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Alfio Neri, Carmilla. Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione

L’ultimo Marx

Non era solo un vecchio malandato. La salute di Marx era malferma ma il suo cervello funzionava. Avere problemi fisici non significa essere rincoglioniti.

La tradizione marxista lo descrive come un vecchio infermo, un santo laico che aveva appena fatto in tempo a finire la sua immane opera.
La verità è diversa. Il vecchio tabagista non mollò mai, anche dopo aver smesso di fumare.
Marx non fu mai la sfinge granitica dei monumenti sovietici e non ebbe mai la triste certezza dogmatica dei suoi peggiori seguaci.
Diffidò sempre delle dottrine tascabili sfornate dai suoi seguaci più ottusi. Non recitò mai la parte del profeta barbuto che indica il sol dell’avvenire.
Dalle lettere si vede molto bene che non si fidava di parecchia gente; spesso gli stessi che, più avanti, avrebbero fatto del marxismo il loro mestiere.
Di Kautsky pensava che fosse una “mediocrità”1. Il suo giudizio sul futuro massimo dirigente della socialdemocrazia tedesca mostra il suo enorme intuito.
La leggenda che, alla fine della sua vita, il vecchio ex-tabagista avesse soddisfatto la propria curiosità intellettuale è falsa. Marx continuò a studiare e a proporre soluzioni nuove fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle opere complete stanno per essere pubblicati gli ultimi duecento quaderni.
Il lavoro filologico ha riportato alla luce gli appunti personali di questi anni. Da questi materiali emerge un autore diverso da quello consueto. Il profilo intellettuale appare completamente nuovo.
I nuovi documenti e l’implosione dell’URSS hanno liberato Marx dalla necessità di interpretarlo alla luce della ragion di stato e del dogmatismo dottrinario.
Il rinnovato interesse sulla sua figura e il nuovo materiale fanno pensare che la reinterpretazione della sua opera sia destinata a continuare. Il punto di svolta ermeneutico, per Marcello Musto, inizia con la rilettura della parte terminale della sua opera.
In questa sede non bisogna adagiarsi sull’elegia.
La dignità della sua morte ricorda le trame di un racconto ottocentesco in cui le tragedie personali si intrecciano nelle grandi tempeste della storia moderna.
Tuttavia, al di là della questione umana, leggere la storia dell’ultimo Marx come il racconto storico di un uomo dalla vita romanzesca, non ha molto senso.
Per quanto si possa perdonare chi legge l’ultimo Marx con le lenti dell’analitica della finitudine umana, non è lecito proporre la vicenda intellettuale del vecchio Marx nell’ottica di un’estetica del tramonto. Il materiale mostra che il vecchio scorbutico (era davvero molto scorbutico) continua a combattere e studiare.
Nei suoi ultimi due anni, Marx studia antropologia, non passa il tempo a leggere romanzetti rosa.
La nascita di un movimento socialista in Russia lo pone di fronte a nuove importanti questioni. Vera Zasulič (fuggita dopo aver tentato di assassinare lo Zar) gli chiede se, nella sua opinione, sia possibile arrivare al socialismo senza passare per una fase di egemonia borghese.
Per dare una risposta alla questione inizia a studiare in profondità l’argomento ed entra in campi di studio che fino ad allora aveva trascurato.
I manoscritti inediti e le bozze delle lettere (inviate e non inviate) indicano che non era per niente soddisfatto delle risposte teoriche che aveva già formulato. Si accorge che la comunità rurale slava poteva essere lo strumento adeguato per passare dal feudalesimo al socialismo senza passare per il capitalismo2.

Marx non pubblica nulla di rilevante ma lo svolgimento dei materiali che elabora è antitetico a quello del marxismo storico.
Il percorso dialettico del suo pensiero gli evita di avvicinarsi alla questione in modo dottrinario e gli fa vedere subito cose che i suoi futuri seguaci non sarebbero mai stati capaci di comprendere.
Del resto è evidente che non si fidava di quelli che dicevano di ispirarsi ai suoi scritti. Sconfessa Hyndman perché era riformista3, ma le sue parole per i sedicenti discepoli ‘ortodossi’ non erano poi tanto diverse.
Di fronte a chi si dichiarava suo seguace, rispondeva con ironia “quel che è certo è che io non sono marxista”4.
Il punto di partenza per rileggere Marx sono queste sue ultime parole.
Adesso è finalmente possibile fare un bilancio perché tutta la sua opera sta diventando finalmente accessibile5.
Le nuove interpretazioni di Marx non possono che iniziare da qui, dalle sue ultime ricerche.
Nessuna elegia funebre, nessun interesse antiquario, nessuna estetica del tramonto, la posta in gioco è sempre la trasformazione del mondo.

Cfr. p. 46. Nell’epistolario Marx definisce Kautsky saccente, sputasentenze e di vedute ristrette; per quanto diligente per Marx rimane un mediocre. Engels definisce Kautsky un pedante, un dottrinario e un cavillatore nato. Come lato positivo trova che abbia un gran talento nel bere.
Cfr. pp. 49-75.
Cfr. pp. 84-87.
Cfr. p. 25.
Fra le opere che possono essere un nuovo punto di partenza critico segnalo il notevole E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, 2009 (dimostra come l’opera di Marx sia costitutivamente aperta) e il pionieristico M. Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981.

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Loris Narda, Commonware

Marx ad Algeri

“Qual è la legge ultima dell’essere?”

“La lotta!”

(Risposta di Marx a John Swinton)

Un bel testo il libro di Marcello Musto “L’ultimo Marx” (Donzelli Editore, 2016), che intreccia un piano biografico con uno più strettamente politico di quelli che furono gli ultimi anni di vita del Moro di Treviri. In questi ultimi anni gli studi di Marx furono diretti principalmente all’antropologia e alla storia, ma anche al colonialismo inglese e alle questioni legate allo sviluppo capitalistico fuori dall’Europa occidentale. Un testo che fin da subito mette in evidenza la rottura marxiana con il determinismo storico, o meglio, con quelle “teorie del Progresso” egemoni nell’Ottocento, che postulavano che il corso degli eventi segua un percorso già dato, cosa che contribuì non poco a produrre una passività fatalistica in alcuni pezzi del movimento operaio.

