954 (edición rusa) y en 1956 (edición alemana).
1976-1982: publicación integral de todo el manuscrito en MEGA2 II/3.1-3.6.
1863-64 [Sobre la cuestión polaca] 1961: Manuskripte über die polnische Frag, a cargo del IISG.

1863-67

 

[Manuscritos económicos 1863-67] 1894: El capital. Libro tercero. El proceso global de la producción capitalista, a cargo de Engels (basado también sobre manuscritos sucesivos, editados en MEGA2 II/14 y en preparación en MEGA2 II/4.3).
1933: Libro primero. Capítulo VI inédito, en “Archiv Marksa i Engel’sa” (edición rusa).
1988: publicación de manuscritos del Libro primero y del Libro segundo,en MEGA2 II/4.1.
1992: publicación de manuscritos del Libro tercero, en MEGA2 II/4.2.
1864-72 Discursos, resoluciones, circulares, manifiestos, programas, estatutos para la Asociación Internacional de los Trabajadores Incluyen el Mensaje inaugural de la Asociación internacional de los trabajadores, La guerra civil en Francia y Las llamadas escisiones en la Internacional (con Engels). Por lo general, textos en inglés.
1865 [Salario, precio y ganancia] 1898: a cargo de Eleanor Marx. Texto en inglés.
1867 El capital. Libro primero. El proceso de producción del capital Editado en mil ejemplares en Hamburgo. Segunda edición en 1873 de tres mil copias. Traducción rusa en 1872.
1870 [Manuscrito para el libro segundo de El capital] 1885: El capital. Libro segundo. El proceso de circulación del capital, a cargo de Engels (basado también sobre el manuscrito de 1880-1881 y sobre los otros más breves de 1867-1868 y de 1877-1878, en preparación en MEGA2 II/11).
1871 La guerra civil en Francia En inglés. Tuvo numerosas ediciones y traducciones en un corto espacio de tiempo.
1872-75 El capital. Libro primero: El proceso de producción del capital (edición francesa) Texto reelaborado para la traducción francesa publicada en fascículos. Según Marx tiene “un valor científico independiente del original”.
1874-75 [Notas sobre “Estado y Anarquía” de Bakunin] 1928: en Letopisi marxisma, prefacio de Riazanov (edición rusa). Manuscritos con extractos en ruso y comentarios en alemán.
1875 [Crítica al Programa de Gotha] 1891: en Die Neue Zeit, a cargo de Engels, que modificó algunos trechos del original.
1875 [La relación entre la cuota de plusvalía y la cuota de ganancia desarrollada matemáticamente] 2003: en MEGA2 II/14.
1877 Sobre la “Historia crítica” (capítulo del Anti-Dühring de Engels) Publicado parcialmente en el Vorwärts y después íntegramente en la edición como libro.
1879-80 [Anotaciones sobre “La propiedad común rural” de Kovalevsky] 1977: en Karl Marx über Formen vorkapitalischer Produktion, a cargo del IISG.
1880-81 [Extractos de “La sociedad antigua” de Morgan] 1972: en The Ethnological Notebooks of Karl Marx, a cargo del IISG. Manuscritos con extractos en inglés.
1881 [Glosas marginales al “Manual de economía política” de Wagner] 1932: en El Capital (versión parcial).
1933: en SOČ XV (edición rusa).
1881-82 [Extractos cronológicos desde el 90 a.C hasta el 1648 ca.] 1938-1939: en “Archiv Marksa i Engel’sa” (versión parcial, edición rusa).
1953: en Marx,Engels, Lenin, Stalin, Zur deutschen Geschichte (versión parcial).

