Nel 2018 qual è il senso di uno studio e della relativa pubblicazione che ripropone Karl Marx?
Dallo studio di nuovi e preziosi materiali che utilizzo nel mio libro, emerge un Marx diverso da quello rappresentato, per lungo tempo, da tanti suoi critici o presunti seguaci. L’analisi dei manoscritti risalenti al periodo dell’elaborazione più matura di Marx – il mio libro spazia dal 1857 al 1883 – mostra che egli non solo continuò, fino alla fine della sua esistenza, le sue ricerche di economia politica, ma riuscì persino ad ampliare il raggio dei suoi interessi a nuove discipline. Risalgono a questa fase gli studi intrapresi al fine di accrescere le sue conoscenze sulle scoperte che erano intervenute nel campo delle scienze naturali, intorno alla proprietà comune nelle società precapitaliste, alle trasformazioni in atto in Russia a seguito dell’abolizione della servitù della gleba, allo sviluppo del capitalismo negli Stati Uniti d’America e in antropologia. Allo stesso modo, egli fu attento osservatore dei principali avvenimenti di politica internazionale della sua epoca, e sostenne, con decisione, l’indipendenza nazionale della Polonia, l’abolizione dalla schiavitù durante la Guerra di Secessione Americana e la lotta per la liberazione dell’Irlanda. Il suo intenso coinvolgimento verso questi accadimenti e la sua ferma opposizione al colonialismo europeo palesa, dunque, un Marx completamente diverso dalla vulgata che lo ha descritto come eurocentrico, economicista e interessato solo all’analisi della sfera produttiva e al conflitto di classe tra capitale e lavoro.
Dal secolo breve dei due blocchi contrapposti alle guerre commerciali con alleanze variabili che al centro vedono lo scontro Usa-Cina: siamo alla “fase finale” del capitalismo? Come si legge in chiave marxista?
Quello della fine del capitalismo è stato un tema ricorrente nella storia del marxismo. Molti epigoni di Marx hanno erroneamente sostenuto, in particolare in tempi di crisi economiche, che la “teoria del crollo”, ovvero la tesi della fine incombente e autogenerantesi della società borghese, fosse l’essenza più intima del socialismo scientifico. In realtà, con la sua analisi Marx descrisse delle tendenze dell’economia e si guardò bene dal formulare leggi storiche universalmente valide, dalle quali far discendere, il corso degli eventi. Oggi il capitalismo appare ancora più forte che nel Novecento e le sue dinamiche di sfruttamento assomigliano a quelle esistenti ai tempi di Marx. Il capitalismo viene nuovamente rappresentato come un modo di produzione eterno e immutabile e protezionismi e guerre commerciali sono dinamiche che non ne mettono certo a repentaglio l’esistenza.
L’Italia è ormai pienamente egemonizzata da una cultura di destra, discriminatoria e regressiva che auspica forme autoritarie: dove individui le responsabilità degli ultimi 20 anni che hanno portato in questa situazione?
Ispirati dalla Strategia di Lisbona, il programma economico approvato nel 2000, dai paesi dell’Unione Europea, sono stati proprio i governi a guida laburista, socialista e socialdemocratica a porre in atto, quasi allo stesso modo di quelli di centro-destra, controriforme economiche che hanno devastato il modello sociale europeo. Essi hanno introdotto forti tagli della spesa pubblica, precarizzato i rapporti lavorativi (limitando le tutele legislative e peggiorando le condizioni generali), praticato le cosiddette politiche di “moderazione” salariale e liberalizzato i mercati e i servizi, come sostenuto dalla sciagurata “direttiva Bolkestein” del 2006.
Quindi delinea gravi responsabilità dei governi del “socialismo europeo”?
Rispetto agli indirizzi di politica economica, è difficile rintracciare differenze, se non del tutto marginali, tra l’operato degli esecutivi socialisti e quello dei governi conservatori in carica nello stesso periodo. Anzi, in molti casi i partiti socialdemocratici, o le compagini di centro-sinistra, risultarono ancora più funzionali al progetto neoliberista. Le loro decisioni, infatti, riscossero un più facile consenso da parte delle organizzazioni sindacali, guidati dalla vecchia, quanto illusoria, logica del “governo amico”. Nel tempo, la scelta di adottare un modello concertativo e poco conflittuale rese i sindacati sempre meno rappresentativi delle fasce sociali più deboli.
Diventa imprescindibile invertire i processi di privatizzazione che hanno caratterizzato la controrivoluzione degli ultimi decenni, restituendo alla proprietà pubblica tutti quei beni comuni trasformati da servizi per la collettività in mezzi per generare profitto per pochi.
La rilettura moderna di Marx guarda al futuro. Pensi che in Italia ci siano organizzazioni, leader politici e sindacali in grado di cogliere l’opportunità del pensiero marxista?
Quando era esponente dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, Marx affermò che “l’operaio non andava trattato con provvedimenti burocratici”, affinché potesse obbedire “all’autorità e ai superiori”. Per Marx la cosa più importante era “insegnargli a camminare da solo”. Egli non mutò mai questa convinzione nel corso della sua esistenza. Non a caso, come primo punto degli Statuti dell’Internazionale, da lui redatto, egli pose: “l’emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi”. Pertanto, una caratteristica fondamentale delle organizzazioni che vogliono rifarsi a Marx (in questo caso, mi riferisco proprio al Marx dirigente politico, non soltanto al teorico) è quello di estendere l’auto-organizzazione. Non una sommatoria di gruppi dirigenti, al fine di creare una nuova sigla elettorale destinata a scomparire dopo le prossime elezioni, ma promuovere la partecipazione della base e lasciare, il più possibile, il potere decisionale ai militanti. Mi pare un primo, ma indispensabile, punto dal quale è necessario ripartire, evitando, però, i pericoli plebiscitari caratteristici delle forze che discutono e decidono solo sulla rete. La vasta e ricchissima storia del movimento operaio va riscoperta e ha molto da insegnarci anche rispetto alle forme dell’organizzazione politica.
Marcello
Musto