Ad esempio alla domanda di Vera Zasulič se la comune rurale russa (obščina) era destinata a seguire lo stesso esito di realtà simili esistite in Europa nei secoli precedenti, dove era avvenuta la transizione dalla società basata sulla proprietà comune alla società basata sulla proprietà privata, la risposta di Marx fu “assolutamente no”. Ovviamente qui la questione era molto più grande della comune rurale russa, e aveva a che fare con il fatto che interi paesi come la Russia (ma per estensione anche l’India o la Cina) dovessero seguire pedissequamente quelle che erano state le tappe dello sviluppo dell’Europa occidentale nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo: anche a questa domanda Marx rispose negando il determinismo di questo passaggio, dicendo che “eventi di un’analogia sorprendente ma verificatosi in ambienti storici diversi producono risultati del tutto disparati”, e che dunque la Russia poteva prendere oppure no la direzione di una nazione capitalistica sul modello delle nazioni dell’Europa occidentale.

Dunque l’ultimo Marx prese a considerare la possibilità che le comuni russe avrebbero potuto essere rivoluzionate non dal capitalismo ma dal socialismo, aggiungendo che “se la rivoluzione sopraggiungerà al momento opportuno e se concentrerà tutte le sue forze per garantire il libero sviluppo della comune rurale russa, quest’ultima presto si svilupperà come elemento rigeneratore della società russa e come elemento di superiorità sui paesi asserviti dal regime capitalista”. Traducendo:non è l’obščina in sé ad avere i germi di cosa diventerà, ma è il contesto sociale (la rivoluzione) che potrà dare una spinta in una direzione oppure in un’altra.

Molto interessanti sono anche i suoi ragionamenti sul colonialismo, in particolare su quello inglese, che secondo una visione escatologica e deterministica della storia avrebbe dovuto avere sì da un lato una forza distruttrice, ma dall’altro sempre anche una forza “rigeneratrice” nel trasportare quella nazione all’interno del capitalismo globale; anche qui Marx ci dice che ad esempio la distruzione inglese dell’agricoltura indiana fu soltanto una pura distruzione senza generare alcunché, anzi raddoppiando il numero e l’intensità delle carestie.

Dunque Marx criticando il populista russo Mikhailovsky dice che “egli vuole trasformare a ogni costo il suo schizzo storico della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica del percorso universale fatalmente imposto tutti i popoli, indipendentemente dalle circostanze storiche in cui si trovano posti”. Infatti Marx sostiene che “ciò che si dovrà fare in un particolare momento del futuro dipenderà in tutto e per tutto dalle reali condizioni storiche in cui si dovrà agire”, allontanandosi già in vita da quanti avevano letto principalmente Il capitale, ma anche le sue altre opere di critica dell’economia politica, come uno studio che avesse trovato delle leggi universali per la storia. Una esemplificazione storica di ciò, prosegue il Moro, si può vedere nei contadini dell’antica Roma che dopo la loro separazione dei mezzi di produzione non divennero lavoratori salariati ma un “plebaglia nullafacente”, nello sviluppo di un nuovo modello di produzione schiavista e non capitalista.

Questo lavoro sugli ultimi anni di Marx mette ancora più in luce quella che è la questione del suo metodo d’analisi, ovvero dell’astrazione determinata, che parte dal reale, astrae e ritorna al reale, senza alcun elemento di una possibile ontologia a-temporale, ma lasciando da parte qualunque visione fatalistica e quindi lasciando lo spazio alle soggettività organizzate per rivoluzionare e cambiare il corso della storia, anche usando l’astrazione filosofica messa al servizio della lotta di classe.

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A esquerda radical na Europa após 1989

O fim do “socialismo real”
Após 1989, como resultado de bruscas mudanças no quadro político e de relevantes transformações econômicas, iniciou-se um processo de restauração do capitalismo que provocou grandes retrocessos sociais em escala global. Também na Europa, as forças anticapitalistas observaram uma redução inexorável em seu papel de protagonista na sociedade. Na realidade, confrontaram-se com a enorme dificuldade de organizar e orientar as lutas sociais; no campo ideológico, a esquerda como um todo perdeu o papel de hegemonia conquistado após 1968 na cultura de muitos países.

Tal retrocesso também se manifestou nas eleições. A partir dos anos 1980, tanto os partidos que se agregaram em torno das ideias do eurocomunismo como aqueles ainda fortemente vinculados às diretrizes de Moscou sofreram uma grave diminuição de apoio, o que gerou, após o fim da União Soviética, um verdadeiro colapso. O mesmo destino reservou-se também aos diversos reagrupamentos da nova esquerda e aos partidos trotskistas.

Sucessivamente, iniciou-se uma fase de reconstrução, no curso da qual surgiram, muitas vezes por meio de processos confederativos entre os vários elementos anticapitalistas que continuaram vivos, novas formas políticas. Isso permitiu às forças tradicionais da esquerda abrir-se também aos movimentos ecologistas, feministas e pacifistas que surgiram nas duas décadas precedentes. A Esquerda Unida (IU) na Espanha, criada em 1986, foi a precursora desse processo. Em seguida, iniciativas análogas amadureceram em Portugal, onde em 1987 nasceu a Coligação Democrática Unitária (CDU); na Dinamarca, em 1989, a Lista Unitária – Aliança Vermelho-Verde (Enhl., Ø); na Finlândia, em 1990, a Aliança de Esquerda (VAS); e na Itália e na Grécia, em 1991, quando fundaram o Partido da Refundação Comunista (PRC) e do Synaspismos (SYN – Coalizão da Esquerda, dos Movimentos e da Ecologia).

As modalidades organizativas pelas quais se definiram as novas agremiações foram várias. Os partidos que formaram a Esquerda Unida – entre os quais o Partido Comunista da Espanha – conservaram sua existência; a Coalizão Democrática Unitária em Portugal serviu somente como panfleto eleitoral, enquanto o Partido da Refundação Comunista na Itália e do Synaspismos na Grécia constituíram-se como sujeito político novo e unitário. Em outros países, no entanto, deu-se uma tentativa de renovação, algumas vezes quase somente de fachada em relação aos partidos existentes antes da queda do Muro de Berlim. Em 1989, após a fundação da República Tcheca, nasceu o Partido Comunista da Boêmia e Morávia (KSČM); enquanto em 1990, na Alemanha, nasceu o Partido do Socialismo Democrático (PDS), herdeiro do Partido Socialista Unificado da Alemanha (SED), no governo da República Democrática da Alemanha desde 1949. No mesmo ano, na Suécia, o Partido da Esquerda Comunista (V) assumiu uma orientação mais moderada e eliminou a palavra “comunista” da sigla.

