Il rapporto tra estraniazione ed emancipazione
Come ha di recente osservato Axel Honneth, il concetto di alienazione ha probabilmente rappresentato un nodo teorico chiave nella definizione dell’impresa originaria della teoria critica.
La critica della natura alienata delle relazioni sociali nel capitalismo fu sia il punto di partenza che l’elemento critico centrale degli autori della prima Scuola di Francoforte. Questo concetto iniziò, però, ad avere uno status più incerto per gli studiosi delle generazioni successive, quando ci si rese conto che l’idea di “vita alienata” implicava in sé, come suo doppio non discusso, quello “vita non alienata”, di “vita buona”, con il rischio correlato di pensare l’alienazione come un processo di allontanamento dalla “vera” natura umana. Lo spettro dell’essenzialismo sembrava infestare il concetto di alienazione e gli studiosi critici successivi lo relegarono progressivamente in secondo piano. Più di recente, però, una nuova generazione di studiosi è tornata a difendere la sua legittimità teorica e, pur consapevole dei rischi, ha tentato di fornire delle prospettive capaci di affrontare l’alienazione e il suo doppio, la vita non alienata. In definitiva, essi hanno esplicitamente accettato la sfida del progetto marxiano in cui la critica dell’alienazione è legata necessariamente al progetto dell’emancipazione. In questo contesto, la recente pubblicazione dell’antologia degli Scritti sull’alienazione di Marx, curata e introdotta da Marcello Musto, non può che risultare un’utilissima guida, essenziale per comprendere proprio il rapporto tra estraniazione ed emancipazione.
L’antologia offre una panoramica dei principali testi in cui Marx affronta il tema dell’alienazione, dai “giovanili” Manoscritti economico-filosofici del 1844 fino ai testi legati all’universo del Capitale, passando ovviamente per i Grundrisse. Non è, però, per nulla immediato comprendere l’esatto ruolo e l’evoluzione della teoria dell’alienazione all’interno dell’opera di Marx. Non a caso, le vicende legate alla sua ricezione – ricostruite nella ricca introduzione di Musto – sono di estremo interesse e dipendono sia dalla progressiva pubblicazione, nel corso del Novecento, dei testi fino ad allora inediti sia dalle specifiche dinamiche del campo intellettuale. È certo che un evento determinante in queste vicende fu rappresentato dalla pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Qui l’alienazione ricevette una trattazione dettagliata e venne definita come quel processo mediante il quale il prodotto del lavoro, in quanto cristallizzazione dell’attività dell’operaio, “sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente” (p. 59). Nel prosieguo, Marx distinse quattro forme di alienazione – dal prodotto del lavoro, dall’attività lavorativa, dal genere umano e dal lavoro e dai prodotti del lavoro degli altri esseri umani – su cui negli anni hanno diversamente posto l’accento i diversi commentatori. Nei testi successivi, Marx discusse ulteriormente questi temi e li collocò sempre più all’interno degli studi di economia politica. D’altro canto, per Marx il concetto aveva anche un’immediata spendibilità politica, di cui l’antologia dà testimonianza grazie a Lavoro salariato e capitale, uno scritto basato sugli appunti stilati da Marx in occasione delle conferenze alla Lega dei lavoratori tedeschi di Bruxelles. Egli non usò esplicitamente il concetto di alienazione, troppo carico filosoficamente, ma ne diede una precisa descrizione al suo uditorio: nel lavoro di fabbrica si produce una scissione tra l’attività vitale dell’operaio e il prodotto di tale attività, al punto che “la vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività” (p. 78). Nei Grundrisse, che occupano la parte più consistente dell’antologia, l’importanza della teoria dell’alienazione all’interno dell’impianto concettuale marxiano è ancora più chiara. Qui l’alienazione fu messa in rapporto a temi propriamente economici e tra questi si segnala la contrapposizione tra capitale e forza lavoro viva. Poiché è il capitalista che porta a termine la messa insieme e la coordinazione dei singoli operai, questi non sono i soggetti di tale combinazione del lavoro complessivo, che in definitiva “si presenta al servizio di una volontà estranea e di un’intelligenza estranea, e ne è diretto – giacché ha la sua unità spirituale al di fuori di esso, tanto quanto nella sua unità materiale è subordinato all’unità oggettiva della macchine” (pp. 103-4). L’“estrinsecazione vitale” del lavoratore, sia in rapporto alla propria attività che in rapporto all’attività degli altri lavoratori, nonostante gli appartenga, “gli è estranea, estorta, e […] per questo viene intesa da A. Smith ecc. come disagio, sacrificio” (p. 104). Nelle bozze preparatorie del Libro Primo del Capitale, l’analisi dei meccanismi peculiari della società capitalista che stanno alla base della produzione dell’alienazione raggiunse un ulteriore livello di complessità. Nel cosiddetto Capitolo VI inedito, il dominio del capitale sui lavoratori venne descritto nei termini di una autonomizzazione ed estraniazione delle condizioni del lavoro: “mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, si ergono di fronte alla forza-lavoro spogliata di qualunque ricchezza materiale come potenze autonome impersonate dai loro proprietari; […] le condizioni materiali necessarie alla realizzazione del lavoro sono estraniate all’operaio, anzi gli appaiono come feticci dotati di volontà e d’anima proprie; […] le merci figur[a]no come acquirenti di persone” (p. 125). Un tema questo che probabilmente raggiunge il massimo livello di raffinatezza, anche letteraria, nel celebre paragrafo sul “carattere di feticcio della merce e il suo arcano” del Capitale.
Come risulta evidente da questa antologia, sin dai primi lavori fino all’ultima fase della sua produzione, Marx ha tenuto fermo l’assunto secondo cui l’alienazione è il risultato di processi storici e di una determinata organizzazione sociale e pertanto non è una condizione intrascendibile del genere umano. Un’impostazione questa che implica quindi la possibilità che possa darsi il lavoro non-alienato e una forma di organizzazione sociale corrispondente. L’emancipazione si realizza attraverso il lavoro, non in opposizione a esso, non attraverso il suo rifiuto. Pertanto, non è il lavoro di per sé che produce l’alienazione, ma una specifica organizzazione sociale di esso, quella capitalistica. “La libertà [nel campo della produzione] può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca” (p. 156). Il superamento dell’alienazione non è altro, dunque, che la riappropriazione proprio di quei rapporti sociali e di quelle relazioni che ne stanno alla base: la riappropriazione del “carattere sociale del lavoro”. È questa la sfida che conclude l’antologia e su cui ancora una volta dobbiamo misurarci.
Marcello
Musto