Marxiani contro l’alienazione virale
Nella poesia Un biglietto lasciato prima di non andare via Giorgio Caproni scrive: «Se non dovessi tornare,/ sappiate che non sono mai/ partito.
Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/qua, dove non fui mai». Notevole per ben altri versi, per farla lunga dirò che ricorda il nessun dove senza negazioni delle Elegie duinesi, è la perfetta missiva antologica di Marx ai suoi interpreti futuri e passati.
A riempire questa mancanza è stato pubblicato in Italia un libro, edito dalla Donzelli Editore, Marx Revival. Concetti essenziali e nuove letture, è a cura di Marcello Musto, professore associato di Sociologia Teorica alla York University di Toronto. Con il suo, il volume raccoglie i contributi di ventidue studiosi, provenienti da dieci paesi diversi, tra i più eminenti del pensiero marxiano che si lega alla stagione interpretativa della nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels, la famigerata Mega². Un compatto dizionario marxiano in ventidue capitoli che raccoglie spunti critici dall’intero corpus degli scritti e dei pronunciamenti di Marx, sviluppando con rigore, ampiezza di contenuti e vitalità di interpretazioni quello che possiamo definire come l’esempio concreto e più avanzato di che cosa significhi oggi ripensare Marx e i marxismi, e di quanto questo duplice ripensamento coinvolga una folta platea di studiosi, militanti, attivisti, intellettuali provenienti da tutti i continenti.
Oggi possiamo tornare ai testi del tedesco per come egli stesso ci tornerebbe: leggendoli nella forma in cui li ha lasciati. E non è cosa da poco, anche perché per Marx era fondamentale diversificare i modi della ricerca e dell’esposizione, Forschungs– e Darstellungs-weise. Tornare ai suoi testi con questa sensibilità critica e filologica significa utilizzare la sua opera per andare avanti, per approfondire ulteriormente il suo discorso, come tipo di discorso non privo di presupposti e ripensamenti. L’autofondazione della scienza del capitale ne Il capitale consiste nella sua fondazione nella critica – anche dello statuto epistemologico dell’economia politica, come si sa – : critica che non solo ha il suo referente reale, ma la cui esistenza dipende da una condizione di possibilità materiale che è dichiarata da Marx stesso. Questo suo referente reale e questa sua condizione di possibilità materiale si sono dati insieme quando il conflitto che ab origine oppone al rapporto di riproduzione capitalistico una specifica forza produttiva, la forza-lavoro, si è dimostrato antagonismo.
L’antagonismo individua una contraddizione tendenziale tra il rapporto di produzione e tutte le forze produttive materiali che di volta in volta il capitale chiama all’esistenza. Il modo di questa chiamata ci dà la cognizione del possibile passaggio a un altro diverso reale che si prepara in una società organizzata secondo l’opposizione fra il carattere progressivamente sociale della produzione e la sua appropriazione privata.
Capitale vuol dire: rispetto a un certo piano della produttività – virtualiter come divisione del lavoro, giornata lavorativa, plusvalore relativo e assoluto – e di produzione – realiter come difficile conciliazione tra il libro primo e il libro terzo de Il capitale, il problema della trasformazione dei valori in prezzi – si stacca uno stock, un pezzo di patrimonio individuale o anche sociale, per essere investito in una impresa nel ramo commerciale o anche industriale, in modo da ottenere un reddito e una rendita, tali perché questo investire, dopo aver fatto un giro largo, si aggiunge alla somma di credito iniziale.
Marx ci insegna subito due cose: la prima è che il pluslavoro è appropriazione della possibilità reale del di più di valore che deriva dalla capacità lavorativa, più specificamente, dalla forza-lavoro del lavoratore. Questa appropriazione è strutturale, sta alla base della riproduzione del capitale come cosa e come rapporto, come fondo iniziale ma aumentato e come titolarità sulla prestazione della forza-lavoro. La seconda è che questo rapporto tra capitalista e lavoratore è di natura storica, quindi essenzialmente politica e viceversa. Di come venga attribuita la porzione tra lavoro retribuito e lavoro non pagato, lo decidono i rapporti di forza tra le classi. Non il mercato.
Ogni singolo elemento menzionato è in sé problematico, ha una sua specifica articolazione storico-politica. Cambiano i modi di attribuzione, la posizione del lavoro nel processo di produzione, la riproduzione del lavoro, il tipo, la natura di questo, la forma della retribuzione e dello sfruttamento, la gratuità del pluslavoro, la forma della gratuità, i rapporti di forza, il genere di forza di questi rapporti, la composizione di classe, l’idea di mercato e la sua geografia, e tutto questo nei rispettivi rimandi particolari e generali, nei quali compare, non in secondo piano, il grado di consapevolezza che i soggetti coinvolti esprimono in una certa configurazione attuale della produzione e della riproduzione sociale.
