Sulle tracce di Che Guevara

La strada che Ernesto attraversò nelle ultime settimane di vita

È una notte freddissima e stellata quella che mi porta a Vallagrande.
Tutti sanno perché mi trovo qui. Sono venuto a visitare La ruta del Che, i luoghi dove Ernesto Guevara trascorse le ultime settimane della sua esistenza. Quelli che avevo cercato sull’atlante geografico di mio nonno nell’estate in cui lessi, per la prima volta, il Diario in Bolivia. Fuori dal centro abitato c’è la fossa comune – trasformata in museo – dove il Che, cui furono amputate anche le mani per testimoniarne in modo definitivo e certo la morte, venne seppellito con sei guerriglieri della sua colonna, nella notte tra il 10 e l’11 di ottobre del 1967.

Sono a bordo di un autobus vecchio e malridotto, come tutti quelli destinati a queste tratte remote, e condivido il lungo viaggio iniziato a Santa Cruz, su una strada di montagna e a tratti sterrata, con gente del posto che ritorna in paese dopo un faticosa domenica di mercato. Intorno a me gli sguardi incuriositi dei bambini avvolti in coperte colorate e i volti degli adulti segnati dalla stanchezza. Tutti sanno perché mi trovo lì. Sono venuto a visitare La ruta del Che, i luoghi dove Ernesto Guevara trascorse le ultime settimane della sua esistenza. Quelli che avevo cercato sull’atlante geografico di mio nonno nell’estate in cui lessi, per la prima volta, il Diario in Bolivia.

All’ingresso del paese c’è una grande statua di Gesù, sotto la quale, nonostante l’enorme ritardo della corriera e la temperatura sottozero, mi attende Anastasio Kohmann. Tedesco di nascita, giunse in Paraguay negli anni Sessanta, quando entrò giovanissimo in un ordine francescano. Espulso dal paese durante la dittatura fascista di Alfredo Stroessner, per il suo impegno sociale in favore delle comunità indigene guaranì, da allora vive qui. Non ha mai più abbandonato la “opzione preferenziale per i poveri” della Teologia della Liberazione e, da qualche anno, coordina le iniziative della Fondazione Che Guevara a Vallagrande. Chi conosce l’America latina sa bene che questa non è una contraddizione.

In precedenza, a Santa Cruz, avevo incontrato un uomo combattivo e di grande simpatia. Da sempre lo chiamano, a causa della sua bassa statura, el chato (il piccoletto). È un dottore che ha fatto il rivoluzionario e nella sua stanza i libri di medicina si alternano a quelli di marxismo. Alcuni di essi, ad esempio Un uomo di Oriana Fallaci, Senior Service di Carlo Feltrinelli o La ragazza che vendicò Che Guevara di Jürgen Schreiber, raccontano anche la storia della sua famiglia. Osvaldo Peredo, infatti, è il fratello di Inti e Coco, i rivoluzionari che accompagnarono il Che nella sua campagna di Bolivia (Inti, uno dei combattenti più vicini a Guevara, era il luogotenente delle operazioni militari) e, da molti anni, presidente della Fondazione Che Guevara in Bolivia.

Insieme, Anastasio e Osvaldo, mi guidano alla lavanderia dell’ospedale Nuestro Señor de Malta, nella quale il corpo del Che fu esposto al pubblico per l’ultima volta e venne fotografato, già privo di vita, ma con gli occhi ancora aperti. Qui, come in altri luoghi della zona, operano oggi gruppi di medici cubani giunti negli ultimi anni, in forza di un progetto di solidarietà voluto da Fidel Castro, allo scopo di realizzare nuovi e avanzati presidi sanitari che hanno notevolmente migliorato gli standard di cura e assistenza della regione.

Fuori dal centro abitato c’è la fossa comune – trasformata in museo – dove il Che, cui furono amputate anche le mani per testimoniarne in modo definitivo e certo la morte, venne seppellito in segreto, assieme ad altri sei guerriglieri della sua colonna, nella notte tra il 10 e l’11 di ottobre del 1967. Il luogo si trova poco distante dal comando militare e dal piccolo campo di aviazione presso i quali rangers boliviani e agenti della CIA guidarono le operazioni di rastrellamento dell’intero territorio per catturarlo. I suoi resti sono riapparsi soltanto dopo trent’anni, grazie alle ricerche del luogo esatto del seppellimento effettuate da un gruppo di antropologi cubani e argentini. Oggi sono conservati, in un mausoleo dedicato al Che, a Santa Clara, la città cubana dove, nel dicembre del 1958, egli aveva guidato la battaglia decisiva che segnò la vittoria della rivoluzione e la fine del regime di Fulgencio Batista.

Intorno all’ipotesi di recupero di questi luoghi, qualche settimana fa, rappresentanti dei governi argentino, boliviano e cubano si sono riuniti con l’ambizioso obiettivo di realizzare un itinerario delle tappe più significative della vita di Ernesto Guevara: la ruta del Che, appunto. È auspicabile che il progetto, già avviato in Argentina, prosegua ora anche in Bolivia, per sottrarre la memoria del Che al monopolio mercantile delle agenzie di viaggio.

