Marcello Musto, “L’ultimo Marx”
Marcello Musto è di Marx in qualche modo uno specialista, attualmente visiting professor di sociologia teorica a Toronto, presso la York University, nel 2103 ha pubblicato “Ripensare Marx e i marxismi” (una presentazione qui), oltre ad una serie di antologie e volumi collettanei sullo stesso tema che sono stati tradotti in venti lingue.
In questo libro l’autore focalizza gli ultimi due anni di vita del grande tedesco. Per certi versi, come vedremo, anni sorprendenti.
Prima di entrare nella lettura del testo definiamo meglio il contesto. In questa intervista l’autore inquadra la sua visione (certamente militante) del momento nel quale i suoi studi sullo scrittore di Treviri si inquadrano.
Occorre anche dire che di Marx ci siamo occupati leggendo il saggio monografico di Nicolao Merker, un altro grande specialista recentemente scomparso, “Karl Marx”. Quella di Merker è una lettura sistematica per fasi della vita, della formazione, delle prime lotte ed esperienze nel contesto del liberalismo radicale ed il giornalismo politico, l’avvio della riflessione economica, l’incontro con i grandi momenti della cultura del suo tempo, Rousseau, Montesquieu, Machiavelli, Hamilton, Tocqueville, Beaumont ed il rovesciamento materialistico di Hegel (lo spacciare come essenza ciò che semplicemente è), e finalmente a partire dal 1843 l’incontro a Parigi con la riflessione socialista (ed anarchica), ma anche con la critica radicale della religione di Feuerbach e le riflessioni di Hess sulla natura del denaro. Ne la “Questione ebraica” Marx supera l’impostazione liberale per chiamare alla necessità di una emancipazione che non sia solo politica, e comincia ad emergere l’idea, al momento ancora confusa (ma in ultima istanza sempre poco definita) di una “emancipazione umana generale” per la quale serve una classe generale che non può essere identificata se non nel proletariato. Obiettivo deve essere l’emancipazione dell’uomo. Proudhon e Bakunin sono le sue frequentazioni di questo periodo, e le vicende storiche del turbolento periodo che precede il 1848 sono lo snodo nel quale si forma la sua concezione della lotta politica e della rivoluzione stessa (a partire dalla fallita rivolta dei tessitori slesiani del 1845). Come dell’idea (astratta riflessione che è altro dal concreto farsi dell’azione) del “comunismo” come “reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo” ( Manoscritti, 1844).
Nell’esilio, prima a Bruxelles e poi a Londra, muoiono a Marx tre figli (Edgar, otto anni, Guido e Franziska, di pochi mesi) per le difficoltà economiche e ambientali. Credo che nessuno passerebbe indenne una simile prova. Il suo pensiero si radicalizza, viene formulata (in alcune lettere e nel “Diciotto brumaio di Luigi Napoleone” la tesi che la classe operaia deve imporre una sua “dittatura”. E più in generale le tesi secondo le quali le classi sociali sono legate alle fasi di produzione, che la lotta tra queste porta alla dittatura della classe più generale (il proletariato), e che questa ultima fase apre alla dissoluzione di tutte le classi. È, in questi primi anni cinquanta, la tesi che prevarrà nella vulgata comunista.
I dieci anni successivi sono impegnati nella redazione del “Capitale”, la cui prima edizione è del 1867. L’antinomia centrale è che la produzione ha un carattere sociale, deriva dal lavoro complessivo della società, dell’accumulo della propria sapienza, e dal lavoro comune dell’umano, mentre il suo plusvalore viene catturato per sé, e reso privato, dal proprietario dei capitali che sono stati impiegati. Si ha qui uno scontro di diritti, tra i quali alla fine deve decidere la forza (M., p.112). Questa forza, sostiene viene coltivata dallo stesso capitale:
“la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalista, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso ” (corsivi di Marx, Il Capitale, p.826).
