1. Comunismo come libera associazione
Nel Libro primo del Capitale, Marx argomentò che il capitalismo è un modo di produzione sociale «storicamente determinato», nel quale il prodotto del lavoro è trasformato in merce.
In conseguenza di questa peculiarità, gli individui hanno valore solo in quanto produttori e «l’esistenza dell’essere umano» è asservita all’atto della «produ[zione] di merci». Pertanto, è «il processo di produzione [a] padroneggi[are] gli esseri umani», non viceversa. Il capitale «non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro» e non ritiene rilevante il miglioramento delle condizioni del proletariato. Quello che gli «interessa è unicamente […] il massimo [sfruttamento] di forza lavoro […], così come un agricoltore avido ottiene aumentati proventi dal suolo rapinandone la fertilità».
Nei Grundrisse, Marx ricordò che, poiché nel capitalismo, «lo scopo del lavoro non è un prodotto particolare che sta in […] rapporto con i bisogni […] dell’individuo, ma [è, invece,] il denaro […], la laboriosità dell’individuo non ha alcun limite». In siffatta società «tutto il tempo di un individuo è posto come tempo di lavoro e [l’uomo] viene degradato a mero operaio, sussunto sotto il lavoro». Ciò nonostante, l’ideologia borghese presenta questa condizione come se l’individuo godesse di una maggiore libertà e fosse protetto da norme giuridiche imparziali, in grado di garantire giustizia ed equità. Paradossalmente, malgrado l’economia sia giunta a un livello di sviluppo in grado di consentire a tutta la società di vivere in condizioni migliori rispetto al passato, «le macchine più progredite costringono l’operaio a lavorare più a lungo di quanto era toccato al selvaggio o di quanto lui stesso aveva fatto, [prima di allora,] con strumenti più semplici e rozzi».
Al contrario, il comunismo fu definito da Marx come «un’associazione di liberi esseri umani che lavor[a]no con mezzi di produzione comuni e spend[o]no coscientemente le loro molteplici forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale». Definizioni simili sono presenti in numerosi manoscritti di Marx. Nei Grundrisse, egli scrisse che la società postcapitalista si sarebbe fondata sulla «produzione sociale». Nei Manoscritti economici del 1863-1867, parlò del «passaggio del modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato. Nella Critica al programma di Gotha (1875), Marx definì l’organizzazione sociale «fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione» come «società cooperativa».
Nel Libro primo del Capitale, Marx chiarì che il «principio fondamentale» di questa «forma superiore di società» sarebbe stato il «pieno e libero sviluppo di ogni individuo». Ne La guerra civile in Francia, espresse la sua approvazione per le misure adottate dai comunardi che lasciavano «presagire la tendenza di un governo del popolo per il popolo». Più precisamente, nelle sue valutazioni circa le riforme politiche della Comune di Parigi, egli ritenne che «il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il passo, anche nelle province, all’autogoverno dei produttori». L’espressione venne ripresa negli Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin, dove specificò che un radicale cambiamento sociale avrebbe avuto «inizio con l’autogoverno della comunità». L’idea di società di Marx è, dunque, l’antitesi dei totalitarismi sorti in suo nome nel XX secolo. I suoi testi sono utili non solo per comprendere il modo di funzionamento del capitalismo, ma anche per individuare le ragioni dei fallimenti delle esperienze socialiste fin qui compiute.
In riferimento al tema della cosiddetta libera concorrenza, ovvero l’apparente eguaglianza con la quale operai e capitalisti si trovano posti sul mercato nella società borghese, Marx dichiarò che essa era tutt’altro dalla libertà umana tanto esaltata dagli esegeti del capitalismo. Egli riteneva che questo sistema costituisse un grande impedimento per la democrazia e mostrò, meglio di chiunque altro, che i lavoratori non ricevono il corrispettivo di quello che producono. Nei Grundrisse, spiegò che quanto veniva rappresentato come uno «scambio di equivalenti» era, invece, «appropriazione di lavoro altrui senza scambio, ma sotto la parvenza dello scambio». Le relazioni tra le persone erano «determinate soltanto dai loro interessi egoistici». Questa «collisione di individui» era stata spacciata come la «forma assoluta di esistenza della libera individualità nella sfera della produzione e dello scambio». Per Marx non vi era, in realtà, «niente di più falso», poiché, «nella libera concorrenza, non gli individui, ma il capitale è posto in condizioni di libertà». Nei Manoscritti economici del 1861-63 egli denunciò che era «il capitalista a incassare questo pluslavoro – [che era] […] tempo libero [e] […] la base materiale dello sviluppo e della cultura in generale […] – in nome della società». Nel Libro primo del Capitale, egli denunciò che la ricchezza della borghesia è possibile solo mediante la «trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse».
Nei Grundrisse, Marx osservò che nel capitalismo «gli individui sono sussunti dalla produzione sociale», la quale esiste come qualcosa che è a «loro estraneo». Essa viene realizzata solamente in funzione dell’attribuzione del valore di scambio conferito ai prodotti, la cui compravendita avviene soltanto «post festum». Inoltre, «tutti i fattori sociali della produzione», comprese le scoperte scientifiche che si palesano come «una scienza altrui, esterna all’operaio», sono poste dal capitale. Lo stesso associarsi degli operai nei luoghi e nell’atto della produzione è «operato dal capitale» ed è, pertanto, «soltanto formale». L’uso dei beni creati da parte dei lavoratori «non è mediat[o] dallo scambio di lavori o di prodotti di lavoro reciprocamente indipendenti [, bensì] […] dalle condizioni sociali della produzione entro le quali agisce l’individuo». Marx fece comprendere come l’attività produttiva nella fabbrica «riguarda[sse] solo il prodotto del lavoro, non il lavoro stesso», dal momento che avveniva «in un ambiente comune, sotto vigilanza, irreggimentazione, maggiore disciplina, immobilità e dipendenza».
Nel comunismo, invece, la produzione sarebbe stata «immediatamente sociale […], il risultato dell’associazione che ripartisce il lavoro al proprio interno». Essa sarebbe stata controllata dagli individui come «loro patrimonio comune». Il «carattere sociale della produzione» avrebbe fatto sì che l’oggetto del lavoro fosse stato, «fin dal principio, un prodotto sociale e generale». Il carattere associativo «è presupposto» e «il lavoro del singolo si pone, sin dalla sua origine, come lavoro sociale». Come volle sottolineare nella Critica al programma di Gotha, nella società postcapitalistica «i lavori individuali non [sarebbero] più diventa[ti] parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto». In aggiunta, gli operai avrebbero potuto creare le condizioni per una «scomparsa [del]la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro».
Nel Libro primo del Capitale, Marx evidenziò che nella società borghese «l’operaio esiste in funzione del processo di produzione e non il processo di produzione per l’operaio». Inoltre, parallelamente allo sfruttamento dei lavoratori, si manifestava anche quello verso l’ambiente. All’opposto delle interpretazioni che hanno assimilato la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, il suo interesse per la questione ecologica fu rilevante. Marx denunciò, ripetutamente, che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico determinava un aumento «non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo». Per suo tramite, venivano minate entrambe le «fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio».
Nel comunismo, viceversa, si sarebbero create le condizioni per una forma di «cooperazione pianificata», in virtù della quale «l’operaio si [sarebbe] spoglia[to] dei suoi limiti individuali e [avrebbe] sviluppa[to] la facoltà della sua specie». Nel Libro secondo Marx scrisse che nel comunismo la società sarebbe stata in grado di «calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e di sussistenza [avrebbe potuto] adoperare». Essa si sarebbe così differenziata, anche da questo punto di vista, dal capitalismo, sotto il quale «l’intelletto sociale si fa valere sempre soltanto post festum, [facendo] così intervenire, costantemente, grandi perturbamenti». Anche in alcuni brani del Libro terzo, Marx offrì chiarimenti sulle differenze tra il modo di produzione socialista e quello basato sul mercato, auspicando la nascita di una società «organizzata come una associazione cosciente e sistematica». Egli affermò che «è solo quando la società controlla efficacemente la produzione, regolandola in anticipo, che essa crea il legame fra la misura del tempo di lavoro sociale dedicato alla produzione di un articolo determinato e l’estensione del bisogno sociale che tale articolo deve soddisfare».
Nelle Glosse marginali al «Trattato di economia politica» di Adolf Wagner, infine, compare un’altra indicazione in proposito: «il volume della produzione» avrebbe dovuto essere «regolato razionalmente». L’applicazione di questo criterio avrebbe consentito di abbattere anche gli sprechi dell’«anarchico sistema della concorrenza», il quale, nel ricorrere delle sue crisi strutturali, oltre a «determina[re] lo sperpero smisurato dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro sociali», non era in grado di risolvere le contraddizioni derivanti dall’introduzione dei macchinari, dovute essenzialmente «al loro uso capitalistico».
2. Proprietà collettiva e tempo libero
Per ribaltare questo stato di cose, contrariamente a quanto credevano molti socialisti contemporanei a Marx, non bastava modificare la redistribuzione dei beni di consumo. Occorreva modificare alla radice gli assetti produttivi della società. Fu per questo che, nei Grundrisse, Marx annotò che «lasciare sussistere il lavoro salariato e, allo stesso tempo, sopprimere il capitale [era] una rivendicazione che si autocontraddice[va]». Occorreva, viceversa, la «dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio». Nel discorso pubblicato con il titolo Salario, prezzo e profitto, egli ammonì gli operai affinché sulle loro bandiere non apparisse «la parola d’ordine conservatrice “Equo salario per un’equa giornata di lavoro”», ma il «motto rivoluzionario “Soppressione del sistema del lavoro salariato”».
Per di più, come si trova dichiarato nella Critica al programma di Gotha, nel modo di produzione capitalistico «le condizioni materiali della produzione [erano] a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa [era] soltanto proprietaria della [propria] forza lavoro». Pertanto, era essenziale rovesciare i rapporti proprietari alla base del modo di produzione borghese. Nei Grundrisse, Marx ricordò che «le leggi della proprietà privata – ovvero la libertà, l’uguaglianza, la proprietà sul lavoro e la sua libera disposizione – si riversano nella mancanza di proprietà dell’operaio, nell’espropriazione del suo lavoro e nel suo riferirsi a esso come proprietà altrui». In un intervento svolto, nel 1869, al Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Marx affermò che la «proprietà privata dei mezzi di produzione» serviva soltanto ad assicurare alla classe borghese il «potere con il quale essa [avrebbe] costr[etto] altri esseri umani a lavorare» per lei. Egli ribadì lo stesso concetto in un altro breve scritto politico, il Programma elettorale dei lavoratori socialisti, aggiungendo che «i produttori possono essere liberi solo quando sono in possesso dei mezzi di produzione» e che l’obiettivo della lotta del proletariato doveva essere la «restituzione alla comunità di tutti i mezzi di produzione».
Nel Libro terzo del Capitale, Marx osservò che, quando i lavoratori avrebbero instaurato un modo di produzione comunista, «la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui [sarebbe] appar[sa] così assurda come la proprietà privata di un essere umano da parte di un altro essere umano». Egli manifestò la sua più radicale critica verso l’idea di possesso distruttivo insita nel capitalismo, ricordando che «anche un’intera società, una nazione, o anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra». Per Marx, gli esseri umani erano «soltanto […] i suoi usufruttuari» e, dunque, avevano «il dovere di tramandare alle generazioni successive [il mondo] migliorato, come boni patres familias».
Un diverso assetto della proprietà dei mezzi di produzione avrebbe mutato alla radice anche i tempi di vita della società. Nel Libro primo del Capitale, Marx disvelò, con inequivocabile chiarezza, le ragioni per le quali, nel capitalismo, «l’economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva del lavoro non ha affatto lo scopo di accorciare la giornata lavorativa». Il tempo che il progredire della tecnica e della scienza renderebbe disponibile per i singoli viene, infatti, immediatamente convertito in pluslavoro. La classe dominante ha come unica ambizione quella di «ridurre il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci». Il suo solo scopo è quello di sviluppare la forza produttiva con il solo fine di «abbrevia[re] la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per sé stesso, per prolungare […] la parte […] nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista». Questo sistema differisce dalla schiavitù o dalle corvées dovute al signore feudale, poiché «pluslavoro e lavoro necessario sfumano l’uno nell’altro» e rendono più difficilmente percettibile l’entità dello sfruttamento.
Nei Grundrisse, Marx mise bene in evidenza che è solo grazie a questo surplus del tempo di lavoro di tutti che si rende possibile il «tempo libero per alcuni». La borghesia consegue l’accrescimento delle sue facoltà materiali e culturali solo grazie alla limitazione imposta a quello del proletariato. Lo stesso accade nelle nazioni capitalisticamente più avanzate, a discapito delle periferie del sistema. Nei Manoscritti economici del 1861-1863, Marx ribadì che il progresso della classe dominante è speculare alla «mancanza di sviluppo della massa lavoratrice». Il tempo libero della prima «corrisponde al tempo asservito» dei lavoratori; «lo sviluppo sociale dell’una fa del lavoro di [questi] altr[i] la propria base naturale». Questo tempo di pluslavoro degli operai non solo è il pilastro sul quale poggia la «esistenza materiale» della borghesia, ma crea la condizione anche per il suo «tempo libero, la sfera del [suo] sviluppo». Come meglio non si potrebbe dichiarare: «il tempo libero dell’una corrisponde al […] tempo soggiogato al lavoro […] dell’altra».
Per Marx, al contrario, la società comunista sarebbe stata caratterizzata da una diminuzione generalizzata dei tempi di lavoro. Nel documento Istruzioni per i delegati del Consiglio Generale provvisorio. Le differenti questioni, da lui predisposto per il primo congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori, enunciò che la riduzione della giornata lavorativa era la «condizione preliminare senza la quale [sarebbero] aborti[ti] tutti gli ulteriori tentativi di miglioramento e di emancipazione». Era necessario non solo «fare recuperare l’energia e la salute alla classe lavoratrice», ma anche «fornire a essa la possibilità di sviluppo intellettuale, di relazioni e attività sociali e politiche». Nel Libro primo del Capitale, Marx argomentò che il «tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per la libera espressione delle energie vitali, fisiche e mentali», considerati dai capitalisti «fronzoli puri e semplici», sarebbero stati gli elementi fondativi della nuova società. Il decremento delle ore destinate al lavoro – non solo del tempo di lavoro necessario per creare nuovo pluslavoro in favore della classe capitalista – avrebbe favorito, così appuntò Marx nei Grundrisse, «il libero sviluppo delle individualità», ovvero «la formazione e lo sviluppo artistico e scientifico […] degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro».
Sulla base di queste convinzioni, egli ravvisò nella «economia di tempo, e [nella] ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, la prima legge economica alla base della produzione sociale». Nelle Teorie sul plusvalore precisò, ancor più, che «la ricchezza non è niente altro che tempo disponibile». Nella società comunista l’autogestione dei lavoratori avrebbe dovuto assicurare una maggiore quantità di tempo che non doveva essere «assorbito dal lavoro immediatamente produttivo, [ma] dar[e] luogo al godimento, all’ozio e, pertanto, alla libera attività e al libero sviluppo». In questo testo, così come nei Grundrisse, Marx citò un breve pamphlet intitolato La fonte e il rimedio delle difficoltà nazionali dedotte dai principi di economia politica in una lettera al signor John Russell, del quale condivideva pienamente la definizione di benessere formulata dall’anonimo autore: «una nazione si può dire veramente ricca, quando in essa invece di lavorare per 12 ore si lavora soltanto per sei. La ricchezza reale non è l’imposizione del tempo di lavoro supplementare, ma è il tempo [che viene reso] disponibile a ogni individuo e a tutta la società, fuori da quello usato nella produzione immediata». La medesima idea si trova ribadita in un altro brano dei Grundrisse, nel quale Marx domandava retoricamente: «che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive degli individui? […] Che cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle [loro] doti creative?». È evidente, dunque, che il modello socialista al quale egli guardava non contemperava uno stato di miseria generalizzata, ma il conseguimento di una maggiore ricchezza collettiva.
3. Ruolo dello Stato, diritti individuali e libertà
Nella società comunista, accanto alle trasformazioni dell’economia, avrebbero dovuto essere ridefiniti anche il ruolo dello Stato e le funzioni della politica. Ne La guerra civile in Francia, Marx tenne a chiarire che, in seguito alla presa del potere, la classe lavoratrice avrebbe dovuto lottare per «estirpare le basi economiche sulle quali riposa l’esistenza delle classi e, quindi, il dominio di classe». Una volta che sarà «emancipato il lavoro, ogni essere umano div[errà] un lavoratore e il lavoro produttivo cess[erà] di essere l’attributo di una classe». La nota affermazione «la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina statale così com’è» stava a significare, come Marx ed Engels spiegarono nell’opuscolo Le cosiddette scissioni nell’Internazionale, che il movimento operaio avrebbe dovuto tendere a trasformare «le funzioni governative […] in semplici funzioni amministrative». Anche se con una formulazione alquanto concisa, negli Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin, Marx spiegò che «la distribuzione delle funzioni [governative avrebbe dovuto] diven[tare] un fatto amministrativo che non attribuisce alcun potere». In questo modo, si sarebbe potuto evitare, quanto più possibile, che l’esercizio degli incarichi politici generasse nuove dinamiche di dominio e soggezione.
Marx valutò che, con lo sviluppo della società moderna, «il potere dello Stato [aveva] assu[nto] sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di una forza pubblica organizzata di asservimento sociale, di uno strumento del dispotismo di classe». Nel comunismo, al contrario, i lavoratori avrebbero dovuto impedire che lo Stato divenisse un ostacolo alla piena emancipazione degli individui. A essi Marx indicò la necessità che «gli organi meramente repressivi del vecchio potere governativo [fossero] amputati», mentre le sue «funzioni legittime» avrebbe[ro] dovuto essere «strappate da un’autorità che usurpava il primato della società […] e restituite agli agenti responsabili della società». Nella Critica al programma di Gotha Marx chiarì che «la libertà consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa», chiosando con sagacia che «le forme dello Stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la “libertà dello Stato”».
In questo stesso testo, Marx sottolineò anche l’esigenza che, nella società comunista, le politiche pubbliche privilegiassero la «soddisfazione collettiva dei bisogni». Le spese per le scuole, le istituzioni sanitarie e gli altri beni comuni sarebbero «notevolmente aumentat[e] fin dall’inizio, rispetto alla società attuale, e [sarebbero] aument[ate] nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando». L’istruzione avrebbe assunto una funzione di primario rilievo e, così come aveva ricordato ne La guerra civile in Francia, riferendosi al modello adottato dai comunardi parigini nel 1871, «tutti gli istituti di istruzione [sarebbero] stati aperti gratuitamente al popolo e liberati da ogni ingerenza sia della Chiesa che dello Stato». Solo così la cultura sarebbe «stata resa accessibile a tutti» e la scienza affrancata sia «dai pregiudizi di classe [che] dalla forza del governo».
Differentemente dalla società liberale, nella quale «l’eguale diritto» lascia inalterate le disuguaglianze esistenti, per Marx nella società comunista «il diritto [avrebbe] dov[uto] essere disuguale, invece di essere uguale». Una sua trasformazione in tal senso avrebbe riconosciuto, e tutelato, gli individui in base ai loro specifici bisogni e al minore o maggiore disagio delle loro condizioni, poiché «non sarebbero individui diversi, se non fossero disuguali». Sarebbe stato possibile, inoltre, determinare la giusta partecipazione di ciascuna persona ai servizi e alla ricchezza disponibile. La società che ambiva a seguire il principio «ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» aveva, davanti a sé, questo cammino complesso e irto di difficoltà. Tuttavia, l’esito finale non era garantito da «magnifiche sorti e progressive» e, allo stesso tempo, non era irreversibile.
Marx assegnò un valore fondamentale alla libertà individuale e il suo comunismo fu radicalmente diverso tanto dal livellamento delle classi, auspicato da diversi suoi predecessori, quanto dalla grigia uniformità politica ed economica, realizzata da molti suoi seguaci. Nell’Urtext, però, pose l’accento anche sull’«errore di quei socialisti, specialmente francesi», che, considerando «il socialismo [quale] realizzazione delle idee borghesi», avevano cercato di «dimostrare che il valore di scambio [fosse], originariamente […], un sistema di libertà ed eguaglianza per tutti, […] falsificato [… poi] dal capitale». Nei Grundrisse, Marx etichettò come «insulsaggine [quella] di considerare la libera concorrenza quale ultimo sviluppo della libertà umana». Difatti, questa tesi «non significa[va] altro se non che il dominio della borghesia [era] il termine ultimo della libertà umana», idea che, ironicamente, Marx definì «allettante per i parvenus».
Allo stesso modo, egli contestò l’ideologia liberale secondo la quale «la negazione della libera concorrenza equivale alla negazione della libertà individuale e della produzione sociale basata sulla libertà individuale». Nella società borghese si rendeva possibile soltanto un «libero sviluppo su base limitata, sulla base del dominio del capitale». A suo avviso, «questo genere di libertà individuale [era], al tempo stesso, la più completa soppressione di ogni libertà individuale e il più completo soggiogamento dell’individualità alle condizioni sociali, le quali assumono la forma di poteri oggettivi […] [e] oggetti indipendenti […] dagli stessi individui e dalle loro relazioni».
L’alternativa all’alienazione capitalistica era realizzabile solo se le classi subalterne avessero preso coscienza della loro condizione di nuovi schiavi e avessero dato inizio alla lotta per una trasformazione radicale del mondo nel quale venivano sfruttati. La loro mobilitazione e la loro partecipazione attiva a questo processo non poteva arrestarsi, però, all’indomani della presa del potere. Avrebbe dovuto proseguire al fine di scongiurare la deriva verso un socialismo di Stato nei cui confronti Marx manifestò sempre la più tenace e convinta opposizione.
In una significativa lettera indirizzata, nel 1868, al presidente dell’Associazione generale degli operai tedeschi, Marx spiegò che «l’operaio non andava trattato con provvedimenti burocratici», affinché potesse obbedire «all’autorità e ai superiori; la cosa più importante era insegnargli a camminare da solo». Egli non mutò mai questa convinzione nel corso della sua esistenza. Non a caso, come primo punto degli Statuti dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, da lui redatto, aveva posto: «l’emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi». Aggiungendo, in quello immediatamente successivo, che la loro lotta non doveva «tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire diritti e doveri eguali per tutti».
Molti dei partiti e dei regimi politici sorti nel nome di Marx, utilizzando in modo strumentale e citando impropriamente il concetto di «dittatura del proletariato», non hanno seguito la direzione da lui indicata. Tuttavia, ciò non vuol dire che non sia possibile provarci ancora.
References
1. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 108.
2. Ibid., p. 111.
3. Ibid., p. 113.
4. Ibid., p. 301.
5. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., i, p. 185.
6. Ibid., ii, p. 406.
7. Ibid., p. 405.
8. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 110.
9. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., i, p. 117.