Tra le montagne dell’America latina

Per giungere a La Higuera si impiegano circa tre ore. Ci si arriva solo in jeep perché la strada che conduce a questo minuscolo villaggio, di appena una cinquantina di abitazioni e a oltre 2.000 metri di altitudine, è del tutto priva d’asfalto e piena di tornanti. È un luogo desolato, lontano dal mondo.

Lungo il percorso incontro alcuni campesinos. Attraversano la strada sconnessa, camminando a passo lento. Mesti, con i loro arnesi da lavoro in spalla. Non sembra sia cambiato molto da quando il Che, entrato nel paese nei primi di novembre del 1966, durante la dittatura militare del generale René Barrientos, attraversò queste valli. Egli scelse la Bolivia non perché fosse guidato, come ingenuamente gli venne attribuito, dall’idea di riproporre meccanicamente, in un contesto diverso, le strategie politiche e militari attuate a Cuba. Né, tanto meno, per perseguire un obiettivo meramente nazionale, ma perché convinto della necessità di dover dare vita a un processo rivoluzionario che investisse tutto il Cono Sur. Un progetto sovranazionale, che dalla Bolivia si sarebbe poi rapidamente dovuto estendere anche a Perù e Argentina, quale unica possibilità per impedire agli Stati Uniti di intervenire e colpire a morte i singoli, e più deboli, focolai di resistenza locali. Questo era il suo progetto: “Creare due, tre… molti Vietnam”, come aveva scritto nell’articolo consegnato alla rivista Tricontinental qualche mese prima della sua morte. Per questa ragione, la Bolivia, al centro del continente e confinante con ben cinque paesi, gli sembrò il luogo più adatto dove poter avviare la formazione di un gruppo di quadri ai quali affidare, una volta addestrati, il compito di organizzare vari fronti di lotta in tutta l’America latina.

A fondare con lui l’Esercito di Liberazione Nazionale di Bolivia (ELN) vi furono soltanto 46 guerriglieri. Così Fidel Castro scrisse, nella Introduzione che accompagnò la pubblicazione del Diario in Bolivia: “Mai nella storia si è visto un numero così ridotto di uomini intraprendere un compito tanto gigantesco”. La morte arrivò inaspettata, 11 mesi dopo l’inizio della guerriglia. L’otto di ottobre del 1967 il Che, sorpreso in una gola chiamata la Quebrada del Yuro insieme ad altri 16 compagni, fu ferito alla gamba sinistra e catturato dopo tre ore di combattimento. Trasportato nella vicina La Higuera, fu assassinato il giorno seguente, per ordine di Barrientos e della CIA, dal militare Mario Terán, lo stesso che, nel 2006, sarà operato gratuitamente, riacquistando la vista, da uno dei medici cubani giunti in Bolivia, con il progetto di solidarietà Operación Milagro, in seguito all’elezione di Evo Morales. In proposito, il quotidiano Granma di L’Avana scrisse: “Quattro decenni dopo che Terán tentò di distruggere un sogno e un’idea, il Che è tornato a vincere un’altra battaglia. Ora Terán può di nuovo apprezzare il colore del cielo e della foresta e godere del sorriso dei suoi nipoti”.

Un’icona intramontabile

La notizia della morte del Che lasciò tutti increduli, ma le sue idee si diffusero con una rapidità che nella storia del Novecento ha pochi altri esempi ai quali poter essere confrontata. Ai suoi figli lasciò soltanto una lettera, nella quale, rivolgendo loro la raccomandazione a non dimenticare che “ognuno di noi, da solo, non vale nulla”, li esortò ad essere “sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa, contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo”. Un messaggio che comparve sulle bandiere del movimento operaio internazionale e che, ancora oggi, parla alle giovani generazioni dell’intero pianeta.

Nel dicembre del 1964, il Che intervenne all’Assemblea generale dell’ONU. Parlò dell’America latina e della lotta di liberazione dei suoi popoli, esponendo la convinzione che essa non sarebbe avvenuta solo con il contributo di soggetti, pur importantissimi, come partiti e intellettuali progressisti. Accanto “agli operai sfruttati – disse – questa epopea che sta davanti a noi la scriveranno le masse affamate degli indios e dei contadini senza terra”. Ai più parvero enunciazioni di un novello Quijote, ad altri, anche a sinistra, parole di un visionario. Oggi, invece, dopo la sconfitta delle dittature militari che hanno martoriato un intero continente e con l’avanzare, in quegli stessi luoghi, di una partecipazione sociale – dalle organizzazioni indigene di Ecuador e Bolivia al Movimento dei Sem-Terra in Brasile – fino a pochi anni fa impensabile, l’eredità del suo pensiero si ripresenta più attuale che mai.

Published in:

L'Unità

Pub Info:

26 August, 2012

Available in: