1. Le teorie dei primi socialisti.
In seguito alla Rivoluzione francese e con l’espansione della Rivoluzione industriale, in Europa cominciarono a circolare numerose teorie che avevano il duplice intento di fornire risposte alle domande di giustizia sociale disattese dalla prima e di correggere i drammatici squilibri economici provocati dalla seconda. Le conquiste democratiche ottenute dopo la presa della Bastiglia assestarono un colpo decisivo all’aristocrazia, ma lasciarono pressoché immutata la preesistente sperequazione di ricchezza tra il popolo e le classi dominanti. Il declino della monarchia e l’istituzione della repubblica in Francia non erano stati sufficienti a fare diminuire la povertà.
Fu questo il contesto nel quale sorse quel variegato arco di concezioni definite da Karl Marx e Friedrich Engels (1820-1895), nel Manifesto del partito comunista, «critico-utopistic[he]» . Esse furono ritenute «critiche», poiché coloro che le avevano sostenute si erano opposti, con sfumature diverse, all’ordine sociale esistente e avevano fornito «elementi di grandissimo valore per illuminare gli operai» . D’altro canto, però, si erano dimostrate «utopistiche» , dal momento che i loro fautori avevano presunto di potere realizzare una forma alternativa di organizzazione sociale facendo ricorso alla mera individuazione di idee e principî nuovi e non alla lotta della classe lavoratrice. Secondo Marx ed Engels, i pensatori che li avevano preceduti avevano creduto che CM senza rientro alla prima riga
all’attività sociale dove[sse] subentrare la loro attività inventiva personale, alle condizioni storiche dell’emancipazione del proletariato […] condizioni immaginarie, all’organizzazione del proletariato come classe in un processo graduale […] un’organizzazione della società da essi escogitata di sana pianta. La storia universale dell’avvenire si risolve[va], per essi, nella propaganda e nell’esecuzione pratica dei loro progetti di società.
Nel testo politico più letto della storia dell’umanità, Marx ed Engels avversarono anche molte forme di socialismo, sia del passato che a loro contemporanee. Esse vennero considerate, a seconda dei casi, socialismo «feudale», «piccolo-borghese», «borghese» o – in senso dispregiativo, per evidenziare la loro vuota «fraseologia filosofica» – «tedesco» . La gran parte degli autori di queste teorie era accomunata da due peculiarità. La prima era la convinzione di poter «restaurare gli antichi mezzi di produzione e di scambio e, con essi, i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società». La seconda, invece, ineriva il tentativo, posto in essere da altri, di «imprigionare nuovamente, con la forza, i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà» dai quali erano stati «spezza[ti]». Per queste ragioni, Marx scorse in queste concezioni una forma di socialismo «al contempo reazionario e utopistico».
L’etichetta di «utopisti» assegnata ai primi socialisti, in alternativa a quella di «socialismo scientifico», è stata sovente utilizzata in modo fuorviante e con intento spregiativo . Costoro, infatti, contrastarono l’organizzazione sociale del tempo in cui vissero e contribuirono, sia attraverso i loro scritti che con azioni concrete, alla critica dei rapporti economici esistenti. Dei suoi precursori Marx ebbe, comunque, rispetto . Di Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825) pose in risalto l’enorme divario che lo separava dai suoi rozzi interpreti . A Charles Fourier (1772-1837), pur giudicando come stravaganti «schizzi umoristici» una parte delle sue idee, Marx riconobbe il «grande merito» di avere compreso che l’obiettivo da raggiungere per la trasformazione del lavoro fosse la soppressione non solo del tipo di distribuzione esistente, ma «del modo di produzione» . Nelle teorie di Robert Owen (1771-1858) ravvisò molti elementi degni di interesse e anticipatori del futuro. In Salario, prezzo e profitto, Marx rilevava che Owen già all’inizio dell’Ottocento, in Osservazioni sull’effetto del sistema manifatturiero, aveva «richie[sto] una diminuzione generale della giornata lavorativa quale primo passo per preparare la liberazione della classe operaia» . Inoltre, egli aveva perorato, come nessun altro, la causa della produzione cooperativa.
Ciò nonostante, pur riconoscendo l’influenza positiva che Saint-Simon, Fourier e Owen avevano avuto sul nascente movimento operaio, Marx espresse nei loro confronti un giudizio complessivamente negativo. Egli criticò i suoi predecessori per aver ipotizzato di risolvere le problematiche sociali del tempo mediante la progettazione di chimere irrealizzabili e per aver consumato molto del loro tempo nell’irrilevante esercizio teorico di costruire «castelli in aria».
Marx non contestò solo le proposte da lui giudicate impraticabili o errate, ma stigmatizzò soprattutto l’idea che il cambiamento sociale avvenisse attraverso modelli aprioristici, metastorici e ispirati a una precettistica dogmatica. Anche l’enfasi moralistica dei primi socialisti fu oggetto di giudizio negativo . Negli Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin, Marx criticò il «socialismo utopistico [perché voleva] dare da bere al popolo nuove fantasie, invece di limitare la sua scienza alla conoscenza del movimento sociale fatto dal popolo stesso» . A suo avviso, le condizioni per la rivoluzione non potevano essere importate dall’esterno.
2. I limiti dei precursori.
Una delle tesi più comuni, tra quanti, dopo il 1789, continuarono a battersi per un nuovo e più giusto ordine sociale, non ritenendo esaurienti i pur fondamentali mutamenti politici seguiti alla fine dell’Ancien régime, si basava sul presupposto che tutti i mali della società sarebbero cessati nel momento in cui fosse stato instaurato un sistema di governo fondato sull’assoluta eguaglianza di tutti i suoi componenti.
Questa idea di comunismo primordiale e, per molti versi, dittatoriale fu il principio guida della Congiura degli eguali, la cospirazione promossa, nel 1796, per sovvertire il Direttorio francese. Nel Manifesto degli eguali, Sylvain Maréchal (1750-1803) argomentò che «poiché tutti [gli esseri umani] hanno gli stessi bisogni e le stesse facoltà», non avrebbero dovuto esserci che «una sola educazione e un solo [tipo di] nutrimento». «Perché – si domandava Maréchal – non dovrebbe bastare a ciascuno […] la stessa quantità e la stessa qualità di alimenti?» . Anche la figura di spicco della congiura del 1796, François-Noël Babeuf (1760-1797), era dell’idea che, tramite l’applicazione del «grande principio dell’uguaglianza […] [il] cerchio dell’umanità» si sarebbe esteso e, «gradualmente, frontiere, dogane e cattivi governi [sarebbero] scompar[si]».