A falência das experiências governativas
Esses novos partidos, bem como aqueles que não haviam mudado sua denominação, conseguiram conservar uma presença política nos respectivos cenários nacionais e contribuíram, juntamente com os movimentos sociais e as forças sindicais progressistas, à luta contra as políticas neoliberais, endurecidas após a entrada em vigor do Tratado de Maastricht em 1993, em virtude do qual foram estabelecidos os parâmetros monetários para o ingresso de cada país na União Europeia.

Em 1994, criou-se o grupo da Esquerda Unitária Europeia no parlamento europeu, o qual, após um ano da adesão de alguns países escandinavos, modificou seu nome para Esquerda Unitária Europeia – Esquerda Nórdica Verde (GUE/NGL).

Além disso, na metade dos anos 1990, algumas forças políticas da esquerda radical, favorecidas pelas greves e pelas grandes manifestações em praça contra os governos de Berlusconi e Dini na Itália, Juppé na França e Gonzáles e Aznar na Espanha, obtiveram uma discreta afirmação eleitoral. A Esquerda Unida conquistou 13,4% nas eleições europeias em 1994; o Partido da Refundação Comunista alcançou 8,5% dos votos nas eleições italianas em 1996; o Partido Comunista Francês obteve quase 10% nas eleições legislativas em 1997. No mesmo ritmo, esses partidos registraram um aumento no número de filiados e a ampliação de seu enraizamento nos territórios e nos locais de atuação. Nessa fase de consolidação são exceções os países do Leste Europeu, nos quais, excluindo-se o Partido Comunista da Boêmia e Morávia, a herança das ditaduras “comunistas” do pós-guerra não possibilitou – e impede ainda hoje – o desenvolvimento de um processo de renascimento das forças de esquerda. Enquanto isso, na frente social-democrata, a chegada de Tony Blair, que liderou o Partido Trabalhista desde 1994 e foi primeiro-ministro do Reino Unido, de 1997 a 2007, preparou o caminho para uma profunda mutação ideológica e programática da Internacional Socialista.

Sua “Terceira via” adere servilmente ao mantra liberal, dissimulada com uma exaltação vazia do “novo”, sendo acolhida e apoiada, em níveis e de maneiras diversas, pelo governo Gerhard Schröder, chanceler do Partido Social-Democrata Alemão (SPD) de 1998 a 2005, por José Sócrates, primeiro-ministro do Partido Socialista Português (PS) de 2005 a 2011, e por Romano Prodi, presidente do Conselho de Ministros da República Italiana, na direção das coalizões de centro-esquerda, de 1996 a 1998 e de 2006 a 2008. Em nome do “futuro das próximas gerações”, tais membros do Executivo, inspirados pela Estratégia de Lisboa – programa econômico aprovado em 2000 pelos governos dos países da União Europeia –, colocaram em ação, quase do mesmo modo que a centro-direita, reformas econômicas que devastaram o modelo social europeu. Na realidade, deram início, de modo inflexível, a grandes cortes nas despesas públicas, tornaram as relações de trabalho precárias (limitando a tutela legislativa e piorando as condições em geral), colocaram em prática políticas de “moderação” salarial e liberalizaram os mercados e os serviços, conforme mandava a infeliz “diretriz Bolkestein” de 2006.

Em muitos países do sul da Europa, a situação foi ainda mais agravada pelo redimensionamento de algumas garantias fundamentais do welfare state – a começar pelos ataques ao sistema de aposentadoria e pensões –, por posteriores alienações em massa do patrimônio público, processos de privatização da educação, drástica redução dos fundos para pesquisa e inovação e, por fim, ausência de políticas industriais eficazes.

Nos países da Europa do Leste, as escolhas foram análogas. Os governos socialistas de Leszek Miller (2001-2004) na Polônia e de Ferenc Gyurcsány (2004-2010) na Hungria foram um dos mais fiéis seguidores do neoliberalismo e realizaram grandes cortes nos gastos públicos. Desse modo, perderam o apoio da classe trabalhadora e dos estratos mais pobres da população, a ponto de hoje as forças da Internacional Socialista ocuparem uma posição totalmente marginal em ambos os países. No que diz respeito às direções de política econômica, é difícil identificar diferenças que não sejam totalmente marginais, entre o que foi realizado pelos governantes socialistas e pelos governos conservadores quando no comando em períodos semelhantes. Aliás, em muitos casos, os partidos social-democratas, ou os políticos de centro-esquerda, foram ainda mais funcionais para o projeto neoliberal. Suas decisões na realidade angariaram mais facilmente o aval das organizações sindicais, guiadas pela velha e ilusória lógica do “governo amigo”.

Com o tempo, a escolha de adotar um modelo conciliatório e pouco conflitual fez com que os sindicatos se tornassem sempre menos representativos dos estratos sociais mais fracos. A metamorfose da social-democracia europeia, que aconteceu com a adesão acrítica ao capitalismo e a todos os princípios do liberalismo, demonstrou que os eventos de 1989 haviam causado mudanças bruscas não apenas no campo comunista, mas também em todas as forças socialistas. De fato, essas renunciaram a qualquer função reformadora, ou à característica principal por meio da qual se diferenciaram após a Segunda Guerra Mundial, quando apoiaram, por exemplo, a intervenção estatal na economia. Apesar da profunda mudança neoliberal da Internacional Socialista, muitos partidos da esquerda radical europeia, com a legítima preocupação de impedir o nascimento de governos de direita que teriam piorado ainda mais a condição de jovens, trabalhadores e aposentados, ou, em alguns momentos, para evitar o isolamento e o medo de serem punidos pela lógica do “voto útil”, aliaram-se com as forças da social-democracia. Após alguns anos, o Partido da Refundação Comunista na Itália (1996-1998 e 2006-2008), o Partido Comunista Francês na França (1997-2002), a Esquerda Unida na Espanha (2004-2008) e o Partido da Esquerda Socialista (SV) na Noruega (2005-2013) entraram na maioria parlamentar dos governos de centro-esquerda ou aceitaram também a direção de alguns ministérios.

Recentemente, também o partido Aliança de Esquerda na Finlândia (2011-2014) e o Partido Popular Socialista na Dinamarca (2011-2015) assumiram responsabilidades no governo. O vento liberal que soprava sem qualquer impedimento desde a península Ibérica até a Rússia e, especialmente, a ausência de grandes movimentos sociais, que poderiam ter condicionado as ações dos governos de orientação socialista, representavam, com toda evidência, dois avisos de caráter negativo para os partidos da esquerda radical. Além disso, chamados a presidir, com representantes próprios, ministérios de pouca relevância (como nos casos da França e da Itália), ou podendo valer-se apenas de grupos parlamentares limitados (como na Espanha), a relação de força que conseguiram estabelecer com o Executivo que defendiam foi muito fraca.

Portanto, as esquerdas anticapitalistas não conseguiram obter nenhuma conquista social significativa, a não ser algum paliativo leve com ligeira contratendência às diretrizes econômicas de fundo. Reciprocamente, em diversas ocasiões, tiveram de “engolir o sapo” e votar a favor de medidas contra as quais haviam, anteriormente, prometido fazer a mais intransigente oposição.

Os resultados eleitorais sucessivos a sua participação no governo foram, na realidade, desastrosos em todos os lugares. Nas eleições presidenciais de 2007, os comunistas franceses obtiveram menos de 2% dos votos. No ano seguinte, a Esquerda Unida espanhola caiu vertiginosamente para 3,8%, sua votação mínima histórica, e, pela primeira vez na história republicana, os comunistas foram excluídos do parlamento italiano, com a desoladora porcentagem de 3,1%, além do mais, alcançada sob a bandeira da mais ampla coalizão, denominada Esquerda Arco-Íris.

A nova geografia política da esquerda radical europeia
A crise econômica e política que atravessa a Europa provocou, contemporaneamente, o avanço das forças populistas, xenófobas e de extrema direita [1], e também grandes lutas de resistência e manifestações de protesto contra as medidas de austeridade impostas pela Comissão Europeia e colocadas em prática pelos governantes nacionais. Isso favoreceu, especialmente na parte meridional do continente, o renascimento das forças da esquerda radical, com um notável triunfo eleitoral. Grécia, Espanha, Portugal, bem como Irlanda e, em menor grau, outros países, foram palco de imponentes mobilizações de massa contra as políticas neoliberais. Na Grécia, a partir de 2010, foram declaradas mais de quarenta greves gerais. Na Espanha, em 15 de maio de 2011, teve início uma grande rebelião, da qual participaram milhões de cidadãos e da qual surgiu o movimento posteriormente definido como Indignados. Os manifestantes conseguiram ocupar, por quatro semanas, a Puerta del Sol, principal praça de Madri. Poucos dias depois, uma contestação análoga aconteceu também em Atenas, na praça Syntagma. Em ambos os países, essas lutas sociais estabeleceram as condições para a sucessiva afirmação das forças de esquerda.

Por outro lado, as organizações sindicais, mesmo favorecidas por um contexto comum – nos países europeus as medidas adotadas após a crise tinham causado os mesmos desastres sociais –, não tiveram vontade política para redigir uma plataforma única de reivindicação e articular uma série de mobilizações em escala continental. A única exceção parcial foi representada pela greve geral, proclamada em 14 de novembro de 2012, na Espanha, na Itália, em Portugal, no Chipre e em Malta, apoiada também por iniciativas de solidariedade na França, na Grécia e na Bélgica. Naquele período, no espaço político, a esquerda anticapitalista prosseguiu em seu percurso de reconstrução e de recomposição das forças em campo. De fato, nasceram novas formações inspiradas no pluralismo, capazes de unir o mais amplo leque de sujeitos políticos, garantindo, ao mesmo tempo, uma maior democracia interna por meio do princípio “uma cabeça, um voto”. Já em 1999, surgiram o Bloco de Esquerda (BE) em Portugal, no qual confluíram as forças mais significativas existentes à esquerda do Partido Comunista Português, e A Esquerda (DL) em Luxemburgo. Em 2004, foi a vez da Coalizão da Esquerda Radical (Syriza), a aliança entre Synaspismós e numerosas outras forças anticapitalistas gregas que constituíram um partido único somente em 2012.

Em maio de 2004, foi fundado também o Partido da Esquerda Europeia, no qual se associaram, inicialmente, quinze partidos, comunistas, socialistas e ecologistas, com a intenção de construir um sujeito político capaz de reunir as principais forças da esquerda antagonista em um programa comum. De tal partido fazem parte atualmente as organizações políticas de vinte países. Tal reagrupamento antecedeu, em alguns meses, a criação da Aliança da Esquerda Nórdica Verde, na qual confluíram sete partidos da Europa setentrional. Ao lado da maior coalizão do Partido da Esquerda Europeia, existia também a Esquerda Anticapitalista Europeia (EACL), uma aliança menor, nascida em 2000, na qual confluíram mais de trinta partidos trotskistas, muitas vezes de menor dimensão. Seus principais promotores foram o Bloco da Esquerda em Portugal, a Lista Unitária – Aliança Vermelho-Verde na Dinamarca e o Novo Partido Anticapitalista na França.

No parlamento europeu, os representantes dessas forças aderiam ao grupo Esquerda Unitária Europeia – Esquerda Nórdica Verde. Alguns anos mais tarde, a saída forçada, quase simultânea, dos componentes mais radicais do Partido Social-Democrata Alemão e do Partido Socialista (PS) francês – que rapidamente assumiram posições mais à esquerda em relação aos grupos dirigentes do Partido do Socialismo Democrático, na Alemanha, e do Partido Comunista Francês – favoreceu o nascimento, em 2007, do A Esquerda (DL) na Alemanha e, em 2008, da Frente de Esquerda (FdG) na França, onde a transformação, em 2009, da Liga Comunista Revolucionária (LCR) no Novo Partido Anticapitalista (NPA) pode ser reconduzida à mesma exigência, percebida por algumas forças mais tipicamente classistas do comunismo europeu, de colocar ao centro da própria iniciativa política as novas contradições, que se tornaram cada vez mais relevantes, geradas pela exclusão social e pela necessidade de abrir-se a uma geração mais jovem de militantes.

No mesmo ano, nasceram na Itália também a Esquerda, Ecologia e Liberdade (SEL), na qual o elemento moderado do Partido da Refundação Comunista fundiu-se com um grupo de dissidentes dos Democratas de Esquerda, e a Federação da Esquerda (FdS), aliança entre o Partido da Refundação Comunista e outros três movimentos políticos menores. Na Suíça, um processo semelhante ocorreu em 2010, com a fundação do Alternativa Esquerda (AL). O mesmo caminho foi tentado na Inglaterra, mas com insucesso, primeiro com o Partido do Respeito, em 2004, depois com a Esquerda Unida (LU), em 2013. Também do outro lado do Bósforo foi realizado o mesmo percurso. Em 2012, o movimento curdo associou-se com várias organizações da esquerda turca para fundar o Partido Democrático do Povo (HDP), que tornou-se rapidamente a quarta força política na Turquia, com 10,7% nas eleições de novembro em 2015 [2]. Em 2014, surgiram a Esquerda Unida (ZL) na Eslovênia e o Podemos na Espanha – caso muito particular, pois nasceu com a ambição de superar a tradicional definição de partido de esquerda. De todo modo, essa última formação, após ser apresentada pela primeira vez nas últimas eleições europeias, aderiu também ao grupo Esquerda Unitária Europeia – Esquerda Nórdica Verde.

