I. Introduzione
L’alienazione può essere annoverata tra le teorie più rilevanti e dibattute del XX secolo e la concezione che ne elaborò Marx assunse un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema. Tuttavia, diversamente da come si potrebbe immaginare, il percorso della sua affermazione non è stato affatto lineare e le pubblicazioni di alcuni inediti di Marx contenenti riflessioni sull’alienazione, hanno rappresentato significativi punti di svolta per la trasformazione e la diffusione di questa teoria.
Nel corso dei secoli, il termine alienazione fu utilizzato più volte e con mutevoli significati. Nella riflessione teologica designò il distacco dell’uomo da dio; nelle teorie del contratto sociale servì ad indicare la perdita della libertà originaria dell’individuo; mentre nell’economia politica inglese venne adoperato per descrivere la cessione della proprietà della terra e delle merci. La prima sistematica esposizione filosofica dell’alienazione, però, avvenne solo all’inizio dell’Ottocento e fu opera di Georg W. F. Hegel. Nella Fenomenologia dello spirito (1807), infatti, egli ne fece la categoria centrale del mondo moderno e adoperò i termini di Entäusserung (rinuncia) ed Entfremdung (estraneità, scissione) per rappresentare il fenomeno mediante il quale lo spirito diviene altro da sé nell’oggettività. Tale problematica ebbe grande importanza anche presso gli autori della Sinistra Hegeliana e la concezione di alienazione religiosa elaborata da Ludwig Feuerbach ne L’essenza del cristianesimo (1841), ovvero la critica del processo mediante il quale l’uomo si convince dell’esistenza di una divinità immaginaria e si sottomette ad essa, contribuì in modo significativo allo sviluppo del concetto.
Successivamente, l’alienazione scomparve dalla riflessione filosofica e nessuno tra i maggiori autori della seconda metà dell’Ottocento vi dedicò particolare attenzione. Lo stesso Karl Marx, nelle opere pubblicate nel corso della sua esistenza, impiegò il termine in rarissime occasioni e questo tema risultò del tutto assente anche nel marxismo della Seconda Internazionale (1889-1914).
II. La riscoperta dell’alienazione
La riscoperta della teoria dell’alienazione avvenne grazie a György Lukács che, in Storia e coscienza di classe (1923), riferendosi ad alcuni passaggi de Il capitale (1867) di Marx, in particolare al paragrafo dedicato al “carattere di feticcio della merce” ( Der Fetischcharakter der Ware), elaborò il concetto di reificazione (Verdinglichung o Versachlichung), ovvero il fenomeno attraverso il quale l’attività lavorativa si contrappone all’uomo come qualcosa di oggettivo ed indipendente e lo domina mediante leggi autonome ed a lui estranee. Nei tratti fondamentali, però, la teoria di Lukács era ancora troppo simile a quella hegeliana, poiché anche egli concepì la reificazione come un “fatto strutturale fondamentale” [1]. Così, quando negli anni Sessanta, soprattutto dopo la comparsa della traduzione francese del suo libro[2], questo testo tornò ad esercitare una grande influenza tra gli studiosi ed i militanti di sinistra, Lukács decise di ripubblicare il suo scritto in una nuova edizione (1967) introdotta da una lunga prefazione autocritica, nella quale, per chiarire la sua posizione, egli affermò: “Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui, anche in questo libro, l’estraneazione viene posta sullo stesso piano dell’oggettivazione”[3].
L’evento decisivo che intervenne a rivoluzionare in maniera definitiva la diffusione del concetto di alienazione fu la pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico filosofici del 1844, un inedito appartenente alla produzione giovanile di Marx. Da questo testo, che divenne rapidamente uno degli scritti filosofici più discussi, tradotti e letti del XX secolo, emerse il ruolo di primo piano conferito da Marx alla teoria dell’alienazione durante un’importante fase della formazione della sua concezione: la scoperta dell’economia politica. Marx, infatti, mediante la categoria di lavoro alienato (entfremdete Arbeit) [4] non solo traghettò la problematica dell’alienazione dalla sfera filosofica, religiosa e politica a quella economica della produzione materiale, ma fece di quest’ultima anche il presupposto per potere comprendere e superare le prime. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’alienazione venne descritta come il fenomeno attraverso il quale il prodotto del lavoro “sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente” [5]. Per Marx:
“l’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esistenza esterna, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica” [6].
Accanto a questa definizione generale, Marx elencò quattro differenti tipi di alienazione che indicavano come nella società borghese il lavoratore fosse alienato: 1) dal prodotto del suo lavoro, che diviene un “oggetto estraneo e avente un dominio su di lui”; 2) nell’attività lavorativa, che viene percepita come “rivolta contro lui stesso [… e] a lui non appartenente”; 3) dal genere umano, poiché la “essenza specifica dell’uomo” è trasformata in “un’essenza a lui estranea”; e 4) dagli altri uomini, ovvero rispetto “al lavoro e all’oggetto del lavoro” [7] realizzati dai suoi simili.
Per Marx, diversamente da Hegel, l’alienazione non coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, ma con una precisa realtà economica e con uno specifico fenomeno: il lavoro salariato e la trasformazione dei prodotti del lavoro in oggetti che si contrappongono ai loro produttori. La diversità politica tra le due interpretazioni è enorme. Contrariamente ad Hegel, che aveva rappresentato l’alienazione quale manifestazione ontologica del lavoro, Marx concepì questo fenomeno come la caratteristica di una determinata epoca della produzione, quella capitalistica, ritenendone possibile il superamento mediante “l’emancipazione della società dalla proprietà privata” [8]. Dunque, anche in queste frammentarie e, talvolta, incerte formulazioni giovanili, Marx trattò l’alienazione sempre da un punto di vista storico e mai naturale.