Il tema della costruzione di una società basata su un regime di rigida uguaglianza economica riapparve, in Francia, nella pubblicistica comunista successiva alla Rivoluzione di luglio del 1830. In Viaggio a Icaria, un manifesto politico scritto sotto forma di romanzo, Étienne Cabet (1788-1856) indicò come modello una comunità nella quale non sarebbero esistiti né «proprietà, né soldi, [né] vendite, né acquisti» e dove gli esseri umani sarebbero stati «uguali in tutto» . In questa «seconda terra promessa» , la legge avrebbe regolato qualsiasi aspetto della vita: «ogni casa [avrebbe avuto] quattro piani» e «tutti [si sarebbero] vest[iti] allo stesso modo».
Auspici in favore dell’attuazione di relazioni rigidamente egualitarie si trovano anche nell’opera di Théodore Dézamy (1808-1850). Ne Il codice della comunità, egli prefigurò un mondo «diviso in comuni, i cui territori saranno il più possibile uguali, regolari e uniti»; al loro interno sarebbero esistiti «un’unica cucina» e un solo «dormitorio comune» per tutti i bambini. Tutta la cittadinanza avrebbe vissuto come «una sola famiglia, [in] una sola e unica casa».
Vedute analoghe a quelle tanto diffuse in Francia si affermarono anche in Germania. In L’umanità come è e come dovrebbe essere, Wilhelm Weitling (1808-1871) preconizzò che la soppressione della proprietà privata avrebbe automaticamente eliminato l’egoismo, da lui semplicisticamente considerato come la principale causa di tutti i problemi sociali. Secondo Weitling, l’introduzione della «comunanza dei beni» sarebbe stato «il mezzo di redenzione dell’umanità; [avrebbe] trasforma[to] la terra in paradiso» e avrebbe generato immediatamente «un’enorme sovrabbondanza».
Tutti i pensatori che propugnavano simili concezioni incorsero nel medesimo duplice errore. Essi diedero per scontato che l’adozione di un modello sociale basato sulla rigida uguaglianza potesse rappresentare la soluzione di tutti i problemi sociali. Inoltre, contro ogni legge economica, si persuasero che per istituire il tipo di ordinamenti che suggerivano sarebbe stato sufficiente imporre alcune misure dall’alto, i cui effetti non sarebbero stati successivamente alterati dall’andamento dell’economia.
Accanto a questa ingenua ideologia egualitaria, fondata sull’illusoria certezza di poter eliminare, con grande facilità, ogni disparità esistente tra gli esseri umani, tra i primi socialisti era alquanto diffusa anche un’altra convinzione. In molti ritennero che l’elaborazione teorica di migliori sistemi di organizzazione sociale fosse la condizione sufficiente per cambiare il mondo. Sorsero, così, numerosi progetti di riforma, minuziosamente corredati di dettagli e sfumature, con i quali i patrocinatori esposero le loro ipotesi di ristrutturazione della società. Nei loro intenti, andava prioritariamente ricercata la formula giusta, la quale, una volta scoperta, sarebbe stata accettata, di buon grado, dal senso comune dei cittadini e progressivamente attuata ovunque.
Di ciò fu convinto Saint-Simon che, ne L’organizzatore, scrisse: «[I]l vecchio sistema cesserà di agire soltanto quando le idee, circa i mezzi per sostituire con altre le istituzioni […] che ancora esistono, saranno state sufficientemente messe in chiaro, collegate e armonizzate fra di loro, e quando queste idee saranno state approvate dall’opinione pubblica» . Le vedute di Saint-Simon sulla società del futuro sorprendono, però, per la disarmante vaghezza. In Nuovo cristianesimo, egli affermò che la causa della «malattia politica della [sua] epoca» – quella che provocava «sofferenza a tutti i lavoratori utili alla società» e che faceva «assorbire dai sovrani una grande parte del salario dei poveri» – dipendeva dal «sentimento d’egoismo». Dal momento che tale sentimento era «divenuto dominante in tutte le classi e in tutti gli individui» , egli auspicava la nascita di una nuova organizzazione sociale fondata su un unico principio guida: «tutti gli uomini devono comportarsi tra loro come fratelli».
Fourier dichiarò che l’esistenza umana era basata su leggi universali le quali, una volta attuate, avrebbero garantito gioia e godimento in tutto il globo. Nella Teoria dei quattro movimenti, espose quella che non esitò a definire la «scoperta […] più importante di tutti i lavori scientifici realizzati da quando esiste il genere umano» . Fourier si oppose ai sostenitori del «sistema commerciale» e affermò che la società sarebbe stata libera solo nel momento in cui tutti i suoi componenti fossero ritornati a esprimere le loro passioni . Il principale errore del regime politico esistente al suo tempo consisteva, dunque, nella repressione della natura umana.
Infine, ad accomunare molti dei primi socialisti, oltre all’egualitarismo radicale e alla ricerca del migliore modello sociale possibile, vi era anche il loro adoperarsi per promuovere la nascita di piccole comunità alternative. Nello spirito dei loro organizzatori, queste comunità, liberate dalle sperequazioni economiche esistenti nelle società del tempo, avrebbero fornito un impulso decisivo per la diffusione dei principî socialisti e ne avrebbero dovuto agevolare l’affermazione.
Ne Il nuovo mondo industriale e societario, Fourier prefigurò un innovativo ordinamento comunitario, in base al quale i villaggi sarebbero stati «sostituiti da falangi industriali di circa 1.800 persone» . Gli individui sarebbero vissuti nei falansteri, ossia in grandi edifici dotati di spazi comuni, dove avrebbero potuto usufruire collettivamente di tutti i servizi loro necessari. Seguendo il metodo inventato da Fourier, quello della «passione sfarfallante», gli esseri umani avrebbero «svolazza[to] da piacere a piacere ed evita[to] gli eccessi». Avrebbero avuto brevissimi turni di impiego, di «due ore al massimo», grazie ai quali ciascuno avrebbe potuto esercitare «da sette a otto generi di lavoro attraenti nel corso della giornata».
