Il pensiero socialista ha offerto il suo apporto più interessante alla comprensione del fenomeno della guerra evidenziando il forte nesso esistente tra lo sviluppo del capitalismo e la propagazione della guerra. I dirigenti della Prima Internazionale evidenziarono che le guerre non sono provocate dalle ambizioni dei monarchi, bensì sono determinate dal modello economico-sociale dominante. La lezione di civiltà del movimento operaio nacque dal convincimento che ogni guerra andava considerata “come una guerra civile”. Nel Capitale, Marx affermò che la violenza era una potenza economica, “la levatrice di ogni vecchia società che è gravida di una nuova”. Tuttavia, non concepì la guerra come una necessaria scorciatoia per la trasformazione rivoluzionaria e impiegò una parte consistente della sua militanza politica per vincolare la classe operaia al principio della solidarietà internazionale.
Con l’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee, la controversia sulla guerra assunse un peso sempre più rilevante nel dibattito della Seconda Internazionale. Nel congresso della sua fondazione, venne approvata una mozione che sanciva la pace quale “condizione prima indispensabile di ogni emancipazione operaia”. Tuttavia, con il passare degli anni, essa si impegnò sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace e la maggior parte delle forze riformiste europee finì con l’appoggiare la Prima Guerra Mondiale. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Il movimento operaio condivise gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. Per Lenin, invece, i rivoluzionari dovevano “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, poiché quanti volevano una pace veramente “democratica e duratura” dovevano eliminare la borghesia e i governi colonialisti.
La “Grande Guerra” procurò divisioni anche nel movimento anarchico. Kropotkin postulò la necessità di “resistere a un aggressore che rappresenta l’annientamento di tutte le nostre speranze di emancipazione”. La vittoria della Triplice Intesa contro la Germania costituiva il male minore per non compromettere il livello di libertà esistente. Al contrario, Malatesta espresse la convinzione che la responsabilità del conflitto non poteva ricadere su un singolo governo e che non andava “fatta nessuna distinzione tra guerra offensiva e difensiva”.
Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. La necessità di sostituire gli uomini inviati al fronte, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche nel movimento suffragista. Contrastare quanti agitavano lo spauracchio dell’aggressore, per derubricare fondamentali riforme sociali, fu una delle conquiste più significative della Luxemburg e delle femministe comuniste del tempo. Esse indicarono come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato.
Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l’URSS fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che divenne, poi, un elemento centrale dell’unità nazionale russa. Con la suddivisione del mondo in due blocchi, Stalin ritenne che il compito principale del movimento comunista internazionale fosse la salvaguardia dell’URSS. La costituzione di una zona cuscinetto di otto paesi, in Europa dell’Est, rappresentò un elemento centrale di questa politica. Con Chruščëv, venne inaugurato un ciclo politico che prese il nome di Coesistenza Pacifica. Tuttavia, questo tentativo di “collaborazione costruttiva” fu intrapreso esclusivamente nei rapporti con gli USA e non con i paesi del “socialismo reale”. Nel 1956, l’URSS aveva già represso nel sangue la rivolta ungherese. Eventi analoghi accaddero in Cecoslovacchia, nel 1968. Alle richieste di democratizzazione, fiorite con la “Primavera di Praga”, il PCUS rispose inviando mezzo milione di soldati. Brežnev spiegò di attuare seguendo un principio che venne definito di “sovranità limitata”. Con l’invasione dell’Afghanistan, nel 1979, l’Armata Rossa tornò ad essere lo strumento principale della politica estera di Mosca, che continuava ad arrogarsi il diritto di intervenire in quella che riteneva essere la propria “zona di sicurezza”. L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’URSS venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli USA. La fine della Guerra Fredda non ha diminuito le ingerenze nella sovranità territoriale dei singoli paesi, né ha accresciuto il livello di libertà, di ogni popolo, quanto a poter scegliere il regime politico dal quale intende essere governato.
Quando Marx scrisse sulla Guerra di Crimea, nel 1854, affermò, in opposizione ai democratici liberali che esaltavano la coalizione antirussa: “è un errore definire la guerra contro la Russia come un conflitto tra libertà e dispotismo. A parte il fatto che, se ciò fosse vero, la libertà sarebbe attualmente rappresentata da un Bonaparte, l’obiettivo manifesto della guerra è il mantenimento dei trattati di Vienna, ossia di ciò che cancella la libertà e l’indipendenza delle nazioni”. Se sostituissimo Bonaparte con gli USA e i trattati di Vienna con la NATO, queste osservazioni sembrano scritte per l’oggi.
La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica, basata su due punti fermi: la de-escalation e la neutralità dell’Ucraina indipendente.
Marcello
Musto