III. Le concezioni non marxiste dell’alienazione
Ci sarebbe voluto ancora molto tempo, però, prima che una concezione storica, e non ontologica, dell’alienazione potesse affermarsi. Infatti, la maggior parte degli autori che, nella prima parte del Novecento, si occuparono di questa problematica lo fecero sempre considerandola un aspetto universale dell’esistenza umana. In Essere e tempo (1927), Martin Heidegger affrontò il problema dell’alienazione dal versante meramente filosofico e considerò questa realtà come una dimensione fondamentale della storia. La categoria da lui utilizzata per descrivere la fenomenologia dell’alienazione fu quella di decadimento (Verfallen)[9], cioè la tendenza dell’Esserci (Dasein) – che nella filosofia heideggeriana indica la costituzione ontologica della vita umana – a perdersi nell’inautenticità e nel conformismo del mondo che lo circonda. Per Heidegger, “questo stato presso il «mondo» significa l’immedesimazione nell’essere-assieme dominato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco” [10]. Un territorio, dunque, completamente diverso dalla fabbrica e dalla condizione operaia che erano al centro delle preoccupazioni e dell’elaborazione di Marx. Inoltre, questa condizione di decadimento non fu considerata da Heidegger come una condizione “negativa e deplorevole, che il progredire della civiltà umana potrebbe un giorno annullare” [11], ma, bensì, come una caratteristica ontologica, “un modo esistenziale dell’essere-nel-mondo”[12].
Anche Herbert Marcuse, che diversamente da Heidegger conosceva bene l’opera di Marx, identificò l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. Nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica (1933), egli sostenne che il “carattere di peso del lavoro” non poteva essere ricondotto meramente a “determinate condizioni presenti nell’esecuzione del lavoro, alla sua organizzazione tecnico-sociale”, ma andava considerato come uno dei suoi tratti fondamentali:
“lavorando, il lavoratore è «presso la cosa», sia che stia dietro una macchina, o che progett[i] piani tecnici, o che prenda delle misure organizzative, o che studi problemi scientifici, o che istruisc[a] gli uomini, ecc. Nel suo fare si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando domina il suo oggetto (…). In ogni caso non è «presso di sé» (…), è presso «l’altro da sé», anche quando questo fare dà compimento alla propria vita liberamente assunta. Questa alienazione ed estraneazione dell’esistenza (…) è, per principio, ineliminabile”[13].
Per Marcuse, quindi, esisteva una “negatività originaria del fare lavorativo”[14], che egli riteneva appartenesse alla “essenza stessa dell’esistenza umana” [15]. La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. E il superamento dell’alienazione fu ritenuto possibile soltanto attraverso il gioco, momento nel quale l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva: “un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico” [16].
In Eros e civiltà (1955), Marcuse prese le distanze dalla concezione marxiana in modo altrettanto netto. Egli affermò che l’emancipazione dell’uomo poteva realizzarsi solo mediante la liberazione dal lavoro (abolition of labor) e attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali. La possibilità di superare lo sfruttamento, mediante la nascita di una società basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, venne definitivamente messa da parte, poiché il lavoro in generale, non solo quello salariato, venne considerato come: “lavoro per un apparato che essi [la grande maggioranza della popolazione] non controllano, che opera come un potere indipendente” [17]. La norma cardine contro cui gli uomini avrebbero dovuto ribellarsi era il principio di prestazione (performance) imposto dalla società. Secondo Marcuse, infatti:
“il conflitto tra sessualità e civiltà si acuisce con lo sviluppo del dominio. Sotto la legge del principio di prestazione, corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel soggetto-oggetto libidico che originalmente l’organismo umano è, e desidera essere. (…) L’uomo esiste come strumento di prestazione alienata” [18].
Dunque, egli ne concluse che, anche se fosse stata organizzata in modo equo e razionale, la produzione materiale “non potrà mai rappresentare un regno di civiltà e di soddisfazione (…). È la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e la realizzazione” [19]. L’alternativa proposta da Marcuse fu la “liberazione dell’eros” [20]. Diversamente da Freud, il quale ne Il disagio della civiltà (1929) aveva sostenuto che un’organizzazione non repressiva della società avrebbe comportato una pericolosa regressione del livello di civiltà raggiunto nei rapporti umani, Marcuse era convinto che se la liberazione degli istinti fosse “società libera”, altamente tecnologizzata e al servizio dell’uomo, essa avrebbe favorito non solo “uno sviluppo del progresso” [21], ma anche creato “nuovi e duraturi rapporti di lavoro” [22].
Le indicazioni sul come questa nuova società avrebbe dovuto prendere corpo furono, però, piuttosto vaghe ed utopistiche. Marcuse finì con l’appoggiare un’opposizione al dominio tecnologico in generale, in base alla quale la critica dell’alienazione non era più rivolta contro i rapporti di produzione capitalistici, e giunse a sviluppare una riflessione sul cambiamento sociale così pessimistica da includere anche la classe operaia tra i soggetti che operavano in difesa del sistema.
Dopo la seconda guerra mondiale, il concetto di alienazione approdò anche alla psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud per la quale, nella società borghese, l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione [23], deve necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni. Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta ad un mero fenomeno soggettivo.