L’individuazione di migliori forme di organizzazione sociale animò anche Owen che, nel corso della sua esistenza, diede vita a importanti esperimenti di cooperazione operaia. Prima a New Lanark in Scozia, dal 1800 al 1825, e poi a New Harmony negli Stati Uniti d’America, dal 1826 al 1828, egli cercò di dimostrare, con la prassi, come realizzare concretamente un ordine sociale più giusto. Ne Il libro del nuovo ordine morale, Owen propose, però, la suddivisione della società in otto classi, l’ultima delle quali, «comprendente le persone dai quaranta ai sessant’anni», avrebbe avuto il monopolio della «decisione finale». Egli auspicava, in modo alquanto ingenuo, che, attraverso l’istituzione di questo sistema gerontocratico, gli individui avrebbero condiviso, «senza contestazioni, la parte loro spettante nel governo della società» , dal momento che tutti, a turno e a tempo debito, avrebbero potuto esercitarlo.
Nel 1849, anche Cabet fondò la colonia di Icaria negli Stati Uniti d’America, a Nauvoo, nell’Illinois, ma il suo autoritarismo diede origine a numerosi conflitti interni alla comunità da lui fondata. Nelle leggi della «Costituzione icariana», egli propose come condizione della nascita della colonia la sua designazione, «per dieci anni, quale […] Direttore unico e assoluto, con il potere di dirigerla in base alla sua dottrina e alle sue idee, al fine di incrementare tutte le probabilità di successo».
Sia nel caso dei vagheggiati falansteri che in quello di sporadiche cooperative, o di stravaganti colonie comuniste, gli esperimenti ideati dai primi socialisti si rivelarono così inadeguati da non lasciare ipotizzare la loro diffusione su vasta scala. Queste sperimentazioni riguardarono un numero irrisorio di lavoratori e si distinsero, spesso, per la molto limitata partecipazione della collettività all’assunzione delle decisioni politiche. Inoltre, molti dei rivoluzionari che animarono tali esperienze, soprattutto quelli non inglesi, non compresero le fondamentali trasformazioni produttive in corso al loro tempo. Molti, tra i primi socialisti, non riuscirono a intuire il legame esistente tra lo sviluppo del capitalismo e il possibile progresso sociale per la classe lavoratrice. Esso dipendeva dalla capacità degli operai di appropriarsi della ricchezza da loro generata nel nuovo modo di produzione.
3. Dove e perché Marx scrisse sul comunismo.
Marx si assegnò un compito del tutto diverso rispetto a quello dei socialisti che l’avevano preceduto. La sua priorità fu quella di «svelare la legge economica del movimento della società moderna» . Egli si prefisse di realizzare una critica complessiva del modo di produzione capitalistico che sarebbe dovuta servire al proletariato, da lui considerato il principale soggetto rivoluzionario, per rovesciare il sistema economico-sociale esistente.
Inoltre, rifuggì dall’idea di potere essere l’ispiratore di un nuovo credo politico dogmatico. Si rifiutò di proporre la configurazione di un modello universale di società comunista, cosa da lui ritenuta teoricamente inutile e politicamente controproducente. Fu per tale ragione che, nel 1873, nel Poscritto alla seconda edizione del Libro primo del Capitale, Marx lasciò intendere che non era certo tra i suoi interessi «prescrivere ricette […] per l’osteria dell’avvenire» . Il senso di questa nota affermazione fu da lui ribadita qualche anno dopo, nel 1879-1880, anche nelle Glosse marginali al «Trattato di economia politica» di Adolf Wagner, allorquando, in risposta a una critica dell’economista tedesco Adolph Wagner (1835-1917), replicò categoricamente: «[N]on ho mai enunciato un “sistema socialista”».
Marx asserì analoghi convincimenti anche nei suoi scritti politici. Di fronte alla nascita della Comune di Parigi, ossia alla prima presa del potere da parte delle classi subalterne, commentò, in La guerra civile in Francia, che «la classe operaia non si aspettava miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre per decreto del popolo». Marx dichiarò che l’emancipazione del proletariato doveva «passare attraverso lunghe lotte e per una serie di processi storici che trasformeranno circostanze e uomini». Non si trattava, dunque, di «realizzare ideali, ma […] [di] liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia società borghese che sta crollando».
Infine, Marx espresse concetti analoghi anche nel carteggio che ebbe con dirigenti del movimento operaio europeo. Quando, ad esempio, nel 1881 Ferdinand Nieuwenhuis (1846-1919), il maggiore esponente della Lega socialdemocratica in Olanda, gli chiese quali misure avrebbero dovuto essere adottate, dopo la presa del potere, da parte di un governo rivoluzionario per costruire la società socialista, Marx rispose che aveva sempre ritenuto simili domande «una sciocchezza». A suo avviso, «ciò che si [sarebbe] dov[uto] fare […] in un particolare momento del futuro, [sarebbe] dipe[so], in tutto e per tutto, dalle reali condizioni storiche in cui si [sarebbe] dov[uto] agire». Egli riteneva impossibile «risolvere un’equazione che non racchiud[esse] nei suoi termini gli elementi della soluzione»; rimase sempre convinto che «l’anticipazione dottrinaria e necessariamente fantasiosa del programma d’azione di una rivoluzione a venire serv[isse] soltanto a distrarre dalla lotta presente».
Il vastissimo carteggio con Engels costituisce la migliore testimonianza della coerenza di queste sue convinzioni. Nel corso della loro quarantennale collaborazione, i due amici si confrontarono su ogni possibile tematica, ma Marx non dedicò il minimo tempo alla discussione sul come avrebbe dovuto essere organizzata la società del domani.
Tuttavia, al contrario di quanto erroneamente sostenuto da molti suoi commentatori, Marx svolse, tanto nelle opere pubblicate quanto in quelle incompiute, numerose considerazioni sul comunismo – per quanto queste non ebbero mai intenti prescrittivi. Esse sono rintracciabili in tre differenti tipologie di scritti. Nella prima rientrano quelli in cui Marx criticò le idee dei socialisti a lui contemporanei ritenute teoricamente sbagliate e politicamente fuorvianti. Alcune parti dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e de L’ideologia tedesca; il capitolo sulla «Letteratura socialista e comunista» del Manifesto del partito comunista; le critiche alle posizioni di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), disseminate nei Grundrisse, nell’Urtext e in Per la critica dell’economia politica; i testi contro l’anarchismo dei primi anni settanta; e le tesi contro Ferdinand Lassalle (1825-1864), contenute nella Critica al programma di Gotha, appartengono a questa categoria. A tutto ciò vanno aggiunti i commenti critici rivolti a Proudhon, agli anarchici aderenti all’Associazione internazionale dei lavoratori e a Lassalle che si trovano sparsi all’interno del copioso carteggio di Marx.