Traducción: Francisco T. Sobrino

Referencias
1. Cf. Franco Andreucci, La diffusione e la volgarizzazione del marxismo, en Eric J. Hobsbawm et al, (eds.) Storia del marxismo, Vol. 2, (Turín: Enaudi, 1979), pág. 15.
2. Cf. Erich Matthias, “Kautsky und der Kautskyanismus”, Marxismsstudien, Vol. II (1957), pág. 197.
3. Cf. Paul Sweezy, The Theory of Capitalist Development, (Nueva York/Londres: Monthly Review, 1942), págs. 19 y 191.
4. Karl Kautsky, Das Erfurter Programm, in seinem grundsätzlichen Teil erläutert, (Hannover: J. H. W. Dietz, 1964, págs 131 y sigs.)
5. George Plejanov, Fundamental Problems of Marxism (Londres: Lawrence & Wishart, 1969, pág. 21).
6. Nicolai I. Bujarin, Teoría del materialismo histórico. Ensayo popular de Sociología marxista (Madrid: Siglo XXI, 1974, pág. 117).
7. Ibíd., pág. 309. Antonio Gramsci se oponía a esta concepción. Para él, “el planteo del problema como una investigación en las leyes, de líneas constantes, regulares y uniformes, está relacionado con una necesidad, concebida de manera pueril e ingenua, de resolver perentoriamente el problema práctico de la predictibilidad de los eventos históricos.” Su evidente rechazo a reducir la filosofía de la praxis en Marx a una sociología vulgar, a “una fórmula mecánica que da la impresión de contener el todo de la historia en la palma de su mano” (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, valentino Gerratana (ed.), (Turín: Einaudi, 1975, págs. 1403 y 1428) apuntaba, hacia más allá del texto de Bujarin, a la orientación general que posteriormente predominó en la Unión Soviética.
8. Josef V. Stalin, Dialectical and Historical Materialism, (Londres: Lawrence & Wishart, 1941, pág. 5).
9. Ibíd., págs. 13-15.
10. Cf. Maximilien Rubel, Marx critique du marxisme, (París: Payot, 1974, pág. 81).
11. Cf., por ejemplo, Marcello Musto, “Marx in Paris. Manuscripts and notebooks of 1844”, Science & Society, Vol. 73., 386-402; y Terrell Carver, “The German Ideology never Took Place”, History of Political Thought, Vol. 31, N° 1, págs. 107-127.
12. Ver Marcello Musto (ed.), Karl Marx’s Grundrisse. Foundations of the Critique of Political Economy 150 years Later, (Londres/Nueva York: Routledge, 2008, págs. 179-212).
13. Karl Marx, “Epílogo a la segunda edición”, en El capital, T. I, (México DF: Siglo XXI, 1983, pág. 17).
14. Karl Marx, “Estatutos generales de la Asociación Internacional de los trabajadores”, https://www.marxists.org/espanol/m-e/1860s/1864-est.htm. Cf. Marcello Musto (coord.), Workers Unite! The International 150 Years Later, London–New York: Bloomsbury, 2014.
15. Karl Marx, Crítica del programa de Gotha, (Buenos Aires: Anteo, 1973, pág. 32).
16. Jacques Derrida, Spectres of Marx, (Londres: Routledge, 1994, pág. 13).
17. En los últimos años, diarios, revistas, y programas de televisión o radio, han discutido repetidamente la relevancia actual de Marx. En 2003, el semanario Nouvel Observateur dedicó todo un número al tema Karl Marx – le penseur du troisiéme millénaire? Poco después, pagó su tributo al hombre que una vez había forzado a un exilio de cuarenta años: en 2004, más de 500.000 espectadores de la estación de televisión nacional ZDF votó a Marx como la tercera personalidad alemana más importante de todos los tiempos (fue el primero en la categoría de “relevancia contemporánea”), y durante las elecciones nacionales de 2005 la revista de circulación masiva Der Spiegel llevaba su imagen en la tapa, haciendo la señal de la victoria, bajo el título Ein Gespenst kehrt zurück. Ese mismo año, una encuesta dirigida por la Radio Cuatro de la BBC le otorgó a Marx el premio del filósofo más admirado por sus oyentes. Y luego del estallido de la reciente crisis económica, en todas partes del mundo importantes diarios y revistas han estado discutiendo sobre la relevancia contemporánea del pensamiento de Marx.
18. Para una encuesta completa, ver la Parte II de este libro: “La recepción global de Marx hoy”. Uno de los ejemplos académicamente significativos de este nuevo interés es la continuación de los Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), la edición histórico-crítica de las obras completas, que se reanudó en 1998, luego de la interrupción que siguió al colapso de los países socialistas. Ver Marcello Musto, “The Rediscovery of Karl Marx”, International Review of Social History, Vol. 52, N° 3 (2007), págs. 477-98. Sobre la edición MEGA2 en lengua española cf. Marcello Musto (coord.), Tras las huellas de un fantasma, México: Siglo XXI, 2011.