In Marx revival si trova la discussione più aggiornata e approfondita di tutti questi elementi, la sollecitazione più estesa e densa della riserva concettuale marxiana oggi in circolazione. Leggendolo si fa l’esperienza di capire come un mutamento del modo di concepire Marx e il suo lascito possa mutare il modo di concepire un determinato lavoro culturale e anche di iniziativa politica. Di come un mutamento nel modo di concepire e compiere questo determinato lavoro di rinnovamento possa riclassificare questo stesso lavoro e renderlo momento di consapevole partecipazione e contributo al generale processo di mutamento dell’egemonia culturale, di sovvertimento del rapporto e della forma della contraddizione sempre ulteriore, tipica del modo di produzione e riproduzione capitalistico.
Detto altrimenti, quest’opera rispetta l’indicazione del Mario Tronti di Operai e capitale: un libro oggi può contenere qualche cosa di vero a una sola condizione, se viene tutto scritto con la coscienza di compiere una cattiva azione. Se per agire bisogna scrivere, come livello della lotta stiamo parecchio indietro. Le parole, comunque le scegli, ti sembrano cose dei borghesi. Ma così è. In una società nemica non c’è la libera scelta dei mezzi per combatterla. E le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni. Finché non si scoprì il sanpietrino, si potrebbe aggiungere. Ma questa è un’altra storia.
I bachi da seta del capitale: la forza lavoro come concetto ecologico-politico
Mario Draghi è intervenuto qualche giorno fa a ricordarci come, accanto alla fragilità della vita, esista un’unica altra grande certezza: le tasse. Pompare liquidità nel sistema europeo non è solo una scelta di buon senso, ma è una necessità, poiché la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Il grande timore è che la crisi possa trasformarsi in crollo, e che, come si legge nell’editoriale del 30 marzo di Infoaut nel crollare saltino fuori tutta una serie di pensieri collettivi, diciamo anche una certa idea di lotta di classe, per cui si comincia a notare: «Chi ha i tamponi e chi non lo può fare. Che cosa si risparmia e che cosa si spende. Chi è costretto a lavorare e chi invece dà ordini in video-chiamata. Chi è in ospedale e chi no. Chi è in carcere e chi no. Chi è protetto e chi no. Chi rischia e chi no. Chi ha fame e chi no».
La cura di sé e la cura degli altri è diventato un campo di battaglia, oltre che di resistenze. L’emergenza sanitaria su scala globale ha fatto saltare le promesse di un sistema basato sulla subordinazione della vita agli imperativi di una ideologia abilista e machista, competitiva e performante. Come scrive Marie Moïse su Jacobin Italia: «Se le morti quotidiane sul lavoro, un femminicidio ogni tre giorni e i naufragi in mezzo al Mediterraneo non hanno mai interrotto la normalità, se la morte dentro di chi fa tre lavori alla volta, perde la casa o rinuncia a curarsi non ha mai fermato le manovre finanziarie a favore di grandi imprese e gruppi bancari, oggi una nuova – ancorché contraddittoria – centralità della vita e della sua salvaguardia conferisce un’inedita legittimità di parola a chi finora aveva taciuto. La società degli individui reciprocamente indifferenti, chiamati a farcela da soli, a vergognarsi dei propri bisogni e a chiamarli fallimenti ha gettato la maschera: non esiste via di fuga per pochi da un pianeta infetto. Non saremo guariti fino a che non lo saremo tutti […] Fino a ieri, se qualcuno stava peggio di noi avevamo un agile pretesto retorico per sfuggire all’ascolto di noi stessi ma anche per illuderci di non arrivare ultimi nella competizione per la sopravvivenza. Oggi la gara è sospesa e quel qualcuno sta in cima all’elenco delle chiamate da fare».
La centralità della vita, la centralità della vita minacciata, della nuda vita, nella forma di epoché che stiamo vivendo, a un tempo e tutti insieme, cosa che davvero la rende un fatto filosofico, è anche il tema che ha tenuto sveglio il dibattito biopolitico nelle ultime settimane, sulla scia di Giorgio Agamben. Davide Grasso e Luca Illetterati hanno segnato un punto su questo. Ci faccio riferimento però perché il professore di sociologia dell’ambiente Luigi Pellizzoni ci si è soffermato in modo inedito chiedendosi come questi discorsi investano le scienze umane, soprattutto quando le scienze umane si pongono il problema, non piccolo, di avventurarsi nei dintorni – dirò Umwelt ma più precisamente Umgebung, o milieu ma anche entourage, meno invece nel senso di environment, e più di presso ambiente inteso come habitat – di una forma di vita.
Le abitudini che si stanno innervando in quarantena, il buon cittadino virale – controllo sociale dei servo-padroni, divenire (pa)-droni – sembrano preoccupanti perché è come se si annunciasse l’emergere di un nuovo habitus, del prendere parte al proprio ambiente o habitat, il che diventa ancora più allarmante se ci si ricorda che habito è un frequentativo del verbo habeo, dunque concerne la sfera di senso dell’avere, del credere di avere o del credere di non avere, anche diritti, ad esempio.
Il problema è, a partire dagli eventi attuali, come si riapre il discorso sull’uso delle categorie di bíos e zoé, all’interno di quell’ambito di studi che si chiama ecologia politica. Per Agamben ci sarà un tempo in cui il bíos coinciderà con la propria zoé. Per Pellizzoni questo tempo è già qui. La confusione, l’isomorfismo non riconosciuto ma tuttavia esistente, è ciò che il capitalismo esplicitamente insegue e riproduce. Oggi ci troviamo alle prese con una ricomposizione della frattura nell’immaginario della ontological politics «non però in direzione di una ritrovata armonia ma di una più completa cattura dell’ordine del capitale». Poiché l’isomorfismo tra bíos e zoé negli stati di eccezioni reali e immaginabili sta emergendo nel nuovo ordine mondiale con una pervasività sconosciuta, c’è ancora margine perché questa sovrapposizione non assuma la forma dell’incubo? Il problema è antico, aggiunge Pellizzoni.
La risposta che si può dare da un punto di vista marxiano è: ogni comunità in ogni epoca ha agito l’isomorfismo tra bíos e zoé, finché il capitale non è sorto come rapporto e ha incluso queste due dimensioni tra i suoi presupposti, scindendole, per appropriarsi della legge che le tiene unite da sempre: il lavoro, o meglio, la forza lavoro.
A Jhon Bellamy Foster dobbiamo il concetto che più di tutti ha presentato al mondo un Marx ecologico. Nel suo contributo al Marx revival, Foster ci spiega come sia stato un vero e proprio processo di dissotterramento la discoverta – à la Vico del vero Omero – del pensiero ecologico di Marx. La forza-lavoro è un concetto ecologico perché è ecologica la stessa analisi della produzione di valore in Marx. La teoria della forma-valore ecologica è alla base della teoria critica di Marx. Il concetto di metabolic rift, la frattura metabolica tra lavoro, natura e valore, porta avanti la concezione materialistica della storia al punto da re-impostare il discorso rispetto a un metabolismo universale, naturale e sociale assieme, mediato dal lavoro e dal valore, dunque da una certa idea di ricchezza e di profitto, da una certa forma corrispettiva di proletarizzazione e che, come si capisce, non vuol dire, in nessun caso né ricchezza né povertà in quanto tali (che non esistono affatto come noumeni).
Il concetto di forza lavoro è un concetto ecologico-politico perché supera la differenziazione metafisica tra bíos e zoé, tra forma di vita e nuda vita. Cosa è la forza lavoro se non la capacità di esprimersi come corpi, integralità di bíos e zoé? Un corpo messo a lavoro è biologicamente e politicamente sempre in atto, è realtà effettuale produttiva e riproduttiva, en-ergeia, natura naturans. Il problema consiste in questa lotta corpo a corpo – e non è una metafora – tra ciò che è atto e ciò che è potenza nel mondo rovesciato del plusvalore, nel mondo dei bachi da seta industrializzati, tecnologizzati, digitalizzati: il problema sta nella potenza di un corpo, in ciò che un corpo può fare, e in ciò che più specificamente un corpo è stato chiamato a fare in forma di merce, nella differentia specifica di forza lavoro.
Tuttavia, un corpo non è soltanto un oggetto di cui parlare, è soprattutto un soggetto attraverso cui parlare. In alcuni corpi capita ciò che in altri corpi non capita o non può capitare, e quando si arriva a parlare così di corpo e di corpi, tutto si carica di sottointesi e valori sociali, di storia, di resistenza, di appartenenza, di scontro, di violenza, ma anche di gioia, di una certa idea di libertà. Tale consapevolezza viene da mezzo secolo, almeno, di lotte e frequentazioni militanti. Ma affonda le sue radici in un tempo lontano.