Il secondo tipo di testi in cui Marx delineò alcuni tratti della società comunista è costituito dagli scritti di lotta e di propaganda politica destinati alle organizzazioni della classe proletaria del suo tempo. A esse Marx volle fornire indicazioni più concrete sul profilo della società per la quale lottavano e sugli strumenti necessari per la sua costruzione. Rientrano in questa categoria il Manifesto del partito comunista, le risoluzioni, le relazioni e gli indirizzi redatti per l’Associazione internazionale dei lavoratori (1864-1872) – inclusi Salario, prezzo e profitto e –, nonché alcuni articoli giornalistici, conferenze pubbliche, discorsi, lettere a militanti e altri documenti brevi, quali, ad esempio, il Programma minimo del Partito Operaio Francese.
Infine, i testi nei quali Marx descrisse più diffusamente, nonché in forma più efficace, le possibili caratteristiche della società comunista furono quelli incentrati sul capitalismo. In significativi capitoli del Capitale e in importanti parti dei suoi numerosi manoscritti preparatori, in particolare nei ricchissimi Grundrisse, sono racchiuse alcune delle sue idee fondamentali sul socialismo. Furono proprio le osservazioni critiche nei confronti di specifici aspetti del modo di produzione esistente a generare le riflessioni sulla società comunista che, non a caso, in diverse pagine della sua opera, si susseguono alternandosi tra loro.
Un attento studio delle considerazioni sul comunismo, presenti in ognuno dei testi menzionati, permette di distinguere la concezione di Marx da quelle dei regimi che, nel XX secolo, dichiarando di agire in suo nome, perpetrarono, invece, crimini ed efferatezze. In tal modo, è possibile ricollocare il progetto politico marxiano nell’orizzonte che gli spetta: la lotta per l’emancipazione di quella che Saint-Simon definì «la classe più povera e più numerosa».
Le sue annotazioni sul comunismo non vanno valutate come il modello marxista al quale attenersi dogmaticamente , né, tantomeno, come le soluzioni che, secondo Marx, si sarebbero dovute applicare, in modo indifferenziato, in luoghi e tempi diversi. Tuttavia, questi brani costituiscono un cospicuo e preziosissimo tesoro teorico, ancora oggi utile, per ripensare l’alternativa al capitalismo.
4. Le manchevolezze degli scritti giovanili.
Diversamente da quanto è stato sostenuto in alcuni testi di propaganda marxista-leninista, le teorie di Marx non furono il frutto di un sapere innato, ma si svilupparono attraverso un lungo processo di maturazione concettuale e politica. L’intenso e defatigante studio di molte discipline, in primis dell’economia, e l’osservazione di concreti avvenimenti politici, in particolare quelli relativi alla Comune di Parigi, ebbero considerevole rilevanza per lo sviluppo delle sue riflessioni sulla società comunista.
Alcuni dei testi giovanili di Marx, rimasti in gran parte incompleti, da lui mai pubblicati, e sorprendentemente considerati da tanti suoi epigoni come quelli nei quali si trovano condensate le sue tesi più significative , mostrano, al contrario, tutti i limiti della sua iniziale concezione della società post-capitalista.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx scrisse sull’argomento in termini molto astratti, non avendo ancora potuto approfondire le ricerche economiche e a causa della carente esperienza politica maturata al tempo. In alcune parti di tale testo, egli descrisse «il comunismo […] [come] negazione della negazione», quale un «momento della dialettica hegeliana»: «l’espressione positiva della proprietà privata soppressa» . In altre, invece, ispirandosi a Ludwig Feuerbach (1804-1872), rappresentò il comunismo, come
umanismo, in quanto compiuto naturalismo, e naturalismo, in quanto umani- smo […]; verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo, la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere.
FINE
Diversi passaggi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono influenzati dalla matrice teleologica della filosofia della storia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Suggestionato da quest’ultimo, Marx asserì che «l’intero movimento della storia […] [era stato] il reale atto di generazione del comunismo» ; che il comunismo sarebbe stato «la soluzione dell’enigma della storia, […] consapevole di essere questa soluzione».
Anche L’ideologia tedesca, redatta assieme a Engels e concepita come un progetto al quale avrebbero dovuto partecipare altri autori , contiene una famosa citazione che ha generato grande confusione tra gli esegeti di Marx. In una pagina di questo manoscritto incompiuto si legge che, mentre nella società capitalistica, con la divisione del lavoro, ogni essere umano «ha una sfera di attività determinata ed esclusiva»,
nella società comunista […], la società regola la produzione in generale e, in tal modo, mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra; la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico .
Numerosi studiosi, marxisti e antimarxisti, hanno ingenuamente creduto che fosse questa, per Marx, la principale caratteristica della società comunista. Ciò fu possibile per la loro scarsa familiarità sia con Il capitale che con importanti testi politici di Marx. Questi autori non si accorsero, malgrado l’elevato numero di analisi e discussioni sorte intorno al manoscritto del 1845-1846, che questo passaggio era la riformulazione di una vecchia – e assai nota – idea di Charles Fourier , riproposta da Engels, ma bocciata da Marx .
Nonostante gli evidenti limiti, L’ideologia tedesca rappresentò un indubbio progresso rispetto ai Manoscritti economico-filosofici del 1844. Contro l’idealismo, privo di qualsiasi concretezza politica, degli esponenti della sinistra hegeliana, gruppo del quale egli aveva fatto parte fino al 1842, Marx chiarì che «non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali». Il comunismo, pertanto, non doveva essere considerato come «uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi, [ma quale] movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».
Ne L’ideologia tedesca, Marx abbozzò anche una prima descrizione del profilo economico della società futura. A suo avviso, se le precedenti rivoluzioni avevano prodotto soltanto «una nuova ripartizione del lavoro ad altre persone»,
il comunismo si distingue da tutti gli altri movimenti, fino a oggi conosciuti, in quanto rovescia la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di relazione sviluppatesi fin qui e, per la prima volta, tratta coscientemente tutti i presupposti naturali come creazione degli uomini finora esistiti. Li spoglia del loro carattere naturale e li assoggetta al potere degli individui uniti. La sua organizzazione è, quindi, essenzialmente economica. È la creazione materiale delle condizioni di questa unione .