Em outubro de 2015, finalmente, na Irlanda, foi fundada a coalizão eleitoral Aliança Antiausteridade-Pessoas antes do Lucro (AAA-PBP), que colocou fim a um longo conflito entre o Partido Socialista (PS) e a Aliança Pessoas antes do Lucro (APBP). O modelo plural – tão diverso do partido monolítico, inspirado no princípio do centralismo democrático, utilizado pelo movimento comunista no século XX – estendeu-se, rapidamente, à maioria das forças radicais da esquerda europeia. Os experimentos mais bem-sucedidos não foram tanto os processos confederativos que se limitaram a mera reunificação de pequenos grupos e de organizações já existentes, mas sim as recomposições guiadas pela necessidade de envolver aquela rede vasta e dispersa de subjetividades sociais, capazes de articular diferentes práticas de conflito. Essa escolha revelou-se bem-sucedida na medida em que conseguiu atrair novas forças, envolvendo jovens e reconquistando militantes desiludidos, e favoreceu, no final, o triunfo eleitoral dos novos partidos que surgiram. Na realidade, nas eleições alemãs em 2009, o partido A Esquerda conquistou 11,9%, o triplo do obtido pelo Partido do Socialismo Democrático sete anos antes (4%).

Em 2012, o candidato da Frente de Esquerda nas eleições presidenciais francesas, Mélenchon, alcançou 11,1% dos votos, melhor resultado pós-1981, por uma força à esquerda do Partido Socialista. No mesmo ano, iniciou-se a rápida escalada do Syriza, que obteve 16,8% nas eleições de maio e 26,9% nas de junho, antes de conquistar a maioria no governo (evento inédito, desde o pós-Segunda Guerra Mundial, para um partido anticapitalista na Europa [3]), com 36,3% em janeiro de 2015.

Excelentes resultados foram conseguidos também na península Ibérica, onde, nas eleições europeias de 2014, a Esquerda Plural espanhola (uma nova coalização eleitoral encabeçada pela Esquerda Unida) superou 10% e o Podemos chegou a quase 8%. O total dos votos obtidos pelas forças de esquerda foi ainda maior nas eleições gerais de dezembro 2015, quando o Podemos alcançou 12,6%; a Unidade Popular (a última sigla empregada pela Esquerda Unida), 3,6% e uma série de listas locais, entre as quais Em comum podemos (Catalunha – 3,7%); Compromisso-Podemos-É o momento (Comunidade Valenciana – 2,6%); Na Maré (Galícia – 1,6%), País Basco Unido (0,8%), que juntos obtiveram quase 9% dos votos. Além disso, nas eleições políticas portuguesas de outubro 2015, a Coalizão Democrática Unitária totalizou 8,3% dos votos, e o Bloco de Esquerda, com 10,2%, obteve seu melhor resultado dos últimos tempos, tornando-se a terceira maior força política lusitana. Esse resultado foi confirmado nas eleições presidenciais de janeiro 2016, na ocasião em que o partido superou novamente 10% dos votos. Experimentos de esquerda plural – sempre caracterizados por uma clara plataforma política antiliberista – foram exitosos também em algumas eleições locais.

Como demonstraram os resultados nas eleições regionais francesas de 2010 em Limousin, quando a coalizão entre a Frente da Esquerda e o Novo Partido Anticapitalista alcançaram 19,1% no segundo turno, e nas eleições municipais recentes na Espanha, onde a lista Agora Madri e Barcelona em Comum, nas quais confluíram a Esquerda Unida e o Podemos, conquistou os dois municípios mais importantes do país. Em ambos os casos, amplas alianças, nascidas do empurrão do protagonismo das bases, permitiram superar as diferenças existentes entre os grupos dirigentes em nível nacional. Entres os resultados eleitorais mais consideráveis conseguidos no último decênio da esquerda radical, devemos registrar também aqueles obtidos por partidos que decidiram não se dissolver para se fundir com outras forças políticas. Notável foi a consolidação do Partido Socialista (PS) na Holanda – 16,6% em 2006 –, no rastro da oposição ao referendo contra o Tratado sobre a Constituição Europeia, e o sucesso do Partido Progressista dos Trabalhadores (Akel) no Chipre, cujo secretário geral Demetris Christofias foi vencedor das eleições presidenciais em 2009 (33,2% no primeiro turno e 53,3% no segundo).
Seu mandato se destacou, no entanto, por uma clamorosa derrota: a incapacidade de pôr fim ao conflito que divide a ilha desde 1974 e a submissão explícita, em matéria econômica, em relação às imposições da troika.

Outro evento, imprevisível até alguns anos atrás, contribuiu para abalar a geografia da esquerda europeia. Após as eleições primárias de setembro de 2015, 59,5% dos militantes ingleses do Partido Trabalhista elegeram Jeremy Corbyn como novo líder da organização. Onde vinte anos atrás se sentava Tony Blair, hoje está um anticapitalista declarado, o secretário mais à esquerda da história do partido britânico. Essa extraordinária novidade, que alguns anos atrás seria menos previsível que a conquista do governo grego pelo Syriza, representa um exemplo significativo do despertar da esquerda.

Além dos casos dos vários partidos nacionais, o avanço geral da esquerda radical foi confirmado também por ocasião das últimas eleições europeias. O número de votos obtidos por ela foi de 12.981.378, equivalente a 8% do total, um aumento de 1.885.574 da preferência em relação a 2009. Considerando-se também somente os dados dos eleitos, o alinhamento da Esquerda Unitária Europeia – Esquerda Nórdica Verde representa a quinta força política no Parlamento Europeu (em 2009 era a sétima) com 6,9% dos deputados, o equivalente a 52 parlamentares [4]. Nele temos: Partido Popular Europeu (29,4%), Aliança Progressista dos Socialistas e dos Democratas (25,4%), Grupo dos Conservadores e Reformistas Europeus (9,3%), Aliança Livre Europeia (6,6%), a Europa da Liberdade e da Democracia Direta (6,4%) e Europa das Nações e da Liberdade (5,2%). No entanto, esses resultados positivos são ofuscados por alguns elementos negativos. Em muitos países da Europa oriental, a esquerda radical exprime, na realidade, uma posição ainda marginal, quando não totalmente minoritária [5]. Está distante das lutas sociais, privada de enraizamento ao longo do território e nas organizações sindicais, sendo desconhecida pelas gerações mais jovens e permeada pontualmente por um fanatismo autodestrutivo e por divisões internas dilacerantes. Em outras palavras, não possuem, no momento, uma perspectiva de desenvolvimento.

Tal situação repetiu-se também nas ocasiões eleitorais. Em seis nações – Polônia, Romênia, Hungria, Bulgária, Bósnia Herzegovina, Estônia –, a esquerda radical obteve menos de 1% dos votos, enquanto em outras, como a Croácia, a Eslováquia, a Lituânia e a Letônia, obteve percentuais levemente superiores. Continua fraca também na Áustria, na Bélgica e na Suíça, enquanto na Sérvia a esquerda é ainda identificada com o Partido Socialista da Sérvia, liderado durante um longo período por Slobodan Milošević. Estamos na presença de uma realidade muito heterogênea. Nos países da península Ibérica e do Mediterrânio – com exceção da Itália –, nos últimos anos, a esquerda radical expandiu-se significativamente. Na Grécia, na Espanha, em Portugal e no Chipre suas forças consolidaram-se estavelmente e são reconhecíveis nos grupos dos principais atores políticos dos respectivos cenários nacionais. Na França, reconquistou também um discreto papel social e político. Na Irlanda, o nacionalismo republicano e progressista do Nós mesmos (Sinn Fein – SF), por mais moderado que seja, alcançou 22,8% dos votos nas eleições europeias em 2014, sendo uma barreira ao avanço das forças conservadoras.

No centro da Europa, a esquerda radical conseguiu conservar uma boa força eleitoral na Holanda e na Alemanha – ainda que os bons resultados nas urnas não tenham correspondido a combates sociais significantes –, mas seu peso é limitado em outros lugares do continente. Nos países nórdicos, ela manteve a força sobre a qual se situou após 1989 (eleitoralmente em torno a 10%), mas se mostrou incapaz de atrair o amplo descontentamento popular, capturado, quase inteiramente, pelos partidos de direita.

O principal problema da esquerda antagonista continua, de qualquer modo, no Leste, onde, com exceção do Partido Comunista da Boêmia e Morávia na República Tcheca e da Esquerda Unida na Eslovênia, é quase inexistente e incapaz de ir além do fantasma do “socialismo real”. Dadas essas circunstâncias, a expansão da União Europeia sobre a parte oriental fez o centro político do continente guinar definitivamente à direita, algo testemunhável pelas rígidas posições intransigentes assumidas pelos governos da Europa oriental durante a crise recente na Grécia e em relação à chegada dos refugiados dos palcos de guerra.

Além do espaço da eurozona?
A transformação dos partidos de esquerda radical em organizações mais amplas e plurais demonstrou-se uma receita útil para diminuir a fragmentação preexistente, mas certamente não resolveu os problemas de natureza política.

Na Grécia, após o nascimento do governo liderado por Alexis Tsipras, o Syriza tinha a intenção de romper com as políticas de austeridade adotadas por todos os membros do Executivo de centro-esquerda, “técnicos” ou de centro-direita, que se alternaram no poder desde 2010. Todavia, em função do enorme débito público do Estado helênico, a concretização dessa reviravolta foi imediatamente subordinada a uma negociação com os credores internacionais.
Depois de cinco meses de extenuantes negociações – durante as quais o Banco Central Europeu interrompeu também o crédito ao Banco Central de Atenas, resultando na paralisia dos guichês bancários gregos –, os líderes da Eurozona impuseram ao governo grego um novo plano de salvação, no qual foram inseridas todas as medidas econômicas contra as quais o Syriza tinha expressado anteriormente sua mais ferrenha oposição. De 2010 em diante, o arco parlamentar das forças políticas que aceitou o memorando de Bruxelas foi muito amplo. Da direita à esquerda, dobraram-se à inexorável lógica da austeridade os partidos Nova Democracia, Gregos Independentes (Anel), Potami, Esquerda Democrática, Movimento Socialista Pan-Helênico e, por fim, também o Syriza.

Nem mesmo a vigorosa resposta ao referendo consultivo sobre as propostas da troika, convocado em 5 de julho de 2015 – no qual 61,3% dos gregos haviam se manifestado contra –, serviu para determinar um resultado diverso.

Para evitar a saída da eurozona, o governo Tsipras consentiu posteriormente com sacrifícios sociais, consideráveis privatizações do patrimônio público – que será colocado à venda como mercadoria em liquidação – e, em geral, um conjunto de medidas de austeridade funcional visando apenas aos interesses dos credores internacionais, não ao desenvolvimento da economia do país.

Por outro lado, a saída da Grécia da eurozona, hipótese prevista por alguns somente na data de vencimento das negociações com o eurogrupo, teria lançado o país em uma condição de caos econômico e profunda recessão. Uma escolha de tal porte deveria ter sido preparada com antecedência, acompanhada de uma escrupulosa avaliação de todos os cenários que poderiam ocorrer e de uma rigorosa programação de todas as medidas a ser adotadas. Sobretudo, deveria ter sido apoiada pelo amplo alinhamento de forças sociais e políticas. Sem esse imprescindível pressuposto, a autarquia econômica, na qual a Grécia teria sido condenada a resistir por um tempo difícil de prever, poderia ter aberto um espaço político ainda maior aos neofacistas do partido Aurora Dourada.

O êxito das negociações entre o governo Tsipras e o eurogrupo evidenciou que, quando um partido de esquerda vence as eleições e quer realizar políticas econômicas alternativas àquelas dominantes, as instituições de Bruxelas estão prontas a impedir que isso aconteça. Se, a partir dos anos 1990, a aceitação incondicionada da crença neoliberal, por parte das forças da social-democracia europeia, teve como consequência a homologação dos programas destas últimas no lugar daqueles dos partidos de centro-direita, hoje, ao contrário, quando chega ao poder um partido da esquerda radical, é a própria troika que intervém para evitar a alternância dos membros do Executivo que alterem suas diretivas econômicas. Vencer as eleições não é mais suficiente. A União Europeia tornou-se um fundamento do capitalismo neoliberal.

Sucessivamente, retomou-se uma profunda reflexão coletiva – a partir da questão da oportunidade de manter a todo custo a moeda única – para compreender quais seriam os melhores caminhos a percorrer para pôr fim às políticas econômicas em vigor, sem abandonar, entretanto, a perspectiva de realizar uma nova e diferente união política europeia.
Atualmente, a posição majoritária dos partidos da esquerda radical continua sendo, em continuidade com as posições assumidas nos últimos anos, a de sustentar a possibilidade de modificar as políticas europeias no contexto existente, ou seja, sem romper com a união monetária alcançada em 2002, com a entrada em vigor do euro.

Na liderança desse sentido está o Syriza, que, após ter chegado ao governo, apesar de ter tido a oportunidade de elaborar e executar soluções alternativas – não obstante ter sofrido pressões indevidas das instituições europeias, para que não iniciasse qualquer mudança –, jamais considerou a opção da “Grexit”. Em setembro de 2015, obtendo 35,5% dos votos, Tsipras venceu as eleições antecipadas por ele convocadas sucessivamente ao conflito que surgiu com parte de seu partido contrária à atuação das medidas comtempladas no memorando e retornou ao governo com um grupo parlamentar coeso e não mais sujeito ao risco de dissidências internas.
O Syriza, portanto, não obstante o aumento do abstencionismo (mais de 7% em relação às eleições de oito meses antes) e a queda do número de votantes (600 mil a menos) em relação ao referendo de julho, conseguiu manter o apoio de parte significativa do povo grego. Todavia, a confiança que foi renovada será em breve colocada à prova pelos efeitos dos cortes impostos pelo eurogrupo, e não é temerário prever o surgimento de cenários ainda mais incertos do que o atual.

A estratégia do Syriza, para evitar a perda de apoio sofrida por todas as outras forças políticas que, no passado, aplicaram os precedentes “programas de salvação” da troika, aparece orientada em duas direções. O governo grego tentará renegociar uma substancial redução do débito público com o objetivo de evitar o início de um novo ciclo de deflação. Além disso, buscará introduzir uma agenda paralela àquela imposta por Bruxelas, com a qual pode realizar algumas medidas de redistribuição social capaz de limitar os efeitos do último memorando.

À luz de quando ocorreu em 2015, pode-se afirmar objetivamente que se trata de uma missão quase impossível. Em todo caso, após a experiência do governo Tsipras, ficou evidente que, diante de uma provável recusa das instituições europeias em relação à restruturação do débito, é preciso estar preparado para agir prevendo também o possível abandono da eurozona. Seria de todo modo incorreto considerar tal hipótese como a solução para todos os males.

Além do Syriza, a escolha de que seja possível reformar a União Europeia dentro do atual cenário é compartilhada pela maioria das principais forças do Partido da Esquerda Europeia, dentre as quais A Esquerda na Alemanha, Partido Comunista Francês e Esquerda Unida espanhola. Nesse bloco, situa-se também o Podemos, cujo grupo dirigente declarou-se convencido de que, se ao governo grego se juntassem outros dispostos a não aceitar as políticas de austeridade impostas pela troika, poderia abrir-se um espaço para romper com algo que hoje parece tão inalterável. O resultado das recentes eleições em Portugal – que entregaram uma aliança de todo impensável até pouco tempo atrás: um governo de minoria liderado pelo socialista Antonio Costa, com o apoio externo do Bloco de Esquerda e da Coalizão Democrática Unida – parece ter reforçado essa esperança.

Todavia, para outros, a “crise grega” – que, na realidade, é uma crise da democracia em tempos de capitalismo neoliberal – parece comprovar a impossibilidade de reformabilidade desse modelo de União Europeia. Não tanto pelas atuais correlações de força presentes em seu interior, sempre mais desfavoráveis às forças anticapitalistas após a expansão ao Leste Europeu, mas sim por sua arquitetura geral. Os inflexíveis parâmetros econômicos impostos, de maneira crescente, a partir do Tratado de Maastricht, reduziram inevitavelmente, ou em alguns casos quase anularam, as mais complexas e heterogêneas exigências da política.

Nos últimos 25 anos, as políticas neoliberais, cobertas de um véu enganador da tecnocracia e da não ideologia, triunfaram em todos os cantos na Europa, dando duros golpes em seu modelo de welfare state. Os Estados nacionais encontraram-se gradualmente privados de alguns instrumentos importantes de direção político-econômica que seriam indispensáveis para iniciar programas de investimentos públicos voltados a mudar o curso da crise. Finalmente, estabeleceu-se a praxe antidemocrática – que se consolidou a ponto de parecer já natural – de assumir decisões de grande relevo sem requerer a aprovação popular.

Portanto, nos últimos meses, o número dos que reputam ilusória a possibilidade de democratizar a eurozona, mesmo que exprimam uma posição que continua minoritária, aumentou notavelmente. Ao lado das forças da esquerda radical tradicionalmente eurocéticas, como o Partido Comunista Português, o Partido Comunista da Grécia ou, na Escandinávia, o Lista Unitária – Aliança Vermelho-Verde na Dinamarca, juntou-se o Unidade Popular (LE) na Grécia (2,8% dos votos nas últimas eleições). Além disso, muitos intelectuais e dirigentes políticos manifestaram explicitamente a posição contrária ao euro.

Ao lado dos dois posicionamentos mais claramente pró ou contra a “democratização do euro”, existe uma área, bem ampla, que hesitaria em fornecer uma clara resposta à pergunta: “O que fazer se amanhã acontecesse em outro país aquilo que aconteceu na Grécia?”. Se por um lado tornou-se uma preocupação comum a outros partidos, ou coalizões de governo, que no futuro eles possam ser submetidos à chantagem sofrida pelo Syriza, por outro lado é bastante difundido também o temor de que, ofuscando a saída da eurozona, a esquerda anticapitalista perderia o apoio de amplos setores da população, alarmados pela instabilidade econômica e pela perda do poder de aquisição de salários e aposentadorias decorrente da inflação. Típico exemplo dessa incerteza é representado pela mudança de posição, nos últimos anos, do Bloco de Esquerda em Portugal e do Partido Socialista na Holanda.

Se, nos próximos meses, outras forças sociais, partidos e intelectuais também se aglutinarem em torno desse objetivo, no futuro o pedido de saída do euro poderá deixar de ser uma bandeira somente da direita populista.

