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Sandro Moiso, Carmilla. Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione

Si adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952).

Occorre iniziare dalla perentoria e sintetica frase pronunciata da Amadeo Bordiga più di settant’anni fa per cogliere lo smarrimento che al giorno d’oggi può cogliere un certo numero di militanti antagonisti ogni qualvolta sentono usare il nome del filosofo di Treviri oppure il termine che ne indica l’opera e la sua interpretazione da parte di terzi.

Condizione che, spesso, trasmette un’idea di inutile deja vù o, ancor peggio, di opportunistica rivendicazione di una dottrina ridotta a fantasma di se stessa proprio ad opera di coloro che un tempo, ora sempre meno, a Marx ed Engels si richiamavano, magari insieme al nome di Lenin o di altri appartenenti al periodo dello stalinismo trionfante e dell’opposizione allo stesso.

Per far uscire l’opera di Marx da questa sorta di terra di nessuno in cui è stata relegata, grazie anche all’assenza di una significativa ripresa della lotta di classe, può risultare utile la lettura del volume collettivo appena pubblicato da Carocci editore che raccoglie i contributi di quattordici studiosi di fama mondiale, appartenenti a diversi ambiti disciplinari e provenienti da vari paesi, nei quali si prova ad offrire uno sguardo più moderno e attualizzato sulle idee del filosofo tedesco riguardo all’ecologia, ai processi migratori, alle questioni di genere, al modo di produzione e riproduzione capitalistico, alla composizione del movimento operaio, alla globalizzazione e alle possibili caratteristiche di un’alternativa allo stato di cose presente.

Marcello Musto il primo dei due curatori, che insegna Sociologia alla York University di Toronto in Canada, può essere considerato forse il principale marxologo del tempo presente, grazie anche alla pubblicazione di opere quali L’ultimo Marx (Donzelli, 2016), Karl Marx – Biografia intellettuale e politica (Einaudi, 2018) e, ancora con Carocci editore, Ripensare Marx e i marxismi (2011).
Mentre Alfonso Maurizio Iacono, l’altro curatore, insegna Teoria e storia dei sistemi filosofici all’Università di Pisa ed è autore di numerose opere, tra le quali vanno ricordate Teorie del feticismo (Giuffrè, 1985), Autonomia, potere, minorità (Feltrinelli, 2000), L’illusione e il sostituto (Bruno Mondadori, 2010) e Studi su Marx (ETS, 2018).

Dopo aver sottolineato il rinnovato interesse nei confronti di Marx a partire dalla crisi iniziatasi nel 2008, Musto, nella sua introduzione al testo, ci ricorda che Il capitale non fu l’unico progetto rimasto incompiuto del filosofo e rivoluzionario tedesco.

La spietata autocritica di Marx aumentò le difficoltà di più di una delle sue imprese e la grande quantità di tempo che dedicò a molti progetti che voleva pubblicare era dovuta all’estremo rigore a cui sottoponeva tutto il suo pensiero. Quando Marx era giovane, era noto tra i compagni di università per la meticolosità. Si racconta che si rifiutasse «di scrivere una frase se non era in grado di dimostrarla in dieci modi diversi». E’ per questo che il giovane studioso della sinistra hegeliana pubblicò ancor meno di molti altri. La convinzione di Marx che le sue informazioni fossero insufficienti e i suoi giudizi immaturi gli impediva di pubblicare scritti che rimanessero sotto forma di abbozzi o frammenti [1].

Già questo basterebbe a differenziarlo da tanti suoi successivi emulatori e seguaci, sia nella superficialità con cui tante volte hanno dato alle stampe testi poco rigorosi, ma molto ideologici, quanto da coloro che hanno fatto di ogni sua affermazione un’autentica e immutabile parola di veritas.

Alcuni dei testi pubblicati da Marx non devono essere considerati come la sua parola definitiva sui temi in questione. Ad esempio, il Manifesto del Partito comunista è stato considerato da Friedrich Engels e Marx come un documento storico della loro giovinezza e non come il testo definitivo in cui venivano enunciate le loro principali concezioni politiche. Inoltre, bisogna tener presente che gli scritti di propaganda politica e quelli scientifici spesso non sono combinabili. Questo tipo di errori è molto frequente nella letteratura secondaria su Marx [2].

Questa mancata contestualizzazione dell’opera spesso si accompagna a un timore reverenziale nell’interpretarla, fin dalla sua morte, a partire dalla quale forse anche lo stesso Engels fu responsabile di un eccesso di imbalsamazione cercando di fissare in una forma definitiva, ad esempio, sia il secondo che il terzo libro del Capitale di cui esistevano varie stesure in forma di appunti, nessuna delle quali aveva convinto del tutto l’autore.

Nasceva così, probabilmente, proprio dal lavoro comprensibilmente rispettoso di Engels, nei confronti dell’amico scomparso, un’interpretazione “dottrinaria” che spesso si è preoccupata più del “monumento Marx” che dell’effettiva utilizzazione della sua opera. Cosicché spesso l’interpretazione della sua opera è stata fin troppo spesso collegata alla mera dinamica di sviluppo delle forze produttive, mentre, in particolare, è stata in seguito dimostrata anche la rilevanza che Marx assegnò alla questione ecologica, a quella delle migrazioni e a quella coloniale.

E proprio a questi tre, attualissimi, temi sono rivolti numerosi saggi tra quelli contenuti in Ricostruire l’alternativa Marx, in particolare in quelli di Silvia Federici su Genere, razza e riproduzione sociale in Marx: una prospettiva femminista; quello di Kohei Saito su L’accumulazione originaria come causa del disastro economico ed ecologico e, ancora, quello di Pietro Basso su Marx sull’esercito industriale di riserva e le migrazioni: vietato abusarne.

Ci si accontenterà qui, per necessità di spazio espositivo, di prendere in esame il saggio di Pietro Basso che, senza nulla togliere all’importanza degli altri citati e non, ha il merito di occuparsi di una questione particolarmente sentita all’interno del dibattito politico contemporaneo e, allo stesso tempo, di rivelare l’abuso fatto, in nome di un “marxismo” superficiale e travisato, dell’opera del rivoluzionario (autentico) tedesco.

Nella rinnovata attenzione al suo pensiero, è toccato a Marx esser chiamato in causa, da sinistra e perfino da destra, in particolare in Italia e in Germania, per legittimare con la sua autorità le politiche di “chiusura delle frontiere” agli immigrati che impazzano in Europa, e spesso fuori dall’Europa. Si tratta di uno sfacciato abuso del pensiero di Marx, compiuto facendo riferimento alla sua analisi della funzione dell’esercito industriale di riserva e delle migrazioni nel capitalismo, ma falsificandola (in parte) e amputandola (del tutto) delle sue conclusioni politiche. Mi occuperò qui di tale abuso prendendo in considerazione la logica di alcuni falsari di successo (Diego Fusaro, Wolfang Streeck, Sahra Wagenknecht) [3].

Per poter fare ciò, Basso riprende l’originale riflessione di Marx sull’importante categoria, ai fini dell’analisi della struttura sociale ed economica capitalistica, “esercito industriale di riserva”, presentata fin dai Grundrisse tra le contraddizioni chiave insopprimibili del modo di espansione del capitale. Per dirla con le parole dello stesso Marx: « Il capitale tende sia ad aumentare la popolazione lavoratrice [questo aumento è il primo presupposto dell’aumento del plusvalore – N.d.A.], sia a porre incessantemente una sua parte come sovrappopolazione – popolazione inutile fino al momento in cui il capitale può valorizzarla» [4].

Anche se ai tempi di Marx, che prendeva in esame soprattutto lo sviluppo del capitalismo in Gran Bretagna, il problema migratorio era rappresentato soprattutto dalle relazioni e dalle rivalità che intercorrevano tra la manodopera inglese e quella irlandese, ciò non toglie che il fondatore del pensiero e dell’agire rivoluzionario moderno fosse sufficientemente attento alle dinamiche e all’evoluzione di quel rapporto e, in particolare, a ciò che la forzata emigrazione irlandese finisse con l’avere sugli irlandesi stessi e le loro lotte, sia che queste fossero a carattere nazionale che sindacale.

In tale contesto, in cui il capitale tende ad usare ogni arma ideologica e non soltanto per dividere al suo interno il proletariato, Marx si schierò sempre apertamente e risolutamente a favore della «collaborazione sistematica tra occupati e disoccupati per infrangere o indebolire le conseguenze rovinose sulla propria classe di quella legge naturale della produzione capitalistica […] ogni solidarietà tra occupati e disoccupati turba infatti il “puro” gioco di quella legge» [5].

Per Marx, quindi, la produzione da parte del capitale di un esercito industriale di riserva è una legge, non un evento passeggero, un’occasionale disfunzione del capitalismo legata a questa o quella politica sociale, ovvero – per stare in tema – a questa o quella politica migratoria. E l’unica forza che può contrastarla è la lotta unitaria tra proletari occupati e disoccupati. Omettere tale doppia conclusione, storico-teorica e politica, è falsificare in modo impudente il pensiero marxiano e marxista in materia [6].

A più riprese, Marx, parlando dei vasti spostamenti forzati di popolazioni da un continente all’altro dovuti alle esigenze del colonialismo che alimentavano lo sviluppo del capitalismo, «sostiene a più riprese che il capitale si alimenta di una “doppia schiavitù”: la schiavitù salariata, indiretta, in Europa, e la schiavitù “pura e semplice”, diretta, degli sfruttati di colore nelle colonie» [7].

Veniamo ora gli utilizzatori/falsificatori del pensiero di Marx. Costoro si richiamano all’analisi marxiana dell’esercito di riserva e del suo inquadramento delle migrazioni come migrazioni forzate, distorcendoli e amputandoli delle loro conclusioni politiche, per tentare un’operazione impossibile: farne un argomento forte del loro nazionalismo “sociale”. […] Un fritto misto di verità e spudorate falsificazioni. La verità-confessione è che Fusaro e suoi sodali sognano l’avvento di uno Stato nazionale che sia capace di regolamentare l’anarchia del capitale e del mercato, e sia forte, italianissimo, fino al punto di essere sovrano rispetto alla “power-élite globalista” – un vuoto idealismo antistorico che ignora le barriere che si sono frapposte in passato, e ancor più si frappongono oggi, a un tale sogno retrogrado. A seguire un coacervo di mistificazioni sinistreggianti. Sfugge a questo “filosofo” (Diego Fusaro- N.d.R.) e ai suoi sodali rosso-bruni che nelle società occidentali è in atto una acutissima polarizzazione di classe, classe capitalistica versus classe-che-vive-del-proprio-lavoro, e la più radicale sussunzione di sempre del politico all’economico, anche nelle singole nazioni, non solo alla scala globale [8].

Il filo rosso del recupero moderno del pensiero e dell’opera di Karl Marx si svolge, tra le pagine e i saggi raccolti nel testo, attraverso queste e altre necessarie e importanti riflessioni che hanno, tutte, il merito di presentare un Marx svecchiato dalle antiche appropriazioni ideologiche e adattissimo, se interpretato conseguentemente e non “falsificato”, a funzionare ancora come metro di paragone per ciò che è rivoluzionario separandolo dalle vuote e, troppo spesso reazionarie, chiacchiere di maniera. Non resta dunque, a chi scrive, che lasciare ai lettori il piacere di scoprire, ancora una volta insieme a Marx, una possibile alternativa all’attuale modo di produzione e ai suoi flagelli ambientali, sociali, economici, militari, razziali e di genere.

 

 

[1] M. Musto, Introduzione a Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp.13-14.

[2] Ivi, p. 14.

[3] P. Basso, Marx sull’esercito industriale di riserva e le migrazioni: vietato abusarne in Ricostruire l’alternativa Marx, op. cit., p. 219.

[4] Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 414.

[5] Marx, Il capitale, Libro I, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, UTET, Torino 1974, p. 815.

[6] P. Basso, op. cit., p. 222.

[7] Ivi, p. 223.

[8] Ivi, pp. 227-229.

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Karl d’Arabia

In tarda età, Marx trascorse un po’ di tempo ad Algeri. Gli scritti e le annotazioni di quel periodo confermano il suo sostegno alle lotte contro l’oppressione coloniale

Nell’inverno del 1882, durante l’ultimo anno della sua vita, Karl Marx ebbe una grave bronchite e il suo medico gli consigliò un periodo di riposo in un luogo caldo. Gibilterra fu esclusa perché Marx aveva bisogno del passaporto per entrare nel territorio e, in quanto apolide, non ne era in possesso. L’impero tedesco di Otto Von Bismarck era coperto dalla neve e gli era proibito in ogni caso. L’Italia era fuori discussione poiché, come afferma Friedrich Engels, «la prima condizione per quanto riguarda i convalescenti è che non vi siano seccature da parte della polizia».

Engels e Paul Lafargue, genero di Marx, convinsero il paziente a recarsi ad Algeri. All’epoca, la capitale dell’Algeria francese godeva della reputazione di buona destinazione per sfuggire ai rigori dell’inverno europeo. Come ricordò in seguito la figlia di Marx, Eleanor Marx, ciò che realmente lo spinse a intraprendere questo viaggio insolito fu il suo obiettivo numero uno: completare Il Capitale.

Marx attraversò l’Inghilterra e la Francia in treno e poi il Mediterraneo in barca. Visse ad Algeri per settantadue giorni, l’unico periodo della sua vita che trascorse fuori dall’Europa. Con il passare dei giorni la sua salute non migliorò, ma la sua sofferenza non fu solo fisica. Si sentiva molto solo dopo la morte della moglie e scrisse a Engels che sentiva «profondi attacchi di malinconia, come il grande Don Chisciotte». A causa del peggioramento delle sue condizioni, Marx non si impegnò davvero nell’attività intellettuale.

L’introduzione della proprietà privata
A causa di alcuni eventi sfavorevoli avvenuti durante il suo soggiorno, Marx non riuscì neanche ad approfondire la realtà sociale algerina. Né gli fu possibile studiare le caratteristiche della proprietà comune tra gli arabi, tema che lo aveva interessato molto già qualche anno prima.

In precedenza, nel 1879, Marx aveva copiato, in uno dei suoi quaderni di studio, parti del libro del sociologo russo Maksim Kovalevskij, Proprietà terriera comune: cause, corso e conseguenze del suo declino. I passaggi erano dedicati all’importanza della proprietà comune in Algeria prima dell’arrivo dei colonizzatori francesi, nonché ai cambiamenti da essi introdotti. Marx trascrive da Kovalevskij: «La formazione della proprietà fondiaria privata – agli occhi della borghesia francese – è una condizione necessaria per ogni progresso nella sfera politica e sociale». L’ulteriore mantenimento della proprietà comune, «come forma che sostiene nelle menti le tendenze comuniste, è pericoloso sia per la colonia che per la patria».

Marx fu attratto anche dalle seguenti osservazioni di Kovalevskij: «Il trasferimento della proprietà fondiaria dalle mani degli indigeni a quelle dei coloni è stato perseguito dai francesi sotto tutti i regimi… Lo scopo è sempre lo stesso: la distruzione della proprietà collettiva indigena e la sua trasformazione in oggetto di libera compravendita, e con ciò facilitando il passaggio definitivo nelle mani dei coloni francesi».

Quanto alla legislazione sull’Algeria proposta dal repubblicano di sinistra Jules Warnier, Marx sostenne l’affermazione di Kovalevskij secondo cui il suo unico scopo era «l’espropriazione del suolo della popolazione nativa da parte dei coloni e degli speculatori europei». La sfrontatezza dei francesi arrivò fino alla «rapina diretta» o alla conversione in «proprietà statale» di tutte le terre incolte rimaste in comune per uso indigeno. Questo processo aveva lo scopo di produrre un altro importante risultato: l’eliminazione del pericolo di resistenza da parte della popolazione locale.

Ancora, attraverso le parole di Kovalevskij, Marx osservava: «L’istituzione della proprietà privata e l’insediamento dei coloni europei tra i clan arabi diventerebbero il mezzo più potente per accelerare il processo di dissoluzione delle unioni tra clan… L’esproprio degli arabi previsto dalla legge aveva due scopi: 1) fornire ai francesi quanta più terra possibile, e 2) strappare gli arabi dai loro legami naturali con la terra, per spezzare le ultime forze del clan. Le unioni vengono così sciolte, e quindi ogni pericolo di ribellione».

Marx notò che questo tipo di individualizzazione della proprietà terriera non solo aveva assicurato enormi benefici economici agli invasori, ma aveva anche raggiunto un «obiettivo politico: distruggere le fondamenta di questa società».

Riflessioni sul mondo arabo
Nel febbraio 1882, mentre Marx era ad Algeri, un articolo apparso su un quotidiano locale documentava le ingiustizie del nuovo sistema di proprietà. Secondo quanto riportato da The News, qualsiasi cittadino francese dell’epoca poteva acquisire in concessione più di 100 ettari di territorio algerino senza nemmeno lasciare la Francia; potevano anche rivenderlo a un indigeno per 40.000 franchi. In media, i coloni vendevano ogni appezzamento di terreno acquistato per 20-30 franchi al prezzo di 300 franchi.