Marx asserì anche che «il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta” e simultaneamente». A suo giudizio, ciò presupponeva sia lo «sviluppo universale delle forze produttive» che le «relazioni mondiali a esse connesse» . Inoltre, Marx affrontò, per la prima volta, anche un fondamentale tema politico, che avrebbe ripreso poi in futuro: quello dell’avvento del comunismo come fine della tirannia di classe. Egli affermò, infatti, che la rivoluzione avrebbe «aboli[to] il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi e nazionalità» . Marx continuò, assieme a Engels, a sviluppare le sue riflessioni sulla società post-capitalista nel Manifesto del partito comunista.
In questo testo, che, per la profondità di analisi dei mutamenti prodotti dal capitalismo, giganteggiava rispetto all’approssimativa letteratura socialista del tempo, le valutazioni più interessanti sul comunismo riguardavano i rapporti di proprietà. Egli osservò che la loro radicale trasformazione non sarebbe stata la «cosa che [avrebbe] propriamente caratterizz[ato] il comunismo», poiché anche gli altri nuovi modi di produzione comparsi nella storia avevano mutato i rapporti proprietari antecedentemente esistenti. Per Marx, diversamente da quanti dichiaravano, in maniera propagandistica, che i comunisti avrebbero impedito l’appropriazione personale dei prodotti del lavoro, «quel che contraddistingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese» , l’eliminazione della «facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali […] per asservire lavoro altrui» . A suo avviso i comunisti potevano riassumere la «loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata».
Nel Manifesto del partito comunista, Marx fornì anche un elenco di dieci provvedimenti da realizzare, nei paesi economicamente più sviluppati, in seguito alla conquista del potere. Tra essi rientravano: «espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato ; […] accentramento del credito in mano allo Stato mediante una banca nazionale; […] accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato; […] istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli»; ma anche la «abolizione del diritto di successione», una misura di matrice sansimoniana in seguito fermamente respinta da Marx.
Così come nel caso dei manoscritti redatti tra il 1844 e il 1846, si commetterebbe un errore se i principî elencati nel Manifesto del partito comunista, elaborati quando Marx era appena trentenne, venissero assunti come la compiuta descrizione della società post-capitalista da lui propugnata . La piena maturazione del suo pensiero necessitò di tanti altri anni di studio e di ulteriori esperienze politiche.
5. Comunismo come libera associazione.
Nel Libro primo del Capitale, Marx argomentò che il capitalismo è un modo di produzione sociale «storicamente determinato» , nel quale il prodotto del lavoro è trasformato in merce. In conseguenza di questa peculiarità, gli individui hanno valore solo in quanto produttori e «l’esistenza dell’essere umano» è asservita all’atto della «produ[zione] di merci» . Pertanto, è «il processo di produzione [a] padroneggi[are] gli esseri umani» , non viceversa. Il capitale «non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro» e non ritiene rilevante il miglioramento delle condizioni del proletariato. Quello che gli «interessa è unicamente […] il massimo [sfruttamento] di forza lavoro […], così come un agricoltore avido ottiene aumentati proventi dal suolo rapinandone la fertilità».
Nei Grundrisse, Marx ricordò che, poiché nel capitalismo, «lo scopo del lavoro non è un prodotto particolare che sta in […] rapporto con i bisogni […] dell’individuo, ma [è, invece,] il denaro […], la laboriosità dell’individuo non ha alcun limite» . In siffatta società «tutto il tempo di un individuo è posto come tempo di lavoro e [l’uomo] viene degradato a mero operaio, sussunto sotto il lavoro» . Ciò nonostante, l’ideologia borghese presenta questa condizione come se l’individuo godesse di una maggiore libertà e fosse protetto da norme giuridiche imparziali, in grado di garantire giustizia ed equità. Paradossalmente, malgrado l’economia sia giunta a un livello di sviluppo in grado di consentire a tutta la società di vivere in condizioni migliori rispetto al passato, «le macchine più progredite costringono l’operaio a lavorare più a lungo di quanto era toccato al selvaggio o di quanto lui stesso aveva fatto, [prima di allora,] con strumenti più semplici e rozzi».
Al contrario, il comunismo fu definito da Marx come «un’associazione di liberi esseri umani [einen Verein freier Menschen] che lavor[a]no con mezzi di produzione comuni e spend[o]no coscientemente le loro molteplici forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» . Definizioni simili sono presenti in numerosi manoscritti di Marx. Nei Grundrisse, egli scrisse che la società postcapitalista si sarebbe fondata sulla «produzione sociale» [gemeinschaftlichen Produktion] . Nei Manoscritti economici del 1863-1867, parlò del «passaggio del modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato [Produktionsweise der assoziierten Arbeit] . Nella Critica al programma di Gotha (1875), Marx definì l’organizzazione sociale «fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione» come «società cooperativa» [genossenschaftliche Gesellschaft].
Nel Libro primo del Capitale, Marx chiarì che il «principio fondamentale» di questa «forma superiore di società» sarebbe stato il «pieno e libero sviluppo di ogni individuo» . Ne La guerra civile in Francia, espresse la sua approvazione per le misure adottate dai comunardi che lasciavano «presagire la tendenza di un governo del popolo per il popolo» . Più precisamente, nelle sue valutazioni circa le riforme politiche della Comune di Parigi, egli ritenne che «il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il passo, anche nelle province, all’autogoverno dei produttori». L’espressione venne ripresa negli Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin, dove specificò che un radicale cambiamento sociale avrebbe avuto «inizio con l’autogoverno della comunità» . L’idea di società di Marx è, dunque, l’antitesi dei totalitarismi sorti in suo nome nel XX secolo. I suoi testi sono utili non solo per comprendere il modo di funzionamento del capitalismo, ma anche per individuare le ragioni dei fallimenti delle esperienze socialiste fin qui compiute.
In riferimento al tema della cosiddetta libera concorrenza, ovvero l’apparente eguaglianza con la quale operai e capitalisti si trovano posti sul mercato nella società borghese, Marx dichiarò che essa era tutt’altro dalla libertà umana tanto esaltata dagli esegeti del capitalismo. Egli riteneva che questo sistema costituisse un grande impedimento per la democrazia e mostrò, meglio di chiunque altro, che i lavoratori non ricevono il corrispettivo di quello che producono . Nei Grundrisse, spiegò che quanto veniva rappresentato come uno «scambio di equivalenti» era, invece, «appropriazione di lavoro altrui senza scambio, ma sotto la parvenza dello scambio». Le relazioni tra le persone erano «determinate soltanto dai loro interessi egoistici». Questa «collisione di individui» era stata spacciata come la «forma assoluta di esistenza della libera individualità nella sfera della produzione e dello scambio».
