I. I limiti del “giovane Marx”
L’alienazione è stata una delle teorie più rilevanti e dibattute del XX secolo e la concezione che ne elaborò Marx assunse un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema. A favorire la diffusione di questa complessa tematica fu la pubblicazione, nel 1932, di un inedito appartenente alla produzione giovanile di Marx, i Manoscritti economico filosofici del 1844. In questo testo, che finì con l’assumere un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema, mediante l’introduzione della categoria di lavoro alienato (entfremdete Arbeit), Marx non solo traghettò la problematica dell’alienazione dalla sfera filosofica, religiosa e politica a quella economica della produzione materiale, ma fece di quest’ultima il presupposto fondamentale per comprendere e poter superare le prime . A differenza di molti dei suoi critici e presunti seguaci, Marx trattò l’alienazione sempre come un fenomeno storico e non naturale.
Tuttavia, le riflessioni contenute in questi appunti – scritti da un autore appena ventiseienne – sintetizzano un pensiero frammentario e ancora molto parziale, se rapportato al complesso della sua elaborazione teorica . Ciò nonostante, i Manoscritti economico filosofici del 1844 sono stati considerati, erroneamente, come il principale testo marxiano relativo alla teoria dell’alienazione ed è stato a partire da esso che numerosi autori hanno esteso oltremodo il significato di questo concetto, sino a renderlo generico e privo di quel potenziale critico e anticapitalista che gli era stato conferito da Marx.
Fu così per Herbert Marcuse che finì con identificare l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. Nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, egli sostenne che il «carattere di peso del lavoro» non poteva essere ricondotto meramente a «determinate condizioni presenti nell’esecuzione del lavoro, alla sua organizzazione tecnico-sociale» , ma andava considerato come uno dei suoi tratti fondamentali. Per Marcuse esisteva una «negatività originaria del fare lavorativo», che egli reputava appartenere alla «essenza stessa dell’esistenza umana» . La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. Il superamento dell’alienazione fu ritenuto possibile soltanto attraverso il gioco, momento nel quale l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva: «un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico» . In Eros e civiltà, Marcuse prese le distanze dalla concezione marxiana in modo netto. Egli affermò che l’emancipazione dell’uomo poteva realizzarsi solo mediante la liberazione dal lavoro (abolition of labor) e attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il concetto di alienazione approdò anche nell’ambito della psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud, per la quale, nella società borghese, l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione , deve necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni. Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta ad un mero fenomeno soggettivo.
Diversamente dalla maggioranza dei suoi colleghi, Erich Fromm non separò mai le manifestazioni dell’alienazione dal contesto storico capitalistico e con i suoi scritti Psicoanalisi della società contemporanea e L’uomo secondo Marx si servì di questo concetto per tentare di costruire un ponte tra la psicoanalisi ed il marxismo. Tuttavia, Fromm affrontò questa problematica privilegiando sempre l’analisi soggettiva e la sua concezione di alienazione, riassunta come «una forma di esperienza per la quale la persona conosce se stessa come un estraneo» , risultò troppo circoscritta al singolo. La sua interpretazione della concezione dell’alienazione presente in Marx si basò sui soli Manoscritti economico-filosofici del 1844 e si caratterizzò per una profonda incomprensione della specificità e della centralità del concetto di lavoro alienato nel pensiero di Marx.
A partire dagli anni Quaranta, in un periodo caratterizzato dagli orrori della guerra, dalla conseguente crisi delle coscienze e, nel panorama filosofico francese, dal neohegelismo di Alexandre Kojeve, il fenomeno dell’alienazione fu affrontato anche da Jean-Paul Sartre e dagli esistenzialisti francesi . Tuttavia, anche in questa circostanza, la nozione di alienazione assunse un profilo molto più vago di quello esposto da Marx. Essa fu identificata con un indistinto disagio dell’uomo nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, significativamente, come condition humaine non sopprimibile. I filosofi esistenzialisti non fornirono una specifica origine sociale dell’alienazione, ma, tornando ad assimilarla con ogni fatticità (il fallimento dell’esperienza socialista in Unione sovietica favorì certamente l’affermazione di questa posizione), concepirono l’alienazione come un generico senso di alterità umana.