Marx, a causa della sua cattiva salute, non poté studiare questo argomento. Tuttavia, nelle sedici lettere rinvenute scritte da Marx (le altre andarono perdute), egli fece diverse osservazioni interessanti dalla sponda meridionale del Mediterraneo. Risaltano molto quelle che trattano delle relazioni sociali tra i musulmani.

Marx rimase profondamente colpito da alcune caratteristiche della società araba. Per un «vero musulmano – commentò – la fortuna e la sfortuna non rendono i figli di Maometto gli uni diversi dagli altri. L’assoluta uguaglianza nei loro rapporti sociali non viene da ciò influenzata. Al contrario, essi se ne accorgono solo se sono stati corrotti. I loro politici considerano giustamente importante questo stesso sentimento e la pratica dell’assoluta uguaglianza. Tuttavia, senza un movimento rivoluzionario, andranno in malora».

Nelle sue lettere, Marx attaccava con disprezzo gli abusi violenti e le continue provocazioni degli europei, denunciando la loro «aperta arroganza e presunzione nei confronti delle ‘razze inferiori’, [e] la macabra ossessione di Moloch per l’espiazione» riguardo a qualsiasi atto di ribellione. Inoltre, sottolineava che, nella storia comparata dell’occupazione coloniale, «gli inglesi e gli olandesi superano i francesi».

Proprio ad Algeri, Marx riferì a Engels di un giudice progressista, Fermé, che gli parlò di «una forma di tortura… per estorcere ‘confessioni’ agli arabi, naturalmente (come gli inglesi in India) dalla polizia». Egli aveva riferito a Marx che «quando, ad esempio, una banda araba commette un omicidio, di solito con lo scopo di rapina, e i veri delinquenti vengono col tempo debitamente arrestati, processati e giustiziati, ciò non è considerata una sufficiente espiazione da parte della famiglia colona ferita. Chiedono anche il ‘fermo’ di almeno una mezza dozzina di arabi innocenti… Quando un colono europeo vive tra coloro che sono considerati ‘razze inferiori’, sia come colono che semplicemente per affari, generalmente si considera ancora più inviolabile del re».

Contro la presenza coloniale britannica
Allo stesso modo, pochi mesi dopo, Marx non si tirò indietro per quanto riguarda la presenza britannica in Egitto. La guerra del 1882, condotta dalle truppe britanniche, pose fine alla cosiddetta rivolta di Urabi iniziata nel 1879 e permise al Regno unito di stabilire un protettorato sull’Egitto. Marx era furioso con i progressisti che si dimostravano incapaci di mantenere una posizione di classe autonoma, avvertendo che era necessario che i lavoratori resistessero alla retorica nazionalista dello Stato.

Quando Joseph Cowen, deputato e presidente del Cooperative Congress – considerato da Marx «il migliore dei parlamentari inglesi» – giustificò l’invasione britannica dell’Egitto, Marx espresse la sua totale disapprovazione. Naturalmente si scagliò anche contro il governo britannico: «Molto carino! In effetti, non potrebbe esserci esempio più lampante di ipocrisia cristiana della ‘conquista’ dell’Egitto – una conquista in mezzo alla pace!».

Ma riservò critiche speciali al «radicale» Cowen. In un discorso dell’8 gennaio 1883 a Newcastle, Cowen aveva espresso la sua ammirazione per le «gesta eroiche» degli inglesi e per «lo splendore della nostra parata militare»; né poteva «trattenersi dal sorridere compiaciuto davanti alla prospettiva, piccola e affascinante, di tutte quelle posizioni offensive fortificate tra l’Atlantico e l’Oceano Indiano e, per giunta, di un ‘impero afro-britannico’ dal Delta al Capo».

Era, agli occhi di Cowen, un impero «in stile inglese», caratterizzato dalla «responsabilità» per l’«interesse interno». In politica estera, concludeva Marx, Cowen era un tipico esempio di «quei poveri borghesi britannici, che gemono assumendosi sempre più ‘responsabilità’ al servizio della loro missione storica, mentre protestano invano contro di essa».

Marx era eurocentrico?
In tarda età, Marx si impegnò in indagini approfondite sulle società al di fuori dell’Europa e si espresse in modo inequivocabile contro le devastazioni del colonialismo. È disonesto suggerire il contrario, nonostante quanto sia diventato di moda negli ambienti accademici liberali «riprendere Marx» per il suo eurocentrismo.

Nel corso della sua vita, Marx seguì da vicino i principali eventi della politica internazionale e, come possiamo vedere dai suoi scritti e dalle sue lettere negli anni Ottanta dell’Ottocento, espresse una ferma opposizione all’oppressione coloniale britannica in India ed Egitto, nonché al colonialismo francese in Algeria. Marx era tutt’altro che eurocentrico, né era «fissato» solo col conflitto di classe, come molti amano sostenere. Marx riteneva che lo studio dei nuovi conflitti politici e delle aree «periferiche» fosse fondamentale per la critica al sistema capitalista. Soprattutto, si è sempre schierato dalla parte degli oppressi contro gli oppressori.

*Marcello Musto è autore di Ripensare Marx e i marxismi. Studi e saggi (Carocci, 2011), L’ultimo Marx, 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale (Donzelli, 2016), Another Marx: Early Manuscripts to the International (Bloomsbury 2018) e Karl Marx. Biografia intellettuale e politica, 1857-1883 (Einaudi, 2018). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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Salvatore Cannavò, Il fatto Quotidiano

C’è una consequenzialità interessante nei due nuovi libri che l’editore Donzelli manda in libreria. Marcello Musto, che secondo il filosofo Etienne Balibar è il più grande conoscitore della vita di Marx, aggiorna un suo testo del 2016 sulle opere e la vita del filosofo di Treviri negli ultimi anni della sua vita. Musto ha l’obiettivo di strappare via Marx dalla ricostruzione dogmatica cui il comunismo realizzato, cioè lo Stalinismo, lo ha condannato. Da quel dogmatismo nacquero paradossi “impensabili”: “Il pensatore più risolutamente contrario a ‘prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire’ fu illegittimamente trasformato nel padre di un sistema sociale totalitario”. Gli scritti di Marx, il loro studio accurato, invece, dimostra la sua distanza dal “dottrinarismo” e questo secondo Musto lo dimostra lo stesso Capitale. Come dimostrano le testimonianze raccolte sulla cura che Marx aveva messo nella tradizione francese del suo capolavoro, pubblicato in fascicoli per renderlo disponibile alla classe operaia “valutazione per me più importante di qualsiasi altra cosa”. Il testo aiuta così a recuperare l’utilità, oltre che l’attualità, del pensiero di Marx nell’analisi del capitalismo e dei suoi limiti.

Ipotesi confermata dal testo di Pierluigi Ciocca, a lungo dirigente di Banca d’Italia. Per capire il capitalismo, Ciocca propone un’equazione curiosa quanto interessante: MSK. Mette cioè in successione Marx con Schumpeter e Keynes invitando a cogliere la forza dell’analisi della produzione del primo, l’importanza dell’innovazione tecnologica del secondo e la centralità della domanda globale offerta dal terzo. Il testo si colloca nella convinzione che il grande balzo progressivo compiuto dall’umanità sia frutto proprio del capitalismo, ma che questo deve essere valutato a partire da questo grande “pregio”, ma anche dai suoi “difetti” cioè iniquità, instabilità e inquinamento. Ne viene fuori un bell’affresco del capitalismo oggi su scala mondiale, con una conclusione che, forse, sa di illusione: i difetti andrebbero governati e smussati con politiche di raddrizzamento. Negli ultimi decenni però, non ci si è mai riuscito.

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Carlo Altini, Il Manifesto

Strumenti per una critica sistematica del Capitale

Capita spesso di leggere libri dedicati all’«attualizzazione» di autori del passato, utilizzati per criticare o per giustificare posizioni politiche del presente. In molti casi si tratta, però, di operazioni da valutare con cautela, visto che talvolta si fondano su strategie «commerciali», praticate per fondarsi su un’autorità «morale» dalla quale ottenere credibilità e attenzione. In altri casi il richiamo ai classici è superficiale, oppure retorico, senza un vero scavo storico o concettuale. E, anche nei casi in cui tale richiamo è sincero, gli aspetti «positivi» di queste operazioni (che consentono di attingere a uno sguardo obliquo in grado di smontare la «chiacchiera» contemporanea) si accompagnano ad altri aspetti «negativi», in particolare la mitologizzazione dell’autore o l’incapacità di vedere le differenze tra il passato e il presente.

Com’è facile immaginare, il caso di Marx è molto diffuso in operazioni di questo genere, soprattutto quando cerchiamo di comprendere le trasformazioni e le contraddizioni del capitalismo contemporaneo, continuamente a cavallo tra una crisi e l’altra, eppure sempre dominante su tutti i piani (economico, politico, sociale, culturale, simbolico).

UN TALE TENTATIVO di attualizzazione viene proposto dal volume collettaneo Ricostruire l’alternativa con Marx: economia, ecologia, migrazione, a cura di Alfonso Maurizio Iacono e Marcello Musto (Carocci, pp. 350, euro 32) che ha il merito di sfuggire proprio ai rischi prima citati, sia fondandosi su una solida analisi storica, filologica e concettuale della vasta produzione marxiana, sia mostrando grande attenzione per le singole specificità del capitalismo di oggi. Nessun intento celebrativo, infatti, né nostalgico, affolla i saggi degli autori italiani e stranieri che qui si confrontano con i problemi attuali della globalizzazione e del razzismo, dell’ambiente, delle migrazioni e del genere, e che non utilizzano il pensiero marxiano in modo «meccanico» e irriflesso, bensì cercando di riattivare – oltre ad alcune teorie chiave quali il valore di scambio, l’esercito industriale di riserva e il feticismo delle merci – l’aspirazione di Marx a una critica sistematica dell’economia capitalistica.

Una linea fondamentale del volume risiede nella questione ecologica. Kohei Saito analizza il processo dell’accumulazione originaria come causa del disastro tanto sul piano della giustizia sociale quanto su quello dell’ambiente, per giungere all’idea di una società postcapitalista caratterizzata dalla sostituzione dei modi di produzione e consumo che hanno determinato la catastrofe ecologica. Nell’ottica di individuare le reali condizioni antropologiche e sociali che possono permettere tale sostituzione, Gregory Claeys analizza la teoria marxiana dei bisogni, fino a sottolineare il carattere artificiale dei consumi promossi dal capitalismo: solo il recupero dei beni comuni di socialità e solidarietà consentirà di sfuggire alla trappola del consumismo che – oltre a generare ansia sociale, infelicità pubblica e narcisismo competitivo – sta conducendo all’esaurimento delle risorse naturali. In questa prospettiva di necessaria fuoriuscita dal capitalismo, Razmig Keucheyan mira a elaborare i confini di un nuovo «marxismo ecologico» utilizzando le teorie della democrazia deliberativa.

Un altro asse centrale del volume è costituito dalle migrazioni, considerate soprattutto dal punto di vista della forza-lavoro necessaria per la produzione capitalistica. I saggi di David Smith, Pietro Basso e Ranabir Samaddar mostrano che – all’interno di una comune chiave interpretativa marxiana, fondamentale per comprendere il fenomeno dello sfruttamento sia in epoca coloniale che nell’epoca globale – vi sono differenze sensibili tra la migrazione dei contadini nell’Inghilterra del Settecento e le migrazioni di oggi: tali differenze rendono necessario un aggiornamento del metodo analitico marxista, che deve considerare il lavoro in transito come una componente decisiva dello sviluppo capitalistico.

E TRA QUESTE COMPONENTI del capitalismo contemporaneo vi è anche la questione di genere, in un’ottica femminista: infatti, come afferma Silvia Federici, oggi si rende necessario rivisitare la teoria marxiana dal punto di vista della riproduzione sociale, che non è tanto un settore complementare del lavoro (per esempio, nel campo della cura), quanto la condizione di possibilità di ogni altra forma di lavoro.

È dunque chiaro che l’intento del volume è quello di utilizzare Marx per andare oltre Marx, ma non in modo retorico o messianico, bensì confrontandosi concretamente con le sfide attuali, nella consapevolezza che solo noi oggi possiamo affrontarle, senza affidarsi a risposte preconfezionate, in vista di una soluzione. Per evitare che, come dice Fredric Jameson, sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.

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Marx non era un marxista-leninista e a rileggerlo nei naufragi di oggi è ancora sorprendentemente attuale

Metti un napoletano a Toronto, Canada. Che ci fa? Insegna sociologia teorica alla York University, oltre a essere visiting professor a Pisa e Roma, Nanchino e Santiago, Parigi e Helsinki. Di Marcello Musto, classe 1976, si può cominciare a parlare così. Aggiungendo subito che, parola del filosofo francese Étienne Balibar, è con ogni probabilità il più grande conoscitore al mon- do della vita di Marx. Al quale ha dedicato libri importanti e tradotti in venticinque lingue. Come Ripensare Marx e i marxismi (Carocci, 2011), L’ultimo Marx (Donzelli, 2016) e Karl Marx. Biografia intellettuale e politica 1857-1883 (Einaudi, 2018). Sottratto all’agiografia e ai santini del socialismo reale, tratteggiato come pensatore in costante divenire, il suo Marx si rivela ricco di spunti per leggere il nostro confuso presente.

 

1. Marx revival. Lei dice che arriva dopo una ventennale congiura del silenzio e dopo l’imbalsamazione del suo pensiero da parte del marxismo/leninismo. In che cosa è consistita questa imbalsamazione?

Critico rigorosissimo e mai pago di punti d’approdo, fu spesso associato a un grossolano dottrinarismo. Strenuo sostenitore della auto-emancipazione della classe operaia, venne ingabbiato in una ideologia che sosteneva il primato delle avanguardie politiche. Propugnatore dell’idea che la condizione fondamentale per il socialismo fosse la riduzione della giornata lavorativa, fu assimilato al credo produttivistico dello stakhanovismo. Interessato come pochi altri pensatori al libero sviluppo delle individualità degli esseri umani, affermando, contro il diritto borghese che cela le disparità sociali dietro una mera uguaglianza legale, che “il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere diseguale”, è stato accomunato a una concezione che ha neutralizzato la ricchezza della dimensione collettiva nell’indistinto dell’omologazione. Contrario a “prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire”, venne illegittimamente trasformato nel padre di un sistema sociale molto differente dalle sue idee.

2. Alcuni studiosi di Marx hanno privilegiato il critico del capitalismo, l’economista, come separandolo dal filosofo e dal politico. I numerosi inediti di Marx, in corso di pubblicazione nell’edizione tedesca MEGA, offrono invece una sorta di genio leonardesco.

Fin dal periodo universitario, Marx assunse l’abitudine di compilare quaderni di estratti dai libri che leggeva, intervallandoli con le riflessioni che questi gli suggerivano. I manoscritti di Marx contengono circa 200 quaderni (molti ancora inediti) che sono essenziali per la comprensione della genesi della sua teoria e per poter meglio intuire le parti di essa che non ebbe modo di sviluppare come avrebbe voluto. Non è eccessivo affermare che, tra i classici del pensiero economico e filosofico, Marx sia quello il cui profilo è maggiormente mutato nel corso degli ultimi anni. Egli scrisse i suoi estratti in otto lingue e questi vennero desunti da testi delle più svariate discipline. Comprendono anche appunti da centinaia di resoconti parlamentari, statistiche economiche e rapporti di uffici governativi di mezzo mondo. Marx era uno studioso globale e molto analitico. Altro che – com’è stato scritto – limitarsi soltanto a mettere in evidenza il nocciolo razionale della dialettica di Hegel!

3. È possibile parlare di un Marx, fatti salvi i punti cardine del suo pensiero, mai definitivo e sempre in divenire?

Il Capitale non fu l’unico progetto rimasto incompiuto. La convinzione di Marx che le sue informazioni fossero insufficienti e i suoi giudizi ancora immaturi gli impedirono di pubblicare diversi scritti che rimasero solo abbozzati o frammentari. Ciò non significa che i suoi testi incompleti abbiano lo stesso peso di quelli pubblicati. Si dovrebbero distinguere cinque tipi di scritti: le opere pubblicate, i loro manoscritti preparatori, gli articoli giornalistici, le lettere e i quaderni di estratti. Inoltre, alcuni dei testi dati alle stampe non devono essere considerati come la sua parola finale sui temi in questione. Ad esempio, il Manifesto del Partito Comunista venne considerato da Engels e Marx come un documento storico, non come il testo definitivo in cui venivano enunciate le loro principali concezioni politiche. Marx continuò a sviluppare le sue idee fino alla fase finale della sua esistenza. Non a caso, il suo motto preferito era De omnibus dubitandum.

4. Marx giornalista, con oltre 500 articoli pubblicati.

Per oltre un decennio, Marx fu uno dei principali corrispondenti europei del New-York Tribune, il più diffuso quotidiano negli Stati Uniti. Nei numerosi articoli redatti, egli si occupò di tutte le crisi economiche che si susseguirono e dei principali eventi politici del tempo, diventando uno stimato giornalista. In pochi sapevano che dietro quella firma c’era un impenitente rivoluzionario. Alcuni di questi testi sono utili per conoscere il pensiero di Marx su questioni delle quali non poté occuparsi in maniera sistematica. Ad esempio, egli scrisse sulla Guerra di Crimea del 1853-56 e, nonostante si fosse sempre opposto alle politiche di Mosca, dichiarò, contro i democratici liberali che esaltavano la coalizione antirussa: “è un errore definire la guerra contro la Russia come un conflitto tra libertà e dispotismo. A parte il fatto che, se ciò fosse vero, la libertà sarebbe attualmente rappresentata da un Bonaparte, l’obiettivo manifesto della guerra è il mantenimento dei trattati di Vienna, ossia di quegli stessi trattati che cancellano la libertà e l’indipendenza delle nazioni». Se sostituissimo Bonaparte con gli Stati Uniti e i trattati di Vienna con la NATO, queste osservazioni sembrano scritte per l’oggi.

5. Marx in qualche modo antesignano della questione ecologica, quando parla non solo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo ma dello sfruttamento della terra da parte del capitalismo…

La rilevanza che Marx assegnò alla questione ecologica è al centro di alcuni dei principali studi dedicati alla sua opera negli ultimi vent’anni. In ripetute occasioni, egli denunciò che l’espansione del modo di produzione capitalistico aumenta non solo lo sfruttamento della classe lavoratrice, ma anche il saccheggio delle risorse naturali. Nel Capitale Marx osservò che quando il proletariato avrebbe instaurato un modo di produzione comunista la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui sarebbe apparsa così assurda come la proprietà privata di un essere umano da parte di un altro essere umano. Egli manifestò la sua più radicale critica verso l’idea di possesso distruttivo insita nel capitalismo, ricordando che “un’intera nazione o anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente non sono proprietarie della terra”. Per Marx gli esseri umani sono “soltanto i suoi usufruttuari” e, dunque, hanno “il dovere di tramandare alle generazioni successive un pianeta migliore, come boni patres familias”.

6. Marx contro le immigrazioni, si è scritto. Ma quando presiedeva la Prima Internazionale volle operai irlandesi alla testa della sezione londinese…

Si tratta di una delle più grandi idiozie scritta su Marx negli ultimi anni. Egli si interessò molto di migrazioni e tra i suoi ultimi appunti ci sono delle annotazioni sul pogrom avvenuto a San Francisco, nel 1877, contro i migranti cinesi. Marx si scagliò contro i demagoghi anticinesi che sostenevano che i migrati avrebbero “affamato i proletari bianchi” e contro coloro che cercavano di convincere la classe operaia a sostenere posizioni xenofobe. Al contrario, Marx dimostrò che il movimento forzato di manodopera generato dal capitalismo era una componente molto importante dello sfruttamento borghese e che la chiave per combatterlo era la solidarietà di classe tra i lavoratori, indipendentemente dalle loro origini o da qualsiasi distinzione tra manodopera locale e importata.

7. Marx anticolonialista, attento al Sud del mondo, il che spiega la sua fortuna fuori dal circuito europeo…

Marx intraprese indagini approfondite sulle società extraeuropee e si espresse sempre senza ambiguità contro le devastazioni del colonialismo. Queste considerazioni sono fin troppo ovvie per chiunque abbia letto Marx, nonostante lo scetticismo oggi di moda in certi ambienti accademici. Ad esempio, quando scrisse sulla dominazione britannica in India affermò che questi erano stati capaci soltanto di “distruggere l’agricoltura indigena e raddoppiare il numero e l’intensità delle carestie”. Durante gli ultimi anni di vita, sviluppo una concezione multilineare del progresso e ciò lo portò a guardare con maggiore attenzione alle specificità storiche e alle disomogeneità economiche e politiche dei paesi del sud. Egli ritenne che lo sviluppo del capitalismo non fosse un prerequisito necessario per la rivoluzione; questa poteva cominciare anche fuori dall’Europa. La duttilità teorica di Marx – molto diversa dalle posizioni di alcuni suoi seguaci – contribuisce alla nuova ondata di interesse per le sue teorie, dal Brasile all’India.

8. E Marx, per dirla con parole di oggi, attento alle questioni di genere, come i socialisti utopisti alla Fourier e Saint-Simon che lei invita a rileggere…

Ritornare a leggere la variegata storia del movimento operaio, prestando attenzione a tutte le lotte che la hanno caratterizzata, aiuta a comprendere quanto siano errate quelle letture che rappresentano il socialismo come un’ideologia esclusivamente interessata al conflitto tra capitale e lavoro. Questo implica anche superare la vecchia vulgata marxista che ha ritenuto che quello di Marx fosse l’unico “socialismo scientifico” e che ha usato l’aggettivo “utopistico” in senso puramente denigratorio. Per ripensare l’alternativa al capitalismo occorre riutilizzare l’intero arsenale del pensiero socialista, anche se Marx rimane l’elemento centrale.

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Il lavoro oggi e la categoria di “alienazione” (Talk)

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La sinistra è contro la guerra

Le cause economiche della guerra
Nei dibattiti della Prima Internazionale, César de Paepe formulò quella che sarebbe divenuta la posizione classica del movimento operaio su questo tema, ovvero l’inevitabilità delle guerre nel regime di produzione capitalistico. Nella società contemporanea, esse non sono provocate dalle ambizioni dei monarchi o di singoli individui, bensì sono determinate dal modello economico-sociale dominante. Il movimento socialista mostrò anche quale era la parte di popolazione sulla quale si abbattevano, ineluttabilmente, le conseguenze più nefaste delle guerre. Nel congresso del 1868, i delegati della Prima Internazionale votarono una mozione che impegnava i lavoratori a perseguire “l’abolizione definitiva di ogni guerra”, dal momento che sarebbero stati soprattutto loro a pagare economicamente, quando non con il loro sangue – e senza alcuna distinzione tra vincitori e sconfitti –, le decisioni delle classi dominanti e dei governi che li rappresentavano.

Tra i precursori del socialismo, Claude Henri de Saint Simon si era decisamente schierato non solo in opposizione alla guerra, ma anche al conflitto sociale, ritenuti entrambi colpevoli di ostacolare il fondamentale progresso della produzione industriale. Karl Marx non riassunse in alcuno scritto le sue concezioni – frammentarie e talvolta contraddittorie – sulla guerra, né formulò linee guida per indicare l’atteggiamento più corretto da adottare in proposito. Quando dovette scegliere tra campi opposti, la sua unica costante fu l’opposizione alla Russia zarista, ritenuta l’avamposto della controrivoluzione e uno dei principali ostacoli all’emancipazione della classe lavoratrice . Nel Capitale (1867) affermò che la violenza era una potenza economica, «la levatrice di ogni vecchia società che è gravida di una nuova». Tuttavia, non concepì la guerra come una necessaria scorciatoia per la trasformazione rivoluzionaria e impiegò una parte consistente della sua militanza politica per vincolare la classe operaia al principio della solidarietà internazionale. Come sostenne anche Friedrich Engels, questa agiva in modo determinante, nelle singole nazioni, contro il rischio di pacificazione del conflitto di classe che l’invenzione del nemico esterno, prodotto dalla propaganda bellica, generava ogni volta che scoppiava una guerra. In diverse lettere scambiate con dirigenti del movimento operaio, Engels pose l’accento sulla forza ideologica esercitata dall’inganno del patriottismo e sul ritardo che un’ondata sciovinistica avrebbe causato sull’inizio della rivoluzione proletaria. Inoltre, nell’Anti-Dühring (1878), dopo aver analizzato gli effetti della diffusione di armi sempre più letali, affermò che il socialismo aveva il compito di «fare saltare in aria il militarismo e, con esso, tutti gli eserciti permanenti».

Il tema della guerra fu così importante per Engels che egli decise di dedicarvi uno dei suoi ultimi scritti. In L’Europa può disarmare? (1893), segnalò che, nel vecchio continente, durante i precedenti venticinque anni, ogni Stato aveva cercato di superare l’altro in potenza militare e in preparazione bellica. Ciò aveva generato una produzione di armamenti senza precedenti che rendeva possibile l’approssimarsi di «una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto». Secondo il co-autore del Manifesto del partito comunista (1848), «in tutta Europa, il sistema degli eserciti permanenti era stato spinto a un punto talmente estremo da essere condannato a rovinare economicamente i popoli, per via delle spese belliche, o a degenerare in una guerra di annientamento generale». Nella sua analisi, Engels non trascurò di sottolineare che gli eserciti venivano mantenuti non solo per motivi militari, ma anche per fini politici. Essi dovevano «proteggere non tanto dal nemico esterno, quanto da quello interno». Si trattava di accrescere le forze che dovevano reprimere il proletariato e le lotte operaie. Poiché erano i ceti popolari a pagare più di tutti i costi della guerra, attraverso la massa di soldati che fornivano allo Stato e le imposte, il movimento operaio doveva battersi per una «riduzione omogenea e progressiva del servizio militare» e per il disarmo, considerato l’unica, effettiva, «garanzia della pace».

Il fallimento alla prova dei fatti
Ben presto, da argomento teorico analizzato in tempi di pace, la lotta contro il militarismo divenne un problema politico preminente. Con l’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee, la controversia sulla guerra assunse un peso sempre più rilevante nel dibattito della Seconda Internazionale. Nel congresso della sua fondazione, venne approvata una mozione che sanciva la pace quale “condizione prima indispensabile di ogni emancipazione operaia”. La mozione votata al Congresso di Stoccarda, del 1907, riassunse tutti i punti divenuti, fino ad allora, patrimonio comune del movimento operaio. Tra essi figuravano: la scelta di voto contrario a leggi di bilancio che proponevano l’aumento delle spese militari e l’avversione agli eserciti permanenti.

L’intensificarsi della concorrenza tra gli Stati capitalisti sul mercato mondiale e lo scoppio di diversi conflitti locali resero lo scenario generale ancora più allarmante. La pubblicazione del libro di Jaurès La nuova armata (1911) favorì la discussione di un altro tema al centro del dibattito di quel periodo: la distinzione tra guerra offensiva e guerra difensiva, nonché sulla condotta da assumere rispetto a quest’ultima, anche nel caso in cui un paese vedesse minacciata la propria indipendenza. Per Jaurès il compito esclusivo dell’esercito era quello di difendere l’autonomia di una nazione da ogni aggressione offensiva – ovvero tutte quelle che non accettavano la risoluzione di un conflitto mediante arbitrato. Tutte le azioni militari che ricadevano in questo ambito erano da considerarsi legittime. La perspicace critica della Luxemburg verso questa posizione evidenziò come i «fenomeni storici quali le guerre moderne non (potevano) essere misurati con il metro della ‘giustizia’, o mediante uno schema cartaceo di difesa e aggressione». Occorreva considerare, inoltre, la difficoltà di poter stabilire se una guerra fosse davvero offensiva o difensiva, ovvero se lo Stato che l’aveva iniziata avesse deliberatamente deciso di attaccare o era stato costretto a farlo a seguito degli stratagemmi adottati dalla nazione che gli si opponeva. Dunque, per la Luxemburg, tale distinzione andava scartata, così come andava criticata l’idea di «nazione armata» di Jaures, poiché tendeva, infine, ad accrescere la militarizzazione già esistente nella società.

Con il passare degli anni, la Seconda Internazionale si impegnò sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace. L’opposizione al riarmo e ai preparativi bellici in atto fu molto blanda e un’ala del Partito Socialdemocratico Tedesco, divenuto sempre più legalista e moderato, barattò il suo voto favorevole ai crediti militari – e poi finanche l’appoggio all’espansione coloniale –, in cambio della concessione di maggiori libertà politiche in patria. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Il movimento operaio giunse a condividere gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. La Seconda Internazionale si rivelò del tutto impotente di fronte alla guerra, fallendo in uno dei suoi intenti principali: preservare la pace.

I due esponenti di punta del movimento operaio che si opposero con maggiore vigore alla guerra furono la Luxemburg e Lenin. La prima ammodernò il bagaglio teorico della sinistra sulla guerra e mostrò come il militarismo rappresentasse un nerbo vitale dello Stato. Per Lenin, invece, in Il socialismo e la guerra, Lenin ebbe il merito di mostrare la “falsificazione storica” operata dalla borghesia, ogni qual volta provava ad attribuire un significato “progressivo e di liberazione nazionale” a quelle che, in realtà, erano guerre “di rapina”, condotte con il solo obiettivo di decidere a quale delle parti belligeranti sarebbe toccato opprimere maggiormente popolazioni straniere. Per Lenin, i rivoluzionari dovevano “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, poiché quanti volevano una pace veramente “democratica e duratura” dovevano eliminare la borghesia e i governi colonialisti.

Il discrimine nell’opposizione alla guerra
La Prima Guerra Mondiale procurò divisioni non solo in seno alla Seconda Internazionale, ma anche nel movimento anarchico. Nel Manifesto dei Sedici, Kropotkin postulò la necessità di “resistere a un aggressore che rappresenta l’annientamento di tutte le nostre speranze di emancipazione”. La vittoria della Triplice Intesa contro la Germania costituiva il male minore per non compromettere il livello di libertà esistente. Al contrario, coloro che firmarono con Errico Malatesta il Manifesto internazionale anarchico sulla guerra espressero la convinzione che la responsabilità del conflitto non poteva ricadere su un singolo governo e che non andava “fatta nessuna distinzione tra guerra offensiva e difensiva”. Aggiunsero, inoltre, che “nessuno dei belligeranti aveva il diritto di parlare a nome della civilizzazione o di considerarsi in uno stato di legittima difesa”. La Prima Guerra Mondiale era un ulteriore episodio del conflitto tra capitalisti di diversi stati imperialisti compiuta a spese della classe operaia. Malatesta, Emma Goldman, Ferdinand Nieuwenhuis e la stragrande maggioranza del movimento anarchico erano tutti convinti che sarebbe stato un errore imperdonabile appoggiare i governi borghesi e optarono, senza se e senza ma, in continuità con lo slogan «nessun uomo e neanche un centesimo per l’esercito», per un deciso rifiuto di partecipare – anche indirettamente – a qualsiasi ipotesi bellica.

Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. A partire dal primo conflitto mondiale, la sostituzione degli uomini inviati al fronte – con un salario di gran lunga inferiore e, pertanto, in condizioni di sovrasfruttamento –, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche in una fetta consistente del neonato movimento suffragista. Alcune sue dirigenti giunsero a promuovere petizioni per permettere alle donne di arruolarsi nell’esercito. Smascherare l’inganno dei governi del tempo – che, agitando lo spauracchio dell’aggressore alle porte, si servirono della guerra per derubricare fondamentali riforme di carattere sociale – rappresentò una delle conquiste più significative delle femministe comuniste del tempo. Clara Zetkin, Aleksandra Kollontaj, Silvia Pankhurst e, naturalmente, la Luxemburg, furono tra le prime ad avviare, con lucidità e coraggio, il cammino che indicò, a molte generazioni successive, come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato. Dopo di loro, l’ostracismo alla guerra divenne un elemento distintivo della Giornata internazionale delle donne e, all’insorgere di ogni nuovo conflitto bellico, l’opposizione all’aumento delle spese di guerra figurò tra i punti salienti di numerose piattaforme del movimento femminista globale mondiale.

Il fine non giustifica i mezzi e i mezzi sbagliati danneggiano il fine
Il crescendo di violenze perpetrate dal fronte nazi-fascista – nei confini nazionali così come in politica estera – e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale generarono uno scenario ancora più nefasto di quello della guerra del 1914-1918. L’Unione Sovietica venne attaccata dalle truppe di Hitler nel 1941 e fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che fu decisiva al fine della sconfitta del nazismo e divenne, poi, un elemento così centrale dell’unità nazionale russa da essere sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino e da perdurare fino ai nostri giorni.

A partire dal 1961, sotto la presidenza di Nikita Chruščëv, l’Unione Sovietica inaugurò un nuovo ciclo politico che prese il nome di Coesistenza pacifica. Questa svolta, contraddistinta dall’impegno di non ingerenza e di rispetto della sovranità dei singoli stati, nonché di cooperazione economica con alcuni paesi capitalisti, sarebbe dovuta servire a scongiurare il pericolo di un terzo conflitto mondiale (che anche la Crisi dei missili di Cuba, del 1962, aveva dimostrato possibile) e avrebbe dovuto suffragare la tesi della non inevitabilità della guerra. Tuttavia, questo tentativo di collaborazione costruttiva fu intrapreso esclusivamente nei rapporti con gli Stati Uniti d’America e non con i paesi del «socialismo reale». Nel 1956, infatti, l’Unione Sovietica aveva già represso nel sangue la rivolta ungherese. I partiti comunisti dell’Europa occidentale non condannarono, anzi giustificarono, l’intervento delle truppe sovietiche in nome della protezione del blocco socialista e Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, dichiarò: «si sta con la propria parte anche quando sbaglia». La maggioranza di quanti condivisero questa posizione se ne pentì amaramente quando, anni dopo, compresero gli effetti devastanti prodotti dall’intervento sovietico.

