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Introduzione

1. Le origini del concetto.
L’alienazione può essere annoverata tra le teorie più rilevanti e dibattute del XX secolo e la concezione che ne elaborò Marx assunse un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema. Tuttavia, diversamente da come si potrebbe immaginare, il percorso della sua affermazione non è stato affatto lineare e le pubblicazioni di alcuni inediti di Marx, contenenti riflessioni sull’alienazione, hanno rappresentato significativi punti di svolta per la trasformazione e la diffusione di questa teoria.

Nel corso dei secoli, il termine alienazione fu utilizzato più volte e con mutevoli significati. Nella riflessione teologica esso designò il distacco dell’uomo da dio; nelle teorie del contratto sociale servì a indicare la perdita della libertà originaria dell’individuo; mentre nell’economia politica inglese venne adoperato per descrivere la cessione della proprietà della terra e delle merci. La prima sistematica esposizione filosofica dell’alienazione avvenne solo all’inizio dell’Ottocento e fu opera di Georg W. F. Hegel (1770-1831). Nella Fenomenologia dello spirito (1807), infatti, egli ne fece la categoria centrale del mondo moderno e adoperò i termini di Entäusserung (rinuncia) ed Entfremdung (estraneità, scissione) per rappresentare il fenomeno mediante il quale lo spirito diviene altro da sé nell’oggettività. Tale problematica ebbe grande importanza anche presso gli autori della Sinistra hegeliana e la concezione di alienazione religiosa elaborata da Ludwig Feuerbach (1804-1872) nell’Essenza del cristianesimo (1841), ovvero la critica del processo mediante il quale l’uomo si convince dell’esistenza di una divinità immaginaria e si sottomette a essa, contribuì in modo significativo allo sviluppo del concetto.

Successivamente, l’alienazione scomparve dalla riflessione filosofica e nessuno tra i maggiori autori della seconda metà dell’Ottocento vi dedicò particolare attenzione. Lo stesso Marx impiegò il termine in rarissime occasioni nelle opere pubblicate nel corso della sua esistenza, e questo tema risultò del tutto assente anche nel marxismo della Seconda Internazionale (1889-1914) .

Tuttavia, a cavallo tra i due secoli, alcuni pensatori elaborarono alcuni concetti che, successivamente, furono associati a quello di alienazione. Nei libri La divisione del lavoro sociale (1893) e Il suicidio (1897), ad esempio, Émile Durkheim (1858-1917) formulò la nozione di «anomia», con la quale intese indicare quell’insieme di fenomeni che si manifestavano nelle società in cui le norme preposte a garantire la coesione sociale entravano in crisi in seguito al forte sviluppo della divisione del lavoro. I mutamenti sociali intervenuti nel XIX secolo, con le enormi trasformazioni del processo produttivo, costituirono anche lo sfondo delle riflessioni dei sociologi tedeschi. Nella Filosofia del denaro (1900), Georg Simmel (1858-1918) dedicò grande attenzione al predominio delle istituzioni sociali sugli individui e all’impersonalità dei rapporti umani, mentre in Economia e società (1922) Max Weber (1864-1920) si soffermò sui concetti di «burocratizzazione» e di «calcolo razionale» nelle relazioni umane, considerati l’essenza del capitalismo. Questi autori, però, reputarono tali fenomeni come eventi inevitabili e le loro considerazioni furono sempre guidate dalla volontà di rendere migliore l’ordine politico e sociale esistente, e non certo da quella di sovvertirlo con un altro.

2. La riscoperta dell’alienazione.
La riscoperta della teoria dell’alienazione avvenne grazie a György Lukács (1885-1971). In Storia e coscienza di classe (1923), riferendosi ad alcuni passaggi del libro I di Il capitale (1867) di Marx, in particolare al paragrafo dedicato al «carattere di feticcio della merce» (Der Fetischcharakter der Ware), egli elaborò il concetto di reificazione (Verdinglichung o Versachlichung), ovvero il fenomeno attraverso il quale l’attività lavorativa si contrappone all’uomo come qualcosa di oggettivo e indipendente e lo domina mediante leggi autonome e a lui estranee. Nei suoi tratti fondamentali, però, la teoria di Lukács era ancora troppo simile a quella hegeliana, poiché anch’egli concepì la reificazione come un «fatto strutturale fondamentale» . Così, quando negli anni sessanta, soprattutto dopo la comparsa della traduzione francese del suo libro , questo testo tornò a esercitare una grande influenza tra gli studiosi e i militanti di sinistra, Lukács decise di ripubblicare il suo scritto in una nuova edizione introdotta da una lunga Prefazione autocritica, nella quale, per chiarire la sua posizione, affermò: «Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui […] l’estraneazione viene posta sullo stesso piano dell’oggettivazione» .

Un altro autore che, nel corso degli anni venti, prestò grande attenzione a queste tematiche fu Isaak Ilijč Rubin (1886-1937). Nel suo scritto Saggi sulla teoria del valore di Marx (1924), egli sostenne che la teoria del feticismo costituiva «la base dell’intero sistema economico di Marx e, in particolare, della sua teoria del valore» . Per l’autore russo, la reificazione dei rapporti sociali rappresentava «un fatto reale del capitalismo» , ovvero consisteva in «una vera e propria “materializzazione” dei rapporti di produzione, e non di una semplice “mistificazione” o di un’illusione ideologica. Si tratta[va] di uno dei caratteri strutturali dell’economia nella società attuale. […] Il feticismo non [era] solo un fenomeno della coscienza sociale, ma dell’essere sociale stesso» . Nonostante queste intuizioni, lungimiranti se si considera il periodo in cui furono scritte, l’opera di Rubin non riuscì a favorire la conoscenza della teoria dell’alienazione, poiché, essendo stata tradotta in inglese soltanto nel 1972, conobbe una tarda ricezione in Occidente.

L’evento decisivo che intervenne a rivoluzionare in maniera definitiva la diffusione del concetto di alienazione fu la pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1844), un inedito appartenente alla produzione giovanile di Marx. Da questo testo emerse il ruolo di primo piano conferito alla teoria dell’alienazione durante un’importante fase dello sviluppo della sua concezione: la scoperta dell’economia politica . Marx, infatti, mediante la categoria di lavoro alienato (entfremdete Arbeit) non solo traghettò la problematica dell’alienazione dalla sfera filosofica, religiosa e politica a quella economica della produzione materiale, ma fece di quest’ultima anche il presupposto per potere comprendere e superare le prime . Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’alienazione venne descritta come il fenomeno attraverso il quale il prodotto del lavoro «sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente» . Per Marx, «l’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esistenza esterna, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica» .

Accanto a questa definizione generale, Marx elencò quattro differenti tipi di alienazione che indicavano come nella società borghese il lavoratore fosse alienato: a) dal prodotto del suo lavoro, che diviene un «oggetto estraneo e avente un dominio su di lui»; b) dall’attività lavorativa, che viene percepita come «rivolta contro lui stesso […] [e] a lui non appartenente»; c) dal genere umano, poiché la «essenza specifica dell’uomo» è trasformata in «un’essenza a lui estranea»; e d) dagli altri esseri umani, ovvero rispetto «al lavoro e all’oggetto del lavoro» realizzati dai suoi simili.

Per Marx, diversamente da Hegel, l’alienazione non coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, ma con una precisa realtà economica e con uno specifico fenomeno: il lavoro salariato e la trasformazione dei prodotti del lavoro in oggetti che si contrappongono ai loro produttori. La diversità politica tra le due interpretazioni è enorme. Contrariamente a Hegel, che aveva rappresentato l’alienazione quale manifestazione ontologica del lavoro, Marx concepì questo fenomeno come la caratteristica di una determinata epoca della produzione, quella capitalistica, ritenendone possibile il superamento mediante «l’emancipazione della società dalla proprietà privata» . Considerazioni analoghe furono sviluppate nei quaderni di appunti contenenti gli estratti dall’opera Elementi di economia politica (1821) di James Mill (1773-1836):

il […] lavoro sarebbe libera manifestazione della vita e dunque godimento della vita. Ma nelle condizioni della proprietà privata esso è alienazione della vita; infatti io lavoro per vivere, per procurarmi mezzi per vivere. Il mio lavoro non è vita. In secondo luogo: nel lavoro sarebbe quindi affermata la peculiarità della mia individualità, poiché vi sarebbe affermata la mia vita individuale. Il lavoro sarebbe dunque vera e attiva proprietà. Ma nelle condizioni della proprietà privata la mia individualità è alienata al punto che questa attività mi è odiosa, è per me un tormento e solo la parvenza di un’attività, ed è pertanto anche soltanto un’attività estorta ed impostami soltanto da un accidentale bisogno esteriore, e non da un bisogno necessario interiore. Dunque, anche in queste frammentarie e, talvolta, esitanti formulazioni giovanili, Marx trattò l’alienazione sempre da un punto di vista storico e mai naturale.

3. Le altre concezioni dell’alienazione.
Ci sarebbe voluto ancora molto tempo, però, prima che una concezione storica, e non ontologica, dell’alienazione potesse affermarsi. La maggior parte degli autori che, nei primi decenni del Novecento, si occupò di questa problematica lo fece sempre considerandola un aspetto universale dell’esistenza umana. In Essere e tempo, Martin Heidegger (1889-1976) affrontò il problema dell’alienazione dal versante meramente filosofico e considerò questa realtà come una dimensione fondamentale della storia. La categoria da lui utilizzata per descrivere la fenomenologia dell’alienazione fu quella di «decadimento» (Verfallen) , cioè la tendenza dell’Esserci (Dasein) – che nella filosofia heideggeriana indica la costituzione ontologica della vita umana – a perdersi nell’inautenticità e nel conformismo del mondo che lo circonda. Per Heidegger, «questo stato presso il “mondo” significa l’immedesimazione nell’essere-assieme dominato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco» . Un territorio, dunque, completamente diverso dalla fabbrica e dalla condizione operaia che furono al centro delle preoccupazioni e dell’elaborazione di Marx. Inoltre, questa condizione di «decadimento» non fu considerata da Heidegger come una condizione «negativa e deplorevole, che il progredire della civiltà umana avrebbe potuto un giorno annullare» , ma come una caratteristica ontologica, «un modo esistenziale dell’essere-nel-mondo» . Heidegger tentò anche di alterare lo stesso significato della concezione marxiana di alienazione. Nella Lettera sull’«umanismo» (1947) egli elogiò Marx, affermando che in lui la «alienazione raggiunge[va] una dimensione essenziale della storia» .

Tuttavia, questa posizione non corrisponde al vero poiché non è presente in nessuno degli scritti di Marx.
Anche Herbert Marcuse (1898-1979), che diversamente da Heidegger conosceva bene l’opera di Marx , identificò l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. Nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica (1932), egli sostenne che il «carattere di peso del lavoro» non poteva essere ricondotto meramente a «determinate condizioni presenti nell’esecuzione del lavoro, alla sua organizzazione tecnico-sociale», ma andava considerato come uno dei suoi tratti fondamentali:

quando è all’opera, il lavoratore è «presso la cosa», sia che stia dietro una macchina, o che progett[i] piani tecnici, o che prenda delle misure organizzative, o che studi problemi scientifici, o che istruisc[a] gli uomini, ecc. Nel suo fare si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando domina il suo oggetto […]. In ogni caso non è «presso di sé» […], è presso «l’altro da sé», anche quando questo fare dà compimento alla propria vita liberamente assunta. Questa alienazione ed estraneazione dell’esistenza […] è, per principio, ineliminabile.

Per Marcuse, quindi, esisteva una «negatività originaria del fare lavorativo», che egli reputava appartenere alla «essenza stessa dell’esistenza umana» . La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. Il superamento dell’alienazione fu ritenuto possibile soltanto attraverso il gioco, momento nel quale l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva: «un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico» .

In Eros e civiltà (1955), Marcuse prese le distanze dalla concezione marxiana in modo netto. Affermò che l’emancipazione dell’uomo poteva realizzarsi solo mediante la liberazione dal lavoro (abolition of labor) e attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali. La possibilità di superare lo sfruttamento, mediante la nascita di una società basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, venne da lui accantonata, poiché il lavoro in generale, non solo quello salariato, venne considerato come

lavoro per un apparato che essi [la grande maggioranza della popolazione] non controllano, che opera come un potere indipendente. A questo potere gli individui, se vogliono vivere, devono sottomettersi, ed esso diventa tanto più estraneo quanto più si specializza la divisione del lavoro. […] Lavorano in uno stato di alienazione […] [in] assenza di soddisfazione [e] negazione del principio del piacere.

La norma cardine contro cui gli esseri umani avrebbero dovuto ribellarsi era il principio di prestazione (performance) imposto dalla società. Secondo Marcuse, infatti,

il conflitto tra sessualità e civiltà si acuisce con lo sviluppo del dominio. Sotto la legge del principio di prestazione, corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel soggetto-oggetto libidico che originalmente l’organismo umano è, e desidera essere. […] L’uomo esiste come strumento di prestazione alienata .

Dunque, egli concluse che la produzione materiale, anche se organizzata in modo equo e razionale, «non potrà mai rappresentare un regno di civiltà e di soddisfazione […]. È la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e la realizzazione» . L’alternativa proposta da Marcuse fu l’abbandono del mito prometeico caro al giovane Marx, per approdare a un orizzonte dionisiaco: la «liberazione dell’eros» . Diversamente da Sigmund Freud (1856-1939), il quale nel Disagio della civiltà (1930) aveva sostenuto che un’organizzazione non repressiva della società avrebbe comportato una pericolosa regressione del livello di civiltà raggiunto nei rapporti umani , Marcuse era convinto che se la liberazione degli istinti fosse avvenuta in una «società libera», altamente tecnologizzata e al servizio dell’uomo, essa avrebbe favorito non solo «uno sviluppo del progresso» , ma anche creato «nuovi e duraturi rapporti di lavoro» .

In questo evolversi del suo pensiero, una significativa influenza fu esercitata dalle idee di Charles Fourier (1772-1837) il quale, nella Teoria dei quattro movimenti (1808), si era opposto ai sostenitori del «sistema commerciale», verso i quali utilizzò in senso dispregiativo l’epiteto di «civilizzati», e aveva sostenuto che la società sarebbe stata libera solo nel momento in cui tutti i suoi componenti fossero ritornati a esprimere le loro passioni. Queste erano per lui ben più importanti della «ragione», in nome della quale erano stati compiuti «tutti i massacri di cui la storia ha trasmesso il ricordo» . Secondo Fourier, il principale errore per un regime politico consisteva, dunque, nella repressione della natura umana. L’«armonia» sarebbe stata possibile solo se gli individui avessero potuto sprigionare, come quando si trovavano allo stato naturale, tutti i loro istinti.

Quanto a Marcuse, giunto a perorare la necessità di opporsi al dominio tecnologico in generale, le indicazioni che egli fornì sul modo in cui una nuova società avrebbe potuto prendere corpo furono più che vaghe. La critica dell’alienazione non rispondeva più allo scopo di contrastare i rapporti di produzione capitalistici e Marcuse approdò, alla fine, a una riflessione così pessimistica sulle possibilità di un cambiamento sociale da includere persino la classe operaia tra i soggetti che operavano in difesa del sistema.

La prefigurazione di un’estraneazione generalizzata, prodotta da un controllo sociale invasivo e dalla manipolazione dei bisogni creata dalla capacità d’influenza dei mass-media , fu teorizzata anche da Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969), altri due esponenti di punta della Scuola di Francoforte. In Dialettica dell’illuminismo (1947), essi affermarono che «la razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. È il carattere coatto […] della società estraniata a sé stessa» . Essi ponevano in evidenza come, nel capitalismo, persino la sfera del divertimento, un tempo libera e alternativa al lavoro, fosse stata assorbita negli ingranaggi della riproduzione del consenso.

Dopo la seconda guerra mondiale, il concetto di alienazione approdò anche alla psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud, per la quale, nella società borghese, gli esseri umani sono posti dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura. Per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione, essi dovevano necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni: «di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza» . Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta a un fenomeno meramente soggettivo.

L’esponente che più si occupò di alienazione, in questa disciplina, fu Erich Fromm (1900-1980). Diversamente dalla maggioranza dei suoi colleghi, egli non separò mai le manifestazioni dell’alienazione dal contesto storico capitalistico e, con i suoi scritti Psicanalisi della società contemporanea (1955) e L’uomo secondo Marx (1961), si servì di questo concetto per tentare di costruire un ponte tra la psicoanalisi e il marxismo. Tuttavia, anche Fromm affrontò questa problematica privilegiando sempre l’analisi soggettiva e la sua concezione di alienazione, che riassunse come «una forma di esperienza per la quale la persona conosce sé stessa come un estraneo» , rimase troppo circoscritta al singolo. Inoltre, la sua interpretazione della concezione dell’alienazione in Marx si basò sui soli Manoscritti economico-filosofici del 1844 e si caratterizzò per una profonda incomprensione della specificità e della centralità del concetto di lavoro alienato nel pensiero di Marx. Questa lacuna impedì a Fromm di conferire il dovuto risalto all’alienazione oggettiva, ovvero quella dell’operaio nell’attività lavorativa e rispetto al prodotto del suo lavoro, e lo portò a sostenere, proprio per aver trascurato l’importanza dei rapporti produttivi, tesi che appaiono persino ingenue:

Marx credeva che la classe operaia fosse la più estraniata […], non previde fino a che punto l’alienazione doveva diventare il destino della grande maggioranza della popolazione […]. L’impiegato, l’addetto alle vendite, il dirigente, sono oggi anche più alienati del lavoratore manuale specializzato. L’attività di quest’ultimo dipende ancora dall’espressione di certe qualità personali quali l’abilità specifica, l’attendibilità, ecc; ed egli non è costretto a vendere la sua «personalità», il suo sorriso, le sue opinioni in un affare.

Anche Jean-Paul Sartre (1905-1980) e gli esistenzialisti francesi si occuparono di alienazione . A partire dagli anni quaranta, in un periodo caratterizzato dagli orrori della guerra, dalla conseguente crisi delle coscienze e, nel panorama francese, dal neohegelismo di Alexandre Kojève (1902-1968) , il fenomeno dell’alienazione fu assunto come riferimento ricorrente sia in filosofia che in narrativa . Tuttavia, anche in questa fase, la nozione di alienazione assunse un profilo molto più generico rispetto a quello esposto da Marx. Essa fu identificata con un indistinto disagio dell’essere umano nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, significativamente, come condition humaine non sopprimibile. I filosofi esistenzialisti non fornirono una specifica origine sociale dell’alienazione, ma, tornando ad assimilarla con ogni fattualità, concepirono l’alienazione come un senso generico di alterità umana (il fallimento del «socialismo reale» in Unione Sovietica favorì certamente l’affermazione di questa posizione).

In una delle opere più significative di questa tendenza filosofica, i Saggi su Marx e Hegel (1955), Jean Hyppolite (1907-1968) espose questa posizione nel modo seguente:

[l’alienazione] non ci pare riducibile immediatamente al solo concetto di alienazione dell’uomo nel capitale, come lo intende Marx. Questo è solo un caso particolare di un problema più universale, che è quello dell’autocoscienza umana che, incapace di pensarsi come un «cogito» separato, si trova solamente nel mondo che edifica, negli altri io che riconosce e che, a volte, misconosce. Ma questo modo di ritrovarsi nell’altro, questa oggettivazione, è sempre più o meno una alienazione, una perdita di sé e nello stesso tempo un ritrovarsi. Così oggettivazione e alienazione sono inseparabili e la loro unità non può essere altro che l’espressione di una tensione dialettica che si vede nel movimento stesso della storia .

Marx aveva contribuito a sviluppare una critica della soggezione umana basata sull’opposizione ai rapporti di produzione capitalistici . Gli esistenzialisti, invece, intrapresero una strada diversa, ovvero tentarono di riassorbire il pensiero di Marx, attraverso quelle parti della sua opera giovanile che potevano risultare più utili alle loro tesi, in una discussione priva di una specifica critica storica e a tratti meramente filosofica.

4. Il dibattito sul concetto di alienazione negli scritti giovanili di Marx.
Nella discussione sull’alienazione che si sviluppò in Francia, il ricorso alle teorie di Marx fu molto frequente. Tuttavia, in questo dibattito, spesso furono esaminati soltanto i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e non vennero prese in considerazione neanche le parti del libro I di Il capitale in base alle quali Lukács aveva costruito la sua teoria della reificazione negli anni venti. Inoltre, alcune frasi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono completamente estrapolate dal contesto e vennero trasformate in citazioni sensazionali aventi lo scopo di dimostrare la presunta esistenza di un «nuovo Marx», radicalmente diverso da quello fino ad allora conosciuto, perché intriso di teoria filosofica e ancora privo del determinismo economico che alcuni suoi commentatori attribuivano a Il capitale – testo, a dire il vero, molto poco letto da quanti sostennero questa tesi. Anche rispetto al solo manoscritto del 1844, gli esistenzialisti francesi privilegiarono di gran lunga la nozione di autoalienazione (Selbstentfremdung), cioè il fenomeno per il quale il lavoratore è alienato dal genere umano e dai suoi simili, che Marx aveva trattato nel suo scritto giovanile, ma sempre in relazione all’alienazione oggettiva.

Lo stesso clamoroso errore fu commesso da un esponente di primo piano del pensiero filosofico-politico del dopoguerra. Nell’opera Vita Activa (1958), infatti, Hannah Arendt (1906-1975) costruì la propria interpretazione del concetto di alienazione in Marx solo in base ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, e per giunta privilegiando, tra le tante tipologie di alienazione indicate da Marx, esclusivamente quella soggettiva:

l’espropriazione e l’alienazione del mondo coincidono; e l’età moderna, contro le stesse intenzioni dei suoi protagonisti, cominciò con l’alienare dal mondo certi strati della popolazione. […] L’alienazione del mondo, quindi, e non l’alienazione di sé, come pensava Marx, è stata la caratteristica distintiva dell’età moderna .

A dimostrazione della sua scarsa attenzione verso le opere della maturità di Marx, dovendo segnalare i passi dai quali si potesse evincere come Marx aveva «una certa consapevolezza delle indicazioni nel senso dell’alienazione mondana nella economia capitalistica», la Arendt rimandò all’articolo giornalistico giovanile Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, e non alle decine di pagine in proposito, certamente ben più significative, contenute nel libro I di Il capitale e nei suoi manoscritti preparatori. La sua sorprendente conclusione fu che: «nell’insieme dell’opera di Marx queste considerazioni occasionali [avevano] un ruolo secondario, mentre una parte di primo piano [era] giocata dall’estremo soggettivismo moderno» . Dove e in che modo, nella sua analisi della società capitalistica, Marx avesse privilegiato «l’alienazione di sé» resta un mistero di cui la Arendt non fornì spiegazione nel suo scritto.

Negli anni sessanta, l’esegesi della teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 divenne il pomo della discordia rispetto all’interpretazione generale di Marx. In questo periodo venne concepita la distinzione tra due presunti Marx: il «giovane Marx» e il «Marx maturo». Questa arbitraria e artificiale contrapposizione fu alimentata sia da quanti preferirono il Marx delle opere giovanili e filosofiche (ad esempio la gran parte degli esistenzialisti), sia da quanti (tra questi Louis Althusser, 1918-1990, e quasi tutti i marxisti sovietici) affermarono che il solo vero Marx fosse quello di Il capitale.

Coloro che sposarono la prima tesi considerarono la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il punto più significativo della critica marxiana della società; mentre quelli che abbracciarono la seconda ipotesi mostrarono, spesso, una vera e propria «fobia dell’alienazione», tentando, in un primo momento, di minimizzarne il rilievo e, quando ciò non fu più possibile, considerando il tema dell’alienazione come «un peccato di gioventù, un residuo di hegelismo» , successivamente abbandonato da Marx. I primi rimossero la circostanza che la concezione dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 era stata scritta da un autore ventiseienne e appena agli albori dei suoi studi principali; i secondi, invece, non vollero riconoscere l’importanza della teoria dell’alienazione in Marx anche quando, con la pubblicazione di nuovi inediti, divenne evidente che egli non aveva mai smesso di occuparsene nel corso della sua esistenza e che essa, anche se mutata, aveva conservato un posto di rilievo nelle tappe principali dell’elaborazione del suo pensiero.

Sostenere, come affermarono in tanti, che la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 fosse il tema centrale del pensiero di Marx è un falso che denota soltanto la scarsa familiarità con la sua opera da parte di coloro che propesero per questa tesi . D’altro canto, quando dopo la seconda guerra mondiale Marx diventò l’autore più discusso e citato nella letteratura filosofica mondiale proprio per le sue pagine inedite relative all’alienazione, il silenzio dell’Unione Sovietica su questa tematica, e sulle controversie a essa legate, fornì un esempio della strumentalizzazione dei suoi scritti in quel paese. L’esistenza dell’alienazione in Unione Sovietica, e nei suoi paesi satelliti, fu semplicemente negata e tutti i testi che trattavano questa problematica vennero ritenuti sospetti. Secondo Henri Lefebvre (1901-1991), «nella società sovietica non poteva, non doveva più essere questione di alienazione. Il concetto doveva sparire, per ordine superiore, per la ragion di Stato» . E, così, fino agli anni settanta, furono pochissimi gli autori che, nel «campo socialista», scrissero delle opere in proposito.

Infine, anche affermati autori europei sottovalutarono la complessità del fenomeno. Lucien Goldmann (1913-1970) si illuse circa il possibile superamento dell’alienazione nelle condizioni economico-sociali del tempo e dichiarò, nel suo libro Ricerche dialettiche (1958), che essa sarebbe scomparsa, o regredita, grazie al mero effetto della pianificazione. Secondo Goldmann, «la reificazione è invero un fenomeno strettamente legato alla assenza di pianificazione e alla produzione per il mercato». Il socialismo sovietico a Est e le politiche keynesiane in Occidente avrebbero portato «al risultato di una soppressione della reificazione nel primo caso, [e] di un affievolimento progressivo nel secondo» . La storia ha dimostrato la fallacia delle sue previsioni.

5. Il fascino irresistibile della teoria dell’alienazione.
A partire dagli anni sessanta esplose una vera e propria moda per la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri e articoli sul tema . Fu il tempo dell’alienazione tout court. Il periodo durante il quale numerosi autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, all’anomia, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifesta nel rapporto con le nuove tecnologie, e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, e all’inquinamento ambientale.

Il concetto di alienazione sembrò riflettere alla perfezione lo spirito del tempo e costituì anche il terreno d’incontro, nell’elaborazione della critica alla società capitalistica, tra il marxismo filosofico e anti-sovietico e il cattolicesimo più democratico e progressista. La popolarità del concetto e la sua applicazione indiscriminata, però, crearono una profonda ambiguità terminologica . Così, nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e lo spropositato ampliamento della sua nozione generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno tanto esteso da apparire immodificabile.

Con il libro La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord (1931-1994), divenuto poco dopo la sua uscita un vero e proprio manifesto di critica sociale per la generazione di studenti in rivolta contro il sistema, la teoria dell’alienazione approdò alla critica della produzione immateriale. Riprendendo le tesi già avanzate da Horkheimer e Adorno, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente, Debord affermò che il non-lavoro non poteva più essere considerato come una sfera differente dall’attività produttiva:

mentre nella fase primitiva dell’accumulazione capitalistica «l’economia politica non vede nel proletario che l’operaio», che deve ricevere il minimo indispensabile per la conservazione della sua forza-lavoro, senza mai considerarlo «nei suoi svaghi, nella sua umanità»; questa posizione delle idee della classe dominante si rovescia non appena il grado di abbondanza raggiunto nella produzione di merci esige un surplus di collaborazione dall’operaio. Questo operaio, improvvisamente lavato dal disprezzo totale che gli è chiaramente espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno al di fuori di essa trattato apparentemente come una persona grande, con una cortesia premurosa, sotto il travestimento del consumatore. Allora l’umanesimo della merce prende a proprio carico «gli svaghi e l’umanità» del lavoratore, semplicemente perché l’economia politica può e deve ora dominare queste sfere .

Per Debord, se il dominio dell’economia sulla vita sociale si era inizialmente manifestato attraverso una «degradazione dell’essere in avere», nella «fase presente» si era verificato uno «slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire» . Tale riflessione lo spinse a porre al centro della sua analisi il mondo dello spettacolo: «nella società lo spettacolo corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione» , il fenomeno mediante il quale «il principio del feticismo della merce […] si compie in grado assoluto» . In queste circostanze, l’alienazione si affermava a tal punto da diventare persino un’esperienza entusiasmante per gli individui. Spinti da questo nuovo oppio del popolo al consumo e a «riconoscersi nelle immagini dominanti» , essi si allontanavano sempre più dai propri desideri ed esistenze reali:

lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. […] La produzione economica moderna allarga la sua dittatura estensivamente e intensivamente. […] A questo punto della «seconda rivoluzione industriale», il consumo alienato diventa per le masse un dovere supplementare che si aggiunge a quello della produzione alienata.

Sulla scia di Debord, anche Jean Baudrillard (1929-2007) utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi (1970), egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna, prendendo così le distanze dalla concezione marxiana ancorata alla centralità della produzione. Secondo Baudrillard «l’era del consumo», in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche «l’era dell’alienazione radicale»:

la logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi non regola solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali, ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane, fino ai fantasmi e alle pulsioni individuali. […] Tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili.

Le sue conclusioni politiche, però, furono piuttosto confuse e pessimistiche. Dinanzi a una grande stagione di fermento sociale, egli accusò «i contestatori del maggio francese» di essere caduti nella trappola di «super-reificare gli oggetti e il consumo dando loro un valore diabolico»; e criticò «i discorsi sull’alienazione, tutta la derisione operata dalla Pop e dall’antiarte», per aver creato una «requisitoria [che] fa parte del gioco: è il miraggio critico, l’antifiaba che corona la favola» . Dunque, lontano dal marxismo, che vedeva nella classe operaia il soggetto sociale di riferimento per cambiare il mondo, Baudrillard chiuse il suo libro con un appello messianico, tanto generico quanto effimero: «attenderemo le irruzioni brutali e le disgregazioni improvvise che, in maniera tanto imprevedibile, ma certa, quanto il maggio del 1968, manderanno in frantumi questa messa bianca» .

6. La teoria dell’alienazione nella sociologia nord-americana.
Negli anni cinquanta, il concetto di alienazione era entrato anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come problematica inerente il singolo essere umano , non le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente, non nelle pratiche collettive volte a mutare la società.

Anche in questa disciplina regnò a lungo una profonda incertezza circa una chiara e condivisa definizione dell’alienazione. Alcuni autori valutarono questo fenomeno come un processo positivo, perché ritenuto un mezzo di espressione della creatività dell’uomo, e inerente la condizione umana in generale . Altra caratteristica diffusa tra i sociologi statunitensi fu quella di considerare l’alienazione come qualcosa che scaturiva dalla scissione tra l’individuo e la società . Seymour Melman (1917-2004), infatti, individuò l’alienazione nella separazione tra la formulazione e l’esecuzione delle decisioni e la considerò un fenomeno che colpiva tanto gli operai quanto i manager . Nell’articolo Una proposta per misurare l’alienazione (1957), che inaugurò un dibattito sul concetto di alienazione nella rivista «American Sociological Review», Gwynn Nettler (1913-2007) adoperò lo strumento dell’inchiesta nell’intento di stabilirne una definizione. Tuttavia, lontanissimo dalla tradizione delle rigorose indagini sulle condizioni lavorative condotte dalle organizzazioni del movimento operaio, il questionario da lui formulato sembrò ispirarsi più ai canoni del maccartismo del tempo che non a quelli della ricerca scientifica .

Nettler, infatti, rappresentando le persone alienate come soggetti guidati da «un coerente mantenimento di atteggiamenti ostili e impopolari nei confronti del familismo, dei mezzi di comunicazione di massa, dei gusti di massa, dell’attualità, dell’istruzione popolare, della religione convenzionale, della visione teleologica della vita, del nazionalismo e del sistema elettorale» , identificò l’alienazione con il rifiuto dei principi conservatori della società statunitense.

La pochezza concettuale presente nel panorama sociologico nord-americano mutò in seguito alla pubblicazione (1959) del saggio Sul significato dell’alienazione, di Melvin Seeman (1918-…). In questo breve articolo, divenuto rapidamente un riferimento obbligato per tutti gli studiosi dell’alienazione, egli catalogò quelle che riteneva fossero le sue cinque forme principali: la mancanza di potere; la mancanza di significato (cioè la difficoltà dell’individuo a comprendere gli eventi in cui è inserito); la mancanza di norme; l’isolamento; l’estraniazione da sé . Questo elenco mostra come anche Seeman considerasse l’alienazione sotto un profilo primariamente soggettivo.

Robert Blauner (1929-2016), nel libro Alienazione e libertà (1964), sposò il medesimo punto di vista. L’autore statunitense definì l’alienazione una «qualità dell’esperienza personale che risulta da specifici tipi di disposizioni sociali» , anche se lo sforzo profuso nella sua ricerca lo portò a rintracciarne le cause nel «processo di lavoro in organismi giganteschi e nelle burocrazie impersonali che saturano tutte le società industriali» .

Nell’ambito della sociologia nord-americana, quindi, l’alienazione venne concepita come una manifestazione relativa al sistema di produzione industriale, a prescindere se esso fosse capitalistico o socialista, e come una problematica inerente soprattutto la coscienza umana . Questo approccio finì col porre ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione di questa nozione. Essa venne assunta anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, non più come una questione sociale, ma quale una patologia individuale la cui cura riguardava i singoli individui.

Ciò determinò un profondo mutamento della concezione dell’alienazione. Se nella tradizione marxista essa rappresentava uno dei concetti critici più incisivi del modo di produzione capitalistico, in sociologia subì un processo di istituzionalizzazione e finì con l’essere considerata come un fenomeno relativo al mancato adattamento degli individui alle norme sociali. Allo stesso modo, smarrì il carattere normativo che aveva in filosofia (anche negli autori che ritenevano l’alienazione come un orizzonte insuperabile) e si trasformò in un concetto a-valutativo, dal quale era stato rimosso l’originario contenuto critico.

Altro effetto di questa metamorfosi della nozione di alienazione fu il suo impoverimento teorico. Da fenomeno complessivo, relativo alla condizione lavorativa, sociale e intellettuale dell’uomo, fu ridotto a una categoria limitata, parcellizzata in funzione delle indagini accademiche . I sociologi americani affermarono che questa scelta metodologica avrebbe consentito di liberare l’indagine sull’alienazione dalle sue connotazioni politiche e di conferire a essa obiettività scientifica. In realtà, questa presunta svolta apolitica ebbe forti ed evidenti implicazioni ideologiche, poiché dietro la bandiera della de-ideologizzazione e della presunta neutralità dei valori si celava il sostegno ai valori e all’ordine dominante.

La differenza tra la concezione marxista dell’alienazione e quella dei sociologi statunitensi non consisteva, quindi, nel fatto che la prima era politica e la seconda scientifica, quanto, invece, che i teorici marxisti erano portatori di valori completamente diversi da quelli egemoni, mentre i sociologi statunitensi sostenevano quelli dell’ordine sociale esistente, abilmente mascherati come i valori eterni del genere umano . In sociologia, dunque, il concetto di alienazione conobbe un vero e proprio stravolgimento e giunse a essere utilizzato proprio dai difensori di quelle classi sociali contro le quali era stato a lungo rivolto.

7. Il concetto di alienazione in Il capitale e nei suoi manoscritti preparatori.
Gli scritti di Marx ebbero, ovviamente, un ruolo fondamentale per coloro che tentarono di opporsi alle tendenze, manifestatesi nell’ambito delle scienze sociali, di mutare il senso del concetto di alienazione. L’attenzione rivolta alla teoria dell’alienazione in Marx, inizialmente incentrata sui Manoscritti economico-filosofici del 1844, si spostò, dopo la pubblicazione di ulteriori inediti, su nuovi testi e con essi fu possibile ricostruire il percorso della sua elaborazione dagli scritti giovanili a Il capitale.

Nella seconda parte degli anni quaranta, Marx non aveva più adoperato frequentemente la parola alienazione. Le uniche eccezioni furono alcuni passaggi polemici, soprattutto nei confronti di esponenti della sinistra hegeliana, contenuti in La sacra famiglia (1845), L’ideologia tedesca (1845-46) e Il manifesto del partito comunista (1848), testi che furono scritti con la collaborazione di Engels.

In Lavoro salariato e capitale (1849), una raccolta di articoli redatti in base agli appunti utilizzati per una serie di conferenze tenute alla Lega operaia tedesca di Bruxelles nel 1847, Marx ripropose la teoria dell’alienazione. Tuttavia, non potendosi rivolgere al movimento operaio con una nozione che sarebbe parsa troppo astratta, evitò di utilizzare questa parola. Scrisse che il lavoro salariato non rientrava nell’«attività vitale» dell’operaio, ma rappresentava, piuttosto, un momento di «sacrificio della sua vita». La forza-lavoro era una merce che il lavoratore era costretto a vendere «per poter vivere» e «il prodotto della sua attività non [era] lo scopo della sua attività»:

l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato.

Sino alla fine degli anni cinquanta, nell’opera di Marx non vi furono altri riferimenti alla teoria dell’alienazione. In seguito alla sconfitta delle rivoluzioni del 1848, egli fu costretto all’esilio a Londra e durante questo periodo, per concentrare tutte le sue energie negli studi di economia politica, con l’eccezione di alcuni brevi lavori di carattere storico, non pubblicò alcun libro. Quando riprese a scrivere di economia, nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58), meglio noti col nome di Grundrisse , tornò a utilizzare il concetto di alienazione ripetutamente. Esso ricordava, per molti versi, quello esposto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, anche se, grazie agli studi condotti nel frattempo, la sua analisi risultò molto più approfondita:

il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra le cose; la capacità personale, in una capacità delle cose.

Nei Grundrisse, dunque, la descrizione dell’alienazione acquisì maggiore spessore rispetto a quella compiuta negli scritti giovanili, perché arricchita dalla comprensione di importanti categorie economiche e da una più rigorosa analisi sociale. Accanto al nesso tra alienazione e valore di scambio, tra i passaggi più brillanti che delinearono le caratteristiche di questo fenomeno della società moderna figurano anche quelli in cui l’alienazione viene messa in relazione con la contrapposizione tra capitale e «forza-lavoro viva»:

le condizioni oggettive del lavoro vivo si presentano come valori separati, autonomizzati di fronte alla forza-lavoro viva quale esistenza soggettiva […], sono presupposte come un’esistenza autonoma di fronte ad essa, come l’oggettività di un soggetto che si distingue dalla forza-lavoro viva e le si contrappone autonomamente; la riproduzione e la valorizzazione, ossia l’allargamento di queste condizioni oggettive è perciò al tempo stesso la riproduzione e la nuova produzione di esse in quanto ricchezza di un soggetto che è estraneo, indifferente e si contrappone autonomamente alla forza-lavoro. Ciò che viene riprodotto e nuovamente prodotto non è soltanto l’esistenza di queste condizioni oggettive del lavoro vivo, ma la loro esistenza di valori autonomi, ossia appartenenti ad un soggetto estraneo, opposto a questa forza-lavoro viva. Le condizioni oggettive del lavoro acquistano un’esistenza soggettiva di fronte alla forza-lavoro viva – dal capitale nasce il capitalista.