Per Marx non vi era, in realtà, «niente di più falso», poiché, «nella libera concorrenza, non gli individui, ma il capitale è posto in condizioni di libertà» . Nei Manoscritti economici del 1861-63 egli denunciò che era «il capitalista a incassare questo pluslavoro – [che era] […] tempo libero [e] […] la base materiale dello sviluppo e della cultura in generale […] – in nome della società» . Nel Libro primo del Capitale, egli denunciò che la ricchezza della borghesia è possibile solo mediante la «trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse».
Nei Grundrisse, Marx osservò che nel capitalismo «gli individui sono sussunti dalla produzione sociale» , la quale esiste come qualcosa che è a «loro estraneo» . Essa viene realizzata solamente in funzione dell’attribuzione del valore di scambio conferito ai prodotti, la cui compravendita avviene soltanto «post festum» . Inoltre, «tutti i fattori sociali della produzione» , comprese le scoperte scientifiche che si palesano come «una scienza altrui, esterna all’operaio» , sono poste dal capitale. Lo stesso associarsi degli operai nei luoghi e nell’atto della produzione è «operato dal capitale» ed è, pertanto, «soltanto formale». L’uso dei beni creati da parte dei lavoratori «non è mediat[o] dallo scambio di lavori o di prodotti di lavoro reciprocamente indipendenti [, bensì] […] dalle condizioni sociali della produzione entro le quali agisce l’individuo» . Marx fece comprendere come l’attività produttiva nella fabbrica «riguarda[sse] solo il prodotto del lavoro, non il lavoro stesso» , dal momento che avveniva «in un ambiente comune, sotto vigilanza, irreggimentazione, maggiore disciplina, immobilità e dipendenza».
Nel comunismo, invece, la produzione sarebbe stata «immediatamente sociale […], il risultato dell’associazione [the offspring of association] che ripartisce il lavoro al proprio interno». Essa sarebbe stata controllata dagli individui come «loro patrimonio comune» . Il «carattere sociale della produzione» [gesellschaftliche Charakter der Produktion] avrebbe fatto sì che l’oggetto del lavoro fosse stato, «fin dal principio, un prodotto sociale e generale» . Il carattere associativo «è presupposto» e «il lavoro del singolo si pone, sin dalla sua origine, come lavoro sociale» . Come volle sottolineare nella Critica al programma di Gotha, nella società postcapitalistica «i lavori individuali non [sarebbero] più diventa[ti] parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto» . In aggiunta, gli operai avrebbero potuto creare le condizioni per una «scomparsa [del]la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro» . Nel Libro primo del Capitale, Marx evidenziò che nella società borghese «l’operaio esiste in funzione del processo di produzione e non il processo di produzione per l’operaio» .
Inoltre, parallelamente allo sfruttamento dei lavoratori, si manifestava anche quello verso l’ambiente. All’opposto delle interpretazioni che hanno assimilato la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, il suo interesse per la questione ecologica fu rilevante . Marx denunciò, ripetutamente, che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico determinava un aumento «non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo» . Per suo tramite, venivano minate entrambe le «fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio».
Nel comunismo, viceversa, si sarebbero create le condizioni per una forma di «cooperazione pianificata», in virtù della quale «l’operaio si [sarebbe] spoglia[to] dei suoi limiti individuali e [avrebbe] sviluppa[to] la facoltà della sua specie» . Nel Libro secondo Marx scrisse che nel comunismo la società sarebbe stata in grado di «calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e di sussistenza [avrebbe potuto] adoperare». Essa si sarebbe così differenziata, anche da questo punto di vista, dal capitalismo, sotto il quale «l’intelletto sociale si fa valere sempre soltanto post festum, [facendo] così intervenire, costantemente, grandi perturbamenti» . Anche in alcuni brani del Libro terzo, Marx offrì chiarimenti sulle differenze tra il modo di produzione socialista e quello basato sul mercato, auspicando la nascita di una società «organizzata come una associazione cosciente e sistematica» . Egli affermò che «è solo quando la società controlla efficacemente la produzione, regolandola in anticipo, che essa crea il legame fra la misura del tempo di lavoro sociale dedicato alla produzione di un articolo determinato e l’estensione del bisogno sociale che tale articolo deve soddisfare».
Nelle Glosse marginali al «Trattato di economia politica» di Adolf Wagner, infine, compare un’altra indicazione in proposito: «il volume della produzione» avrebbe dovuto essere «regolato razionalmente» . L’applicazione di questo criterio avrebbe consentito di abbattere anche gli sprechi dell’«anarchico sistema della concorrenza», il quale, nel ricorrere delle sue crisi strutturali, oltre a «determina[re] lo sperpero smisurato dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro sociali» , non era in grado di risolvere le contraddizioni derivanti dall’introduzione dei macchinari, dovute essenzialmente «al loro uso capitalistico».
6. Proprietà collettiva e tempo libero.
Per ribaltare questo stato di cose, contrariamente a quanto credevano molti socialisti contemporanei a Marx, non bastava modificare la redistribuzione dei beni di consumo. Occorreva modificare alla radice gli assetti produttivi della società. Fu per questo che, nei Grundrisse, Marx annotò che «lasciare sussistere il lavoro salariato e, allo stesso tempo, sopprimere il capitale [era] una rivendicazione che si autocontraddice[va]» . Occorreva, viceversa, la «dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio» . Nel discorso pubblicato con il titolo Salario, prezzo e profitto, egli ammonì gli operai affinché sulle loro bandiere non apparisse «la parola d’ordine conservatrice “Equo salario per un’equa giornata di lavoro”», ma il «motto rivoluzionario “Soppressione del sistema del lavoro salariato”».
Per di più, come si trova dichiarato nella Critica al programma di Gotha, nel modo di produzione capitalistico «le condizioni materiali della produzione [erano] a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa [era] soltanto proprietaria della [propria] forza lavoro» . Pertanto, era essenziale rovesciare i rapporti proprietari alla base del modo di produzione borghese. Nei Grundrisse, Marx ricordò che «le leggi della proprietà privata – ovvero la libertà, l’uguaglianza, la proprietà sul lavoro e la sua libera disposizione – si riversano nella mancanza di proprietà dell’operaio, nell’espropriazione del suo lavoro e nel suo riferirsi a esso come proprietà altrui» . In un intervento svolto, nel 1869, al Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Marx affermò che la «proprietà privata dei mezzi di produzione» serviva soltanto ad assicurare alla classe borghese il «potere con il quale essa [avrebbe] costr[etto] altri esseri umani a lavorare» per lei. Egli ribadì lo stesso concetto in un altro breve scritto politico, il Programma elettorale dei lavoratori socialisti, aggiungendo che «i produttori possono essere liberi solo quando sono in possesso dei mezzi di produzione» e che l’obiettivo della lotta del proletariato doveva essere la «restituzione alla comunità di tutti i mezzi di produzione».
