Marx, una biografia intellettuale e politica
Da molti anni Marcello Musto percorre la via dello studio di Marx attraverso la considerazione parallela della biografia del pensatore di Treviri e della sua produzione teorica.
Un confronto che anche nel caso di altri autori (si pensi a Gramsci) ha dato ottimi frutti e che appare tanto più necessario quando l’autore in questione è anche un rivoluzionario, un pensatore che ha la speranza di mettere almeno parzialmente a frutto le sue idee per influenzare la scena politica. Anche questo ultimo lavoro di Musto, Karl Marx. Biografia intellettuale e politica 1857-1883 (Torino, Einaudi, 2018, pp. 329) adotta il metodo dei precedenti, concentrando la propria lente focale su uno dei periodi più rilevanti della vita di Marx, il quindicennio 1857-1883, dai Grundrisse al Capitale, dalla critica dell’economia politica alla fondazione dell’Internazionale, dalla perdita delle speranze rivoluzionarie agli anni della sua maggiore influenza politica e culturale.
Dagli anni Cinquanta in poi, infatti, Marx (il Moro, come era chiamato e amava farsi chiamare) fa vita ritirata, da studioso, tra problemi economici familiari,
malattie, devastato dalla sua scrupolosità scientifica, colpito dalle sue errate previsioni sullo scoppio di una rivoluzione più volte ritenuta imminente. Egli matura
la consapevolezza che la «crisi risolutiva» non esiste. La certezza della «rivoluzione alle porte», che di nuovo lui ed Engels avevano maturato dal 1856, lascia il posto alla disillusione, ma anche allo studio accanito, all’indagine scientifica. Da qui scaturirà la maggiore opera di Marx, un’opera incompiuta, sottolinea Musto, che segue il work in progress del Capitale lungo molti anni, dando conto dei lavori preparatori, delle varie stesure, delle difficoltà affrontate.
In parallelo, un interesse per la politica che non viene mai meno, dallo sguardo particolare sulle cose tedesche (del 1861 è la visita a Berlino a Lassalle, futuro
acerrimo nemico) agli articoli sulla guerra civile americana e sul colonialismo. E, soprattutto, la fondazione (nel 1864) dell’Associazione internazionale dei lavoratori, poi nota come Prima Internazionale. E quindi la Comune, di cui Marx vede subito i limiti, ma di cui sa cogliere l’immenso valore politico.
Molte energie sono spese da Marx nella lotta contro le altre correnti dell’Internazionale. In primo luogo i «mutualisti» seguaci di Proudhon, riformisti che ritengono che «l’emancipazione sarebbe stata raggiunta tramite la fondazione di cooperative di produzione» (p. 107), che non accettano l’obiettivo della «socializzazione dei mezzi di produzione», accolto infine dal Congresso di Bruxelles del 1868. Tale «socializzazione dei mezzi di produzione» vuol dire per Marx che essi «dovranno appartenere alla società, rappresentata dallo Stato, ma uno Stato esso stesso soggetto alle leggi di giustizia», ovvero che cave, bacini carboniferi e le altre miniere, le ferrovie, ecc. «verranno concessi non a compagnie di capitalisti […] ma ad associazioni di lavoratori » (p. 108).
La vittoria contro i mutualisti è vittoria contro coloro che respingono la tesi della necessaria conquista dello Stato da parte del proletariato, che il Moro propugna.
D’altra parte, però, egli lotta accanitamente anche contro i lassalliani, che credevano che sarebbe stato possibile instaurare il socialismo con l’aiuto fondamentale dello Stato borghese, appoggiandosi allo Stato esistente e non conquistandolo e rifondandolo (una discussione aperta in fondo ancora oggi). E infine contro gli anarchici, che con l’adesione di Bakunin all’Internazionale (adesione ambigua, segnata da secondi fini e organizzazioni segrete e parallele) diverranno il principale nemico. La lotta contro gli anarchici segnerà anche la fine dell’Associazione, con lo spostamento (proposto da Engels) del suo Consiglio direttivo a New York: Marx preferiva rinunciare a un centro unico di coordinamento mondiale piuttosto che vederlo cadere nelle mani delle correnti più settarie ed estremistiche. Ma in realtà – spiega Musto – l’Internazionale si era troppo ampliata per continuare ad avere la struttura con cui era nata nel 1864, e stava cambiando il panorama politico, col rapido rafforzamento degli Stati nazionali, e anche con la repressione seguita alla Comune di Parigi. In quegli anni Marx modifica alcune convinzioni precedenti. Egli perviene alla idea che fosse necessario costituire nelle diverse realtà nazionali dei partiti proletari autonomi dalle forze democratico-borghesi (p. 135), superando dunque alcune enunciazioni del Manifesto. Ancora una citazione, fra i tantissimi spunti presenti nel libro, mi pare meriti almeno la collaborazione tra Marx e il leader socialista francese Jules Guesde, per mettere a punto il Programma elettorale dei lavoratori
socialisti. Da esso si evincono alcune idee politiche fondamentali di Marx: un potere decentrato che garantisca la partecipazione, la trasformazione di tutte le imposte dirette in una imposta progressiva, uno Stato laico, una istruzione per tutti, l’annullamento dei contratti di privatizzazione di banche, ferrovie, ecc. Ma anche la convinzione per cui la classe lavoratrice debba «opporsi a ogni forma di socialismo di Stato e mobilitarsi per conseguire l’autogestione delle officine, attraverso l’affidamento “di tutte le fabbriche dello Stato […] agli operai che in esse lavorano”» (p. 183). Il 1880 è anche l’anno dell’Inchiesta operaia redatta
da Marx per i lavoratori francesi, 101 domande diffuse in 25.000 copie dalla Revue Socialiste. Marx chiede agli operai di descrivere la fabbrica in cui lavoravano, il tempo e il tipo di lavoro, i problemi che ne derivavano alla salute, il salario (a tempo o a cottimo, settimanale o mensile). E il conflitto di classe: scioperi, società di mutuo soccorso, ecc. Un modello, l’inchiesta operaia, che sarà ripreso nel Novecento, e che andrebbe ripreso ancora oggi, per conoscere quella realtà di classe che col Moro è necessario continuare a ritenere fondamentale.