Eventi analoghi accaddero in piena epoca di Coesistenza Pacifica, in Cecoslovacchia, nel 1968. Alle richieste di democratizzazione e di decentramento economico, fiorite con la «Primavera di Praga», il politburo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica rispose, con deliberazione unanime, inviando mezzo milione di soldati e migliaia di carri armati. Al congresso del Partito Operaio Unificato Polacco, del 1968, Leonid Brežnev spiegò di voler dare concreta attuazione a un principio che definì di «sovranità limitata». Egli affermò che «quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti». Secondo questa logica antidemocratica, la scelta di stabilire cosa fosse o non fosse «socialismo» era, naturalmente, puro arbitrio dei dirigenti sovietici. Questa volta, le critiche a sinistra non mancarono e furono, anzi, prevalenti. La riprovazione nei confronti dell’Unione Sovietica non fu espressa soltanto dai neonati movimenti della nuova sinistra, ma dalla maggioranza dei partiti comunisti e anche dalla Cina. Ciò nonostante, i russi non fecero marcia indietro e portarono a compimento quello che definirono essere un processo di «normalizzazione». L’Unione Sovietica continuò a destinare una parte significativa delle sue risorse economiche alle spese militari e ciò contribuì all’affermazione di una cultura autoritaria e di guerra nella società. Così facendo, si alienò, definitivamente, le simpatie del movimento per la pace, divenuto ancora più vasto in occasione delle straordinarie mobilitazioni contro la guerra in Vietnam.

Uno dei principali avvenimenti bellici verificatisi nel decennio successivo fu l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nel 1979, l’Armata Rossa tornò ad essere lo strumento principale della politica estera di Mosca, che continuava ad arrogarsi il diritto di intervenire in quella che riteneva essere la propria «zona di sicurezza». L’infausta decisione di occupare l’Afghanistan si trasformò in un estenuante stillicidio che si protrasse per oltre dieci anni, causando un numero ingente di morti e profughi. In questa occasione, le reticenze del movimento comunista internazionale furono molto minori rispetto a quelle palesatesi dinanzi agli attacchi sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia. Tuttavia, questa nuova guerra rese ancora più evidente, all’opinione pubblica mondiale, la frattura esistente tra il «socialismo reale» e una politica alternativa, fondata sull’opposizione al militarismo e sulla pace.

L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’Unione Sovietica venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli Stati Uniti d’America che, parallelamente, dall’inizio della guerra fredda, si erano distinti per aver promosso, più o meno segretamente, colpi di stato e la sostituzione di governi democraticamente eletti in oltre 20 paesi del mondo. Infine, le «guerre socialiste» tra Cambogia e Vietnam e tra Cina e Vietnam, scoppiate nel biennio 1977-1979 e aventi come sfondo la crisi sino-sovietica, contribuirono a fare cadere l’ultima arma ancora nelle mani dell’ideologia «marxista-leninista» (che, in realtà, dell’impianto iniziale di Marx ed Engels aveva conservato ben poco ), secondo la quale la guerra era determinata esclusivamente dagli squilibri economici generati dal capitalismo.

Se è sinistra, è contro la guerra
La fine della Guerra Fredda non ha diminuito le ingerenze nella sovranità territoriale dei singoli paesi, né ha accresciuto il livello di libertà, di ogni popolo, quanto a poter scegliere il regime politico dal quale intende essere governato. Le tante guerre intraprese – anche senza il mandato dell’ONU e definite, per assurdo, «umanitarie» – dagli Stati Uniti d’America negli ultimi venticinque anni, alle quali si sono aggiunte nuove forme di conflitti, di sanzioni illegali, e di condizionamenti politici, economici e mediatici, testimoniano che al bipolarismo tra le due superpotenze mondiali, caratteristico del «secolo breve», non è seguita l’era di libertà e progresso tanto propagandata dal mantra neoliberale del «Nuovo Ordine Mondiale» post-1991. In questo contesto, numerose forze politiche che un tempo si richiamavano ai valori della sinistra sono state compartecipi di diversi conflitti bellici e, dal Kosovo, all’Afghanistan, all’Iraq – per citare soltanto le principali guerre dichiarate dalla NATO, dopo la caduta del Muro di Berlino –, hanno, di volta in volta, dato il loro sostegno all’intervento armato, rendendosi sempre meno distinguibili dalla destra.

La Guerra Russo-Ucraina ha posto la sinistra nuovamente di fronte al dilemma del come comportarsi quando un paese vede minacciata la propria legittima sovranità. Quanti a sinistra hanno ceduto alla tentazione di diventare – direttamente o indirettamente – co-belligeranti, dando vita a una nuova union sacrée, contribuiscono a rendere sempre meno riconoscibile la distinzione tra atlantismo e pacifismo. La storia dimostra che, quando non si oppongono alla guerra, le forze progressiste smarriscono una parte essenziale della loro ragion d’essere e finiscono con l’essere inghiottite dall’ideologia del campo a loro avverso.

La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Al di là delle spiegazioni – fornite, in queste settimane, da numerosi esperti – sulle radici del conflitto, la posizione di quanti suggeriscono una politica di “non allineamento” è la più efficace per far cessare la guerra al più presto e assicurare che in questo conflitto vi sia il minor numero possibile di vittime. Significa dare forza all’unico vero antidoto all’espansione della guerra su scala generale. A differenza delle tante voci che invocano un nuovo arruolamento, va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica.

Inoltre, nonostante essa appaia rafforzata a seguito delle mosse compiute dalla Russia, bisogna lavorare affinché l’opinione pubblica smetta di considerare la più grande e aggressiva macchina bellica del mondo – la NATO – come la soluzione ai problemi della sicurezza globale. Al contrario, va mostrato come questa sia un’organizzazione pericolosa e inefficace che, con la sua volontà di espansione e di dominio unipolare, contribuisce ad aumentare le tensioni belliche nel mondo.

In Il socialismo e la guerra, Lenin sostenne che i marxisti si distinguono dai pacifisti e dagli anarchici poiché riconoscono «la necessità dell’esame storico (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx sic!) di ogni singola guerra». Continuando, affermò che «nella storia sono più volte avvenute guerre che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi con ogni guerra, sono state progressive e utili all’evoluzione dell’umanità». Se ciò è stato vero per il passato, sarebbe miope ipotizzare che possa ripetersi nel contesto di diffusione delle armi di distruzione di massa della nostra società contemporanea. Raramente le guerre – da non confondere con le rivoluzioni – hanno avuto l’effetto democratizzante auspicato dai teorici del socialismo. Al contrario, esse si sono spesso rivelate come il modo peggiore per realizzare la rivoluzione, sia per il costo di vite umane che per la distruzione delle forze produttive che esse comportano. Le guerre diffondono, infatti, un’ideologia di violenza che si unisce, spesso, a quei sentimenti nazionalistici che hanno più volte lacerato il movimento operaio. Di rado, esse rafforzano pratiche di autogestione e democrazia diretta, mentre accrescono il potere di istituzioni autoritarie. È una lezione che non andrebbe mai dimenticata anche dalle sinistre moderate.

Il monito più fecondo delle Riflessioni sulla guerra (1933) di Simone Weil discende dalla capacità di saper comprendere «come può una rivoluzione evitare la guerra». Secondo l’autrice francese, «è su questa labile possibilità che occorre puntare, o abbandonare ogni speranza». La guerra rivoluzionaria si trasforma spesso nella «tomba della rivoluzione», poiché essa non permette ai «cittadini armati, di fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza giurisdizione speciale, senza pene per i disertori». La guerra incrementa, come nessun altro fenomeno sociale, l’apparato militare, poliziesco e burocratico. Cancella «l’individuo di fronte alla burocrazia statale con il sostegno di un fanatismo esasperato», avvantaggiando la macchina statale e non i lavoratori. Pertanto, la Weil ne desunse che «se la guerra non termina al più presto e per sempre (…) si avranno solo quelle rivoluzioni che, anziché distruggere l’apparato statale lo perfezionano» o, detto ancor più chiaramente, «si finirebbe per estendere sotto altra forma il regime che ci vuole sopprimere». E per questo che, in caso di guerra, «bisogna scegliere tra l’intralciare il funzionamento della macchina bellica, della quale siamo un ingranaggio, e l’aiutare quella macchina a stritolare alla cieca le vite umane».

Diversamente dal celebre detto di Carl von Clausewitz, per la sinistra, la guerra non può essere “la continuazione della politica con altri mezzi”. In realtà, essa non fa che certificare il suo fallimento. Se la sinistra vuole tornare a essere egemone e dimostrarsi capace di declinare la sua storia per i compiti dell’oggi, deve scrivere sulle proprie bandiere, in maniera indelebile, le parole “antimilitarismo” e “no alla guerra”.

Riferimenti
1. Marx modificò la sua attitudine verso la Russia negli ultimi anni della sua vita. Cfr. Marcello Musto, L’ultimo Marx: 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, pp. 49-75.
2. Cfr. Marcello Musto, Karl Marx. Biografia intellettuale e politica 1857-1883, Einaudi, 2018, e Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi. Studi e saggi, Carocci, 2011.

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Le Capital compie 150 anni

Nel settembre del 1872 usciva l’edizione francese del magnum opus di Karl Marx. Fu molto più di una traduzione, rinnovando continuamente la sua prospettiva critica aprì infatti la sua analisi al capitalismo globale.
Nel febbraio 1867, dopo più di due decenni di faticoso lavoro, Karl Marx disse al suo amico Friedrich Engels che la prima parte della sua tanto attesa critica dell’economia politica era finalmente completata. Marx viaggiò da Londra ad Amburgo per consegnare il manoscritto del volume I (Il processo di produzione del capitale) del suo magnum opus e, in accordo con il suo editore, Otto Meissner, fu deciso che Il Capitale sarebbe uscito in tre parti. Al culmine della soddisfazione, Marx scrisse che la pubblicazione del suo libro era, «senza dubbio, il colpo più terribile che sia mai stato scagliato contro la testa della borghesia».

Nonostante il lungo lavoro di composizione prima del 1867, la struttura del Capitale si sarebbe notevolmente ampliata negli anni a venire e lo stesso volume I continuò ad assorbire energie significative da parte di Marx, anche dopo la sua pubblicazione. Uno degli esempi più evidenti di questo impegno fu la traduzione francese del Capitale, pubblicata in quarantaquattro puntate tra il 1872 e il 1875. Questa edizione non era una semplice traduzione ma una versione «completamente rivista dall’autore» in cui Marx approfondiva la sezione sul processo di accumulazione del capitale e sviluppava meglio le sue idee sulla differenza tra la «concentrazione» e la «centralizzazione» del capitale.

Alla ricerca della versione definitiva
Dopo le interruzioni dovute alle cattive condizioni di salute – e dopo un periodo di intensa attività politica per l’Associazione internazionale dei lavoratori – Marx si dedicò a lavorare a una nuova edizione del volume I del Capitale all’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento. Insoddisfatto del modo in cui aveva esposto la teoria del valore, trascorse il dicembre 1871 e il gennaio 1872 riscrivendo ciò che aveva pubblicato nel 1867. Una ristampa di Das Kapital in tedesco, che includeva le modifiche apportate da Marx, uscì nel 1872. Fu un anno chiave per la diffusione del Capitale, visto che vide anche la comparsa delle traduzioni in russo e in francese. Quest’ultima fu affidata, dall’editore Maurice Lachâtre, a Joseph Roy, che aveva precedentemente tradotto alcuni testi del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. La prima parte fu pubblicata 150 anni fa, il 17 settembre 1872.

Marx era d’accordo che sarebbe stato positivo pubblicare un’«edizione popolare a buon mercato». «Plaudo alla tua idea di pubblicare la traduzione… a rate periodiche – scrisse al suo editore – In questa forma, il libro sarà più accessibile alla classe operaia e per me questa considerazione prevale su qualsiasi altra». Consapevole, tuttavia, che esisteva un «rovescio della medaglia», anticipò che il «metodo di analisi» da lui utilizzato sarebbe stato «ridotto per una lettura alquanto ardua nei primi capitoli» e che i lettori avrebbero potuto «essere scoraggiati» quando non fossero stati «in grado di proseguire». Non sentiva di poter fare nulla per questo «svantaggio», a parte che per i «lettori attenti e preavvertiti che si preoccupano della verità». Come scrisse Marx in una nota frase della prefazione all’edizione francese del Capitale, «Non esiste una via maestra per l’apprendimento e gli unici che hanno qualche possibilità di raggiungere le sue vette illuminate dal sole sono quelli che non temono la stanchezza mentre scalano ripidi sentieri in salita».

Alla fine, Marx dovette dedicare molto più tempo alla traduzione di quanto avesse inizialmente previsto per la correzione delle bozze. Come scrisse all’economista russo Nikolai Danielson, Roy aveva «spesso tradotto in modo troppo letterale», costringendo lo stesso Marx a «riscrivere interi passaggi in francese, per renderli più appetibili al pubblico francese». All’inizio di quel mese, sua figlia Jenny aveva detto all’amico di famiglia Ludwig Kugelmann che suo padre era «obbligato a fare innumerevoli correzioni», riscrivendo «non solo intere frasi ma intere pagine». Successivamente, Engels scrisse ancora a Kugelmann che la traduzione francese si era rivelata una «vera faticaccia» per Marx e che «doveva più o meno riscrivere tutto dall’inizio».

Nel rivedere la traduzione, inoltre, Marx decise di introdurre alcune aggiunte e modifiche. Nel poscritto a Le Capital non esitò ad attribuirvi «un valore scientifico indipendente dall’originale» e affermava che la nuova versione «dovrebbe essere consultata anche da lettori che hanno familiarità con il tedesco». Il punto più interessante, soprattutto per il suo valore politico, riguarda la tendenza storica della produzione capitalistica. Se nella precedente edizione del volume I del Capitale Marx aveva scritto che «il paese industrialmente più sviluppato mostra a quelli meno sviluppati l’immagine del proprio futuro», nella versione francese le parole in corsivo sono state sostituite con «a coloro che lo seguono sulla scala industriale». Questo chiarimento limitava la tendenza allo sviluppo capitalistico solo ai paesi occidentali già industrializzati.

Dopo uno studio più approfondito della storia, Marx era ora pienamente consapevole che lo schema di progressione lineare attraverso i «modi di produzione borghesi asiatici, antichi, feudali e moderni», che aveva disegnato nella prefazione a Per la critica dell’economia politica, nel 1859, era inadeguato alla comprensione del movimento della storia, e che era anzi opportuno tenersi alla larga da ogni filosofia della storia. Non vedeva lo sviluppo storico in termini di incrollabile progresso lineare verso una fine predefinita. La concezione multilineare più netta che Marx sviluppò nei suoi ultimi anni lo portò a guardare ancora più attentamente alle specificità storiche e alle diseguaglianze dello sviluppo politico ed economico nei diversi paesi e contesti sociali. Questo approccio ha sicuramente accresciuto le difficoltà che aveva dovuto affrontare nel già accidentato percorso di completamento del secondo e terzo volume del Capitale.

Nell’ultimo decennio della sua vita, Marx intraprese indagini approfondite sulle società al di fuori dell’Europa e si espresse inequivocabilmente contro le devastazioni del colonialismo. Sarebbe sbagliato suggerire il contrario e attribuirgli una visione eurocentrica dello sviluppo sociale. Marx criticava i pensatori che, pur evidenziando le conseguenze distruttive del colonialismo, avevano utilizzato categorie specifiche del contesto europeo nelle loro analisi delle aree periferiche del globo. Aveva ripetutamente messo in guardia contro coloro che non osservavano le necessarie distinzioni tra i fenomeni e, soprattutto dopo i suoi progressi teorici negli anni Settanta dell’Ottocento, era molto diffidente nel trasferire categorie interpretative in campi storici o geografici completamente diversi. Tutto questo è più chiaro grazie a Le Capital.

Nel 1878, in una lettera in cui soppesava i lati positivi e negativi dell’edizione francese, Marx scriveva a Danielson che questa conteneva «molte modifiche e integrazioni importanti», ma che era stato anche «a volte obbligato, principalmente nel primo capitolo – a semplificare la faccenda». In seguito, Engels pensò che queste aggiunte fossero semplificazioni non degne di essere riprodotte, e non incluse tutte le modifiche apportate da Marx a Le Capital nella quarta edizione tedesca del Capitale, pubblicata nel 1890, sette anni dopo la morte di Marx. Marx non fu in grado di completare una revisione finale del volume I del Capitale. In effetti, né l’edizione francese del 1872-75 né la terza edizione tedesca pubblicata nel 1881 possono essere considerate la versione definitiva per come Marx avrebbe voluto che fosse.