10. K. Marx, Ökonomische Manuskripte 1863-1867, mega2, ii/4.2, Dietz Verlag, Berlin 2012, p. 662.
11. K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 14. Palmiro Togliatti ha erroneamente tradotto questa espressione con il termine «società collettivista».
12. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 648.
13. K. Marx, La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, in Marx Engels Opere, xxii, La Città del Sole-Editori Riuniti, Napoli-Roma 2008, p. 304.
14. Ibid., p. 297.
15. Marx, Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin cit., p. 356.
16. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., ii, p. 141.
17. Ibid., p. 333.
18. K. Marx, Manoscritti economici del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 200.
19. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 578.
20. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., i, p. 100.
21. Ibid.
22. Ibid., p. 117.
23. Ibid., ii, p. 241.
24. Ibid., p. 393.
25. Ibid., i, p. 118.
26. Ibid., ii, 243
27. Ibid., p. 244.
28. Ibid., i, p. 100.
29. Ibid., p. 117.
30. Ibid.
31. Marx, Critica al programma di Gotha cit., pp. 14-5.
32. Ibid., p. 17.
33. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 537.
34. Ibid., p. 552.
35. Ibid., p. 553.
36. Ibid., p. 371.
37. K. Marx, Il capitale. Libro secondo. Il processo di circolazione del capitale, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 331.
38. K. Marx, Il capitale. Libro terzo. Il processo complessivo della produzione capitalistica, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 763.
39. Ibid., p. 231.
40. Marx, Glosse marginali al «Trattato di economia politica» di Adolf Wagner cit., p. 1409.
41. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 578.
42. Ibid., p. 486.
43. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., i, p. 296.
44. Ibid., p. 241.
45. Marx, Salario, prezzo e profitto cit., p. 150.
46. Marx, Critica al programma di Gotha cit., p. 18.
47. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., ii, p. 364.
48. Marx, Critica dell’anarchismo cit., p. 279.
49. J. Guesde, P. Lafargue, K. Marx, Programma elettorale dei lavoratori socialisti, in M. Musto, L’ultimo Marx, 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, Donzelli, Roma 2016, pp. 137-40.
50. Marx, Il capitale. Libro terzo cit., p. 887.
51. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 360.
52. Ibid., pp. 360-1.
53. Ibid., p. 271.
54. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., ii, p. 404.
55. K. Marx, Manoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 194
56. Ibid., p. 195
57. Ibid.
58. Ibid., p. 194
59. K. Marx, Risoluzioni del Congresso di Ginevra, in Prima Internazionale, Lavoratori di tutto il mondo, unitevi! cit., p. 35.
60. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 300.
61. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., ii, p. 402.
62. Ibid., i, pp. 118-9.
63. K. Marx, Teorie sul plusvalore iii, in Marx Engels Opere, xxxvi, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 274.
64. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., ii, p. 402.
65. Ibid., p. 112.
66. Marx, La guerra civile in Francia cit., p. 300.
67. K. Marx – F. Engels, Le cosiddette scissioni nell’Internazionale, in Idd., Critica dell’anarchismo cit., p. 76.
68. Marx, Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin cit., p. 357.
69. Marx, La guerra civile in Francia cit., p. 294.
70. Ibid., p. 298.
71. Marx, Critica al programma di Gotha cit., p. 28.
72. Ibid., p. 14.
73. Marx, La guerra civile in Francia cit., p. 297.
74. Marx, Critica al programma di Gotha cit., p. 18.
75. K. Marx, Frammento del testo primitivo, in Id., Scritti inediti di Economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 91.
76. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica cit., ii, p. 335.
77. Karl Marx a Johann Baptist von Schweitzer, 13 ottobre 1868, in K. Marx, Lettere: gennaio 1868-luglio 1870, Marx Engels Opere, xliii, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 620.
78. K. Marx, Indirizzo inaugurale e statuti provvisori dell’Associazione Internazionale degli Operai, in Marx Engels Opere, xx, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 14.
Marcello
Musto