L’esponente che più si occupò, in questa disciplina, di alienazione fu Erich Fromm. Diversamente dalla maggioranza dei suoi colleghi, egli non separò mai le manifestazioni dell’alienazione dal contesto storico capitalistico; e con i suoi scritti Psicoanalisi della società contemporanea (1955) e L’uomo secondo Marx (1961) si servì di questo concetto per tentare di costruire un ponte tra la psicoanalisi ed il marxismo. Tuttavia, anche Fromm affrontò questa problematica privilegiando sempre l’analisi soggettiva e la sua concezione di alienazione, che riassunse come “una forma di esperienza per la quale la persona conosce se stessa come un estraneo”[24], rimase troppo circoscritta al singolo. Inoltre, la sua interpretazione della concezione dell’alienazione in Marx si basò sui soli Manoscritti economico-filosofici del 1844 e si caratterizzò per una profonda incomprensione della specificità e della centralità del concetto di lavoro alienato nel pensiero di Marx.
Tra le principali elaborazioni non marxiste dell’alienazione va menzionata, infine, quella risalente a Jean-Paul Sartre e agli esistenzialisti francesi, che ne fecero uno dei concetti chiave della loro filosofia. A partire dagli anni Quaranta, in un periodo caratterizzato dagli orrori della guerra, dalla conseguente crisi delle coscienze e, nel panorama francese, dal neohegelismo di Alexandre Kojeve [25]; il fenomeno dell’alienazione fu assunto come riferimento ricorrente sia in filosofia che in narrativa. Tuttavia, anche in questa circostanza, il concetto di alienazione assunse un profilo molto più generico rispetto a quello esposto da Marx. Esso fu identificato con un indistinto disagio dell’uomo nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, significativamente, come condition humaine non sopprimibile. I filosofi esistenzialisti non fornirono una specifica origine sociale dell’alienazione, ma, tornando ad assimilarla con ogni fatticità, concepirono l’alienazione come un senso generico di alterità umana[26].
IV. Il dibattito sul concetto di alienazione negli scritti giovanili di Marx
Nel dibattito sull’alienazione che si sviluppò in Francia, il ricorso alle teorie di Marx fu molto frequente. Tuttavia, spesso furono presi in esame soltanto i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e neanche le parti de Il capitale in base alle quali Lukács aveva costruito la sua teoria della reificazione negli anni Venti vennero prese in considerazione. Inoltre, alcune frasi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono completamente separate dal loro contesto e vennero trasformate in citazioni sensazionali volte a dimostrare la presunta esistenza di un ‘nuovo Marx’, radicalmente diverso da quello fino ad allora conosciuto, perché intriso di teoria filosofica e ancora privo del determinismo economico che alcuni suoi commentatori avevano riscontrato ne Il capitale (testo, a dire il vero, molto poco letto da quanti propesero per questa tesi). Anche rispetto al solo scritto del 1844, gli esistenzialisti francesi privilegiarono di gran lunga la nozione di autoalienazione (Selbstentfremdung), cioè il fenomeno per il quale il lavoratore è alienato dal genere umano e dai suoi simili, che Marx aveva trattato nel suo scritto giovanile, ma sempre in relazione all’alienazione oggettiva.
Lo stesso clamoroso errore fu commesso da un esponente di primo piano del pensiero filosofico-politico del dopoguerra. Nell’opera Vita Activa (1958), infatti, Annah Harendt costruì la propria interpretazione del concetto di alienazione in Marx solo in base ai Manoscritti economico-filosofici del 1844. E, per giunta, privilegiando, tra i tanti tipi di alienazione indicati da Marx, esclusivamente quella soggettiva:
“l’espropriazione e l’alienazione del mondo coincidono; e l’età moderna, contro le stesse intenzioni dei suoi protagonisti, cominciò con l’alienare dal mondo certi strati della popolazione. (…) L’alienazione del mondo, quindi, e non l’alienazione di sé, come pensava Marx, è stata la caratteristica distintiva dell’età moderna” [27].
Dove e in che modo, nella sua analisi della società capitalistica, Marx avesse privilegiato “l’alienazione di sé” resta un mistero di cui la Harendt non fornì spiegazione nel suo scritto. Negli anni Sessanta, l’esegesi della teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 divenne il pomo della discordia rispetto all’interpretazione generale di Marx. In questo periodo venne concepita la distinzione tra due presunti Marx: il ‘giovane Marx’ e il ‘Marx maturo’. Questa arbitraria ed artificiale contrapposizione fu alimentata sia da quanti preferirono il Marx delle opere giovanili e filosofiche, sia da quanti (tra questi Louis Althusser e gli studiosi sovietici) affermarono che il solo vero Marx fosse quello de Il capitale. Coloro che sposarono la prima tesi considerarono la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il punto più significativo della critica marxiana della società; mentre quelli che abbracciarono la seconda ipotesi mostrarono, spesso, una vera e propria “fobia dell’alienazione”; tentando, in un primo momento, di minimizzarne il rilievo e, quando ciò non fu più possibile, considerando il tema dell’alienazione come “un peccato di gioventù, un residuo di hegelismo” [28], successivamente abbandonato da Marx.
Sostenere, come affermarono in tanti, che la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 fosse il tema centrale del pensiero di Marx è un falso che denota soltanto la scarsa familiarità con la sua opera da parte di coloro che propesero per questa tesi[29]. D’altro canto, quando Marx ritornò ad essere l’autore più discusso e citato nella letteratura filosofica mondiale proprio per le sue pagine inedite relative all’alienazione, il silenzio dell’Unione Sovietica su questa tematica, e sulle controversie ad essa legate, fornisce un esempio dell’utilizzo strumentale con cui furono utilizzati i suoi scritti in quel paese. Infatti, l’esistenza dell’alienazione in Unione Sovietica, e nei suoi paesi satelliti, fu semplicemente negata e tutti i testi che trattavano questa problematica vennero ritenuti sospetti. Secondo Henry Lefebvre: “nella società sovietica non poteva, non doveva più essere questione di alienazione. Il concetto doveva sparire, per ordine superiore, per la ragion di Stato”[30]. E, così, fino agli anni Settanta, furono pochissimi gli autori che, nel ‘campo socialista’, scrissero delle opere in proposito.