I Grundrisse non furono l’unico testo della maturità di Marx in cui la problematica dell’alienazione ricorre con frequenza. Un lustro dopo la loro stesura essa ritornò in Il capitale. Libro I, capitolo VI inedito, manoscritto nel quale l’analisi economica e quella politica dell’alienazione vennero messe in una più stretta relazione: «il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore» . In questa bozza preparatoria del libro I de Il capitale, Marx pose in evidenza che nella società capitalistica, mediante «la trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale» , si realizza una vera e propria «personificazione delle cose e reificazione delle persone», ovvero si crea un’apparenza in forza della quale «non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro, appaiono sottomessi al lavoratore, ma egli ad essi» . In realtà, a suo giudizio,

il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose. Senza salariato, dacché gli individui si fronteggiano come persone libere, niente produzione di plusvalore; senza produzione di plusvalore, niente produzione capitalistica, quindi niente capitale e niente capitalisti! Capitale e lavoro salariato (come noi chiamiamo il lavoro dell’operaio che vende la propria capacità lavorativa) esprimono due fattori dello stesso rapporto. Il denaro non può diventare capitale senza scambiarsi preventivamente contro forza-lavoro che l’operaio vende come merce; d’altra parte, il lavoro può apparire come lavoro salariato solo dal momento in cui le sue proprie condizioni oggettive gli stanno di fronte come potenze autonome, proprietà estranea, valore esistente per sé e arroccato in sé stesso; insomma, capitale.

Nel modo di produzione capitalistico il lavoro umano è diventato uno strumento del processo di valorizzazione del capitale, che «nell’incorporare la forza-lavoro viva alle sue parti componenti oggettive […] diventa […] un mostro animato, e comincia ad agire come se “avesse l’amore in corpo”» . Questo meccanismo si espande su scala sempre maggiore, fino a che la cooperazione nel processo produttivo, le scoperte scientifiche e l’impiego dei macchinari, ossia i progressi sociali generali creati dalla collettività, diventano forze del capitale che appaiono come proprietà da esso possedute per natura e si ergono estranee di fronte ai lavoratori come ordinamento capitalistico:

le forze produttive […] sviluppate [X?] del lavoro sociale […] si rappresentano come forze produttive del capitale. […] l’unità collettiva nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle energie naturali e delle scienze, dei prodotti del lavoro come macchinario – tutto ciò si contrappone agli operai singoli, in modo autonomo, come qualcosa di straniero, di oggettivo, di preesistente, senza e spesso contro il loro contributo attivo, come pure forme di esistenza dei mezzi di lavoro da essi indipendenti e su di essi esercitanti il proprio dominio; e l’intelligenza e la volontà dell’officina collettiva incarnate nel capitalista o nei suoi subalterni, nella misura in cui l’officina collettiva si basa sulla loro combinazione, gli si contrappongono come funzioni del capitale che vive nel capitalista .

È mediante questo processo, dunque, che, secondo Marx, il capitale diventa qualcosa di «terribilmente misterioso». Accade in questo modo che «le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali torreggianti di fronte all’operaio e, in questa forma, vengono capitalizzate» .

La diffusione, a partire dagli anni sessanta, di Il capitale, libro I, capitolo VI inedito e, soprattutto, dei Grundrisse aprì la strada a una concezione dell’alienazione differente rispetto a quella egemone in sociologia e in psicologia, la cui comprensione era finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia. La pubblicazione di quella che, dopo i Manoscritti economico-filosofici del 1844 negli anni trenta, può essere considerata la «seconda generazione» di scritti di Marx sull’alienazione fornì non solo una coerente base teorica per una nuova stagione di studi sull’alienazione, ma soprattutto una piattaforma ideologica anticapitalistica al formidabile movimento politico e sociale esploso nel mondo in quel periodo. Con la diffusione di Il capitale e dei suoi manoscritti preparatori, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e diventare critica sociale.

8. Il feticismo delle merci.
Una delle migliori descrizioni dell’alienazione realizzate da Marx è quella contenuta nel celebre paragrafo del libro I del Capitale intitolato Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano. Al suo interno egli mise in evidenza che, nella società capitalistica, gli uomini sono dominati dai prodotti che hanno creato e vivono in un mondo in cui le relazioni reciproche appaiono «non come rapporti immediatamente sociali tra persone […] [ma come], rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose» . Più precisamente:

l’arcano della forma di merce consiste […] nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, come sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. […] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci .

Da questa definizione emergono delle precise caratteristiche che tracciano un chiaro spartiacque tra la concezione dell’alienazione in Marx e quella della gran parte degli autori che si occuparono di questa tematica. Il feticismo non venne concepito da Marx come una problematica individuale, ma fu sempre considerato un fenomeno sociale. Esso non è una manifestazione dell’anima, ma un potere reale, una dominazione concreta, che si realizza nell’economia di mercato, in seguito alla trasformazione dell’oggetto in soggetto. Per questo motivo, egli non limitò la propria analisi dell’alienazione al disagio del singolo essere umano, ma analizzò i processi sociali che ne stavano alla base, in primo luogo l’attività produttiva. Per Marx, inoltre, il feticismo si manifesta in una precisa realtà storica della produzione, quella del lavoro salariato, e non è legato al rapporto tra la cosa in generale e l’essere umano, ma da quello che si instaura tra questi e un tipo determinato di oggettività: la merce.

In conseguenza di questa peculiarità del capitalismo, gli individui hanno valore solo in quanto produttori e «l’esistenza dell’uomo» è asservita all’atto della «produ[zione] di merci» . Pertanto, è «il processo di produzione [a] padroneggia[re] gli uomini» , non viceversa. Il capitale «non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro» e non ritiene rilevante il miglioramento delle condizioni del proletariato. Quello che gli «interessa è unicamente […] il massimo [sfruttamento] di forza lavoro» .

Nella società borghese le proprietà e le relazioni umane si trasformano in proprietà e relazioni tra cose. La teoria che, dopo la formulazione di Lukács, fu designata col nome di reificazione illustrò questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattò da quello delle merci. Diversamente da quanto sostenuto da coloro che hanno negato la presenza di riflessioni sull’alienazione nell’opera matura di Marx, essa non venne sostituita da quella del feticismo delle merci, perché questa ne rappresenta solo un aspetto particolare.

L’avanzamento teorico compiuto da Marx rispetto alla concezione dell’alienazione dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 a Il capitale non si limitò, però, soltanto a una sua più precisa descrizione. Esso riguardò anche una diversa e più compiuta elaborazione delle misure considerate necessarie per il suo superamento. Se nel 1844 Marx aveva considerato che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, in Il capitale, e nei suoi manoscritti preparatori, il percorso indicato per costruire una società libera dall’alienazione divenne molto più complesso.

Marx riteneva che il capitalismo fosse un sistema nel quale i lavoratori sono soggiogati dal capitale e dalle sue condizioni, ma era anche convinto che esso avesse creato le basi per una società più progredita e che l’umanità potesse proseguire il cammino dello sviluppo sociale generalizzando i benefici prodotti da questo nuovo modo di produzione. Una delle esposizioni più analitiche, nell’opera di Marx, circa gli effetti positivi del processo produttivo capitalistico si trova nel libro I di Il capitale.