Se Marx aveva contribuito a sviluppare una critica della soggezione umana basata sull’opposizione ai rapporti di produzione capitalistici , gli esistenzialisti, invece, intrapresero una strada diversa, ovvero tentarono di riassorbire il pensiero di Marx, attraverso quelle parti della sua opera giovanile che potevano risultare più utili alle loro tesi, in una discussione priva di una specifica critica storica e, a tratti, meramente filosofica . Inoltre, alcune frasi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono estrapolate dal loro contesto e trasformate in citazioni sensazionali con lo scopo di dimostrare la presunta esistenza di un “nuovo Marx”, radicalmente diverso da quello fino ad allora conosciuto, perché intriso di teoria filosofica e ancora privo del determinismo economico che alcuni suoi commentatori attribuivano ad Il capitale, testo, a dire il vero, molto poco letto da quanti sostennero questa tesi. Anche rispetto al solo manoscritto del 1844, gli esistenzialisti francesi privilegiarono di gran lunga la nozione di autoalienazione (Selbstentfremdung), ovvero, il fenomeno per il quale il lavoratore è alienato dal genere umano e dai suoi simili, che Marx aveva trattato nel suo scritto giovanile, ma sempre in relazione all’alienazione oggettiva.
Negli anni Sessanta, l’esegesi della teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 divenne il pomo della discordia rispetto all’interpretazione generale di Marx. In questo periodo venne concepita la distinzione tra due presunti Marx: il “giovane Marx” e il “Marx maturo” . Questa arbitraria ed artificiale contrapposizione fu alimentata sia da quanti preferirono il Marx delle opere giovanili e filosofiche (ad esempio la gran parte degli esistenzialisti), sia da quanti (tra questi Louis Althusser e quasi tutti i marxisti sovietici) affermarono che il solo vero Marx fosse quello de Il capitale. Coloro che sposarono la prima tesi considerarono la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il punto più significativo della critica marxiana della società; mentre quelli che abbracciarono la seconda ipotesi mostrarono, spesso, una vera e propria «fobia dell’alienazione»; tentando, in un primo momento, di minimizzarne il rilievo e, quando ciò non fu più possibile, considerando il tema dell’alienazione come «un peccato di gioventù, un residuo di hegelismo» , successivamente abbandonato da Marx. I primi rimossero la circostanza che la concezione dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 era stata scritta da un autore appena agli albori dei suoi studi principali; i secondi, invece, non vollero riconoscere l’importanza della teoria dell’alienazione in Marx anche quando, con la pubblicazione di nuovi inediti, divenne evidente che egli non aveva mai smesso di occuparsene nel corso della sua esistenza e che essa, anche se mutata, aveva conservato un posto di rilievo nelle tappe principali dell’elaborazione del suo pensiero.
Sostenere, come affermarono in tanti, che la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 fosse il tema centrale del pensiero di Marx è un falso che denota soltanto la scarsa familiarità con la sua opera da parte di coloro che propesero per questa tesi. D’altro canto, quando Marx ritornò ad essere l’autore più discusso e citato nella letteratura filosofica mondiale proprio per le sue pagine inedite relative all’alienazione, il silenzio dell’Unione sovietica su questa tematica, e sulle controversie ad essa legate, fornisce uno dei tanti esempi di utilizzo strumentale dei suoi scritti in quel paese. Infatti, l’esistenza del fenomeno dell’alienazione in Unione sovietica, così come nei suoi paesi satelliti, fu semplicemente negata e tutti i testi che trattavano questa problematica vennero ritenuti sospetti. Secondo Henry Lefebvre: «nella società sovietica non poteva, non doveva più essere questione di alienazione. Il concetto doveva sparire, per ordine superiore, per la ragion di Stato» . E, così, fino agli anni Settanta, furono pochissimi gli autori che, nel cosiddetto “campo socialista”, scrissero opere in proposito.