V. Il fascino irresistibile della teoria dell’alienazione
A partire dagli anni Sessanta esplose una vera e propria moda per la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri ed articoli sul tema. Fu il tempo dell’alienazione tout-court. Il periodo nel quale autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, all’anomia, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifesta nel rapporto con le nuove tecnologie; e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, e all’inquinamento ambientale.
Il concetto di alienazione sembrò riflettere alla perfezione lo spirito del tempo e costituì anche il terreno d’incontro, nell’elaborazione di una critica alla società capitalistica, tra il marxismo filosofico ed anti-sovietico ed il cattolicesimo più democratico e progressista. La popolarità del concetto e la sua applicazione indiscriminata, però, crearono una profonda ambiguità terminologica [31]. Così, nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e ciò generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno tanto esteso da apparire immodificabile [32].
Con il libro di Guy Debord, La società dello spettacolo (1967), divenuto poco dopo la sua uscita un vero e proprio manifesto di critica sociale per la generazione di studenti in rivolta contro il sistema, la teoria dell’alienazione approdò alla critica della produzione immateriale. Riprendendo le tesi già avanzate in Dialettica dell’illuminismo (1944) da Max Horkheimer e Theodor Adorno, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente, Debord affermò che, nelle presenti circostanze, il non-lavoro non poteva più essere considerato come una sfera differente dall’attività produttiva:
“mentre nella fase primitiva dell’accumulazione capitalistica ‘l’economia politica non vede nel proletario che l’operaio’, (…) questa posizione (…) si rovescia non appena il grado di abbondanza raggiunto nella produzione di merci esige un surplus di collaborazione dall’operaio. Questo operaio, improvvisamente lavato dal disprezzo totale che gli è chiaramente espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno al di fuori di essa trattato apparentemente come una persona grande, con una cortesia premurosa, sotto il travestimento del consumatore. Allora l’umanesimo della merce prende a proprio carico ‘gli svaghi e l’umanità’ del lavoratore, semplicemente perché l’economia politica può e deve ora dominare queste sfere”[33].
Per Debord, se il dominio dell’economia sulla vita sociale si era inizialmente manifestato attraverso una “degradazione dell’essere in avere”, nella “fase presente” si era verificato uno “slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire” [34]. Tale riflessione lo spinse a porre al centro della sua analisi il mondo dello spettacolo: “nella società lo spettacolo corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione”[35], il fenomeno mediante il quale “il principio del feticismo della merce (…) si compie in grado assoluto” [36]. In queste circostanze, l’alienazione si affermava a tal punto da diventare persino un’esperienza entusiasmante per gli individui, i quali, spinti da questo nuovo oppio del popolo al consumo ed a “riconoscersi nelle immagini dominanti”[37], si allontanavano sempre più, allo stesso tempo, dai propri desideri ed esistenze reali:
“lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. (…) La produzione economica moderna allarga la sua dittatura estensivamente e intensivamente. (…) A questo punto della ‘seconda rivoluzione industriale’, il consumo alienato diventa per le masse un dovere supplementare che si aggiunge a quello della produzione alienata” [38].
Sulla scia di Debord, anche Jean Baudrillard utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi (1970), egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna, prendendo così le distanze dalla concezione marxiana ancorata sulla centralità della produzione. Secondo Baudrillard “l’era del consumo”, in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche “l’era dell’alienazione radicale”:
“la logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi non regola solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali, ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane, fino ai fantasmi e alle pulsioni individuali. (…) Tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili” [39].
Le sue conclusioni politiche, però, furono piuttosto confuse e pessimistiche. Dinanzi ad una grande stagione di fermento sociale, egli accusò “i contestatori del maggio francese” di essere caduti nella trappola di “super-reificare gli oggetti e il consumo dando loro un valore diabolico”; e criticò “i discorsi sull’alienazione, tutta la derisione operata dalla Pop e dall’antiarte”, per aver creato una “requisitoria [che] fa parte del gioco: è il miraggio critico, l’antifiaba che corona la favola”[40]. Dunque, lontano dal marxismo, che vedeva nella classe operaia il soggetto sociale di riferimento per cambiare il mondo, Baudrillard chiuse il suo libro con un appello messianico, tanto generico quanto effimero: “attenderemo le irruzioni brutali e le disgregazioni improvvise che, in maniera tanto imprevedibile, ma certa, quanto il maggio del 1968, manderanno in frantumi questa messa bianca”[41].
VI. La teoria dell’alienazione nella sociologia nord-americana
Negli anni Cinquanta, il concetto di alienazione era entrato anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Infatti, nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come problematica inerente il singolo essere umano [42], non le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente, e non nelle pratiche collettive volte a mutare la società [43].
Anche in questa disciplina regnò a lungo una profonda incertezza circa una chiara e condivisa definizione dell’alienazione. Alcuni autori considerarono questo fenomeno come un processo positivo, perché mezzo di espressione della creatività dell’uomo, e inerente la condizione umana in generale. Altra caratteristica diffusa tra i sociologi statunitensi fu quella di considerare l’alienazione come qualcosa che scaturiva dalla scissione tra l’individuo e la società [44]. Seymour Melman, infatti, individuò l’alienazione nella separazione tra la formulazione e l’esecuzione delle decisioni e la considerò come un fenomeno che colpiva tanto gli operai quanto i manager[45]. Nell’articolo Una misura dell’alienazione (1957), che inaugurò un dibattito su questo concetto nella rivista American Sociological Review, Gwynn Nettler adoperò lo strumento dell’inchiesta nell’intento di stabilirne una definizione.