Marx attraverso Le Capital
Le Capital ebbe una notevole importanza per la diffusione dell’opera di Marx nel mondo. È stato utilizzato per la traduzione di molti estratti in varie lingue, la prima in lingua inglese, pubblicata nel 1883, per esempio. Più in generale, Le Capital ha rappresentato la prima porta d’accesso all’opera di Marx per i lettori di vari paesi. La prima traduzione italiana – pubblicata tra il 1882 e il 1884 – è stata realizzata direttamente dall’edizione francese. Nel caso dello spagnolo, Le Capital ha permesso di tirar fuori alcune edizioni parziali e due traduzioni complete: una a Madrid nel 1967, e una a Buenos Aires nel 1973. Poiché il francese era più conosciuto del tedesco, fu grazie a questa versione che la critica di Marx all’economia politica potè raggiungere più rapidamente molti paesi dell’America ispanica. Più o meno lo stesso valeva per i paesi di lingua portoghese. Nello stesso Portogallo, Le Capital è circolato solo attraverso le poche copie disponibili in francese, fino a quando non è apparsa una versione ridotta in portoghese, poco prima della caduta della dittatura salazarista nel 1974. In generale, attivisti politici e ricercatori sia in Portogallo che in Brasile hanno trovato più facile avvicinarsi all’opera di Marx attraverso la traduzione francese rispetto all’originale. Anche le poche copie che hanno avuto diffusione nei paesi africani di lingua portoghese erano in quella lingua.

Il colonialismo ha anche modellato in parte i meccanismi con cui il Capitale è diventato disponibile nel mondo arabo. Mentre in Egitto e in Iraq è stato l’inglese a caratterizzare maggiormente la diffusione della cultura europea, l’edizione francese ha svolto un ruolo più prominente altrove, soprattutto in Algeria, che, negli anni Sessanta, è stato un centro significativo per facilitare la circolazione delle idee marxiste in Paesi «non allineati». L’importanza di Le Capital si estendeva anche all’Asia, come dimostra il fatto che la prima traduzione vietnamita del volume I, pubblicata tra il 1959 e il 1960, era basata sull’edizione francese.

Così, oltre ad essere spesso consultata da traduttori di tutto il mondo e confrontata con l’edizione del 1890 pubblicata da Engels – che divenne la versione standard di Das Kapital – la traduzione francese è servita come base per traduzioni complete del Capitale in sette lingue. A 150 anni dalla sua prima pubblicazione, continua a essere fonte di stimolante dibattito tra studiosi e attivisti interessati alla critica di Marx al capitalismo.

In una lettera al suo compagno di lunga data Friedrich Adolph Sorge, Marx osservò che con Le Capital aveva «consumato così tanto del [suo] tempo che [non avrebbe] più collaborato in alcun modo a una traduzione». Questo è esattamente quello che è successo. La fatica e gli sforzi che ha impiegato per produrre la migliore versione francese possibile sono state davvero notevoli. Ma possiamo dire che sono stati ben ricompensati. Le Capital ha avuto una notevole diffusione, e le integrazioni e le modifiche apportate da Marx durante la revisione della sua traduzione hanno contribuito alla dimensione anticoloniale e universale del Capitale che oggi viene ampiamente riconosciuta, grazie ad alcuni dei contributi più recenti e profondi degli studi su Marx.

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Karl Marx, inseguendo i movimenti della Storia attraverso il pensiero

Nel 1867, dopo oltre due decenni di rigorosissimo lavoro, Marx fu finalmente in grado di pubblicare il manoscritto del Libro I del Capitale. Nel corso degli anni, egli decise di ampliare la struttura della sua opera e anche il Libro I continuò ad assorbire molte delle sue energie. Uno degli esempi più evidenti dell’impegno di Marx fu la traduzione francese del Libro I che venne presentata come una versione “completamente rivista dall’autore”.

Affidata a Joseph Roy, che aveva già tradotto alcuni testi del filosofo materialista Feuerbach, venne data alle stampe, dall’editore Lachâtre, tra il 1872 e il 1875, in 44 fascicoli. Il primo di essi vide la luce il 17 settembre, centocinquant’anni fa. Marx aveva convenuto circa l’opportunità di dare alle stampe una “edizione popolare economica” e scrisse: “plaudo all’idea di fare uscire la traduzione in fascicoli periodici. In questa forma, l’opera sarà più facilmente accessibile alla classe operaia e ciò è per me più importante di qualsiasi altra cosa”. Tuttavia, consapevole che tale scelta presentava anche “un rovescio della medaglia”, Marx anticipò che il suo metodo di analisi rendeva la comprensione della parte iniziale estremamente difficile. Per ovviare a questo “inconveniente”, nella prefazione all’edizione francese avvertì i lettori: “non esiste una strada maestra per la scienza e solo coloro che non rifuggono dallo sforzo di risalire i suoi scoscesi sentieri possono sperare di raggiungere le sue luminose vette”.
Marx dovette impiegare molto più tempo di quello preventivato per correggerne le bozze. Roy aveva “spesso tradotto troppo letteralmente” ed egli fu costretto a “riscrivere interi passaggi”. Engels affermò che “la traduzione francese procurava a Marx un lavoro colossale” e che spesso egli dovette “rifarla da capo”. Al termine delle sue fatiche, Marx commentò che l’impresa gli era “costata una tale perdita di tempo” che non avrebbe “più partecipato, in alcun modo, ad alcuna traduzione”.

Pur essendo così occupato nella traduzione del testo, nel corso della sua revisione Marx decise di apportarvi alcune rettifiche e nel poscritto non esitò ad attribuirle al libro “un valore scientifico indipendente dall’originale”, aggiungendo che doveva “essere consultato anche dai lettori che conoscono la lingua tedesca”. Il punto più interessante, soprattutto per il suo valore politico, riguarda la tendenza storica della produzione capitalistica. Se nel 1867 Marx aveva scritto che “il paese più sviluppato industrialmente mostra, a quelli meno sviluppati, l’immagine del proprio futuro”, nella versione francese del Capitale le parole in corsivo vennero sostituite con “a quelli che lo seguono nella scala industriale”. Questa precisazione limitava la tendenza dello sviluppo capitalistico solo ai paesi occidentali già industrializzati.
Marx era ormai pienamente consapevole che lo schema della progressione lineare dei “modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese”, che aveva esposto in Per la critica dell’economia politica (1859), era inadeguato per comprendere il movimento della storia. Non concepiva lo sviluppo storico in termini di progresso lineare verso un fine predefinito. La più evidente concezione multilineare, che Marx sviluppò negli ultimi anni di vita, lo portò a guardare con ancora maggiore attenzione alle specificità storiche e alle disomogeneità dello sviluppo politico ed economico di diversi paesi e contesti sociali. Questo approccio aumentò certamente le difficoltà che dovette affrontare nel già accidentato percorso di completamento del secondo e terzo libro del Capitale. Nell’ultimo decennio della sua vita, Marx intraprese approfondite indagini sulle società extraeuropee e si espresse senza ambiguità contro le devastazioni del colonialismo. È un errore madornale suggerire il contrario.

Riferendosi, nel 1878, agli aspetti positivi e negativi della versione francese, Marx scrisse che questa conteneva “molte varianti e aggiunte importanti”, ma ammise anche di essere “stato anche costretto ad appiattire l’esposizione”. Engels decise di non includere tutte le modifiche apportate da Marx nella quarta edizione tedesca (1890) del Capitale che divenne la sua edizione standard.
Ciò nonostante, l’importanza di Le Capital per la diffusione del pensiero di Marx nel mondo fu notevole. Esso rappresentò la porta di accesso al marxismo in numerose lingue e nazioni. Poiché il francese era più conosciuto del tedesco, grazie a questa versione la critica dell’economia politica di Marx poté giungere, più rapidamente, in Spagna e in numerosi paesi dell’America ispanoparlante. Ciò che accade con il portoghese fu molto simile. Militanti e studiosi, sia lusitani che brasiliani, ebbero maggiore semplicità ad avvicinarsi all’opera di Marx attraverso la traduzione francese. Il colonialismo fu determinante anche nei meccanismi di diffusione del marxismo nel mondo arabo e Le Capital venne tradotto sia in Siria (1956) che in Libano (1970). Ebbe un peso rilevante anche in Asia, come dimostra la traduzione vietnamita (1959-60).

Tradotto in sette lingue, senza contare le molte edizioni parziali, centocinquant’anni dopo la sua pubblicazione Le Capital continua ad essere una fonte di dibattito stimolante. Le modifiche apportate da Marx hanno contribuito a fare meglio comprendere la dimensione anticoloniale della sua opera, come dimostrano i contributi più perspicaci della recente letteratura marxiana. Le fatiche di Marx per realizzare la migliore traduzione francese possibile sono state ben compensate.

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La fine del governo spiegata da Marx

In pochi sanno che, tra i numerosi temi ai quali dedicò il suo interesse, Marx si occupò anche della critica dei cosiddetti «governi tecnici». In qualità di giornalista del New-York Tribune, uno dei quotidiani più diffusi del suo tempo, Marx osservò gli avvenimenti politico-istituzionali che portarono alla nascita di uno dei primi casi di «governo tecnico» della storia: il gabinetto di lord Aberdeen, il primo ministro che rimase alla guida dell’Inghilterra dal dicembre 1852 al gennaio 1855.

In un articolo del 1853, intitolato Un governo decrepito. Prospettive del ministero di coalizione, Marx irrise la pretesa del Times di rappresentare come «tecnici» gli esponenti del potere dominante che avevano un’agenda eminentemente politica. Ciò che il Times considerava un modello moderno e avvincente costituiva per lui una farsa. Quando il giornale di Londra annunciò un «ministero composto da uomini nuovi», Marx dichiarò che «il mondo sarà certamente non poco stupito quando avrà appreso che la nuova era nella storia sta per essere inaugurata nientemeno che da logori ottuagenari».

Accanto al giudizio sulle persone, c’era quello, ben più importante, sulle loro idee politiche. Marx si chiese: «Ci viene promessa la scomparsa totale delle lotte tra i partiti, anzi la scomparsa dei partiti stessi. Che cosa vuol dire il Times?». Negli ultimi anni, questa domanda è ritornata di attualità.

La separazione tra «economico» e «politico», che differenzia il capitalismo dai modi di produzione che lo hanno preceduto, pare avere raggiunto il culmine. L’economia non solo domina la politica, dettandole agenda e decisioni, ma è oramai posta al di fuori delle sue competenze e del controllo democratico, al punto che il cambio dei governi non modifica più gli indirizzi di politica economica e sociale. Essi devono essere immutabili.

Negli ultimi trent’anni si è proceduto a trasferire il potere decisionale dalla sfera politica a quella economica. Possibili decisioni politiche sono state trasformate in incontestabili imperativi economici, che sotto la maschera ideologica dell’apoliticità nascondevano, al contrario, un impianto eminentemente politico e dal contenuto reazionario. La ridislocazione di una parte della sfera politica nell’economia, come ambito separato e immodificabile, il passaggio di potere dai parlamenti (già svuotati del loro valore rappresentativo da sistemi elettorali maggioritari e da revisioni autoritarie del rapporto tra il potere governativo e quello legislativo) al mercato e alle sue oligarchie, costituiscono gravi impedimenti democratici del nostro tempo. I rating di Standard & Poor’s, gli indici di Wall Street – questi enormi feticci della società contemporanea – valgono più della volontà popolare. Nel migliore dei casi, il potere politico può intervenire nell’economia (talvolta le classi dominanti ne hanno bisogno per mitigare le distruzioni prodotte dall’anarchia del capitalismo e dalle sue violente crisi), ma senza mai poterne ridiscutere le regole e le scelte di fondo.

Eminente rappresentante di questa politica è stato l’ex presidente del consiglio italiano Mario Draghi, per 17 mesi alla guida di un’amplissima coalizione comprendente il Partito democratico, Forza italia, il Movimento 5 stelle e la Lega nord. Dietro l’impostura del termine «governo tecnico» – o, come si usa dire del «governo dei migliori» o «governo di tutti i talenti» – si cela la sospensione della politica. Nell’articolo del 1853 Operazioni del governo, Marx affermò che «il governo di coalizione (‘tecnico’) rappresenta l’impotenza del potere politico». I governi non discutono più quali indirizzi economici adottare, ma sono gli indirizzi economici a generare la nascita dei governi.

Negli ultimi anni, in Europa si è ripetuto il mantra neoliberista secondo cui, per «ristabilire la fiducia» dei mercati occorreva procedere spediti sulla strada delle «riforme strutturali» (espressione divenuta sinonimo di scempio sociale), ovvero: riduzione salariale, revisione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici circa le norme che regolano l’assunzione e il licenziamento, aumento dell’età pensionabile e privatizzazioni su larga scala. I nuovi «governi tecnici», con a capo gli uomini cresciuti nelle stanze di alcune delle istituzioni economiche maggiormente responsabili della crisi economica, hanno amministrato il potere compiendo queste scelte. Ovviamente, con la pretesa di farlo per il «bene del paese» e per il «futuro delle prossime generazioni». Al muro ogni voce fuori dal coro.

Oggi Draghi non è più il presidente del consiglio, la sua maggioranza è implosa e ci saranno elezioni anticipate il 25 di settembre. Se la sinistra non vuole scomparire deve avere il coraggio di proporre le necessarie risposte radicali per uscire dalla crisi. Gli ultimi che possono portare avanti un’agenda politica ecologica e di trasformazione sociale sono i «tecnici» – in realtà molto politici – come il banchiere Draghi. Goodbye Mario. Non sentiremo la tua mancanza.

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La via a sinistra per invocare la pace e poi non disprezzare la guerra

La sinistra è sempre stata contro la guerra. Fin dalla nascita della Prima Internazionale, il movimento socialista si batté per “l’abolizione definitiva di ogni guerra”. Nei documenti di questa organizzazione si leggeva che erano soprattutto i lavoratori a pagare, economicamente, quando non con il loro sangue – e senza alcuna distinzione tra vincitori e sconfitti –, le conseguenze più nefaste delle guerre. In L’Europa può disarmare? (1893), Engels segnalò che la produzione di armamenti senza precedenti avvenuta in Europa rendeva possibile l’approssimarsi di “una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto”. Aggiunse che, “il sistema degli eserciti permanenti era stato spinto a un punto talmente estremo da essere condannato a rovinare economicamente i popoli, per via delle spese belliche, o a degenerare in una guerra di annientamento generale”. Il proletariato doveva battersi per il disarmo, considerato l’unica effettiva “garanzia della pace”.

Ben presto, da argomento teorico analizzato in tempi di pace, la lotta contro il militarismo divenne un problema politico preminente, soprattutto in seguito all’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee. La presunta politica di pace della borghesia venne irrisa e definita con il termine di «pace armata». Jaurès, leader del Partito Socialista Francese, in un discorso del 1895, condensò in una frase i timori delle forze di sinistra: «sempre la vostra società, violenta e caotica, persino quando vuole la pace, persino quando è in stato di quiete apparente, reca in sé la guerra, come la nube reca in sé l’uragano». La mozione votata al Congresso di Stoccarda (1907) della Seconda Internazionale diede due indicazioni fondamentali: la scelta di voto contrario a leggi di bilancio che proponevano l’aumento delle spese militari e l’avversione agli eserciti permanenti.
Tuttavia, con il passare degli anni, socialdemocratici e socialisti si impegnarono sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace. L’opposizione al riarmo e ai preparativi bellici in atto fu molto blanda e la SPD, divenuta molto legalista e moderata, barattò il suo voto favorevole ai crediti militari in cambio della concessione di maggiori libertà politiche in patria. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Il movimento operaio giunse a condividere gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. La Seconda Internazionale si rivelò del tutto impotente di fronte allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, fallendo in uno dei suoi intenti principali: preservare la pace.

I due esponenti di punta del movimento operaio che si opposero con maggiore vigore alla guerra furono la Luxemburg e Lenin. La prima ammodernò il bagaglio teorico della sinistra sulla guerra e mostrò come il militarismo rappresentasse un nerbo vitale dello Stato. Sostenne che la parola d’ordine «guerra alla guerra!» doveva diventare «il punto cruciale della politica proletaria». Pertanto, da quel momento in avanti, la classe lavoratrice doveva avere come «scopo principale», anche in tempo di pace, quello di «lottare contro l’imperialismo e di impedire le guerre». In Il socialismo e la guerra (1915), Lenin ebbe il merito di mostrare la “falsificazione storica” operata dalla borghesia, ogni qual volta provava ad attribuire un significato “progressivo e di liberazione nazionale” a quelle che, in realtà, erano guerre “di rapina”, condotte con il solo obiettivo di decidere a quale delle parti belligeranti sarebbe toccato opprimere maggiormente popolazioni straniere. Per Lenin, i rivoluzionari dovevano “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, poiché quanti volevano una pace veramente “democratica e duratura” dovevano eliminare la borghesia e i governi colonialisti. Lenin era convinto di ciò che la storia ha mostrato essere inesatto, ovvero che ogni lotta di classe condotta conseguentemente in tempo di guerra crea «inevitabilmente» stati d’animo rivoluzionari nelle masse.
Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. La necessità di sostituire gli uomini inviati al fronte, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche nel movimento suffragista. Contrastare quanti agitavano lo spauracchio dell’aggressore, per derubricare fondamentali riforme sociali, fu una delle conquiste più significative delle femministe più radicali del tempo. Esse indicarono come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato.