II. La trasformazione del concetto
Nel frattempo, in Europa occidentale, la descrizione di una condizione di estraneazione generalizzata, prodotta da un controllo sociale invasivo e dalla manipolazione dei bisogni creata dalla capacità d’influenza dei mass-media, fu avanzata da Max Horkheimer e Theodor Adorno, i due esponenti di punta della scuola di Francoforte. In Dialettica dell’illuminismo, essi affermarono che «la razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. È il carattere coatto […] della società estraniata a se stessa» . In questo modo, essi avevano posto in evidenza come, nel capitalismo contemporaneo, persino la sfera del divertimento, un tempo libera ed alternativa al lavoro, fosse stata assorbita negli ingranaggi della riproduzione del consenso.
In ambito marxista, la riscoperta della teoria dell’alienazione si accompagnò al successo di Storia e coscienza di classe, il libro nel quale, già nel 1923, György Lukács aveva elaborato il concetto di reificazione (Verdinglichung o Versachlichung), ovvero il fenomeno attraverso il quale l’attività lavorativa si contrappone all’uomo come qualcosa di oggettivo ed indipendente e lo domina mediante leggi autonome ed a lui estranee. Nei tratti fondamentali, però, la teoria di Lukács era ancora troppo simile a quella hegeliana, poiché anche egli aveva concepito la reificazione come un “fatto strutturale fondamentale” . Così, quando dopo la comparsa della traduzione francese, nel 1960, questo testo tornò ad esercitare una grande influenza tra gli studiosi ed i militanti di sinistra, Lukács decise di ripubblicare il suo scritto in una nuova edizione introdotta da una lunga prefazione autocritica, nella quale, per chiarire la sua posizione, egli affermò: “Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui, anche in questo libro, l’estraneazione viene posta sullo stesso piano dell’oggettivazione” .
In questo periodo, il concetto di alienazione entrò anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Infatti, nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come una problematica che riguardava il singolo essere umano anziché le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente, e non nelle pratiche collettive volte a mutare la società.
Nell’opera dei sociologi statunitensi, quindi, l’alienazione venne concepita come una manifestazione relativa al sistema di produzione industriale, a prescindere se esso fosse capitalistico o socialista, e come una problematica inerente soprattutto la coscienza umana. Questo approccio finì col mettere ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione dell’analisi di questa nozione, la quale, anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, fu assunta non più come una questione sociale, ma quale patologia individuale, e la cui cura riguardava i singoli individui . Ciò determinò un profondo mutamento della concezione dell’alienazione. Se nella tradizione marxista essa rappresentava uno dei concetti critici più incisivi del modo di produzione capitalistico, in sociologia subì un processo di istituzionalizzazione e finì con l’essere considerata come un fenomeno relativo al mancato adattamento degli individui alle norme sociali.
A partire dagli anni Sessanta, esplose una vera e propria moda per la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri e articoli sul tema. Fu il tempo dell’alienazione tout-court. Il periodo nel quale autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, all’anomia, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifesta nel rapporto con le nuove tecnologie; e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, e all’inquinamento ambientale.
Il concetto di alienazione sembrò riflettere alla perfezione lo spirito del tempo. La popolarità del termine e la sua applicazione indiscriminata diedero origine, però, ad una profonda ambiguità teorica . Così, nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e lo spropositato ampliamento della sua nozione generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno così tanto diffuso da apparire immodificabile.
Successivamente, la teoria dell’alienazione approdò anche alla critica della produzione immateriale. Con il libro La società dello spettacolo, divenuto dopo la sua uscita nel 1967 un vero e proprio manifesto di critica sociale per la generazione di studenti in rivolta contro il sistema, Guy Debord riprese alcune delle tesi già avanzate da Horkheimer e Adorno, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente. Debord affermò che, nelle circostanze date, il non-lavoro non poteva più essere considerato come una sfera differente dall’attività produttiva.