Tuttavia, lontanissimo dalla tradizione delle rigorose indagini sulle condizioni lavorative condotte in seno al movimento operaio, il questionario da lui formulato sembrò ispirarsi più ai canoni del maccartismo del tempo che non a quelli della ricerca scientifica. Nettler, infatti, rappresentando le persone alienate come soggetti guidati da “un coerente mantenimento di atteggiamenti ostili e impopolari nei confronti del familismo, dei mezzi di comunicazione di massa, dei gusti di massa, dell’attualità, dell’istruzione popolare, della religione convenzionale, della visione teleologica della vita, del nazionalismo e del sistema elettorale”[46], identificò l’alienazione con il rifiuto dei principi conservatori della società americana.
La pochezza concettuale presente nel panorama sociologico americano mutò in seguito alla pubblicazione del saggio Sul significato dell’alienazione (1959) di Melvin Seeman. In questo breve articolo, divenuto, rapidamente, un riferimento obbligato per tutti gli studiosi dell’alienazione, egli catalogò quelle che riteneva fossero le sue cinque principali tipologie: la mancanza di potere; la mancanza di significato (cioè la difficoltà dell’individuo a comprendere gli eventi in cui è inserito); la mancanza di norme; l’isolamento; e l’estraniazione da sé[47]. Questo elenco mostra come anche Seeman considerasse l’alienazione sotto un profilo primariamente soggettivo. Robert Blauner, nel libro Alienazione e libertà (1964), sposò il medesimo punto di vista. L’autore statunitense definì l’alienazione come una “qualità dell’esperienza personale che risulta da specifici tipi di disposizioni sociali” [48] , anche se lo sforzo profuso nella sua ricerca lo portò a rintracciarne le cause nel “processo di lavoro in organismi giganteschi e nelle burocrazie impersonali che saturano tutte le società industriali” [49] .
Nell’ambito della sociologia nord-americana, quindi, l’alienazione venne concepita come una manifestazione relativa al sistema di produzione industriale, a prescindere se esso fosse capitalistico o socialista, e come una problematica inerente soprattutto la coscienza umana [50]. Questo approccio finì col mettere ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione dell’analisi di questa nozione, che venne assunta anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, non più come una questione sociale, ma quale una patologia individuale dalla quale dovevano curarsi i singoli individui [51]. Ciò determinò un profondo mutamento della concezione dell’alienazione. Se nella tradizione marxista essa rappresentava uno dei concetti critici più incisivi del modo di produzione capitalistico, in sociologia subì un processo di istituzionalizzazione e finì con l’essere considerata come un fenomeno relativo al mancato adattamento degli individui alle norme sociali. Allo stesso modo, la nozione di alienazione smarrì il carattere normativo che aveva in filosofia (anche negli autori che ritenevano l’alienazione come un orizzonte insuperabile) e si trasformò in un concetto a-valutativo, dal quale era stato rimosso l’originario contenuto critico [52]. Altro effetto di questa metamorfosi dell’alienazione fu il suo impoverimento teorico.
Da fenomeno complessivo, relativo alla condizione lavorativa, sociale e intellettuale dell’uomo, essa fu ridotta ad una categoria parziale e parcellizzata in funzione delle indagini accademiche [53]. I sociologi americani affermarono che questa scelta metodologica avrebbe consentito di liberare l’indagine sull’alienazione dalle sue connotazioni politiche e di conferire ad essa obiettività scientifica. In realtà, questa presunta svolta apolitica aveva delle forti ed evidenti implicazioni ideologiche, poiché dietro la bandiera della de-ideologizzazione e della presunta neutralità dei valori si celava il sostegno ai valori ed all’ordine dominante.
La differenza tra la concezione marxista dell’alienazione e quella dei sociologi statunitensi non stava, dunque, nel fatto che la prima era politica e la seconda scientifica, quanto, invece, che i teorici marxisti erano portatori di valori opposti a quelli egemoni [54]. In sociologia, dunque, il concetto di alienazione conobbe un vero e proprio stravolgimento e finì con l’essere utilizzato proprio dai difensori delle classi sociali contro le quali esso era stato per lungo tempo rivolto.
VII. Il concetto di alienazione ne Il capitale e nei suoi manoscritti preparatori
Gli scritti di Marx ebbero un ruolo importante per quanti tentarono di avversare questo stravolgimento. L’attenzione rivolta alla teoria dell’alienazione di Marx, inizialmente incentrata sui Manoscritti economico-filosofici del 1844, si spostò, dopo la pubblicazione di nuovi inediti, su altri testi e da questi fu possibile ricostruire il percorso della sua elaborazione.
Nella seconda parte degli anni Quaranta, egli non aveva più adoperato frequentemente la parola alienazione. In Lavoro salariato e capitale (1849), una raccolta di articoli redatti in base agli appunti utilizzati per una serie di conferenze tenute alla Lega Operaia Tedesca di Bruxelles nel 1847, Marx riespose la teoria dell’alienazione, ma, non potendosi rivolgere al movimento operaio con una nozione che sarebbe parsa troppo astratta, non ne utilizzò la parola. Sino alla fine degli anni Cinquanta, non vi furono altri riferimenti all’alienazione. In seguito alla sconfitta delle rivoluzioni del 1848, egli fu costretto all’esilio a Londra e durante questo periodo, per concentrare tutte le sue energie negli studi di economia politica, con l’eccezione di alcuni brevi lavori di carattere storico non pubblicò alcun libro. Quando riprese a scrivere di economia, nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58), meglio noti col nome di Grundrisse, Marx tornò ad utilizzare il concetto ripetutamente. Esso ricordava, per molti versi, quello esposto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, anche se grazie agli studi condotti per quasi un decennio presso la libreria del British Museum di Londra, la sua analisi risultava ora molto più approfondita:
“il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte dagli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto tra le cose; la capacità personale in una capacità delle cose” [55].