Attraverso l’analisi generale ed astratta della forma del valore, della merce quale in ultima analisi lavoro umano oggettivizzato (per cui solo la produzione con applicazione di lavoro umano, e non la circolazione crea realmente valore), Marx vede, in sostanza, all’opera costrizioni sistemiche che prendono i singoli lavoratori (o capitalisti), incarnate nella “libera concorrenza”, ovvero nelle leggi immanenti del mercato concorrenziale, e che agiscono come forze esterne sul singolo. Non è questione morale, non si tratta dunque di dire che “la proprietà è un furto” (Proudhon), ma di una morfologia storico-sociale concreta, derivante dal processo di autovalorizzazione intrinseco del capitale in quanto tale. Nel cap. VIII si legge quindi che qui si tratta di uno scontro non tra “buoni” e “cattivi”, o tra diritti contro furti, ma di “diritto contro diritto” (ivi, p.269). Entrambi i diritti (quello del lavoratore che cerca di appropriarsi del frutto oggettivato del suo lavoro, o nel caso di ridurre la propria giornata lavorativa) sia del datore di lavoro (che cerca di estrarne il più possibile, o nel caso di estenderla) si scontrano sul piano fattuale. Sono eguali, e deve decidere la forza. La forza delle due classi contrapposte. Lo scontro dipende interamente dalla situazione oggettiva delle classi sociali per come si configurano storicamente i rapporti di produzione (che, naturalmente, implicano dimensioni sia materiali sia spirituali).
“Come capitalista, egli è soltanto capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. il capitale ha un unico istinto vitale, l’istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. … Qui ha dunque luogo una antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti uguali decide la forza. Così nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa [o la sua remunerazione] si presenta come lotta per i limiti – lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia ” (Marx p.269).
Il vero limite nella produzione capitalistica è per Marx in qualche modo il capitale stesso, cioè il fatto che “ la produzione capitalistica è il capitale stesso”. Che, cioè, “la produzione è solo produzione per il capitale”, e non invece “ per la continua estensione del processo vitale per la società dei produttori” , per la quale cui i mezzi di produzione sono solo mezzi, e non scopo. Questo motivo attraversa l’intera critica di Marx, sin dagli scritti giovanili, il “fine ampio”, il pieno sviluppo delle forze produttive (ricordando l’accezione ampia del termine), nella pratica della società capitalista, va in conflitto con il “fine ristretto” che è la valorizzazione del capitale esistente. Ma questo “fine ristretto”, che è davanti agli occhi di ogni singolo capitalista, lo costringe con il suo potere sistemico.
Ci sono qui, come sostiene Honneth in “ L’idea di socialismo ” tre motivi strutturanti e divenuti problematici:
– Che per superare l’antinomia bisogna superare in effetti il meccanismo del mercato , cioè l’economia di mercato che critica per i suoi effetti disumanizzanti sin dagli anni giovanili;
– Che i moventi per ottenere questo effetto, contrapponendo forza a forza, siano in effetti già contenuti nei rapporti sociali esistenti ;
– Che quindi la trasformazione si compirà per necessità storica, attraverso una sorta di progressivo allargamento (idea già contenuta nel “ Manifesto del Partito comunista”) e quindi un miglioramento rettilineo della storia umana, effetto delle lotte di classe, e, forse soprattutto, attraverso lo sviluppo storico dei modi di produzione e della tecnica che va in direzione sia di un sempre maggiore padroneggiamento della natura, sia dello sviluppo sociale verso la società dell’abbondanza.
Queste idee le oggi troviamo, in forma fossile, dove sembrerebbe insospettato. In qualche modo ispirano oggi i più entusiasti cantori della mondializzazione e dei suoi destini progressivi. E buona parte dell’horror vacui che prende anche i critici , messi davanti alla prospettiva di un suo “ripiegamento” (come si trova a dire Bersani ) si riesce a spiegare in funzione di una mancata riflessione su questi presupposti. La storia sembra naturalmente diretta all’allargamento; l’entrata in campo da protagonisti dei paesi ex poveri (ammessi alla tavola dello sfruttamento capitalistico) sembra dunque un progresso indiscutibile. Un esito della razionalizzazione, con l’uscita di parte dell’umanità dalle tenebre delle forme produttive precapitaliste.
La mondializzazione stessa, nel momento in cui è connessa all’esito di dinamiche evolutive tecnologiche (cioè allo sviluppo di pacchetti di tecnologie abilitanti scambi ad un diverso livello di potenza, e dunque di capacità di costringere entro la propria logica) è presa per una tappa verso la società dell’abbondanza (e qui persino uno come Mason, nel suo interessante “Postcapitalismo ”, cammina su questo ambiguo crinale).