Anche Jean Baudrillard utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi (1970), egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna, prendendo così le distanze dalla concezione marxiana ancorata alla centralità della produzione. Secondo Baudrillard «l’era del consumo», in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche «l’era dell’alienazione radicale» . Le conclusioni politiche di questi autori furono, però, confuse e pessimistiche e, di certo, lontane da Marx e dalla sua individuazione della classe lavoratrice quale soggetto rivoluzionario di riferimento.
III. Alienazione e conflitto sociale
Gli scritti di Marx ebbero un ruolo fondamentale per coloro che tentarono di opporsi alle tendenze, manifestatesi nell’ambito delle scienze sociali, di mutare il senso del concetto di alienazione. L’attenzione rivolta alla teoria dell’alienazione in Marx, inizialmente incentrata sui Manoscritti economico-filosofici del 1844, si spostò, dopo la pubblicazione di ulteriori inediti, su nuovi testi e con essi fu possibile ricostruire il percorso della sua elaborazione dagli scritti giovanili ad Il capitale. Quando nel 1857, dopo una lunga pausa, Marx riprese a scrivere di economia nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (i cosiddetti Grundrisse), egli tornò ad utilizzare il concetto di alienazione ripetutamente. La sua esposizione ricordava, per molti versi, quella dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, anche se, grazie agli studi condotti nel frattempo, la sua analisi risultò essere molto più approfondita:
“il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte dagli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto tra le cose; la capacità personale in una capacità delle cose” .
Nei Grundrisse, la descrizione dell’alienazione acquisì maggiore spessore rispetto a quella compiuta negli scritti giovanili, essendo stata arricchita, nel tempo, dalla comprensione di importanti categorie economiche e da una più rigorosa analisi sociale. Accanto al nesso tra alienazione e valore di scambio, tra i passaggi più brillanti che delinearono le caratteristiche di questo fenomeno della società moderna figurano anche quelli in cui l’alienazione venne messa in relazione con la contrapposizione tra capitale e «forza-lavoro viva»:
“le condizioni oggettive del lavoro vivo si presentano come valori separati, autonomizzati di fronte alla forza-lavoro viva quale esistenza soggettiva […], sono presupposte come un’esistenza autonoma di fronte ad essa, come l’oggettività di un soggetto che si distingue dalla forza-lavoro vivo e le si contrappone autonomamente; la riproduzione e la valorizzazione, ossia l’allargamento di queste condizioni oggettive è perciò al tempo stesso la riproduzione e la nuova produzione di esse in quanto ricchezza di un soggetto che è estraneo, indifferente e si contrappone autonomamente alla forza-lavoro. Ciò che viene riprodotto e nuovamente prodotto non è soltanto l’esistenza di queste condizioni oggettive del lavoro vivo, ma la loro esistenza di valori autonomi, ossia appartenenti ad un soggetto estraneo, opposto a questa forza-lavoro viva. Le condizioni oggettive del lavoro acquistano un’esistenza soggettiva di fronte alla forza-lavoro viva – dal capitale nasce il capitalista” .
I Grundrisse non furono l’unico testo della maturità di Marx in cui ricorre, con frequenza, la problematica dell’alienazione. Un lustro dopo la loro stesura, infatti, essa riapparve in Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, manoscritto nel quale l’analisi economica e quella politica dell’alienazione vennero messe in maggiore relazione tra loro: «il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore» . In queste bozze preparatorie de Il capitale, Marx pose in evidenza che nella società capitalistica, mediante «la trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale» , si realizza una vera e propria «personificazione delle cose e reificazione delle persone», ovvero si crea un’apparenza in forza della quale «non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro, appaiono sottomessi al lavoratore, ma egli ad essi» . In realtà, a suo giudizio:
“il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose. Senza salariato, dacché gli individui si fronteggiano come persone libere, niente produzione di plusvalore; senza produzione di plusvalore, niente produzione capitalistica, quindi niente capitale e niente capitalisti! Capitale e lavoro salariato (come noi chiamiamo il lavoro dell’operaio che vende la propria capacità lavorativa) esprimono due fattori dello stesso rapporto. Il denaro non può diventare capitale senza scambiarsi preventivamente contro forza-lavoro che l’operaio vende come merce; d’altra parte, il lavoro può apparire come lavoro salariato solo dal momento in cui le sue proprie condizioni oggettive gli stanno di fronte come potenze autonome, proprietà estranea, valore esistente per sé e arroccato in sé stesso; insomma, capitale” .