La profonda frattura politica consumatasi tra rivoluzionari e riformisti dopo la nascita dell’URSS e il dogmatico clima ideologico degli anni Venti e Trenta inficiarono la possibilità di un’alleanza contro il militarismo tra l’Internazionale Comunista e i partiti socialisti europei. In molti ritenevano un “nuovo 1914” pressoché inevitabile. E così fu. Il crescendo di violenze perpetrate dal fronte nazi-fascista e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale generarono uno scenario ancora più nefasto di quello d’inizio secolo. L’URSS fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che fu decisiva al fine della sconfitta del nazismo e divenne un elemento così centrale dell’unità nazionale russa da perdurare fino ai nostri giorni.
A partire dal 1961, sotto la presidenza di Chruščëv, l’URSS inaugurò un nuovo ciclo politico che prese il nome di Coesistenza pacifica. Ciò nonostante, nel 1968, i sovietici invasero con mezzo milione di soldati la Cecoslovacchia che chiedeva maggiore democrazia. Brežnev chiamò questo principio: “sovranità limitata”. Di fronte alla “Primavera di Praga”, egli affermò che “quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare i paesi socialisti verso il capitalismo, questo diventa un problema comune”. Secondo questa logica antidemocratica, la scelta di stabilire cosa fosse o non fosse “socialismo” era puro arbitrio dei dirigenti sovietici. L’URSS continuò a destinare una parte significativa delle sue risorse economiche alle spese militari e ciò contribuì all’affermazione di una cultura di guerra e autoritaria nella società. Un ulteriore esempio evidente di questa politica fu l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979. Così facendo, Mosca si alienò, definitivamente, le simpatie del movimento per la pace. L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’URSS venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli USA.

Le guerre diffondono un’ideologia di violenza che si unisce spesso ai sentimenti nazionalistici che hanno più volte lacerato il movimento operaio. Di rado, esse rafforzano pratiche di democrazia diretta, mentre accrescono il potere di istituzioni autoritarie. È una lezione che la sinistra non dovrebbe mai dimenticare.

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Non c’è spazio per la guerra nella cultura della sinistra

Le cause economiche della guerra
Nei dibattiti della Prima Internazionale, César de Paepe formulò quella che sarebbe divenuta la posizione classica del movimento operaio su questo tema, ovvero l’inevitabilità delle guerre nel regime di produzione capitalistico. Nella società contemporanea, esse non sono provocate dalle ambizioni dei monarchi o di singoli individui, bensì sono determinate dal modello economico-sociale dominante. Il movimento socialista mostrò anche quale era la parte di popolazione sulla quale si abbattevano, ineluttabilmente, le conseguenze più nefaste delle guerre. Nel congresso del 1868, i delegati della Prima Internazionale votarono una mozione che impegnava i lavoratori a perseguire “l’abolizione definitiva di ogni guerra”, dal momento che sarebbero stati soprattutto loro a pagare economicamente, quando non con il loro sangue – e senza alcuna distinzione tra vincitori e sconfitti –, le decisioni delle classi dominanti e dei governi che li rappresentavano.

Karl Marx non riassunse in alcuno scritto le sue concezioni – frammentarie e talvolta contraddittorie – sulla guerra, né formulò linee guida per indicare l’atteggiamento più corretto da adottare in proposito. Non concepì la guerra come una necessaria scorciatoia per la trasformazione rivoluzionaria e impiegò una parte consistente della sua militanza politica per vincolare la classe operaia al principio della solidarietà internazionale. In L’Europa può disarmare?, Friedrich Engels segnalò che la produzione di armamenti senza precedenti avvenuta in Europa rendeva possibile l’approssimarsi di “una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto”. Aggiunse che, “il sistema degli eserciti permanenti era stato spinto a un punto talmente estremo da essere condannato a rovinare economicamente i popoli, per via delle spese belliche, o a degenerare in una guerra di annientamento generale”.

Il fallimento alla prova dei fatti
Ben presto, da argomento teorico analizzato in tempi di pace, la lotta contro il militarismo divenne un problema politico preminente. Con l’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee, la controversia sulla guerra assunse un peso sempre più rilevante nel dibattito della Seconda Internazionale. Nel congresso della sua fondazione, venne approvata una mozione che sanciva la pace quale “condizione prima indispensabile di ogni emancipazione operaia”. La mozione votata al Congresso di Stoccarda, del 1907, riassunse tutti i punti divenuti, fino ad allora, patrimonio comune del movimento operaio. Tra essi figuravano: la scelta di voto contrario a leggi di bilancio che proponevano l’aumento delle spese militari e l’avversione agli eserciti permanenti.

Con il passare degli anni, la Seconda Internazionale si impegnò sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace. L’opposizione al riarmo e ai preparativi bellici in atto fu molto blanda e un’ala del Partito Socialdemocratico Tedesco, divenuto sempre più legalista e moderato, barattò il suo voto favorevole ai crediti militari – e poi finanche l’appoggio all’espansione coloniale –, in cambio della concessione di maggiori libertà politiche in patria. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Il movimento operaio giunse a condividere gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. La Seconda Internazionale si rivelò del tutto impotente di fronte alla guerra, fallendo in uno dei suoi intenti principali: preservare la pace.

I due esponenti di punta del movimento operaio che si opposero con maggiore vigore alla guerra furono la Luxemburg e Lenin. La prima ammodernò il bagaglio teorico della sinistra sulla guerra e mostrò come il militarismo rappresentasse un nerbo vitale dello Stato. Per Lenin, invece, in Il socialismo e la guerra, Lenin ebbe il merito di mostrare la “falsificazione storica” operata dalla borghesia, ogni qual volta provava ad attribuire un significato “progressivo e di liberazione nazionale” a quelle che, in realtà, erano guerre “di rapina”, condotte con il solo obiettivo di decidere a quale delle parti belligeranti sarebbe toccato opprimere maggiormente popolazioni straniere. Per Lenin, i rivoluzionari dovevano “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, poiché quanti volevano una pace veramente “democratica e duratura” dovevano eliminare la borghesia e i governi colonialisti.

Il discrimine nell’opposizione alla guerra
La Prima Guerra Mondiale procurò divisioni non solo in seno alla Seconda Internazionale, ma anche nel movimento anarchico. Nel Manifesto dei Sedici, Kropotkin postulò la necessità di “resistere a un aggressore che rappresenta l’annientamento di tutte le nostre speranze di emancipazione”. La vittoria della Triplice Intesa contro la Germania costituiva il male minore per non compromettere il livello di libertà esistente. Al contrario, coloro che firmarono con Errico Malatesta il Manifesto internazionale anarchico sulla guerra espressero la convinzione che la responsabilità del conflitto non poteva ricadere su un singolo governo e che non andava “fatta nessuna distinzione tra guerra offensiva e difensiva”. Aggiunsero, inoltre, che “nessuno dei belligeranti aveva il diritto di parlare a nome della civilizzazione o di considerarsi in uno stato di legittima difesa”.

Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. A partire dal primo conflitto mondiale, la necessità di sostituire gli uomini inviati al fronte, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche in una fetta consistente del neonato movimento suffragista. Smascherare l’inganno dei governi del tempo – che, agitando lo spauracchio dell’aggressore alle porte, si servirono della guerra per derubricare fondamentali riforme di carattere sociale – rappresentò una delle conquiste più significative delle dirigenti comuniste del tempo. Clara Zetkin e la Luxemburg, furono tra le prime ad avviare, con lucidità e coraggio, il cammino che indicò, a molte generazioni successive, come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato. Dopo di loro, l’ostracismo alla guerra divenne un elemento distintivo della Giornata internazionale delle donne e, all’insorgere di ogni nuovo conflitto bellico, l’opposizione all’aumento delle spese di guerra figurò tra i punti salienti di numerose piattaforme del movimento femminista mondiale.

Il fine non giustifica i mezzi e i mezzi sbagliati danneggiano il fine
Il crescendo di violenze perpetrate dal fronte nazi-fascista – nei confini nazionali così come in politica estera – e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale generarono uno scenario ancora più nefasto di quello della guerra del 1914-1918. L’Unione Sovietica venne attaccata dalle truppe di Hitler nel 1941 e fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che fu decisiva al fine della sconfitta del nazismo e divenne, poi, un elemento così centrale dell’unità nazionale russa da essere sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino e da perdurare fino ai nostri giorni.

A partire dal 1961, sotto la presidenza di Nikita Chruščëv, l’Unione Sovietica inaugurò un nuovo ciclo politico che prese il nome di Coesistenza pacifica. Questa svolta fu intrapresa esclusivamente nei rapporti con gli Stati Uniti d’America e non con i paesi del “socialismo reale”. Dopo la repressione della rivolta ungherese, nel 1956, i sovietici invasero con mezzo milione di soldati e migliaia di carri armati la Cecoslovacchia che chiedeva democratizzazione e di decentramento economico, attraverso la “Primavera di Praga”. L’Unione Sovietica continuò a destinare una parte significativa delle sue risorse economiche alle spese militari e ciò contribuì all’affermazione di una cultura di guerra e autoritaria nella società. Così facendo, si alienò, definitivamente, le simpatie del movimento per la pace, divenuto ancora più vasto in occasione delle straordinarie mobilitazioni contro la guerra in Vietnam.

Nel 1979, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, l’Armata Rossa tornò a essere lo strumento principale della politica estera di Mosca, che continuava ad arrogarsi il diritto di intervenire in quella che riteneva essere la propria “zona di sicurezza”. L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’Unione Sovietica venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli Stati Uniti d’America.

Se è sinistra, è contro la guerra
La Guerra Russo-Ucraina ha posto la sinistra nuovamente di fronte al dilemma del come comportarsi quando un paese vede minacciata la propria legittima sovranità. La mancata condanna dell’attacco della Russia all’Ucraina da parte del governo del Venezuela è un errore politico. In Risultati della discussione sull’autodecisione Lenin scrisse: “se vincesse la rivoluzione socialista a San Pietroburgo, a Berlino e a Varsavia, il governo socialista polacco, come quello russo e tedesco, rinuncerebbe a mantenere con la violenza gli ucraini entro le frontiere dello Stato polacco”. Perché, dunque, ipotizzare che qualcosa di diverso debba essere concesso al governo nazionalista guidato da Putin?

D’altra parte, quanti a sinistra hanno ceduto alla tentazione di diventare – direttamente o indirettamente – co-belligeranti, dando vita a una nuova union sacrée, contribuiscono a rendere sempre meno riconoscibile la distinzione tra atlantismo e pacifismo. La storia dimostra che, quando non si oppongono alla guerra, le forze progressiste smarriscono una parte essenziale della loro ragion d’essere e finiscono con l’essere inghiottite dall’ideologia del campo a loro avverso.

La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Al di là delle spiegazioni – fornite, in queste settimane, da numerosi esperti – sulle radici del conflitto, la posizione di quanti suggeriscono una politica di “non allineamento” è la più efficace per far cessare la guerra al più presto e assicurare che in questo conflitto vi sia il minor numero possibile di vittime. Significa dare forza all’unico vero antidoto all’espansione della guerra su scala generale. A differenza delle tante voci che invocano un nuovo arruolamento, va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica, basata su due punti fermi: la de-escalation e la neutralità dell’Ucraina indipendente.

Diversamente dal celebre detto di Carl von Clausewitz, per la sinistra, la guerra non può essere “la continuazione della politica con altri mezzi”. In realtà, essa non fa che certificare il suo fallimento. Se la sinistra vuole tornare a essere egemone e dimostrarsi capace di declinare la sua storia per i compiti dell’oggi, deve scrivere sulle proprie bandiere, in maniera indelebile, le parole “antimilitarismo” e “no alla guerra”.

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La sinistra di fronte alla guerra

Le cause economiche della guerra
Se la scienza della politica ha fornito motivazioni ideologiche, politiche, economiche e persino psicologiche per spiegare le cause dei conflitti bellici, il pensiero socialista ha offerto il suo apporto più interessante alla comprensione di questo fenomeno evidenziando il forte nesso esistente tra lo sviluppo del capitalismo e la propagazione della guerra.

Nei dibattiti della Prima Internazionale (1864-1872), César de Paepe, uno dei suoi principali dirigenti, formulò quella che sarebbe divenuta la posizione classica del movimento operaio su questo tema, ovvero l’inevitabilità delle guerre nel regime di produzione capitalistico. Nella società moderna, esse non sono provocate dalle ambizioni dei monarchi o di singoli individui, bensì sono determinate dal modello economico-sociale dominante . Il movimento socialista indicò anche quale era la parte di popolazione sulla quale si abbattevano, ineluttabilmente, le conseguenze più nefaste delle guerre. Nel congresso del 1868, i delegati della Prima Internazionale votarono una mozione che impegnava i lavoratori a perseguire «l’abolizione definitiva di ogni guerra» , dal momento che sarebbero stati soprattutto loro a pagare economicamente, quando non con il loro sangue – e senza alcuna distinzione tra vincitori e sconfitti –, le decisioni delle classi dominanti e dei governi che li rappresentavano. La lezione di civiltà del movimento operaio nacque dal convincimento che ogni guerra andava considerata «come una guerra civile» , quale scontro feroce tra lavoratori che, al fine, non faceva altro che privarli dei mezzi necessari alla sopravvivenza. Contro la guerra occorreva agire alacremente, con la renitenza alla leva e attraverso lo sciopero. L’internazionalismo divenne, così, uno dei cardini ai quali ancorare la società dell’avvenire che, una volta superato il capitalismo e rimossa la concorrenza degli stati borghesi sul mercato mondiale, avrebbe eliminato anche le ragioni primarie alla base di ogni guerra.

Tra i precursori del socialismo, Claude Henri de Saint Simon si era decisamente schierato non solo in opposizione alla guerra, ma anche al conflitto sociale, ritenuti entrambi colpevoli di ostacolare il fondamentale progresso della produzione industriale. Karl Marx non riassunse in alcuno scritto le sue concezioni – frammentarie e talvolta contraddittorie – sulla guerra, né formulò linee guida per indicare l’atteggiamento più corretto da adottare in proposito. Quando dovette scegliere tra campi opposti, la sua unica costante fu l’opposizione alla Russia zarista, ritenuta l’avamposto della controrivoluzione e uno dei principali ostacoli all’emancipazione della classe lavoratrice . Nel Capitale (1867) affermò che la violenza era una potenza economica, «la levatrice di ogni vecchia società che è gravida di una nuova» .

Tuttavia, non concepì la guerra come una necessaria scorciatoia per la trasformazione rivoluzionaria e impiegò una parte consistente della sua militanza politica per vincolare la classe operaia al principio della solidarietà internazionale. Come sostenne anche Friedrich Engels, questa agiva in modo determinante, nelle singole nazioni, contro il rischio di pacificazione del conflitto di classe che l’invenzione del nemico esterno, prodotto dalla propaganda bellica, generava ogni volta che scoppiava una guerra. In diverse lettere scambiate con dirigenti del movimento operaio, Engels pose l’accento sulla forza ideologica esercitata dall’inganno del patriottismo e sul ritardo che un’ondata sciovinistica avrebbe causato sull’inizio della rivoluzione proletaria. Inoltre, nell’Anti-Dühring (1878), dopo aver analizzato gli effetti della diffusione di armi sempre più letali, affermò che il socialismo aveva il compito di «fare saltare in aria il militarismo e, con esso, tutti gli eserciti permanenti» .

Il tema della guerra fu così importante per Engels che egli decise di dedicarvi uno dei suoi ultimi scritti. In L’Europa può disarmare? (1893), segnalò che, nel vecchio continente, durante i precedenti venticinque anni, ogni Stato aveva cercato di superare l’altro in potenza militare e in preparazione bellica. Ciò aveva generato una produzione di armamenti senza precedenti che rendeva possibile l’approssimarsi di «una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto» . Secondo il co-autore del Manifesto del partito comunista (1848), «in tutta Europa, il sistema degli eserciti permanenti era stato spinto a un punto talmente estremo da essere condannato a rovinare economicamente i popoli, per via delle spese belliche, o a degenerare in una guerra di annientamento generale». Nella sua analisi, Engels non trascurò di sottolineare che gli eserciti venivano mantenuti non solo per motivi militari, ma anche per fini politici. Essi dovevano «proteggere non tanto dal nemico esterno, quanto da quello interno». Si trattava di accrescere le forze che dovevano reprimere il proletariato e le lotte operaie. Poiché erano i ceti popolari a pagare più di tutti i costi della guerra, attraverso la massa di soldati che fornivano allo Stato e le imposte, il movimento operaio doveva battersi per una «riduzione omogenea e progressiva del servizio militare» e per il disarmo, considerato l’unica, effettiva, «garanzia della pace» .

Il fallimento alla prova dei fatti
Ben presto, da argomento teorico analizzato in tempi di pace, la lotta contro il militarismo divenne un problema politico preminente. Il movimento operaio dovette confrontarsi con alcune questioni concrete di fronte alle quali l’iniziale posizione assunta dai suoi rappresentanti fu la netta contrarietà a qualsiasi modalità di sostegno alla guerra. Nel conflitto franco-prussiano del 1870 (quello che precedette la nascita della Comune di Parigi), i deputati socialdemocratici Wilhelm Liebknecht e August Bebel condannarono i fini annessionistici perseguiti dalla Germania di Bismark e votarono contro i crediti di guerra. La loro decisione di «respingere la proposta di legge per il finanziamento di fondi aggiuntivi per continuare la guerra» costò la loro condanna a due anni di prigione per alto tradimento, ma contribuì a mostrare alla classe lavoratrice una strada alternativa a quella di concorrere, comunque, a incrementare la spirale del conflitto.