Nonostante egli fosse divenuto molto più consapevole, rispetto al passato, del carattere distruttivo del capitalismo, nel suo magnum opus riassunse le sei condizioni generate dal capitale – in particolare dalla sua «centralizzazione» (Koncentration) – che costituiscono i presupposti fondamentali per la possibile nascita della società comunista. Esse sono: 1) la cooperazione lavorativa; 2) l’apporto scientifico-tecnologico fornito alla produzione; 3) l’appropriazione delle forze della natura da parte della produzione; 4) la creazione di grandi macchinari adoperabili soltanto in comune dagli operai; 5) il risparmio dei mezzi di produzione; 6) la tendenza a creare il mercato mondiale. Per Marx,

con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale e combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa, in misura sempre crescente, il carattere internazionale del regime capitalistico .

Marx sapeva bene che, con la concentrazione della produzione nelle mani di pochi padroni, per le classi lavoratrici sarebbero aumentati «la miseria, la vessazione, l’asservimento, la degenerazione, lo sfruttamento» , ma era altresì consapevole che la «cooperazione degli operai salariati [era] un […] effetto del capitale» . Egli era giunto alla convinzione che lo straordinario incremento delle forze produttive generato dal capitalismo, fenomeno che si manifestava in modo maggiore rispetto a tutti i modi di produzione precedentemente esistiti, avrebbe creato le condizioni per il superamento dei rapporti economico-sociali da esso stesso originati e, pertanto, il trapasso a una società socialista.

9. Comunismo, emancipazione e libertà.
Secondo Marx, a un sistema che produce enorme accumulo di ricchezza per pochi e spoliazione e alienazione per la massa dei lavoratori, occorre sostituire «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» . Nel libro I di Il capitale egli chiarì che il «principio fondamentale» di questa «forma superiore di società» sarebbe stato il «pieno e libero sviluppo di ogni individuo» .

Nei Grundrisse scrisse che nella società postcapitalista la produzione sarebbe stata «immediatamente sociale […], il risultato dell’associazione (the offspring of association) che ripartisce il lavoro al proprio interno». Essa sarebbe stata controllata dagli individui come «loro patrimonio comune» . Il «carattere sociale della produzione» («gesellschaftliche Charakter der Produktion») avrebbe fatto sì che l’oggetto del lavoro fosse stato, «fin dal principio, un prodotto sociale e generale». Il carattere associativo «è presupposto» e «il lavoro del singolo si pone, sin dalla sua origine, come lavoro sociale» . Come sottolineò nella Critica del programma di Gotha (1875), nella società postcapitalistica «i lavori individuali non [sarebbero] più diventa[ti] parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto» . In aggiunta, gli operai avrebbero potuto creare le condizioni per una «scomparsa [del]la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro» .

Nel libro I di Il capitale, Marx evidenziò che nel comunismo si sarebbero create le condizioni per una forma di «cooperazione pianificata», in virtù della quale «l’operaio si [sarebbe] spoglia[to] dei suoi limiti individuali e [avrebbe] sviluppa[to] la facoltà della sua specie» . Nel libro II, scrisse che nel comunismo la società sarebbe stata in grado di «calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e di sussistenza adoperare». Sarebbe stato un altro elemento di distinzione capitalismo, sistema nel quale «l’intelletto sociale si fa valere sempre soltanto post festum, [facendo] così intervenire, costantemente, grandi perturbamenti» . La produzione socialista si differenzierebbe da quella basata sul lavoro salariato, poiché porrebbe i suoi fattori determinanti sotto il governo collettivo, assumendo un carattere immediatamente generale e trasformando il lavoro in una vera attività sociale.

È una concezione di società agli antipodi della «guerra di tutti contro tutti» teorizzata da Thomas Hobbes (1588-1679). In riferimento al tema della cosiddetta libera concorrenza, ovvero l’apparente eguaglianza con la quale operai e capitalisti si trovano posti sul mercato nella società borghese, Marx dichiarò che essa era tutt’altro dalla libertà umana tanto esaltata dagli esegeti del capitalismo. Egli ritenne che questo sistema costituiva un grande impedimento per la democrazia e mostrò che i lavoratori non ricevono il corrispettivo di quello che producono. Nei Grundrisse, spiegò che quanto veniva rappresentato come uno «scambio di equivalenti» era, invece, «appropriazione di lavoro altrui senza scambio, ma sotto la parvenza dello scambio» . Le relazioni tra le persone erano «determinate soltanto dai loro interessi egoistici». Questa «collisione di individui» era stata spacciata come la «forma assoluta di esistenza della libera individualità nella sfera della produzione e dello scambio». Per Marx non vi era, in realtà, «niente di più falso», poiché, «nella libera concorrenza, non gli individui, ma il capitale è posto in condizioni di libertà» . Nei Manoscritti economici del 1861-1863 egli denunciò che era «il capitalista a incassare questo pluslavoro – [che era …] tempo libero [e …] la base materiale dello sviluppo e della cultura in generale […] – in nome della società» . Nel libro I di Il capitale, denunciò che la ricchezza della borghesia è possibile solo mediante la «trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse» .

Sempre nei Grundrisse, Marx osservò che nel capitalismo «gli individui sono sussunti dalla produzione sociale» , la quale esiste come qualcosa che è a «loro estraneo» . Essa viene realizzata solamente in funzione dell’attribuzione del valore di scambio conferito ai prodotti. Inoltre, «tutti i fattori sociali della produzione» , comprese le scoperte scientifiche che si palesano come «una scienza altrui, esterna all’operaio» , sono posti dal capitale. Lo stesso associarsi degli operai nei luoghi e nell’atto della produzione è «operato dal capitale» ed è, pertanto, «soltanto formale». L’uso dei beni creati da parte dei lavoratori «non è mediat[o] dallo scambio di lavori o di prodotti di lavoro reciprocamente indipendenti [, bensì …] dalle condizioni sociali della produzione entro le quali agisce l’individuo» . Marx sosteneva che l’attività produttiva nella fabbrica «riguarda solo il prodotto del lavoro, non il lavoro stesso» , dal momento che avviene «in un ambiente comune, sotto vigilanza, irreggimentazione, maggiore disciplina, immobilità e dipendenza» .

Per ribaltare questo stato di cose, contrariamente a quanto credevano molti socialisti contemporanei a Marx, non sarebbe bastato modificare la redistribuzione dei beni di consumo. Occorreva modificare alla radice gli assetti produttivi della società. Fu per questo che, nei Grundrisse, Marx annotò che «lasciare sussistere il lavoro salariato e, allo stesso tempo, sopprimere il capitale [era] una rivendicazione che si autocontraddice[va]» . Occorreva, viceversa, la «dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio» . Nel discorso pubblicato con il titolo Salario, prezzo e profitto (1865), egli ammonì gli operai affinché sulle loro bandiere non apparisse «la parola d’ordine conservatrice “Equo salario per un’equa giornata di lavoro”», ma il «motto rivoluzionario “Soppressione del sistema del lavoro salariato”» .

Per di più, come dichiarato nella Critica del programma di Gotha, nel modo di produzione capitalistico «le condizioni materiali della produzione [erano] a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e di proprietà della terra, mentre la massa [era] soltanto proprietaria della [propria] forza lavoro» . Pertanto, era essenziale rovesciare i rapporti proprietari alla base del modo di produzione borghese. Nei Grundrisse, Marx ricordò che «le leggi della proprietà privata – ovvero la libertà, l’uguaglianza, la proprietà sul lavoro e la sua libera disposizione – si riversano nella mancanza di proprietà dell’operaio, nell’espropriazione del suo lavoro e nel suo riferirsi a esso come proprietà altrui» .