Nel modo di produzione capitalistico il lavoro umano è diventato uno strumento del processo di valorizzazione del capitale, che «nell’incorporare la forza-lavoro viva alle sue parti componenti oggettive […] diventa un mostro animato, e comincia ad agire come se avesse l’amore in corpo» . Questo meccanismo si espande su scala sempre maggiore, fino a che la cooperazione nel processo produttivo, le scoperte scientifiche e l’impiego dei macchinari, ossia i progressi sociali generali creati dalla collettività, diventano forze del capitale che appaiono come proprietà da esso possedute per natura e si ergono estranee di fronte ai lavoratori come ordinamento capitalistico:
“le forze produttive […] sviluppate del lavoro sociale […] si rappresentano come forze produttive del capitale. […] L’unità collettiva nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle energie naturali e delle scienze, dei prodotti del lavoro come macchinario – tutto ciò si contrappone agli operai singoli, in modo autonomo, come qualcosa di straniero, di oggettivo, di preesistente, senza e spesso contro il loro contributo attivo, come pure forme di esistenza dei mezzi di lavoro da essi indipendenti e su di essi esercitanti il proprio dominio; e l’intelligenza e la volontà dell’officina collettiva incarnate nel capitalista o nei suoi subalterni, nella misura in cui l’officina collettiva si basa sulla loro combinazione, gli si contrappongono come funzioni del capitale che vive nel capitalista” .
È mediante questo processo, dunque, che, secondo Marx, il capitale diventa qualcosa di «terribilmente misterioso». Accade in questo modo che «le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali torreggianti di fronte all’operaio e, in questa forma, vengono capitalizzate» .
La diffusione, a partire dagli anni Sessanta, de Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito e, soprattutto, dei Grundrisse aprì la strada ad una concezione dell’alienazione differente rispetto a quella egemone in sociologia e in psicologia, la cui comprensione era finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia. La pubblicazione di quella che, dopo i Manoscritti economico-filosofici del 1844 negli anni Trenta, può essere considerata la “seconda generazione” di scritti di Marx sull’alienazione fornì non solo una coerente base teorica per una nuova stagione di studi, ma soprattutto una piattaforma ideologica anticapitalista allo straordinario movimento politico e sociale esploso nel mondo in quel periodo.
IV. Il feticismo della merce e l’alternativa della cooperazione
La più efficace descrizione dell’alienazione realizzata da Marx resta, comunque, quella contenuta nel celebre paragrafo Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano in Il capitale. Al suo interno egli mise in evidenza che, nella società capitalistica, gli uomini sono dominati dai prodotti che hanno creato e vivono in un mondo in cui le relazioni reciproche appaiono «non come rapporti immediatamente sociali tra persone [… ma come], rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose» . Più precisamente:
“l’arcano della forma di merce consiste […] nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, come sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. […] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci” .
Il feticismo, infatti, non venne concepito da Marx come una problematica individuale, ma fu sempre considerato un fenomeno sociale . Non una manifestazione dell’anima, ma un potere reale, una dominazione concreta, che si realizza, nell’economia di mercato, in seguito alla trasformazione dell’oggetto in soggetto. Per questo motivo, egli non limitò la propria analisi dell’alienazione al disagio del singolo essere umano, ma analizzò i processi sociali che ne stavano alla base, in primo luogo l’attività produttiva. Per Marx, inoltre, il feticismo si manifesta in una precisa realtà storica della produzione, quella del lavoro salariato, e non è legato al rapporto tra la cosa in generale e l’uomo, ma da quello che si verifica tra questo e un tipo determinato di oggettività: la merce.