Con l’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee, la controversia sulla guerra assunse un peso sempre più rilevante nel dibattito della Seconda Internazionale (1889-1916). Nel congresso della sua fondazione, venne approvata una mozione che sanciva la pace quale «prima condizione indispensabile di ogni emancipazione operaia» . La presunta politica di pace della borghesia venne irrisa e definita con il termine di «pace armata». Jean Jaurès, leader del Partito Socialista Francese (SFIO), in un discorso al parlamento del 1895, condensò in una frase, divenuta poi celebre, i timori delle forze di sinistra di fronte alla situazione del tempo: «sempre la vostra società, violenta e caotica, persino quando vuole la pace, persino quando è in stato di quiete apparente, reca in sé la guerra, come la nube reca in sé l’uragano» .

La Weltpolitik – la strategia aggressiva adottata dall’Impero tedesco per estendere il potere della Germania sul piano internazionale – modificò lo scenario geopolitico e il rafforzamento dei principi antimilitaristi nel movimento operaio influenzò, sempre più, le discussioni sulla guerra. Da questo momento in poi, quest’ultima non venne considerata soltanto come un’occasione propizia per lo sviluppo di scenari rivoluzionari che avrebbero accelerato il crollo del sistema (una tesi presente a sinistra sin dai tempi della Guerra Rivoluzionaria del 1792 ). La guerra, invece, venne concepita dal movimento operaio come pericolo per le sciagurate conseguenze – quali carestia, miseria e disoccupazione – che arrecava al proletariato. Essa costituiva, dunque, una grave minaccia per le forze progressiste e, come scrisse Karl Kautsky in La rivoluzione sociale (1902), in caso di guerra, queste ultime sarebbero state «pesantemente gravate di ulteriori compiti» che avrebbero allontanato, non avvicinato, il traguardo della vittoria finale.

La mozione «Sul militarismo e sui conflitti internazionali», votata al congresso della Seconda Internazionale di Stoccarda, nel 1907, riassunse tutti i punti divenuti, fino ad allora, patrimonio comune del movimento operaio. Tra essi figuravano: la scelta di voto contrario a leggi di bilancio che proponevano l’aumento delle spese militari, l’avversione agli eserciti permanenti e la volontà di sostituirli con un sistema di milizie popolari e, infine, l’adesione al progetto di istituire organismi internazionali di arbitrato per la ricomposizione pacifica dei conflitti tra le nazioni. Venne escluso, invece, il ricorso allo sciopero generale da proclamarsi contro ogni sorta di guerra, sostenuto da Gustave Hervé, poiché ritenuto, dalla maggioranza dei presenti, una posizione troppo radicale e troppo manichea. La mozione terminava con un emendamento redatto da Rosa Luxemburg, Vladimir Lenin e Julij Martov, nel quale si affermava che «nel caso in cui la guerra scoppiasse, i socialisti (avevano) il dovere d’intervenire per farla cessare prontamente e di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e accelerare la caduta della dominazione capitalista» . Tale emendamento non obbligava il Partito Socialdemocratico Tedesco ad alcun mutamento della sua linea politica e, pertanto, anche i suoi rappresentanti lo approvarono. Questo testo fu l’ultimo documento inerente la guerra della Seconda Internazionale a riscuotere l’unanimità dei consensi.

L’intensificarsi della concorrenza tra gli Stati capitalisti sul mercato mondiale e lo scoppio di diversi conflitti locali resero lo scenario generale ancora più allarmante. La pubblicazione del libro di Jaurès La nuova armata (1911) favorì la discussione di un altro tema al centro del dibattito di quel periodo: la distinzione tra guerra offensiva e guerra difensiva, nonché sulla condotta da assumere rispetto a quest’ultima, anche nel caso in cui un paese vedesse minacciata la propria indipendenza. Per Jaurès il compito esclusivo dell’esercito era quello di difendere l’autonomia di una nazione da ogni aggressione offensiva – ovvero tutte quelle che non accettavano la risoluzione di un conflitto mediante arbitrato. Tutte le azioni militari che ricadevano in questo ambito erano da considerarsi legittime. La perspicace critica della Luxemburg verso questa posizione evidenziò come i «fenomeni storici quali le guerre moderne non (potevano) essere misurati con il metro della ‘giustizia’, o mediante uno schema cartaceo di difesa e aggressione» . Occorreva considerare, inoltre, la difficoltà di poter stabilire se una guerra fosse davvero offensiva o difensiva, ovvero se lo Stato che l’aveva iniziata avesse deliberatamente deciso di attaccare o era stato costretto a farlo a seguito degli stratagemmi adottati dalla nazione che gli si opponeva. Dunque, per la Luxemburg, tale distinzione andava scartata, così come andava criticata l’idea di «nazione armata» di Jaures, poiché tendeva, infine, ad accrescere la militarizzazione già esistente nella società.

Con il passare degli anni, la Seconda Internazionale si impegnò sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace. L’opposizione al riarmo e ai preparativi bellici allora in atto fu molto blanda e un’ala del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD), divenuto sempre più legalista e moderato, barattò il suo voto favorevole ai crediti militari – e poi finanche l’appoggio all’espansione coloniale –, in cambio della concessione di maggiori libertà politiche in patria. Dirigenti di rilievo e riconosciuti teorici, quali Gustav Noske, Henry Hyndman e Arturo Labriola, furono tra i primi ad approdare a queste posizioni. Successivamente, la maggior parte dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, dei laburisti inglesi e delle altre forze riformiste europee finì con l’appoggiare la Prima Guerra Mondiale (1914-1918). Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Sostenendo la tesi che i «vantaggi del progresso» non dovessero essere monopolizzati dai capitalisti, il movimento operaio giunse a condividere gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. La Seconda Internazionale si rivelò del tutto impotente di fronte alla guerra, fallendo uno dei suoi intenti principali: preservare la pace.

Lenin e gli altri delegati al Congresso di Zimmerwald (1915), tra i quali Lev Trotsky che ne redasse il manifesto finale, prefigurarono che «per decine d’anni le spese della guerra avrebbero assorbito le migliori energie dei popoli, compromettendo la conquista di miglioramenti sociali e impedendo qualsiasi progresso». La guerra rivelava il «vero carattere del capitalismo moderno, che è incompatibile non solo con gli interessi delle classi operaie, ma anche con le condizioni elementari di esistenza della comunità umana» . Fu un monito che venne accolto solo da una minoranza del movimento operaio, al pari di quello indirizzato a tutti i lavoratori europei dal Congresso di Kienthal (1916): «i vostri governi e i loro giornali vi dicono che bisogna continuare la guerra per uccidere il militarismo. Essi vi ingannano! Mai la guerra ha ucciso la guerra. Anzi, essa suscita sentimenti e velleità di rivincita. In questo modo, i vostri padroni, votandovi al sacrificio, vi chiudono in un cerchio infernale» . Rompendo, infine, con l’approccio adottato al Congresso di Stoccarda, in favore degli organismi internazionali di arbitrato, nel documento finale di Kienthal si affermava che «le illusioni del pacifismo borghese» non sarebbero state in grado di interrompere la spirale della guerra e che, anzi, avrebbero concorso a preservare il sistema socioeconomico vigente. L’unico antidoto per impedire che insorgessero futuri conflitti bellici venne ravvisato nella conquista del potere politico e della proprietà capitalistica da parte delle masse popolari.

I due esponenti di punta del movimento operaio che si opposero con maggiore vigore alla guerra furono la Luxemburg e Lenin. La prima ammodernò il bagaglio teorico della sinistra sulla guerra e mostrò come il militarismo rappresentasse un nerbo vitale dello Stato . Sostenne, con convinzione ed efficacia paragonabile a quella di pochi altri dirigenti comunisti, che la parola d’ordine «guerra alla guerra!» doveva diventare «il punto cruciale della politica proletaria». Come scrisse nelle Tesi sui compiti della socialdemocrazia internazionale (1915), la Seconda Internazionale era implosa per non essere riuscita a «realizzare una tattica e un’azione comune del proletariato in tutti i paesi» . Pertanto, da quel momento in avanti, la classe lavoratrice doveva avere come «scopo principale», anche in tempo di pace, quello di «lottare contro l’imperialismo e di impedire le guerre» .

In Il socialismo e la guerra (1915) e in numerosi altri scritti composti durante la Prima Guerra Mondiale, Lenin ebbe il merito di enucleare due questioni fondamentali. La prima ineriva la «falsificazione storica» operata dalla borghesia, ogni qual volta aveva provato ad attribuire un significato «progressivo e di liberazione nazionale» a quelle che, in realtà, erano guerre «di rapina» , condotte con il solo obiettivo di decidere a quale delle parti belligeranti sarebbe toccato opprimere maggiormente popolazioni straniere e, al fine, accrescere le sperequazioni prodotte dal capitalismo. La seconda riguardò lo smascheramento delle contraddizioni dei socialisti riformisti – da Lenin definiti «socialsciovinisti» –, i quali finirono con il sostenere le ragioni della guerra, dopo averla descritta, nelle mozioni approvate dalla Seconda Internazionale, un’azione «delittuosa». Dietro la loro pretesa di «difendere la patria», si nascondeva il «diritto» che si arrogavano determinate grandi potenze di «depredare le colonie e di opprimere i popoli stranieri». Le guerre non venivano combattute per tutelare «l’esistenza delle nazioni», ma per la «difesa dei privilegi, del predominio, dei saccheggi, delle violenze» delle varie «borghesie imperialiste» . I socialisti che capitolarono davanti al patriottismo avevano barattato la lotta di classe con il «diritto alle briciole dei profitti ottenuti dalla loro borghesia nazionale, mediante il depredamento di altre nazioni» . Conseguentemente, Lenin si disse favorevole alle «guerre difensive», includendo in questa categoria non la difesa nazionale dei paesi europei indicata da Jaurès, ma le «guerre giuste» degli «Stati oppressi, assoggettati e privi di diritti» dalle «grandi potenze schiaviste che li opprimono e li depredano» . La tesi più celebre di questo scritto, ovvero la necessità per i rivoluzionari di «trasformare la guerra imperialista in guerra civile» indicò a quanti volevano una pace veramente «democratica e duratura» la necessità di condurre «la guerra civile contro i governi e la borghesia» . Lenin era convinto di ciò che la storia ha mostrato essere inesatto, ovvero che ogni lotta di classe condotta conseguentemente in tempo di guerra crea «inevitabilmente» stati d’animo rivoluzionari nelle masse.

Il discrimine nell’opposizione alla guerra
La Prima Guerra Mondiale procurò divisioni non solo in seno alla Seconda Internazionale, ma anche nel movimento anarchico. Poco dopo lo scoppio del conflitto, Kropotkin dichiarò, in un articolo che suscitò scalpore, «che il compito di ogni persona avente a cuore l’idea di progresso umano era quello di stroncare l’invasione dei tedeschi nell’Europa occidentale» . Questa affermazione, giudicata da molti come l’abbandono dei principi per i quali egli si era battuto per una vita intera, esprimeva il tentativo di andare oltre lo slogan dello «sciopero generale contro la guerra» – rimasto inascoltato dalle masse lavoratrici – e di evitare, nel caso di una vittoria tedesca del conflitto, l’arretramento generale dello scenario politico continentale. A suo giudizio, se gli antimilitaristi fossero rimasti inerti avrebbero indirettamente aiutato gli invasori nei loro piani di conquista e ciò, nel lungo termine, avrebbe rappresentato un ostacolo ancora più arduo da superare per quanti lottavano per la rivoluzione sociale.

Nella sua replica a Kropotkin, Errico Malatesta asserì che, pur non essendo un pacifista e nonostante ritenesse legittimo utilizzare le armi nell’evenienza di guerre di liberazione, il conflitto mondiale in corso non era – così come raccontava la propaganda borghese – una lotta della democrazia «per il benessere generale contro il nemico comune», ma un ennesimo esempio di sopraffazione della classe lavoratrice da parte dei poteri dominanti. Egli era consapevole che «la vittoria della Germania avrebbe certamente determinato il trionfo del militarismo, ma anche che il trionfo degli alleati avrebbe significato il dominio russo britannico in Europa e in Asia» .

Nel Manifesto dei Sedici (1916), Kropotkin postulò la necessità di «resistere a un aggressore che rappresenta l’annientamento di tutte le nostre speranze di emancipazione» . La vittoria della Triplice Intesa contro la Germania costituiva il male minore per non compromettere il livello di libertà esistente. Al contrario, coloro che firmarono con Malatesta il Manifesto internazionale anarchico sulla guerra (1915) espressero la convinzione che la responsabilità del conflitto non poteva ricadere su un singolo governo e che non andava «fatta nessuna distinzione tra guerra offensiva e difensiva». Aggiunsero, inoltre, che «nessuno dei belligeranti aveva il diritto di parlare a nome della civilizzazione o di considerarsi in uno stato di legittima difesa» . La Prima Guerra Mondiale era un ulteriore episodio del conflitto tra capitalisti di diversi stati imperialisti compiuta a spese della classe operaia. Malatesta, Emma Goldman, Ferdinand Nieuwenhuis e la stragrande maggioranza del movimento anarchico erano tutti convinti che sarebbe stato un errore imperdonabile appoggiare i governi borghesi e optarono, senza se e senza ma, in continuità con lo slogan «nessun uomo e neanche un centesimo per l’esercito», per un deciso rifiuto di partecipare – anche indirettamente – a qualsiasi ipotesi bellica.

Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. A partire dal primo conflitto mondiale, la sostituzione degli uomini inviati al fronte – con un salario di gran lunga inferiore e, pertanto, in condizioni di sovrasfruttamento –, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche in una fetta consistente del neonato movimento suffragista. Alcune sue dirigenti giunsero a promuovere petizioni per permettere alle donne di arruolarsi nell’esercito. Smascherare l’inganno dei governi del tempo – che, agitando lo spauracchio dell’aggressore alle porte, si servirono della guerra per derubricare fondamentali riforme di carattere sociale – rappresentò una delle conquiste più significative delle femministe comuniste del tempo. Clara Zetkin, Aleksandra Kollontaj, Silvia Pankhurst e, naturalmente, la Luxemburg, furono tra le prime ad avviare, con lucidità e coraggio, il cammino che indicò, a molte generazioni successive, come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato. Dopo di loro, l’ostracismo alla guerra divenne un elemento distintivo della Giornata internazionale delle donne e, all’insorgere di ogni nuovo conflitto bellico, l’opposizione all’aumento delle spese di guerra figurò tra i punti salienti di numerose piattaforme del movimento femminista globale mondiale.

Il fine non giustifica i mezzi e i mezzi sbagliati danneggiano il fine
La profonda frattura politica consumatasi tra rivoluzionari e riformisti, le grandi distanze strategiche che separarono questi due campi dopo la nascita dell’Unione Sovietica e il dogmatico clima ideologico degli anni Venti e Trenta inficiarono la possibilità di un’alleanza contro il militarismo tra l’Internazionale Comunista (1919-1943) e i partiti socialisti e socialdemocratici europei . Dopo aver sostenuto la guerra, questi ultimi, riunitisi nell’Internazionale Operaia Socialista (1923-1940), si erano definitivamente screditati agli occhi dei primi. A Mosca, invece, resisteva la tesi leninista della “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile», per suscitare una nuova fase rivoluzionaria. Dirigenti politici e teorici di primo piano ritenevano pressoché inevitabile un «nuovo 1914». Così, da entrambi i versanti, più che agire per impedire lo scoppio di una nuova guerra, si discuteva sul cosa fare quando essa sarebbe iniziata. Gli slogan e le dichiarazioni di principio divergevano sostanzialmente da quanto ci si attendeva potesse accadere e da quanto si trasformava in azione politica. Tra le voci critiche nel campo comunista vi furono quelle di Nikolaj Bucharin, assertore della parola d’ordine «lotta per la pace» e uno dei dirigenti russi più convinti che quest’ultima fosse «una delle più importanti questioni del mondo contemporaneo», e di Georgi Dimitrov, sostenitore della tesi che non tutte le grandi potenze fossero egualmente corresponsabili del possibile insorgere di un conflitto e favorevole al riavvicinamento con i partiti riformisti per costruire un amplio fronte popolare contro la guerra. Entrambe queste interpretazioni contrastarono la litania dell’ortodossia sovietica che, lungi dall’aggiornare l’analisi teorica, ripeteva che il pericolo della guerra si annidava, senza alcuna distinzione e con uguale corresponsabilità, in tutte le potenze imperialistiche.