19. Karl Marx y Friedrich Engels, “Announcement of the Neue Rheinische Zeitung. Politischökonosmische Revue”, MECW 10, pág. 5.
20. Karl Marx, Las luchas de clases en Francia, (Buenos Aires: Claridad, 1968, pág. 168).
21. Karl Marx y Friedrich Engels, “Review: May-October 1850”, MECW 10, pág. 497.
22. Ibíd., pág. 503.
23. Karl Marx, “Reviews From theNeue Rheinische Zeitung Revue No. 4”, MECW 10, pág. 318. Un ejemplo de esto era el manifiesto “A las naciones”, emitido por el “Comité Central Democrático Europeo” que habían fundado en Londres en 1850 Giuseppe Mazzini, Alexandre Ledru-Rollin y Arnold Ruge. De acuerdo a Marx, este grupo insinuaba “que la revolución fracasó debido a la ambición y los celos de los líderes individuales y las opiniones mutuamente hostiles de los diversos educadores populares”. También era “pasmosa” la forma en que estos líderes concebían a la “organización social”: “una reunión multitudinaria en las calles, una revuelta, un acuerdo, y se terminó todo. Es más, la idea que tienen es que la revolución simplemente consiste en el derrocamiento del gobierno existente; logrado este objetivo, se ha alcanzado ‘la victoria’” (Karl Marx y Friedrich Engels, “Review: May-October 1850”, MECW 10, págs. 529-530).
24. Ver Karl Marx a Friedrich Engels, 3 February 1851, MECW 38, pág. 275.
25. Karl Marx to Ferdinand Freiligrath, 27 December 1851, MECW 38, pág. 520.
26. Karl Marx, “Revolution in China and Europe”, MECW 12, pág. 99.
27. Karl Marx, “Political Movements – Scarcity of Bread in Europe”, MECW 12, pág. 308
28. Karl Marx to Friedrich Engels, 28 September 1853, MECW 39, pág. 372.
29. Karl Marx, “The Crisis in England”, MECW 14, pág. 61.
30. Karl Marx, “The European Crisis”, MECW 15, pág. 136.
31. Estos cuadernos todavía no han sido publicados. Cf. Michael Krätke, “Marx’s ‘Book of Crisis’ of 1857-58”, en Marcello Musto (ed.), Karl Marx’s Grundrisse. Foundations of the Critique of Political Economy 150 Years Later, cit., págs. 169-175.
32. Karl Marx, El capital, Tomo III, (México DF: Siglo XXI, 1983, pág. 1057)
33. Karl Marx, Elementos fundamentales para la crítica de la economía política (borrador) 1857-1858, (Buenos Aires: Siglo XXI, pág. 3).
34. Karl Marx, El capital, T. I, (México DF: S.XXI, 1983: pág. 94).
35. Ibíd., pág. 428. A esta dependencia mutua no deberíamos confundirla con la que se establece entre individuos en el modo capitalista de producción: la primera es el producto de la naturaleza, la segunda, de la historia. En el capitalismo, la independencia individual se combina con una dependencia social expresada en la división del trabajo (ver Karl Marx, “Original Text of the Second and the Beginning of the Third Chapter of A Contribution to the Critique of Political Economy”, MECW 29, Moscú: Progress Publishers, 1987, pág. 465). En esta etapa de la producción el carácter social de la actividad no se presenta como una simple relación de individuos entre sí “sino como su estar subordinados a relaciones que subsisten independientemente de ellos y nacen del choque de los individuos recíprocamente indiferentes. El intercambio general de actividades y de los productos, que se ha convertido en condición de vida para cada individuo particular y es su conexión recíproca, se presenta ellos mismos como algo ajeno, independiente, como una cosa” (Karl Marx, Grundrisse, cit., 84-85).
36. Adam Smith, The Wealth of Nations, Vol. 1 (Londres: J.M.Dent & Sons, 1973, pág. 19).
37. Ver David Ricardo, The Principles of Political Economy and Taxation, (Londres: J.M.Dent & Son, 1973, pág.15; ver Karl Marx, Contribución a la crítica de la economía política, (Buenos Aires, Ed. Futuro, 1970, pág. 52).
38. Karl Marx, Grundrisse, cit., pág. 4).
39. Ibíd.
40. Ibíd., pág. 6).
41. John Stuart Mill, Principles of Political Economy, Vol. 1, (Londres: Routledge & Keegan Paul, 1965, págs. 55f.
42. Karl Marx, Grundrisse, cit., pág. 197.
43. Ibíd. (T. II), pág. 93.
44. Ibíd., pág. 188.
45. Ibíd., pág. 204.
46. Ibíd., págs. 5-6.
47. Karl Marx, Miseria de la filosofía, (Moscú: Ed. en Lenguas Extranjeras, s/f, pág. 116).
48. Karl Marx, Grundrisse, cit., pág. 421.
49. Ibíd.
50. Ibíd., T. II, pág 197.
51. Ibíd., pág. 449.
52. Ibíd., pág. 177.
53. Ibíd., T. II, pág. 26.
54. Ibíd., pág. 83.
55. Ver íbid., pág. 187.
56. Karl Marx, El capital, T. III, cit., pág. 310.
57. Karl Marx, Grundrisse, T. II, pág. 395.
58. Karl Marx, El capital, T. I, pág. 96.
59. Cf. André Tosel, Le marxisme du 20e. siècle, (París: Syllepse, 2009, págs. 79f).

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