Nella società borghese le proprietà e le relazioni umane si trasformano in proprietà e relazioni tra cose. La teoria che, dopo la formulazione di Lukács, fu designata col nome di reificazione illustrava questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattava da quello delle merci. Diversamente da quanto sostenuto da coloro che hanno negato la presenza di riflessioni sull’alienazione nell’opera matura di Marx, essa non venne sostituta da quella del feticismo delle merci, perché questa ne rappresenta solo un suo aspetto particolare.
L’avanzamento teorico compiuto da Marx rispetto alla concezione dell’alienazione dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 a Il capitale non consiste, però, soltanto in una sua più precisa descrizione, ma anche in una diversa e più compiuta elaborazione delle misure ritenute necessarie per il suo superamento. Se, nel 1844, Marx aveva considerato che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, ne Il capitale, e nei suoi manoscritti preparatori, il percorso indicato per costruire una società libera dall’alienazione divenne molto più complesso. Marx riteneva che il capitalismo fosse un sistema nel quale i lavoratori sono soggiogati dal capitale e dalle sue condizioni, ma egli era anche convinto del fatto che esso avesse creato le basi per una società più progredita e che l’umanità potesse proseguire il cammino dello sviluppo sociale generalizzando i benefici prodotti da questo nuovo modo di produzione. Secondo Marx, a un sistema che produce enorme accumulo di ricchezza per pochi e spoliazione e sfruttamento per la massa dei lavoratori, occorre sostituire «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» . Questo diverso tipo di produzione si differenzierebbe da quello basato sul lavoro salariato, poiché porrebbe i suoi fattori determinanti sotto il governo collettivo, assumendo un carattere immediatamente generale e trasformando il lavoro in una vera attività sociale. La sua creazione non è un processo meramente politico, ma investe necessariamente la trasformazione radicale della sfera della produzione. Come Marx scrisse in Il capitale. Libro III:
“di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi, per sua natura, oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa” .
Questa produzione dal carattere sociale, insieme con i progressi tecnologici e scientifici e la conseguente riduzione della giornata lavorativa, crea le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale. In essa, il lavoro coercitivo e alienato, imposto dal capitale e sussunto dalle sue leggi, viene progressivamente sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale in funzione delle merci e del denaro . Non è più il regno della libertà del capitale, ma quello dell’autentica libertà umana dell’individuo sociale, descritto da Marx in alcune delle sue pagine più brillanti e, paradossalmente, più distanti dal cosiddetto “socialismo reale” eretto, arbitrariamente, in suo nome.
Con la diffusione de Il capitale e dei suoi manoscritti preparatori, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per divenire critica sociale e irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze. Il drammatico aumento di povertà, diseguaglianze e sfruttamento, prodotto su scala globale dal capitalismo degli ultimi decenni, impone che lì vi ritorni, il prima possibile, per non essere nuovamente confinata alle sole pagine dei libri.
References
1. Per una trattazione estesa di questo testo cfr. Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi, Carocci, Roma 2011, pp. 308-12 e 51-4.
2. Per un’antologia completa dei testi marxiani sull’alienazione si rimanda a Marcello Musto (a cura di), Karl Marx. Scritti sull’alienazione, Donzelli, Roma 2018.
3. Herbert Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, in Id., Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 170.
4. Ivi, p. 171.
5. Ivi, p. 155.
6. Con questa espressione Marcuse si riferiva al lavoro fisico e al travaglio, non al lavoro tout court.
7. Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1971, p. 250.
8. Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Edizioni di comunità, Milano 1981, p. 121.
9. Sebbene i filosofi esistenzialisti si servirono spesso di questo concetto, nei loro testi esso non appare così diffusamente come, invece, generalmente si ritiene.
10. Cfr. George Lichtheim, Alienation, in David Sills (ed.), International Encyclopedia of the Social Sciences, vol. I, , Crowell – Macmillan Inc., New York 1968, pp. 264-8, che scrisse: «l’alienazione (che i pensatori romantici avevano attribuito all’aumentata razionalizzazione e specializzazione dell’esistenza) fu attribuita da Marx alla società e specificamente allo sfruttamento del lavoratore da parte del non-lavoratore, ovvero il capitalista. […] Diversamente dai pensatori romantici e dai loro predecessori illuministi del XVIII secolo, Marx attribuì questa disumanizzazione non alla divisione del lavoro per sé, ma alla forma storica che aveva preso sotto il capitalismo», p. 266.