Nei Grundrisse, dunque, la descrizione dell’alienazione aveva acquisito maggiore spessore rispetto a quella compiuta negli scritti giovanili, perché arricchita dalla comprensione di importanti categorie economiche e da una più rigorosa analisi sociale. Essi non furono l’unico testo della maturità di Marx in cui la descrizione di questa problematica ricorre frequentemente. Un lustro dopo la loro stesura, infatti, essa ritornò ne Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito (1863-64), manoscritti nei quali l’analisi economica e quella politica dell’alienazione vennero messe in maggiore relazione tra loro: “il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore”. Marx mise in evidenza che nella società capitalistica, mediante “la trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale”, si realizza una vera e propria “personificazione delle cose e reificazione delle persone”, ovvero si crea un’apparenza in forza della quale “non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro, appaiono sottomessi al lavoratore, ma egli ad essi” [56]. In realtà, a suo giudizio:
“Il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose. Senza salariato (…) niente produzione di plusvalore; senza produzione di plusvalore, niente produzione capitalistica, quindi niente capitale e niente capitalisti! Capitale e lavoro salariato (…) esprimono due fattori dello stesso rapporto. Il denaro non può diventare capitale senza scambiarsi preventivamente contro forza-lavoro che l’operaio vende come merce; d’altra parte, il lavoro può apparire come lavoro salariato solo dal momento in cui le sue proprie condizioni oggettive gli stanno di fronte come potenze autonome, proprietà estranea, valore esistente per sé e arroccato in se stesso; insomma, capitale” [57].
Nel modo di produzione capitalistico, il lavoro umano è diventato uno strumento del processo di valorizzazione del capitale che “nell’incorporare la forza-lavoro viva alle sue parti componenti oggettive (…) diventa un mostro animato, e comincia ad agire come se avesse l’amore in corpo” [58]. Questo meccanismo si espande su scala sempre maggiore fino a che la cooperazione nel processo produttivo, le scoperte scientifiche e l’impiego dei macchinari, ossia i progressi sociali generali che appartengono alla collettività, diventano forze del capitale le quali appaiono come proprietà da esso possedute per natura e si ergono estranee di fronte ai lavoratori come ordinamento capitalistico:
“le forze produttive (…) sviluppate del lavoro sociale (…) si rappresentano come forze produttive del capitale. (…) L’unità collettiva nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle energie naturali e delle scienze, dei prodotti del lavoro come macchinario – tutto ciò si contrappone agli operai singoli, in modo autonomo, come qualcosa di straniero, di oggettivo, di preesistente, senza e spesso contro il loro contributo attivo, come pure forme di esistenza dei mezzi di lavoro da essi indipendenti e su di essi esercitanti il proprio dominio; e l’intelligenza e la volontà dell’officina collettiva incarnate nel capitalista o nei suoi subalterni, nella misura in cui l’officina collettiva si basa sulla loro combinazione, gli si contrappongono come funzioni del capitale che vive nel capitalista”[59].
È mediante questo processo, dunque, che, secondo Marx, il capitale diventa qualcosa di “terribilmente misterioso. Le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali torreggianti di fronte all’operaio e, in questa forma, vengono capitalizzate” [60].
La diffusione, a partire dagli anni Sessanta, de Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito e, soprattutto, dei Grundrisse aprì la strada ad una concezione dell’alienazione differente rispetto a quella egemoni in sociologia e psicologia, la cui comprensione era finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia. La pubblicazione di quella che, dopo i Manoscritti economico-filosofici del 1844 negli anni Trenta, può essere considerata la “seconda generazione” di scritti di Marx sull’alienazione fornì non solo una coerente base teorica per una nuova stagione di studi sull’alienazione, ma soprattutto una piattaforma ideologica anticapitalista allo straordinario movimento politico e sociale esploso nel mondo in quel periodo. Con la diffusione de Il capitale e dei suoi manoscritti preparatori, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e divenire critica sociale.
VIII. Il feticismo della merce ed il superamento dell’alienazione
Una delle migliori descrizioni dell’alienazione realizzate da Marx è quella contenuta nel celebre paragrafo “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano” de Il capitale. Libro primo. Al suo interno egli mise in evidenza che, nella società capitalistica, gli uomini sono dominati dai prodotti che hanno creato e vivono in un mondo in cui le relazioni reciproche appaiono “non come rapporti immediatamente sociali tra persone (…), ma come rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose” [61]. Più precisamente:
“l’arcano della forma di merce consiste (…) nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, come sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. (…) Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci” [62].
Da questa definizione emergono delle precise caratteristiche che tracciano un chiaro spartiacque tra la concezione dell’alienazione in Marx e quella della gran parte degli autori presi in esame in questo saggio. Il feticismo, infatti, non venne concepito da Marx come una problematica individuale, ma fu sempre considerato un fenomeno sociale. Non una manifestazione dell’anima, ma un potere reale, una dominazione concreta, che si realizza, nell’economia di mercato, in seguito alla trasformazione dell’oggetto in soggetto. Per questo motivo, egli non limitò la propria analisi dell’alienazione al disagio del singolo essere umano, ma analizzò i processi sociali che ne stavano alla base, in primo luogo l’attività produttiva. Per Marx, inoltre, il feticismo si manifesta in una precisa realtà storica della produzione, quella del lavoro salariato, e non è legato al rapporto tra la cosa in generale e l’uomo, ma da quello che si verifica tra questo e un tipo determinato di oggettività: la merce.
Nella società borghese le proprietà e le relazioni umane si trasformano in proprietà e relazioni tra cose. La teoria che, dopo la formulazione di Lukács, fu designata col nome di reificazione illustrava questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattava rispetto alle merci. Diversamente da quanto sostenuto da coloro che avevano negato la presenza di riflessioni sull’alienazione nell’opera matura di Marx, essa non venne sostituta con quella del feticismo delle merci, perché essa ne rappresentava un suo aspetto particolare [63].
L’avanzamento teorico compiuto da Marx rispetto all’alienazione tra i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e Il capitale non consiste, però, soltanto in una sua più precisa descrizione, ma anche in una differente elaborazione circa le misure considerate necessarie per il suo superamento. Se nel 1844 Marx aveva ritenuto che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, ne Il capitale, e nei suoi manoscritti preparatori, il percorso indicato per costruire una società libera dall’alienazione era divenuto molto più complesso. Marx riteneva che il capitalismo era un sistema nel quale i lavoratori sono soggiogati al capitale e alle sue condizioni. Tuttavia, esso ha creato le basi per una società più progredita e l’umanità può proseguire il cammino dello sviluppo sociale, accelerato da questo modo di produzione, generalizzandone i benefici. Secondo Marx, ad un sistema che produce enorme accumulo di ricchezza per pochi e spoliazione e sfruttamento per la massa generale dei lavoratori, occorre sostituire “un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale” [64]. Questo diverso tipo di produzione si differenzia dal lavoro salariato, poiché pone i suoi fattori determinanti sotto il governo collettivo, assume un carattere immediatamente generale e trasforma il lavoro in una vera attività sociale. È una concezione di società agli antipodi del bellum omnium contra omnes di Thomas Hobbes. E la sua creazione non è un processo meramente politico, ma investe necessariamente la trasformazione della sfera della produzione.
Tuttavia, questo mutamento del processo lavorativo è comunque limitato poiché, come Marx osservò ne Il capitale. Libro terzo: “la libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa” [65]. Questa produzione dal carattere sociale, insieme con i progressi tecnologici e scientifici e la conseguente riduzione della giornata lavorativa, crea le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale, in cui il lavoro coercitivo ed alienato, imposto dal capitale e sussunto alle sue leggi, viene mano a mano sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità; e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale in funzione delle merci e del denaro [66]. Non è più il regno della libertà del capitale, ma quello dell’autentica libertà umana dell’individuo sociale.
References
1. György Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1971, p. 112
2. Esso fu tradotto Kostas Axelos e Jacqueline Bois col titolo di Histoire et conscience de classe, Minuit, Paris 1960.
3. György Lukács, op. cit., p. XXV.
4. Negli scritti di Marx compaiono sia il termine di Entfremdung che quello di Entäusserung. Le due nozioni, che in Hegel avevano significati diversi, furono utilizzate da Marx come sinonimi. Cfr. Marcella D’Abbiero, Alienazione in Hegel. Usi e significati di Entäusserung, Entfremdung Veräusserung, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970, pp. 25-7.
5. Karl Marx, L’alienazione, a cura di Marcello Musto, Donzelli, Roma 2010, pp. 17-18.
6. Ivi, pp. 18-19.
7. Ivi, pp. 21, 23. In proposito si veda lo studio di Bertell Ollman, Alienation, Cambridge, New York 1971, pp. 136-152.
8. Karl Marx, L’alienazione, op. cit., p. 26.
9. A partire dalla versione dell’opera di Heidegger realizzata da Pietro Chiodi, questo termine è stato quasi sempre tradotto in lingua italiana con la parola deiezione.
10. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, p. 215.
11. Ivi, pp. 215-6.
12. Ivi, p. 218. Nella Prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, Lukács osservò che in Heidegger l’alienazione divenne un concetto politicamente inoffensivo che “sublima[va] la critica sociale in una critica puramente filosofica”, György Lukács, op. cit., p. XXV.
13. Herbert Marcuse, Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 170.
14. Ivi, p. 171.
15. Ibidem.
16. Ivi, p. 155.
17. Ivi, p. 88.
18. Ivi, p. 89. Dello stesso avviso fu Georges Friedmann, Le travail en miettes, Gallimard, Paris 1956, per il quale il superamento dell’alienazione è possibile solo in seguito alla liberazione dal lavoro.
19. Herbert Marcuse, Eros e civiltà, op. cit., p. 181.
20. Ivi, p. 180.
21. Ivi, p. 216.
22. Ivi, p. 180. Sulla stessa linea anche le seguenti affermazioni: la “razionalità libidica non soltanto [è] compatibile col progresso verso forme superiori di libertà civile, ma [è] anche atta a promuovere queste ultime”, Ivi, pp. 216-7. Sul rapporto tra tecnica e progresso si segnala anche il lavoro di Kostas Axelos, Marx pensatore della tecnica, Sugarco, Milano 1963. L’autore propese per questa tesi: “tutto ciò che aliena l’uomo era ed è dovuto sia al non sviluppo delle forze produttive (…), sia al sottosviluppo della tecnica”, pp. 352-3.
23. Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1971, p. 250.
24. Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Edizioni di comunità, Milano 1981, p. 121.
25. Cfr. Alexandre Kojeve, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1986.
26. Per un raffronto tra le differenti concezioni di alienazione in Hegel, Marx e nei filosofi esistenzialisti si rimanda a Pietro Chiodi, Il concetto di «alienazione» nell’esistenzialismo, in Rivista di filosofia, LIV, n. 40, pp. 419-445.