In un intervento pronunciato, nel 1869, al Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Marx affermò che la «proprietà privata dei mezzi di produzione» serviva soltanto ad assicurare alla classe borghese il «potere con il quale essa [avrebbe] costr[etto] altri esseri umani a lavorare» per lei. Egli ribadì lo stesso concetto in un altro breve scritto politico, il Programma elettorale dei lavoratori socialisti (1880), aggiungendo che «i produttori possono essere liberi solo quando sono in possesso dei mezzi di produzione» e che l’obiettivo della lotta del proletariato deve essere la «restituzione alla comunità di tutti i mezzi di produzione» .

Nel libro III di Il capitale, Marx osservò che quando i lavoratori avrebbero instaurato un modo di produzione comunista «la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui [sarebbe] appar[sa] così assurda come la proprietà privata di un essere umano da parte di un altro essere umano». Egli manifestò la sua più radicale critica verso l’idea di possesso distruttivo insita nel capitalismo, ricordando che «anche un’intera società, una nazione, o anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra». Per Marx, gli esseri umani erano «soltanto […] i suoi usufruttuari» e, dunque, avevano «il dovere di tramandare alle generazioni successive [il mondo] migliorato, come boni patres familias» .

Un diverso assetto della proprietà dei mezzi di produzione avrebbe mutato alla radice anche i tempi di vita della società. Nel libro I di Il capitale, Marx disvelò, con inequivocabile chiarezza, le ragioni per le quali, nel capitalismo, «l’economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva del lavoro non ha affatto lo scopo di accorciare la giornata lavorativa». Il tempo che il progredire della tecnica e della scienza renderebbe disponibile per i singoli viene, infatti, immediatamente convertito in pluslavoro. La classe dominante ha come unica ambizione quella di «ridurre il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci» . Il suo unico scopo è quello di sviluppare la forza produttiva con il solo fine di «abbrevia[re] la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per sé stesso, per prolungare […] la parte […] nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista» . Questo sistema differisce dalla schiavitù o dalle corvée dovute al signore feudale, poiché «pluslavoro e lavoro necessario sfumano l’uno nell’altro» e rendono più difficilmente percettibile l’entità dello sfruttamento.

Nei Grundrisse, Marx mise bene in evidenza che è solo grazie a questo surplus del tempo di lavoro di tutti che si rende possibile il «tempo libero per alcuni» . La borghesia consegue l’accrescimento delle sue facoltà materiali e culturali solo grazie alla limitazione imposta a quello del proletariato. Lo stesso accade nelle nazioni capitalisticamente più avanzate, a discapito delle periferie del sistema. Nei Manoscritti del 1861-1863, Marx ribadì che il progresso della classe dominante è speculare alla «mancanza di sviluppo della massa lavoratrice» . Il tempo libero della prima «corrisponde al tempo asservito» dei lavoratori; «lo sviluppo sociale dell’una fa del lavoro di [questi] altr[i] la propria base naturale» . Questo tempo di pluslavoro degli operai non solo è il pilastro sul quale poggia la «esistenza materiale» della borghesia, ma crea la condizione anche per il suo «tempo libero, la sfera del [suo] sviluppo». Come meglio non avrebbe potuto dichiarare: «il tempo libero dell’una corrisponde al […] tempo soggiogato al lavoro […] dell’altra» .

Per Marx, al contrario, la società comunista sarebbe stata caratterizzata da una diminuzione generalizzata dei tempi di lavoro. Nel documento Istruzioni per i delegati del Consiglio Generale provvisorio. Le differenti questioni (1867), da lui predisposto per il primo congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori, enunciò che la riduzione della giornata lavorativa era la «condizione preliminare senza la quale [sarebbero] aborti[ti] tutti gli ulteriori tentativi di miglioramento e di emancipazione». Era necessario non solo «fare recuperare l’energia e la salute alla classe lavoratrice», ma anche «fornire a essa la possibilità di sviluppo intellettuale, di relazioni e attività sociali e politiche» . Nel libro I di Il capitale, Marx argomentò che il «tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per la libera espressione delle energie vitali, fisiche e mentali», considerati dai capitalisti «fronzoli puri e semplici» , sarebbe stato l’elemento fondativo della nuova società. Il decremento delle ore destinate al lavoro – non solo del tempo di lavoro necessario per creare nuovo pluslavoro in favore della classe capitalista – avrebbe favorito, così appuntò Marx nei Grundrisse, «il libero sviluppo delle individualità», ovvero «la formazione e lo sviluppo artistico e scientifico […] degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro» .

Sulla base di queste convinzioni, egli ravvisò nella «economia di tempo, e [nella] ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, la prima legge economica alla base della produzione sociale» . Nelle Teorie sul plusvalore (1862-63) precisò, ancor più, che «la ricchezza non è niente altro che tempo disponibile». Nella società comunista l’autogestione dei lavoratori avrebbe dovuto assicurare una maggiore quantità di tempo che non doveva essere «assorbito dal lavoro immediatamente produttivo[, ma] dar[e] luogo al godimento, all’ozio e, pertanto, alla libera attività e al libero sviluppo» .

In questo testo, così come nei Grundrisse, Marx citò un breve pamphlet intitolato La fonte e il rimedio delle difficoltà nazionali dedotte dai principi di economia politica in una lettera al signor John Russell (1821), del quale condivise pienamente la definizione di benessere formulata dall’anonimo autore: «una nazione si può dire veramente ricca, quando in essa invece di lavorare per 12 ore si lavora soltanto per sei. La ricchezza reale non è l’imposizione del tempo di lavoro supplementare, ma è il tempo [che viene reso] disponibile a ogni individuo e a tutta la società, fuori da quello usato nella produzione immediata» . La medesima idea si trova ribadita in un altro brano dei Grundrisse, nel quale Marx domandò retoricamente: «che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive degli individui? […] Che cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle [loro] doti creative?» . È evidente, dunque, che il modello socialista al quale egli guardava non contemperava uno stato di miseria generalizzata, ma il conseguimento di una maggiore ricchezza collettiva.

Per Marx, vivere in una società non alienata significava costruire un’organizzazione sociale nella quale si conferiva un valore fondamentale alla libertà individuale. Il suo comunismo fu radicalmente diverso tanto dal livellamento delle classi, auspicato da diversi suoi predecessori, quanto dalla grigia uniformità politica ed economica, realizzata da molti suoi seguaci. Nell’Urtext (1858), però, pose l’accento anche sull’«errore di quei socialisti, specialmente francesi», che, considerando «il socialismo [quale] realizzazione delle idee borghesi», avevano cercato di «dimostrare che il valore di scambio [fosse], originariamente […], un sistema di libertà ed eguaglianza per tutti, […] falsificato […] [poi] dal capitale» . Nei Grundrisse Marx etichettò come «insulsaggine [quella] di considerare la libera concorrenza quale ultimo sviluppo della libertà umana».

Difatti, questa tesi «non significa[va] altro se non che il dominio della borghesia [era] il termine ultimo della libertà umana», idea che, ironicamente, Marx definì «allettante per i parvenus». Allo stesso modo, egli contestò l’ideologia liberale secondo la quale «la negazione della libera concorrenza equivale alla negazione della libertà individuale e della produzione sociale basata sulla libertà individuale». Nella società borghese si rendeva possibile soltanto un «libero sviluppo su base limitata, sulla base del dominio del capitale». A suo avviso, «questo genere di libertà individuale [era], al tempo stesso, la più completa soppressione di ogni libertà individuale e il più completo soggiogamento dell’individualità alle condizioni sociali, le quali assumono la forma di poteri oggettivi [… e] oggetti indipendenti […] dagli stessi individui e dalle loro relazioni» . Come scrisse nel libro III di Il capitale (1894):

di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi, per sua natura, oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa .

Questa produzione dal carattere sociale, insieme con i progressi tecnologici e scientifici e la conseguente riduzione della giornata lavorativa, crea le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale, in cui il lavoro coercitivo e alienato, imposto dal capitale e sussunto dalle sue leggi, viene progressivamente sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità; e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale in funzione delle merci e del denaro. Non è più il regno della libertà del capitale, ma quello dell’autentica libertà umana.

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