Di tutt’altro avviso fu Mao Zedong. Alla testa del movimento di liberazione contro l’invasione giapponese, sostenne in Sulla guerra di lunga durata (1938) che le «guerre giuste» , quelle alle quali i comunisti dovevano prendere parte attivamente, sprigionavano una «grandissima forza, potevano trasformare moltissime cose o aprire la strada alla loro trasformazione» . La strategia indicata da Mao fu, dunque, quella di «lottare contro la guerra mediante la guerra, contrapporre una guerra giusta a una guerra ingiusta» e, inoltre, «prolungare la guerra fino a quando essa non avesse conseguito il suo scopo politico». Tesi che richiamano alla «onnipotenza della guerra rivoluzionaria» si trovano anche in La guerra e i problemi della strategia (1938), testo nel quale Mao sostenne che «non è possibile trasformare il mondo se non con un fucile» e che «il compito centrale e la forma suprema della rivoluzione stanno nella conquista del potere mediante la lotta armata, nella soluzione del problema mediante la guerra» .

In Europa, il crescendo di violenze perpetrate dal fronte nazi-fascista – nei confini nazionali così come in politica estera – e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) generarono uno scenario ancora più nefasto di quello della guerra del 1914-1918. L’Unione Sovietica venne attaccata dalle truppe di Hitler nel 1941 e fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che risultò decisiva al fine della sconfitta del nazismo e divenne, poi, un elemento così centrale dell’unità nazionale russa da essere sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino e da perdurare fino ai nostri giorni.

Con la successiva suddivisione del mondo in due blocchi, Iosif Stalin ritenne che il compito principale del movimento comunista internazionale continuasse a essere la salvaguardia dell’Unione Sovietica. La costituzione di una zona cuscinetto di otto paesi (sette dopo la fuoriuscita della Jugoslavia dalla sua orbita), in Europa dell’Est, rappresentò un elemento centrale di questa politica. Nel medesimo periodo, la Dottrina Truman segnò l’avvento di un nuovo tipo di guerra: la Guerra Fredda. Con il supporto alle forze anticomuniste in Grecia, attraverso il Piano Marshall (1948) e mediante la creazione della NATO (1949), gli Stati Uniti d’America scongiurarono la possibile avanzata delle forze progressiste nell’Europa occidentale. L’Unione Sovietica rispose con il Patto di Varsavia (1955). Questo scenario generò una spropositata corsa agli armamenti che riguardò, nonostante il ricordo, ancora vivissimo nell’opinione pubblica, dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, anche il proliferare delle testate nucleari.

A partire dal 1961, sotto la presidenza di Nikita Chruščëv, l’Unione Sovietica inaugurò un nuovo ciclo politico che prese il nome di Coesistenza pacifica. Questa svolta, contraddistinta dall’impegno di non ingerenza e di rispetto della sovranità dei singoli stati, nonché di cooperazione economica con alcuni paesi capitalisti, sarebbe dovuta servire a scongiurare il pericolo di un terzo conflitto mondiale (che anche la Crisi dei missili di Cuba, del 1962, aveva dimostrato possibile) e avrebbe dovuto suffragare la tesi della non inevitabilità della guerra. Tuttavia, questo tentativo di collaborazione costruttiva fu intrapreso esclusivamente nei rapporti con gli Stati Uniti d’America e non con i paesi del «socialismo reale». Nel 1956, infatti, l’Unione Sovietica aveva già represso nel sangue la rivolta ungherese. I partiti comunisti dell’Europa occidentale non condannarono, anzi giustificarono, l’intervento delle truppe sovietiche in nome della protezione del blocco socialista e Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, dichiarò: «si sta con la propria parte anche quando sbaglia» . La maggioranza di quanti condivisero questa posizione se ne pentì amaramente quando, anni dopo, compresero gli effetti devastanti prodotti dall’intervento sovietico.

Eventi analoghi accaddero in piena epoca di Coesistenza Pacifica, in Cecoslovacchia, nel 1968. Alle richieste di democratizzazione e di decentramento economico, fiorite con la «Primavera di Praga», il politburo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica rispose, con deliberazione unanime, inviando mezzo milione di soldati e migliaia di carri armati. Al congresso del Partito Operaio Unificato Polacco, del 1968, Leonid Brežnev spiegò di voler dare concreta attuazione a un principio che definì di «sovranità limitata». Egli affermò che «quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti». Secondo questa logica antidemocratica, la scelta di stabilire cosa fosse o non fosse «socialismo» era, naturalmente, puro arbitrio dei dirigenti sovietici. Questa volta, le critiche a sinistra non mancarono e furono, anzi, prevalenti. La riprovazione nei confronti dell’Unione Sovietica non fu espressa soltanto dai neonati movimenti della nuova sinistra, ma dalla maggioranza dei partiti comunisti e anche dalla Cina. Ciò nonostante, i russi non fecero marcia indietro e portarono a compimento quello che definirono essere un processo di «normalizzazione». L’Unione Sovietica continuò a destinare una parte significativa delle sue risorse economiche alle spese militari e ciò contribuì all’affermazione di una cultura autoritaria e di guerra nella società. Così facendo, si alienò, definitivamente, le simpatie del movimento per la pace, divenuto ancora più vasto in occasione delle straordinarie mobilitazioni contro la guerra in Vietnam.

Uno dei principali avvenimenti bellici verificatisi nel decennio successivo fu l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nel 1979, l’Armata Rossa tornò ad essere lo strumento principale della politica estera di Mosca, che continuava ad arrogarsi il diritto di intervenire in quella che riteneva essere la propria «zona di sicurezza». L’infausta decisione di occupare l’Afghanistan si trasformò in un estenuante stillicidio che si protrasse per oltre dieci anni, causando un numero ingente di morti e profughi. In questa occasione, le reticenze del movimento comunista internazionale furono molto minori rispetto a quelle palesatesi dinanzi agli attacchi sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia. Tuttavia, questa nuova guerra rese ancora più evidente, all’opinione pubblica mondiale, la frattura esistente tra il «socialismo reale» e una politica alternativa, fondata sull’opposizione al militarismo e sulla pace.
L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’Unione Sovietica venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli Stati Uniti d’America che, parallelamente, dall’inizio della guerra fredda, si erano distinti per aver promosso, più o meno segretamente, colpi di stato e la sostituzione di governi democraticamente eletti in oltre 20 paesi del mondo. Infine, le «guerre socialiste» tra Cambogia e Vietnam e tra Cina e Vietnam, scoppiate nel biennio 1977-1979 e aventi come sfondo la crisi sino-sovietica, contribuirono a fare cadere l’ultima arma ancora nelle mani dell’ideologia «marxista-leninista» (che, in realtà, dell’impianto iniziale di Marx ed Engels aveva conservato ben poco), secondo la quale la guerra era determinata esclusivamente dagli squilibri economici generati dal capitalismo.

Se è sinistra, è contro la guerra
La fine della Guerra Fredda non ha diminuito le ingerenze nella sovranità territoriale dei singoli paesi, né ha accresciuto il livello di libertà, di ogni popolo, quanto a poter scegliere il regime politico dal quale intende essere governato. Le tante guerre intraprese – anche senza il mandato dell’ONU e definite, per assurdo, «umanitarie» – dagli Stati Uniti d’America negli ultimi venticinque anni, alle quali si sono aggiunte nuove forme di conflitti, di sanzioni illegali, e di condizionamenti politici, economici e mediatici, testimoniano che al bipolarismo tra le due superpotenze mondiali, caratteristico del «secolo breve», non è seguita l’era di libertà e progresso tanto propagandata dal mantra neoliberale del «Nuovo Ordine Mondiale» post-1991. In questo contesto, numerose forze politiche che un tempo si richiamavano ai valori della sinistra sono state compartecipi di diversi conflitti bellici e, dal Kosovo, all’Afghanistan, all’Iraq – per citare soltanto le principali guerre dichiarate dalla NATO, dopo la caduta del Muro di Berlino –, hanno, di volta in volta, dato il loro sostegno all’intervento armato, rendendosi sempre meno distinguibili dalla destra.

La Guerra Russo-Ucraina ha posto la sinistra nuovamente di fronte al dilemma del come comportarsi quando un paese vede minacciata la propria legittima sovranità. La mancata condanna dell’attacco della Russia all’Ucraina da parte del governo del Venezuela è un errore politico. Non disapprovare oggi l’invasione russa compromette la credibilità di denuncia verso altre aggressioni che potrebbero essere condotte, in futuro, dagli Stati Uniti d’America. È vero, come scrisse Marx a Ferdinand Lassalle, in una lettera del 1860, che «in politica estera parole come ‘reazionario’ e ‘rivoluzionario’ non servono a nulla» e che quanto «è reazionario dal punto di vista soggettivo» può rivelarsi «oggettivamente rivoluzionario in politica estera» . Tuttavia, le forze di sinistra avrebbero dovuto apprendere dal Novecento che le alleanze con il «nemico del mio nemico» conducono, spesso, ad accordi controproducenti. Ciò è ancor più vero quando, come nel nostro tempo storico, il fronte progressista è politicamente debole, teoricamente confuso e, inoltre, non è incalzato dalla forza delle mobilitazioni di massa.

Rammentando il Lenin di La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione (1916), «il fatto che la lotta per la libertà nazionale contro una potenza imperialista può essere utilizzata, in certe condizioni, da un’altra grande potenza per i suoi scopi egualmente imperialisti, non può costringere la socialdemocrazia a rinunciare al riconoscimento del diritto di autodecisione delle nazioni» . Al di là degli interessi geopolitici e delle trame che, solitamente, a essi si accompagnano, le forze di sinistra hanno storicamente sostenuto il principio dell’autodeterminazione dei popoli e hanno ugualmente difeso il diritto di ogni singolo Stato a stabilire le proprie frontiere sulla base della volontà espressa dalla sua popolazione. La sinistra si è battuta contro guerre e «annessioni», perché consapevole che queste generano drammatici conflitti tra il proletariato della nazione dominante e quello della nazione oppressa e creano le condizioni affinché quest’ultimo si unisca alla propria borghesia nel considerare nemico il proletariato della nazione dominante. In Risultati della discussione sull’autodecisione (1916) Lenin scrisse: «se vincesse la rivoluzione socialista a San Pietroburgo, a Berlino e a Varsavia, il governo socialista polacco, come quello russo e tedesco, rinuncerebbe a mantenere con la violenza gli ucraini entro le frontiere dello Stato polacco» . Perché, dunque, ipotizzare che qualcosa di diverso debba essere concesso al governo nazionalista guidato da Putin?

D’altra parte, quanti a sinistra hanno ceduto alla tentazione di diventare – direttamente o indirettamente – co-belligeranti, dando vita a una nuova union sacrée (espressione coniata nel 1914, proprio per salutare l’abiura delle forze della sinistra francese che, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, decisero di avallare le scelte belliche del governo), contribuiscono a rendere sempre meno riconoscibile la distinzione tra atlantismo e pacifismo. La storia dimostra che, quando non si oppongono alla guerra, le forze progressiste smarriscono una parte essenziale della loro ragion d’essere e finiscono con l’essere inghiottite dall’ideologia del campo a loro avverso. Ciò succede ogni qual volta i partiti di sinistra fanno della loro presenza al governo la cifra fondamentale della loro azione politica – come nel caso dei comunisti italiani che appoggiarono gli interventi NATO in Kosovo e Afghanistan o, di quello odierno, della maggioranza di Unidas Podemos, che unisce la sua voce al coro unanime di tutto l’arco parlamentare spagnolo, in favore dell’invio di armi all’esercito ucraino. Già per il passato, in molti casi, questa subalternità è stata punita, anche elettoralmente, alla prima occasione possibile.

Bonaparte non è la democrazia
Quando Marx scrisse sulla Guerra di Crimea (1853-1856) per il New-York Daily Tribune compose una serie di brillanti articoli che contengono spunti di grande interesse utili per sviluppare parallelismi storici con l’oggi. Nel 1853, parlando del maggiore monarca moscovita del XV secolo – considerato colui che unificò la Russia e gettò le basi dell’autocrazia in quel paese – affermò: «basta sostituire una serie di date e nomi con degli altri e diventa chiaro che le politiche di Ivan III, e quelle della Russia di oggi, non sono semplicemente simili, ma identiche» . Purtroppo, questo esempio risuona ancora come attuale. L’anno seguente, invece, in opposizione ai democratici liberali che esaltavano la coalizione antirussa, Marx dichiarò: «è un errore definire la guerra contro la Russia come un conflitto tra libertà e dispotismo. A parte il fatto che, se ciò fosse vero, la libertà sarebbe attualmente rappresentata da un Bonaparte, l’obiettivo manifesto della guerra è il mantenimento dei trattati di Vienna, ossia di quegli stessi trattati che cancellano la libertà e l’indipendenza delle nazioni» . Se sostituissimo Bonaparte con gli Stati Uniti d’America e i trattati di Vienna con la NATO, queste osservazioni sembrano scritte per l’oggi.

La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Al di là delle spiegazioni – fornite, in queste settimane, da numerosi esperti – sulle radici del conflitto (che non ridimensionano, in alcun modo, la barbarie dell’invasione russa), la posizione di quanti suggeriscono una politica di «non allineamento» è la più efficace per far cessare la guerra al più presto e assicurare che in questo conflitto vi sia il minor numero possibile di vittime. Non si tratta affatto di comportarsi come le «anime belle» imbevute di astratto idealismo che Georg Hegel riteneva incapaci di misurarsi con la realtà concreta delle contraddizioni terrene. Al contrario, significa dare forza all’unico vero antidoto all’espansione della guerra su scala generale. A differenza delle tante voci che invocano l’aumento delle spese militari e un nuovo arruolamento, o di chi, come il Commissario Europeo per le Relazioni Esterne, afferma che è compito dell’Europa fornire al governo ucraino «gli armamenti necessari per una guerra» , va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica, basata su due punti fermi: la de-escalation e la neutralità dell’Ucraina indipendente.

Inoltre, nonostante essa appaia rafforzata a seguito delle mosse compiute dalla Russia, bisogna lavorare affinché l’opinione pubblica smetta di considerare la più grande e aggressiva macchina bellica del mondo – la NATO – come la soluzione ai problemi della sicurezza globale. Al contrario, va mostrato come questa sia un’organizzazione pericolosa e inefficace che, con la sua volontà di espansione e di dominio unipolare, contribuisce ad aumentare le tensioni belliche nel mondo.

In Il socialismo e la guerra, Lenin sostenne che i marxisti si distinguono dai pacifisti e dagli anarchici poiché riconoscono «la necessità dell’esame storico (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx sic!) di ogni singola guerra» . Continuando, affermò che «nella storia sono più volte avvenute guerre che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi con ogni guerra, sono state progressive e utili all’evoluzione dell’umanità». Se ciò è stato vero per il passato, sarebbe miope ipotizzare che possa ripetersi nel contesto di diffusione delle armi di distruzione di massa della nostra società contemporanea. Raramente le guerre – da non confondere con le rivoluzioni – hanno avuto l’effetto democratizzante auspicato dai teorici del socialismo. Al contrario, esse si sono spesso rivelate come il modo peggiore per realizzare la rivoluzione, sia per il costo di vite umane che per la distruzione delle forze produttive che esse comportano. Le guerre diffondono, infatti, un’ideologia di violenza che si unisce, spesso, a quei sentimenti nazionalistici che hanno più volte lacerato il movimento operaio. Di rado, esse rafforzano pratiche di autogestione e democrazia diretta, mentre accrescono il potere di istituzioni autoritarie. È una lezione che non andrebbe mai dimenticata anche dalle sinistre moderate.

Il monito più fecondo delle Riflessioni sulla guerra (1933) di Simone Weil discende dalla capacità di saper comprendere «come può una rivoluzione evitare la guerra». Secondo l’autrice francese, «è su questa labile possibilità che occorre puntare, o abbandonare ogni speranza». La guerra rivoluzionaria si trasforma spesso nella «tomba della rivoluzione», poiché essa non permette ai «cittadini armati, di fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza giurisdizione speciale, senza pene per i disertori». La guerra incrementa, come nessun altro fenomeno sociale, l’apparato militare, poliziesco e burocratico. Cancella «l’individuo di fronte alla burocrazia statale con il sostegno di un fanatismo esasperato», avvantaggiando la macchina statale e non i lavoratori. Pertanto, la Weil ne desunse che «se la guerra non termina al più presto e per sempre (…) si avranno solo quelle rivoluzioni che, anziché distruggere l’apparato statale lo perfezionano» o, detto ancor più chiaramente, «si finirebbe per estendere sotto altra forma il regime che ci vuole sopprimere». E per questo che, in caso di guerra, «bisogna scegliere tra l’intralciare il funzionamento della macchina bellica, della quale siamo un ingranaggio, e l’aiutare quella macchina a stritolare alla cieca le vite umane» .

Per la sinistra, diversamente dal celebre detto di Carl von Clausewitz, la guerra non può essere «la continuazione della politica con altri mezzi». In realtà, essa altro non è se non la certificazione del suo fallimento. Se la sinistra vuole tornare a essere egemone e dimostrare di essere capace di declinare la sua storia per i compiti dell’oggi, deve scrivere sulle proprie bandiere, in maniera indelebile, le parole «antimilitarismo» e «no alla guerra!»