11. Cfr. Ornella Pompeo Faracovi, Il marxismo francese contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1972, p. 28; e István Mészáros, La teoria dell’alienazione in Marx, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 301-2.
12. Cfr. Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi, op. cit., pp. 223-267.
13. Adam Schaff, L’alienazione come fenomeno sociale, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 27 e 53.
14. Eccezione di rilievo a questo atteggiamento fu lo studioso polacco Adam Schaff, che nel libro Il marxismo e la persona umana, Feltrinelli, Milano 1965, mise in evidenza come l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non comportava la scomparsa automatica dell’alienazione, poiché anche nelle società “socialiste” il lavoro conservava il carattere di merce.
15. Henry Lefebvre, Critica della vita quotidiana, vol. I, Dedalo, Bari 1977, p. 62.
16. Max Horkheimer – Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 127.
17. György Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1971, p. 112
18. Ivi, p. XXV.
19. Per una critica delle conseguenze politiche di questa impostazione cfr. David Schweitzer – Felix Geyer, Introduction, in Id. (eds.), Alienation: Problems of Meaning, Theory and Method, Routledge, London 1981, che affermò «riallocando il problema dell’alienazione nell’individuo, anche la soluzione al problema tende a essere posto sull’individuo; ovvero, ci devono essere adattamenti e aggiustamenti individuali in conformità degli assetti e dei valori dominanti», p. 12. Eguale matrice culturale hanno tutte le presunte strategie di disalienazione, promosse dalle amministrazioni aziendali, che vanno sotto il nome di “relazioni umane”. Nel volume James W. Rinehart, The Tiranny of Work: Alienation and the Labour Process, Harcourt Brace Jovanovich, Toronto 1987, si ricorda come queste strategie, lungi dall’umanizzare l’attività lavorativa, sono funzionali alle esigenze padronali e mirano esclusivamente a intensificare il lavoro ed a ridurre i suoi costi per l’impresa.
20. Cfr. Richard Schacht, Alienation, Doubleday, Graden City 1970, il quale notò che «non c’era quasi alcuno aspetto della vita contemporanea che non sia stato discusso nei termini di “alienazione”», p. lix.
21. Cfr. David Schweitzer, Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in philosophy and the social sciences, in Giora Shoham (ed.), Alienation and Anomie Revisited, Ramot, Tel Aviv 1982, secondo cui «il vero significato di alienazione è spesso diluito fino al punto di un’assenza virtuale di significato», p. 57.
22. Cfr. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 70-1.
23. Jean Baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 2010, p. 234.
24. Karl Marx, Grundrisse, La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I, pp. 97-8. Per un’analisi completa di questo testo si rimanda a Marcello Musto (a cura di), I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, ETS, Pisa 2015.
25. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. II, pp. 22-3.
26. Karl Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 20.
27. Ivi, p. 94.
28. Ivi, p. 90.
29. Karl Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, op. cit., p. 37.
30. Ivi, p. 39.
31. Ivi, p. 90.
32. Ivi, p. 96.
33. Karl Marx, Il capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 105.
34. Ivi, pp. 104-5.
35. Su queste tematiche il contributo di Alfonso Maurizio Iacono è imprescindibile. Cfr., in particolare, The History and Theory of Fetishism, Palgrave, New York 2015.
36. Cfr. Adam Schaff, op. cit., pp. 149-50.
37. Karl Marx, Il capitale, op. cit., p. 110.
38. Karl Marx, Il capitale, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 933.
39. Cf. Alfonso Maurizio Iacono, The Ambivalence of Cooperation, in Marcello Musto (Ed.), Marx’s Capital after 150 Years: Critique and Alternative to Capitalism, Routledge, London 2019, in press.