Ogni forma economica di produzione racchiude al proprio interno una serie di relazioni sociali possibili. Rispetto a queste possibilità il capitale fa leva su tutte le soggezioni sociali, poiché è quel rapporto che deve presupporre l’espropriazione e consentire l’alienazione materiale dei fini, degli scopi, dei prodotti dell’attività e dell’interazione tra gli uomini riuniti in società. Accanto all’ecologia bisognava superare i vicoli ciechi della lettura marxiana anche rispetto alla questione di genere, per avere una cognizione adeguata di che cosa è e come funziona il capitale.
Si doveva passare per Silvia Federici e Leopoldina Forunati che scrivevano come in fabbrica si producono merci, così in casa si produce la merce forza-lavoro. Il regime di doppia giornata lavorativa, per il quale si chiamava amore il lavoro non retribuito e si era inventata la figura sociale della casalinga a tempo pieno. Ma si doveva anche passare per le rivendicazioni del Black Feminism, dalla carica rivoluzionaria di quel ALL THE WOMEN ARE WHITE, ALLA THE BLACKS ARE MEN BUT SOME OF US ARE BRAVE, che di nuovo ha articolato il discorso di classe. Dove si è decostruita la generica solidarietà universale, contrapponendo un’idea di solidarietà politica tra condizioni specifiche, per la quale ogni muro ribaltato diventa un ponte, come dirà Angela Davis. Per salvarci da ogni forma di oppressione: anche da quella che si genera tra gli oppressi.
La lotta di classe in un mondo infetto
Nella sezione del primo libro de Il capitale, dove si definisce la produzione del valore relativo, Marx descrive tre figure di trasformazione del processo lavorativo: cooperazione, manifattura e grande industria. In questa fenomenologia del lavoro (work, labour, e anche job) si vede come le tre figure non seguano una storia lineare, ma sovrappongano i loro livelli funzionali. E cioè: posto il capitale come rapporto, ogni lavoro non potrà che specializzarsi, parcellizzarsi e infine diventare un’appendice dell’intero processo (sussunzione formale/sussunzione reale). Fino allo smart working che abbiamo sperimentato in queste ultime settimane – il sociologo Domenico De Masi oggi fa il Fourier del falanstero sociale – e fino all’emersione di quell’ambito di problemi che per brevità chiamerò datacratici, usando l’espressione – e il senso che ha voluto dargli – Daniele Gambetta in Datacrazia. Politica, cultura algoritmica e conflitti al tempo dei big data uscito per D Editore.
Da questo punto di vista il lavoratore – Arbeiter, non solo l’operaio della catena di montaggio interna all’opificio, alla fabbrica, ma il lavoratore in generale – è quel soggetto che partecipa in maniera subordinata, parcellizzata o addirittura in forma semi-automatica al processo di valorizzazione del capitale. Fa parte di questa valorizzazione tutto il sistema salariale e quando si dice sistema salariale si intende: lavoratori che percepiscono salario, disoccupati, inoccupati, ogni altro tipo di contribuzione esclusa dal vincolo del salario, e quindi anche il lavoro di riproduzione sociale – cura, lavoro domestico –, o esercito di riserva, migranti, schiavitù, come effettivo presupposto. Ogni segmento produttivo concorre alla formazione di pluslavoro. Anzi: tanto più viene invisibilizzato, tanto meglio vi concorre come gratuità effettiva. Chiamiamola anche sacrificio e sacralizzazione del dovere, all’abilismo, come prodotto del sistema etero-patriarcale, per come lo abbiamo conosciuto fino a oggi, per come ci ha resi fino a oggi, per come ci siamo arresi a questo fino a oggi, introiettandolo al punto da diventare feroci con la nostra e l’altrui fragilità.
L’arcano della critica dell’al di là era la critica dell’al di qua. L’arcano della critica dell’al di qua è la produzione. L’arcano della produzione è la riproduzione. Posta la critica della produzione, oggi la critica della riproduzione è il presupposto di ogni critica. Questa, se si vuole, è la nostra questione. La questione ecologica, declinata secondo una lettura integrata che guardi alle lotte per il reddito di cura e per la giustizia ambientale, a un New Green Deal Femminista e a stati di liberazione singolari, collettivi e permanenti. Alle lotte per il salario domestico e al femminismo queer. Dalla rivoluzione confederale nel Rojava, fino alle cose favolose che scrive Monique Wittig, dello sbarazzarci dell’«uomo» e della «donna», di categorie come «diverso» e «uguale», palesando un radicale antiessenzialismo, perché alla fine esiste solo un sesso oppresso e un sesso oppressore, ed è sempre l’oppressore a creare il significato, così come quando è stata la schiavitù a creare il negro. Mentre esiste davvero soltanto la libertà pubblica di essere chi si è, che vuol dire tutta la libertà che conta. Ed è già una sfida insostenibile per i più di noi.