Nel Libro terzo del Capitale, Marx osservò che, quando i lavoratori avrebbero instaurato un modo di produzione comunista, «la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui [sarebbe] appar[sa] così assurda come la proprietà privata di un essere umano da parte di un altro essere umano». Egli manifestò la sua più radicale critica verso l’idea di possesso distruttivo insita nel capitalismo, ricordando che «anche un’intera società, una nazione, o anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra». Per Marx, gli esseri umani erano «soltanto […] i suoi usufruttuari» e, dunque, avevano «il dovere di tramandare alle generazioni successive [il mondo] migliorato, come boni patres familias».
Un diverso assetto della proprietà dei mezzi di produzione avrebbe mutato alla radice anche i tempi di vita della società. Nel Libro primo del Capitale, Marx disvelò, con inequivocabile chiarezza, le ragioni per le quali, nel capitalismo, «l’economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva del lavoro non ha affatto lo scopo di accorciare la giornata lavorativa». Il tempo che il progredire della tecnica e della scienza renderebbe disponibile per i singoli viene, infatti, immediatamente convertito in pluslavoro. La classe dominante ha come unica ambizione quella di «ridurre il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci» . Il suo solo scopo è quello di sviluppare la forza produttiva con il solo fine di «abbrevia[re] la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per sé stesso, per prolungare […] la parte […] nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista» . Questo sistema differisce dalla schiavitù o dalle corvées dovute al signore feudale, poiché «pluslavoro e lavoro necessario sfumano l’uno nell’altro» e rendono più difficilmente percettibile l’entità dello sfruttamento.
Nei Grundrisse, Marx mise bene in evidenza che è solo grazie a questo surplus del tempo di lavoro di tutti che si rende possibile il «tempo libero per alcuni» . La borghesia consegue l’accrescimento delle sue facoltà materiali e culturali solo grazie alla limitazione imposta a quello del proletariato. Lo stesso accade nelle nazioni capitalisticamente più avanzate, a discapito delle periferie del sistema. Nei Manoscritti economici del 1861-1863, Marx ribadì che il progresso della classe dominante è speculare alla «mancanza di sviluppo della massa lavoratrice» . Il tempo libero della prima «corrisponde al tempo asservito» dei lavoratori; «lo sviluppo sociale dell’una fa del lavoro di [questi] altr[i] la propria base naturale» . Questo tempo di pluslavoro degli operai non solo è il pilastro sul quale poggia la «esistenza materiale» della borghesia, ma crea la condizione anche per il suo «tempo libero, la sfera del [suo] sviluppo». Come meglio non si potrebbe dichiarare: «il tempo libero dell’una corrisponde al […] tempo soggiogato al lavoro […] dell’altra».
Per Marx, al contrario, la società comunista sarebbe stata caratterizzata da una diminuzione generalizzata dei tempi di lavoro. Nel documento Istruzioni per i delegati del Consiglio Generale provvisorio. Le differenti questioni, da lui predisposto per il primo congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori, enunciò che la riduzione della giornata lavorativa era la «condizione preliminare senza la quale [sarebbero] aborti[ti] tutti gli ulteriori tentativi di miglioramento e di emancipazione». Era necessario non solo «fare recuperare l’energia e la salute alla classe lavoratrice», ma anche «fornire a essa la possibilità di sviluppo intellettuale, di relazioni e attività sociali e politiche» . Nel Libro primo del Capitale, Marx argomentò che il «tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per la libera espressione delle energie vitali, fisiche e mentali», considerati dai capitalisti «fronzoli puri e semplici» , sarebbero stati gli elementi fondativi della nuova società. Il decremento delle ore destinate al lavoro – non solo del tempo di lavoro necessario per creare nuovo pluslavoro in favore della classe capitalista – avrebbe favorito, così appuntò Marx nei Grundrisse, «il libero sviluppo delle individualità», ovvero «la formazione e lo sviluppo artistico e scientifico […] degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro».
Sulla base di queste convinzioni, egli ravvisò nella «economia di tempo, e [nella] ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, la prima legge economica alla base della produzione sociale» . Nelle Teorie sul plusvalore precisò, ancor più, che «la ricchezza non è niente altro che tempo disponibile». Nella società comunista l’autogestione dei lavoratori avrebbe dovuto assicurare una maggiore quantità di tempo che non doveva essere «assorbito dal lavoro immediatamente produttivo, [ma] dar[e] luogo al godimento, all’ozio e, pertanto, alla libera attività e al libero sviluppo» . In questo testo, così come nei Grundrisse, Marx citò un breve pamphlet intitolato La fonte e il rimedio delle difficoltà nazionali dedotte dai principi di economia politica in una lettera al signor John Russell, del quale condivideva pienamente la definizione di benessere formulata dall’anonimo autore: «una nazione si può dire veramente ricca, quando in essa invece di lavorare per 12 ore si lavora soltanto per sei.
La ricchezza reale non è l’imposizione del tempo di lavoro supplementare, ma è il tempo [che viene reso] disponibile a ogni individuo e a tutta la società, fuori da quello usato nella produzione immediata». La medesima idea si trova ribadita in un altro brano dei Grundrisse, nel quale Marx domandava retoricamente: «che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive degli individui? […] Che cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle [loro] doti creative?» . È evidente, dunque, che il modello socialista al quale egli guardava non contemperava uno stato di miseria generalizzata, ma il conseguimento di una maggiore ricchezza collettiva.
