Il volume Sulle tracce di una Fantasma. L’opera di Marx tra filologia e filosofia, edito da manifestolibri e curato da Marcello Musto, raccoglie gli interventi di un omonimo convegno internazionale tenutosi a Napoli nell’aprile del 2004.
Un convegno importante perché ha offerto la possibilità di rilanciare una discussione su Marx a partire dal lavoro filologico intrapreso dai curatori e collaboratori dell’edizione critica delle opere di Marx ed Engels. È stato Manfred Neuhaus, nell’intervento di apertura, a delineare il piano completo della Marx-Engels-Gesamtausgabe, prevista in 114 volumi, ed il metodo filologico, orientato verso il moderno principio della genetica del testo, pienamente adottato solo dopo il 1989.
L’attenzione è rivolta a documentare il testo nel suo work in progress, dalle sue fasi iniziali, alle diverse stesure, fino alle diverse edizioni pubblicate. Un criterio che permette di mostrare come Marx riuscì solo lentamente e con molte difficoltà a fare chiarezza, sia terminologicamente sia concettualmente, su questioni importanti e ampiamente dibattute come la nozione di valore o di valore di scambio.
Ma il convegno è stato anche la proficua sede di confronto fra le più recenti interpretazioni marxiane. L’odierna ripresa di pubblicazioni e riedizioni di testi su Marx, non solo in Italia, ben testimonia una rinnovata curiosità da parte di giovani e meno giovani ricercatori verso i testi marxiani, in particolare verso quei manoscritti fino a poco tempo fa ancora inediti. Certamente i curatori dell’edizione critica hanno svolto un ruolo fecondo in tal senso.
Non essendo possibile rendere analiticamente conto di tutti gli interventi, possiamo limitarci solo a delineare alcuni degli assi portanti sui quali la discussione si è retta. Interessanti le osservazioni critiche svolte da Peter Thomas sulla giovanile Dissertazione marxiana su Democrito ed Epicuro: dopo aver mostrato come siano profondamente sbagliate tutte quelle interpretazioni che leggono già in questo scritto giovanile una tappa verso la maturazione del materialismo, Thomas sottolinea l’esigenza di rileggere la Dissertazione nella sua determinata congiuntura politica e filosofica, che ha più a che fare con la crisi dell’hegelismo che con il materialismo.
Interessanti anche le osservazioni svolte da Stathis Kouvélakis sui diversi concetti di rivoluzione maturati da Marx nel confronto politico con determinati eventi storici. È certamente, questa, la via più proficua per riflettere nuovamente su Marx, mettendo a confronto le diverse stesure degli scritti politici con la contingenza degli eventi storici. Ne emerge un Marx meno legato agli schematismi della filosofia della storia e maggiormente disponibile a lavorare con diversi concetti di storia.
La stessa attenzione potrebbe e dovrebbe essere rivolta agli scritti economici, che, al momento attuale, attraggano l’interesse maggiore degli interpreti. Anche perché solo nel 2004 è stata pubblicata l’edizione critica del terzo libro del Capitale, nel quale vengono segnalati i numerosissimi interventi di Engels. Ma l’interesse principale, quanto meno nella discussione napoletana, è stato nuovamente rivolto verso l’incipit del Capitale. Numerosi interventi – segnaliamo quelli di Roberto Finelli, Geert Reuten, Chris Arthur, Enrique Dussel, Riccardo Bellofiore, Fritz Haug e Michael Krätke – seppur con grandi differenze di accenti, hanno riportato l’analisi al problema della dialettica marxiana e del suo rapporto con Hegel, e, ancora di più, alla questione del lavoro astratto e del valore.
Il problema comune, attorno al quale emergono assensi e dissensi, può essere definito nei termini di un marxismo dell’astrazione, nel quale il vero soggetto del capitale sarebbe il capitale stesso che, come «soggetto automatico», impone la propria indifferenza verso ogni valore d’uso e la materialità dei processi. Geert Reuten parla di una «logica spettrale del capitale impadronitasi del mondo» (p. 234), e Finelli di una «totalizzazione del capitale» capace di penetrare, con la sua logica quantitativa, «in ogni sfera della vita» (p. 217); Chris Arthur, pur affermando la tendenza totalizzante e universalizzante del capitale, sottolinea come esso, a causa dell’irriducibile alterità del lavoro vivo, non possa essere un assoluto; ma non lo può essere nemmeno per Bellofiore, che sottolinea il carattere conflittuale del lavoro vivo.
Il problema investe in prima battuta il modo di comprendere il capitale: se inteso come totalità capace di sussumere nel processo di valorizzazione qualsiasi attività, rendendola con ciò capitalisticamente produttiva, abbiamo una visione onnipervasiva del capitale, che accomuna però i cantori della fine del valore a quanti, con gesto “primo francofortese”, ne sottolineano invece il dominio astratto e impersonale. Dall’altra parte il capitale viene invece pensato come rapporto: l’antagonismo di classe non è introdotto dall’esterno come corollario, ma è parte della sua analitica e va ritrovato fin nell’esposizione categoriale dei primi difficili capitoli del Capitale.
È questo un compito certamente difficile, ma che permetterebbe di abbandonare il terreno del confronto con la logica hegeliana per pensare marxianamente le conseguenze politiche di ogni singolo passaggio. A tale scopo, se è giusto tenersi lontani «dal fuorviante condizionamento dell’ideologia», non basta però solo evocare l’«inscindibile legame tra teoria e prassi» (p. 23); questo legame andrebbe riattraversato a partire dal grado di storia concreta presente nei passaggi più astratti dell’analisi marxiana.
In questa direzione nemmeno le integrazioni engelsiane dovrebbero essere accantonate come fraintendimenti e irrigidimenti della teoria da parte dell’amico meno raffinato di Marx in questioni teoretiche, ma dovrebbero essere comprese a partire da un preciso gesto politico, che cercava di piegare le scienze naturali dell’epoca in una direzione utile al movimento operaio. La storia dei marxismi è fatta anche di queste forzature; non tenerne conto significa riscriverla senza classe operaia.
Marcello
Musto