Nel Marx revaival si trova persino una insolita estetica come la definisce Isabelle Garo. L’insolita estetica di Marx consiste, come si legge nei Grundrisse, per come riporta la Garo, in ciò: «una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle forze produttive, ecc. degli individui, creati nello scambio universale? […] Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz’altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire?».
Altro che la libertà negativa di un Voltaire: la condizione della mia libertà è il divenire, senz’altro presupposto che il precedente sviluppo storico, questa tipica forma di negatività dell’immaginazione e creatività umana, fonte ecologica di libertà, per cui ogni individuo, nell’esperienza del movimento del suo divenire, si mostra come differenza che fa differenza, vettore di emancipazione, condizione vivente di libertà da sé e di sé. Emancipazione come forma di sensibilità pratica, forma di attenzione alla propria intelligenza di specie, per la quale prossimo è la figura di un sé che diviene – anche del proprio sé. In questo senso ci si approssima all’altro, si è prossimi all’altro come a sé stessi.
A ogni stagione va riscoperto il segno di questa prima radice, la forza e la grazia degli oppressi, che come Marx ha insegnato, e i 21 autori che con Musto ci hanno ricordato, hanno da perdere, in questa danza scomposta e spossante, soltanto le loro catene. A ogni stagione si deve riconoscere che loro ci odiano, e che dobbiamo ricambiare. E loro sono i capitalisti, noi il proletariato di oggi, il proletariato della produzione e della riproduzione sociale. Il fatto che esiste una borghesia della riproduzione e un proletariato della riproduzione e anche un sottoproletariato della riproduzione sociale, e che questo sottoproletariato avanza il problema non rimandabile della sopravvivenza, che la sopravvivenza non si misura in capacità di adattarsi dell’organismo più forte, né col coefficiente di resilienza di quello più adatto alle sconfitte, ma attraverso la componente di indisponibilità di un corpo ben cosciente del fatto che la sopravvivenza è un sotto-vivere. A volte proprio un vivere-sotto, negli slums, nei vasci.
L’esperienza della nostra generazione
Siamo la prima generazione del sistema-mondo a vivere una pandemia e a crescere all’ombra di ogni altra pandemia futuribile. Come deve suonarci strano quel It’s easer to image the end of the world than the end of capitalism, ce lo racconteremo da qui in avanti, facendoci rimbalzare nella testa il Benjamin che lottava contro i deterministi della Seconda e Terza Internazionale con quel suo «il capitalismo non morirà di morte naturale», o l’André Gorz de «il capitalismo fondato sulla crescita è morto. Il socialismo fondato sulla crescita, che gli somiglia come un fratello, ci riflette l’immagine deformata non del nostro futuro ma del nostro passato», così come scrive all’inizio di Ecologia e libertà.
Che si tratti di colonizzare, di estrarre, di ridurre in schiavitù, di contaminare, il capitale comincia come furto e finisce come rovina. Sottrarsi al suo dominio è tanto difficile perché il suo dominio si basa sulla sottrazione: di tempo, di idee, di terra, di forza, e di ogni altra risorsa. E per quale motivo? Perché il capitale non può fare altrimenti.
Quando insorgono problemi sistemici che non possono più venir risolti in accordo con il modo di produzione dominante, come nel periodo che stiamo vivendo, la forma esistente dell’integrazione sociale è minacciata. Un meccanismo endogeno di apprendimento provvede all’accumulazione di un potenziale cognitivo-tecnico, che può venir utilizzato per risolvere i problemi che generano tali crisi. Ma questo sapere può essere messo in opera in modo da consentire un dispiegamento delle forze produttive soltanto se è già stato compiuto il passo evolutivo verso un nuovo quadro istituzionale e una nuova forma dell’integrazione sociale. Questo passo può essere spiegato solamente in base a processi di apprendimento di un altro tipo, cioè pratico-morale, scriveva Jürgen Habermas nel 1975, nella IV Tesi per la ricostruzione del materialismo storico.
Oggi sappiamo che questo quadro istituzionale, questa nuova forma di integrazione sociale, l’assimilazione nel fare quotidiano di un meccanismo endogeno di apprendimento che ha accumulato potenziale cognitivo-tecnico, general intellect che coabita col capitalismo delle piattaforme, in base a processi di apprendimento protico-morali, si chiama reddito universale incondizionato.