7. Ruolo dello Stato, diritti individuali e libertà.
Nella società comunista, accanto alle trasformazioni dell’economia, avrebbero dovuto essere ridefiniti anche il ruolo dello Stato e le funzioni della politica. Ne La guerra civile in Francia, Marx tenne a chiarire che, in seguito alla presa del potere, la classe lavoratrice avrebbe dovuto lottare per «estirpare le basi economiche sulle quali riposa l’esistenza delle classi e, quindi, il dominio di classe». Una volta che sarà «emancipato il lavoro, ogni essere umano div[errà] un lavoratore e il lavoro produttivo cess[erà] di essere l’attributo di una classe» . La nota affermazione «la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina statale così com’è» stava a significare, come Marx ed Engels spiegarono nell’opuscolo Le cosiddette scissioni nell’Internazionale, che il movimento operaio avrebbe dovuto tendere a trasformare «le funzioni governative […] in semplici funzioni amministrative» . Anche se con una formulazione alquanto concisa, negli Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin, Marx spiegò che «la distribuzione delle funzioni [governative avrebbe dovuto] diven[tare] un fatto amministrativo che non attribuisce alcun potere». In questo modo, si sarebbe potuto evitare, quanto più possibile, che l’esercizio degli incarichi politici generasse nuove dinamiche di dominio e soggezione.
Marx valutò che, con lo sviluppo della società moderna, «il potere dello Stato [aveva] assu[nto] sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di una forza pubblica organizzata di asservimento sociale, di uno strumento del dispotismo di classe» . Nel comunismo, al contrario, i lavoratori avrebbero dovuto impedire che lo Stato divenisse un ostacolo alla piena emancipazione degli individui. A essi Marx indicò la necessità che «gli organi meramente repressivi del vecchio potere governativo [fossero] amputati», mentre le sue «funzioni legittime» avrebbe[ro] dovuto essere «strappate da un’autorità che usurpava il primato della società […] e restituite agli agenti responsabili della società» . Nella Critica al programma di Gotha Marx chiarì che «la libertà consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa», chiosando con sagacia che «le forme dello Stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la “libertà dello Stato”».
In questo stesso testo, Marx sottolineò anche l’esigenza che, nella società comunista, le politiche pubbliche privilegiassero la «soddisfazione collettiva dei bisogni». Le spese per le scuole, le istituzioni sanitarie e gli altri beni comuni sarebbero «notevolmente aumentat[e] fin dall’inizio, rispetto alla società attuale, e [sarebbero] aument[ate] nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando» . L’istruzione avrebbe assunto una funzione di primario rilievo e, così come aveva ricordato ne La guerra civile in Francia, riferendosi al modello adottato dai comunardi parigini nel 1871, «tutti gli istituti di istruzione [sarebbero] stati aperti gratuitamente al popolo e liberati da ogni ingerenza sia della Chiesa che dello Stato». Solo così la cultura sarebbe «stata resa accessibile a tutti» e la scienza affrancata sia «dai pregiudizi di classe [che] dalla forza del governo».
Differentemente dalla società liberale, nella quale «l’eguale diritto» lascia inalterate le disuguaglianze esistenti, per Marx nella società comunista «il diritto [avrebbe] dov[uto] essere disuguale, invece di essere uguale». Una sua trasformazione in tal senso avrebbe riconosciuto, e tutelato, gli individui in base ai loro specifici bisogni e al minore o maggiore disagio delle loro condizioni, poiché «non sarebbero individui diversi, se non fossero disuguali». Sarebbe stato possibile, inoltre, determinare la giusta partecipazione di ciascuna persona ai servizi e alla ricchezza disponibile. La società che ambiva a seguire il principio «ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» aveva, davanti a sé, questo cammino complesso e irto di difficoltà. Tuttavia, l’esito finale non era garantito da «magnifiche sorti e progressive» e, allo stesso tempo, non era irreversibile.
Marx assegnò un valore fondamentale alla libertà individuale e il suo comunismo fu radicalmente diverso tanto dal livellamento delle classi, auspicato da diversi suoi predecessori, quanto dalla grigia uniformità politica ed economica, realizzata da molti suoi seguaci. Nell’Urtext , però, pose l’accento anche sull’«errore di quei socialisti, specialmente francesi», che, considerando «il socialismo [quale] realizzazione delle idee borghesi», avevano cercato di «dimostrare che il valore di scambio [fosse], originariamente […], un sistema di libertà ed eguaglianza per tutti, […] falsificato [… poi] dal capitale» . Nei Grundrisse, Marx etichettò come «insulsaggine [quella] di considerare la libera concorrenza quale ultimo sviluppo della libertà umana». Difatti, questa tesi «non significa[va] altro se non che il dominio della borghesia [era] il termine ultimo della libertà umana», idea che, ironicamente, Marx definì «allettante per i parvenus».
Allo stesso modo, egli contestò l’ideologia liberale secondo la quale «la negazione della libera concorrenza equivale alla negazione della libertà individuale e della produzione sociale basata sulla libertà individuale». Nella società borghese si rendeva possibile soltanto un «libero sviluppo su base limitata, sulla base del dominio del capitale». A suo avviso, «questo genere di libertà individuale [era], al tempo stesso, la più completa soppressione di ogni libertà individuale e il più completo soggiogamento dell’individualità alle condizioni sociali, le quali assumono la forma di poteri oggettivi […] [e] oggetti indipendenti […] dagli stessi individui e dalle loro relazioni».
L’alternativa all’alienazione capitalistica era realizzabile solo se le classi subalterne avessero preso coscienza della loro condizione di nuovi schiavi e avessero dato inizio alla lotta per una trasformazione radicale del mondo nel quale venivano sfruttati. La loro mobilitazione e la loro partecipazione attiva a questo processo non poteva arrestarsi, però, all’indomani della presa del potere. Avrebbe dovuto proseguire al fine di scongiurare la deriva verso un socialismo di Stato nei cui confronti Marx manifestò sempre la più tenace e convinta opposizione.
In una significativa lettera indirizzata, nel 1868, al presidente dell’Associazione generale degli operai tedeschi, Marx spiegò che «l’operaio non andava trattato con provvedimenti burocratici», affinché potesse obbedire «all’autorità e ai superiori; la cosa più importante era insegnargli a camminare da solo» . Egli non mutò mai questa convinzione nel corso della sua esistenza. Non a caso, come primo punto degli Statuti dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, da lui redatto, aveva posto: «l’emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi». Aggiungendo, in quello immediatamente successivo, che la loro lotta non doveva «tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire diritti e doveri eguali per tutti» . Molti dei partiti e dei regimi politici sorti nel nome di Marx, utilizzando in modo strumentale e citando impropriamente il concetto di «dittatura del proletariato» , non hanno seguito la direzione da lui indicata. Tuttavia, ciò non vuol dire che non sia possibile provarci ancora.
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