Ci sono, peraltro, tracce abbondanti di questo scivolamento nel Marx del “ Capitale”, in particolare nella parte curata da Engels (che contribuisce fortemente a rendere lineare un pensiero che non lo è affatto), nella quale sembra diventare indispensabile che il superamento derivi dalla piena estensione e sviluppo delle forze produttive. Un’idea contenuta già nel 1846 nell’”Ideologia Tedesca”, infatti che questo è “un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria, e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario, e tornerebbe per forza tutta la vecchia merda” (ivi., p.34). E’ contenuta, ma in forma “pratica”, non “teorica”.
Invece scrive lo stesso Marx nel quarantottesimo capitolo del Terzo Libro, che se “il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna” (p.933) esso, però, “si trova per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”. Nella reciproca espansione di bisogni e capacità produttive, la libertà infatti può darsi solo se “l’uomo socializzato, cioè i produttori associati” regolano “razionalmente” il loro “ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca”. Ciò implica “ che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa ”. Insomma, a partire dalla riduzione della giornata lavorativa, che è “condizione fondamentale” di tutto ciò, sul vecchio “regno della necessità” quanto più ridotto ed efficiente possibile, sorge il “regno della libertà”, che è “lo sviluppo delle capacità umane, fine a se stesso”.
Questo è il problema più acuto che una riflessione sull’ultimo Marx può aiutare a definire: è necessario per giungere al “regno della libertà”, per l’uomo, distruggere nel fuoco della tecnica e sopravanzare seguendo la logica dell’autodispiegarsi della capacità produttiva le forme di vita che sono attualmente presenti, ed i rapporti sociali che le contraddistinguono?
Abbiamo visto che Axel Honneth propone un movimento alternativo, nel quale (anche in una originale rilettura del movimento dialettico hegeliano) si tratta invece di considerare le sfere delle relazioni personali, di quelle economiche e della sfera pubblica politica come internamente relazionate le une alle altre, rispettando le proprie specifiche norme e senza gerarchie predefinite, ma in qualche modo convergendo sulla terza per garantire la riproduzione ordinata della società. Il reciproco adattamento deve avvenire, cioè, intorno a sfere pubbliche nelle quali, in modo approfondito e attento alle specificità, le questioni bisognose di regolazione e le relative soggettività in cerca di riconoscimento possano essere poste e accolte. Il luogo dove questo accade, in prima battuta, è lo Stato-nazione.
Ma per vedere cosa avrebbe da dire il vecchio Marx su quest’intreccio di questioni leggiamo ora la ricostruzione che ne fa Musto. L’ultima riflessione del sofferente, vecchio, combattente si intreccia intorno a due temi che si intersecano: gli studi antropologici, che compie sul lavoro di Lewis Morgan , un etnologo ed antropologo americano che a lungo studiò e visse con le popolazioni indiane, che gli interessava per tentare di ricostruire non in astratto ma nel concreto degli studi empirici disponibili la sequenza di costruzione dei differenti modi di produzione.
Quindici anni dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale, e mentre scrive le bozze del secondo e terzo, il problema era per lui aperto. Dalle annotazioni di Marx al libro di Morgan, dove questo giudicava la società borghese limitata e quelle primitive solidali e democratiche, si registra l’auspicio di “un tipo di società superiore”, che però recupera ad un altro livello le caratteristiche positive delle antiche collettività. Una nuova forma di produzione e di consumo, che non può sorgere in base ad una evoluzione meccanica, ma attraverso la lotta cosciente delle lavoratrici e dei lavoratori (Musto, p.27).
Mi pare interessante riportare il passo di Morgan annotato:
“la dissoluzione della società promette di essere l’unico possibile risultato di un corso storico in cui la proprietà e la ricchezza continuassero ad essere il fine e l’obiettivo dell’umanità; questo perché un cosiffatto corso storico contiene in sé gli elementi dell’autodistruzione. Democrazia nel governo, fratellanza nei rapporti sociali, eguaglianza dei diritti e privilegi, e istruzione per tutti senza discriminazioni: così ci dobbiamo prefigurare quella futura condizione della società verso cui ci spingono, costantemente, l’esperienza, l’intelligenza e le conoscenze finora accumulate. Sarà (un tipo di società superiore) un ritorno, in forma superiore, della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità delle antiche gentes”.
Certo anche l’ultimo Marx, nella tessitura complessa dei molti interessi di ricerca che attraversano la sua opera, si dedica (anzi, con rinnovata lena) agli studi matematici (calcolo infinitesimale ed integrale) stendendo anche un trattatello, che lo portano ad arditi paralleli del tutto nello spirito del tempo. Se, infatti, “non è possibile risolvere un’equazione che non racchiuda nei suoi termini gli elementi della soluzione”, (risposta a Ferdinand Nieuwenhuis) anche “un governo socialista non giunge alla guida di un paese senza che le circostanze siano arrivate al punto che egli possa, prima di ogni altra cosa, prendere le misure atte a intimidire la massa dei borghesi e conseguire così, il primo obiettivo, il tempo per l’azione efficace”. Naturalmente quali siano dipende “in tutto e per tutto dalle reali condizioni storiche in cui bisognerà agire”. Non bisogna “distrarsi dalla lotta presente” anticipando dottrinariamente esiti futuri, e “fare riferimento alle condizioni immediate e reali di questa o quella nazione specifica”.
Mentre si occupava, come sempre, dell’attualità (ad esempio della crisi iniziata nel 1873 ed ancora in corso, o dell’esito del sovrainvestimento finanziario derivante dal ciclo ferroviario) pronostica una futura sollevazione in India, per uno sfruttamento coloniale che “grida vendetta”.
Ma una delle vicende più importanti la incontra quando la rivoluzionaria russa Vera Zasulic gli mandò nel 1881 una lettera sulla quale Marx lavorò a lungo. In essa veniva chiesto se la “comune rurale” sia una formazione sociale in grado di svilupparsi sulla strada del socialismo, ovvero di essere “la base di una produzione e distribuzione di prodotti su basi collettivistiche”, oppure se questa tradizionale formazione russa (creata a metà dell’ottocento dalla dissoluzione della forma sociale della servitù della gleba), che è anche nota anche come “Mir”, sia destinata ad essere soppiantata da “più avanzate” formazioni storico-sociali, passando per le quali, alla fine si arriverà al socialismo per via della maturazione delle relative condizioni.
La rivoluzionaria russa (che pure condannò la rivoluzione d’ottobre proprio giudicandola “prematura”) all’epoca faceva parte della formazione populista “ Ripartizione nera ” (cui aderivano Plechanovm Aksel’rod ed altri) che poi confluì nel marxismo spostando il focus dell’azione dai contadini agli operai (fondando “ Emancipazione del lavoro ”, fondato nel 1883) già da come pone la domanda chiaramente propende per la prima opzione. Ma c’è chi giudica la comune rurale una forma arcaica della storia, condannata in quanto tale a perire.
La domanda è, in altre parole, se le forme comunitarie precapitaliste, in quanto tali, dovessero essere considerate residui storici, condannati dalla sua logica inesorabile di progressiva efficientazione e messa in connessione.
Durante questa discussione Marx chiarisce un punto preliminare della massima importanza: nei numerosi punti in cui nella sua opera (dagli scritti giovanili al “Capitale”) aveva sempre sottolineato la funzione progressiva di liberazione delle energie condotta dalla borghesia, dal modo di produzione industriale e dello stesso capitalismo (Musto ne fa un breve riepilogo a pa. 57-60), egli stava in effetti descrivendo il caso storico concreto “del percorso seguito dall’ordine economico capitalista per uscire dal grembo dell’ordine economico feudale”. Dunque era riferito solo all’Europa occidentale. In essa lo sviluppo delle forze produttive, e la concentrazione del lavoro (con l’esproprio delle condizioni diffuse di produzione preesistenti che ne è il presupposto) in pochi luoghi, avviava la dinamica tante volte descritta che crea le condizioni della futura socializzazione. Ma questo era solo “uno schizzo storico della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale”, non “ una teoria storico-filosofica del percorso universale fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente dalle circostanze storiche in cui si trovano i posti ” (Karl Marx, alla redazione della Otecestevennye Zapiski, cit. p.61).
Una simile “teoria storico-filosofica” avrebbe infatti solo una “virtù suprema”, quella di essere “sovrastorica”.
Tre settimane di lavoro intenso portano a tre lunghe bozze ed una minuta della lettera finale, in francese, nelle quali, ribadisce la limitazione dei suoi precedenti abbozzi storici al caso dell’Europa occidentale ed afferma con forza che i casi non possono confrontarsi. La comune agricola russa è aperta due possibilità, o prevale “l’elemento della proprietà privata sull’elemento collettivo” o il contrario. Dipenderà dalle circostanze. Il fatto che la Russia sia nella possibilità di trarre esempio, ispirazione e sostegno dalla produzione capitalistica, che nel frattempo si è comunque sviluppata (al prezzo di grandissimi sofferenze) nell’Europa occidentale, rende possibile, anzi, che “ appropriandosi dei risultati positivi di questo modo di produzione, essa si trovi, dunque, in grado di sviluppare e trasformare, invece di distruggere, la forma ancora arcaica della sua comune rurale ” (p.66).
In questo caso, senza passare sotto le forche caudine del sistema capitalistico, i contadini ne potrebbero utilizzare ed integrare le acquisizioni positive. Così come non è necessario superare tutte le fasi tecnologiche (dal telaio meccanico, a quello a vapore, poi ai bastimenti a vapore, poi le ferrovie, e via dicendo) od organizzative (prima le fiere, poi le borse merci, poi le banche, le società per azioni, …) per impostare un sistema economico avendole davanti pronte tutte.
Dunque le comuni agricole in effetti rappresentavano il potenziale di “un primo raggruppamento sociale di uomini liberi, non strettamente vincolati da rapporti di parentela”. In altre parole, queste avrebbero potuto essere in qualche modo rivoluzionate (superando gli elementi individualisti e l’isolamento premoderno che le caratterizzava) non dal capitalismo ma dal socialismo. Ovvero essere meccanizzate (“soppiantare gradualmente l’agricoltura parcellizzata con l’agricoltura combinata con l’impiego delle macchine”) ed organizzare il lavoro cooperativo su larga scala, fondandosi sull’esistente proprietà comune della terra. Riprendendo temi presentati anche dal suo ex amico Bakunin (ed in seguiti ripresi venti anni dopo da Tolstoj) Marx immagina anche che si possa passare a forme di autogoverno.
La comune è, insomma, il possibile “fulcro della rivoluzione sociale in Russia”.
Nel resto del libro, in alcuni commoventi capitoli, Musto descrive i tormenti del “vecchio Nick”, che resosi conto dell’essere la rivoluzione un processo lungo e complesso, affronta l’ultima giostra della vita che gli destina dolori non redimibili. La morte della moglie ed il declino delle sue facoltà fisiche ormai inarrestabile.
Il 14 marzo 1883, alle 14.45, assistito dal suo amico Engles, Karl Marx muore.
Abbiamo visto che Michéa, in “ I misteri della sinistra ” qualifica come “zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo”, quella metafisica del “progresso” che definisce la storia dal punto di una “teoria storico-filosofica” e non manca di avere profonde radici anche in buona parte del movimento socialista e in alcuni stessi scritti di Marx (ma soprattutto di Engels). Questo “operatore filosofico”, in seguito, si irrigidisce nelle opera di Plekhanov o di Kautsky e, rinforzando la matrice positivista e scientista, conduce a quegli esiti aporetici che sia Honneth come il Trentin che abbiamo già letto denunciano. Si tratta dell’idea che il “metodo di produzione capitalista” (cioè, nella versione novecentesca, il fordismo ed il taylorismo, oggi il postfordismo della flessibilizzazione e mobilitazione di ogni risorsa, quindi le forme della mondializzazione) sia sempre nella sostanza una forma della ragione, e dunque sia una “tappa storicamente necessaria” verso il pieno dispiegarsi di qualsiasi, futura, società liberata.
È la forma che prende oggi il mito della crescita illimitata, e della portata emancipante della tecnologia.
Passa in secondo piano allora la critica, pur così presente nel primo Marx, ed in diverse correnti proto socialiste, della reificazione dell’uomo nei processi produttivi. Si può ad esempio vedere alcuni brani del “Manoscritti Economico filosofici del 44”, sull’ estraneazione del lavoro , oppure della “Critica al programma di Gotha” in questo commento ad un post di Milanovic sul superamento del denaro per effetto della riduzione tendenziale dei costi marginali, o, ancora, su un tema vicino un commento al “frammento delle macchine” nei Grundisse.
Nascono infine così anche quelle visioni dell’emancipazione come rottura e liberazione da ogni vincolo, in primo luogo comunitario nelle quali ancora molti sono impegnati.
Sarebbe utile, almeno, non arruolare Marx in questa battaglia: lui era più complesso ed interessante di così.