27. Annah Harendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2009, p. 187.
28. Adam Schaff, L’alienazione come fenomeno sociale, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 27 e 53.
29. In proposito cfr. Daniel Bell, La «riscoperta» dell’alienazione, in Alberto Izzo (a cura di), Alienazione e sociologia, Franco Angeli, Milano 1973, che affermò: “far risalire questo concetto a Marx come il suo tema centrale è solo un ulteriore creazione di un mito”, p. 89.
30. Henry Lefebvre, Critica della vita quotidiana (volume primo), Dedalo, Bari 1977, p. 62.
31. Cfr. Vittorio Rieser, Il concetto di alienazione in sociologia, in Quaderni di sociologia, vol. XIV (1965), Aprile-Giugno, p. 167, e Richard Schacht, Alienation, Doubleday, Garden City, NY 1970, il quale notò che “non c’era quasi alcuno aspetto della vita contemporanea che non sia stato discusso nei termini di «alienazione»” (p. lix). Anche Peter C. Ludz, Alienation as a Concept in the Social Sciences, in Felix Geyer – David Schweitzer (a cura di), Theories of Alienation, Martinus Nijhoff, Leiden 1976, osservò che “la popolarità del concetto serv[ì] ad incrementare l’esistente ambiguità terminological” (p. 3). Questo testo era apparso originariamente come introduzione ad un’amplia bibliografia annotata sull’alienazione sulla rivista Current Sociology, vol. 21, 1973, no. 1.
32. Cfr. David Schweitzer, Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in philosophy and the social sciences, in Giora Shoham, a cura di, Alienation and Anomie Revisited, Ramot, Tel Aviv 1982, per il quale “il vero significato di alienazione è spesso diluito fino al punto di un’assenza virtual di significato” (p. 57).
33. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 70-1.
34. Ivi, p. 57.
35. Ivi, p. 63.
36. Ivi, p. 67.
37. Ivi, p. 63.
38. Ivi, p. 70.
39. Jean Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 2010, p. 234.
40. Ivi, p. 239.
41. Ivi, p. 240.
42. Cfr. John P. Clark, ‘Measuring alienation within a social system’, in American Sociological Review, vol. 24, n. 6 (December 1959), pp. 849-852.
43. Cfr. David Schweitzer, ‘Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in philosophy and social sciences’, in Giora Shoham, op. cit., pp. 36-37.
44. Cfr. Richard Schacht, op. cit., p. 155.
45. Cfr. Seymour Melman, Decision-making and Productivity, Oxford: Basil Blackwell, 1958, pp. 18 e 165-6.
46. Gwynn Nettler, Una proposta per misurare l’alienazione, in Alberto Izzo (a cura di), Alienazione e sociologia, op. cit., p. 229.
47. Cfr. Melvin Seeman, ‘On the meaning of alienation’, in American Sociological Review, vol. 24, n.6 (December 1959), pp. 783-791. Nel 1972 Seeman rivide la sua classificazione ed, ai cinque punti del 1959, ne aggiunse un sesto: il “cultural estrangement”. Cfr. Melvin Seeman, ‘Alienation and engagement’, in Angus Campbell – Philip E. Converse (a cura di), The human meaning of social change, New York: Russell Sage, 1972, pp. 467-527.
48. Robert Blauner, Alienation and freedom, Chicago: The university of Chicago, 1964, p. 15.
49. Ivi, p. 3.
50. Cfr. Walter R. Heinz, ‘Changes in the methodology of alienation research’, in Felix Geyer – Walter R. Heinz (a cura di), Alienation, society and the individual, New Brunswick/London: Transaction, 1992, p. 217.
51. Cfr. Felix Geyer – David Schweitzer, ‘Introduction’, in Id. (a cura di), Theories of Alienation, op. cit., pp. XXI-XXII, e Felix Geyer, ‘A general systems approach to psychiatric and sociological de-alienation’, in Giora Shoham (a cura di), op. cit., p. 141.
52. Cfr. Felix Geyer – David Schweitzer, ‘Introduction’, in Id. (eds.), Theories of Alienation, op. cit., pp. XX-XXI.
53. Cfr. David Schweitzer, ‘Fetishization of alienation: unpacking a problem of science, knowledge, and reified practices in the workplace’, in Felix Geyer (ed.), Alienation, ethnicity, and postmodernism, Westport, Connecticut/London: Greenwood Press, 1996, p. 23.
54. Cfr. John Horton, La disumanizzazione dell’anomia e dell’alienazione: un problema di ideologia della sociologia, in Alberto Izzo (a cura di), Alienazione e sociologia, op. cit., pp. 318-20, e David Schweitzer, ‘The fetishization of alienation: unpacking a problem of science, knowledge, and reified practices in the workplace’, op. cit., p. 23.
55. Karl Marx, L’alienazione, op. cit., p. 45. In un altro passaggio dei Grundrisse dedicato all’alienazione si legge: “strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone”, Ibidem.
56. Ivi, p. 98.
57. Ivi, pp. 88-89.
58. Ivi, p. 89.
59. Ivi, pp. 98-99.
60. Ivi, p. 101.
61. Ivi, p. 105.
62. Ivi, pp. 107-8.
63. Cfr. Adam Schaff, op. cit., pp. 149-150.
64. Karl Marx, L’alienazione, p. 112.
65. Ivi, p. 125.
66. Per mancanza di spazio, mi propongo di sviluppare in un altro saggio alcune osservazioni critiche sul carattere incompiuto e parzialmente contraddittorio del processo di disalienazione in Marx.
Marcello
Musto