Portanto, o conflito que implodiu o Syriza poderá reproduzir-se em outros lugares. A demonstrá-lo, desde já, estão as fibrilações internas na Frente da Esquerda na França e no Partido de Esquerda na Alemanha. Para a esquerda radical europeia, portanto, poderá concretizar-se o risco de uma nova temporada de divisões. Tal condição revela o limite do pluralismo que as forças antagonistas aplicaram nos últimos anos, ou seja, a indefinição programática. De fato, a diversidade de posições e de culturas políticas existentes entre as várias organizações que deram vida a essas novas agregações requereria um difícil, mas não impossível, acordo pontual sobre as estratégias a ser seguidas.

Outras tensões também percorrem a esquerda radical europeia quanto ao conteúdo das relações a ser mantidas com as forças social-democráticas. O nó, que se apresenta também em nível municipal e regional, diz respeito à constante incerteza sobre a conveniência de ao menos participar de experiências de governo em aliança com essas forças políticas. O risco concreto é aquele de se desenvolver um papel subalterno, aceitando, como no passado, compromissos de contingenciamento que dilapidariam o apoio conquistado até o momento e que deixariam para a direita populista o monopólio da oposição social.

A hipótese de governo deve, portanto, ser levada em consideração somente se e quando estiverem presentes as condições para atuar um programa econômico em clara descontinuidade com as políticas de austeridade impostas na última década. Realizar escolhas diferentes significaria não valorizar as lições dos anos passados, quando a participação dos partidos da esquerda radical nos governos moderados, sob a liderança socialista, comprometeu sua credibilidade junto às classes trabalhadoras, aos movimentos sociais e aos extratos sociais mais fracos.

Diante de um desemprego que, em muitos países, apresenta-se com níveis jamais atingidos desde o segundo pós-guerra, torna-se prioritário o início de um grande plano para o trabalho, apoiado por investimentos públicos, que tenham como princípio o desenvolvimento sustentável. Isso deve ser acompanhado de uma clara inversão de tendência em relação à precarização dos contratos de trabalhos, que seja o oposto de todas as recentes “reformas” do mercado de trabalho, e da introdução de uma lei que indique um mínimo salarial como piso. Essas medidas restituiriam às jovens gerações uma possibilidade de organizar o próprio futuro.

Além disso, deveriam ser aplicadas a redução de horário de trabalho e a redução da idade para a aposentadoria. Por meio dessas medidas seriam reestabelecidos alguns elementos de justiça social, necessários para derrubar a ordem neoliberal que tem aumentado constantemente a desigualdade na distribuição da riqueza produzida.

Para afrontar a dramática emergência ocupacional, os partidos da esquerda radical deveriam fazer aprovar, em todos os países onde não existem, medidas para instituir uma renda cidadã e algumas formas primárias de subsidiar as faixas menos favorecidas – do direito a casa, a incentivos para a utilização dos transportes, ao direito gratuito à instrução –, de modo a combater a pobreza e a exclusão social cada vez mais difusa. Paralelamente, torna-se imprescindível inverter os processos de privatização que caracterizaram a contrarrevolução das últimas décadas, restituindo à propriedade pública e ao controle universal todos aqueles bens comuns que foram transformados de serviço em prol da coletividade em meio para gerar lucro para poucos.

No que diz respeito aos recursos necessários para financiar tais reformas, esses poderiam ser obtidos das receitas oriundas da introdução de um imposto sobre o capital e de uma taxa sobre as atividades não produtivas das grandes empresas e também sobre transações e rendimentos financeiros. É evidente que, para realizar esse projeto, impõe-se como primeiro ato necessário a promoção de um referendo abrogativo do fiscal compact, de modo a cancelar os vínculos impostos pela troika. Muito importante seria também impedir a aprovação do Acordo de Parceria Transatlântica de Comércio e Investimento, cuja operabilidade só faria piorar a situação.

Em escala continental, uma verdadeira alternativa somente poderia ser concebida se um amplo posicionamento de forças políticas e sociais for capaz de impor uma conferência europeia para a restruturação do débito público.

Esse cenário poderá acontecer apenas se a esquerda radical desenvolver, com a mais firme determinação e maior continuidade, campanhas políticas e mobilizações transnacionais, a começar pela recusa da guerra e da xenofobia e apoiando a extensão de todos os direitos sociais e de cidadania aos migrantes que chegam ao solo europeu.

Uma política de alternativa não permite atalhos. Na realidade, não basta valer-se de um líder carismático, tampouco a fraqueza dos partidos de hoje justifica a falta de força perante às instituições do Estado. É necessário construir novas organizações – porque delas a esquerda tem tanta necessidade quanto teve no século XX – que tenham uma presença capilar em seus locais de atuação, agindo para a reunificação das lutas, que nunca estiveram tão fragmentadas quanto hoje, das classes trabalhadoras e subalternas e que, por meio de suas estruturas territoriais, sejam capazes de dar respostas imediatas, antes mesmo dos melhoramentos gerais introduzidos por lei, aos problemas dramáticos causados pela pobreza e pela exclusão social. Isso pode realizar-se também com o reaproveitamento de algumas formas de resistência e solidariedade social do movimento operário em outras épocas históricas.

Além disso, novas prioridades devem ser redefinidas, em particular a prática de uma autêntica paridade de gênero e uma cuidadosa formação política dos militantes mais jovens, tendo como norte, em uma época na qual a democracia é refém de organismos tecnocratas, a promoção da participação da base e o desenvolvimento do conflito social.

As únicas iniciativas da esquerda radical que podem verdadeiramente ambicionar mudar o curso dos eventos têm diante de si um caminho singular: o da reconstrução de um novo bloco social, capaz de dar vida a uma oposição de massa às políticas iniciadas com o Tratado de Maastricht e, consequentemente, de mudar pela raiz os direcionamentos econômicos hoje dominantes na Europa.

Tradução: Camilo Onoda Caldas e Vanessa Mastrocessário Silva

References
1. Cf. Marcello Musto, “A Europa em tempo de crise”, Critica Marxista, n. 43, 2016, na imprensa.
2. Nas eleições de junho 2015, o resultado – equivalente a 13,1% – foi ainda mais notável.
3. À exceção do pequeno Estado do Chipre, onde o Partido Progressista dos Trabalhadores (Akel) chegou ao governo em 2009.
4. A esses devem ser adicionados outros dois deputados, eleitos nas fileiras do Partido Comunista da Grécia e que, portanto, não pertencem ao grupo GUE/NGL.
5. Deve-se notar que os eleitos para o parlamento europeu do grupo GUE/NGL são apenas da metade dos 28 países que compõem a União Europeia.