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Le Capital compie 150 anni

Nel settembre del 1872 usciva l’edizione francese del magnum opus di Karl Marx. Fu molto più di una traduzione, rinnovando continuamente la sua prospettiva critica aprì infatti la sua analisi al capitalismo globale.
Nel febbraio 1867, dopo più di due decenni di faticoso lavoro, Karl Marx disse al suo amico Friedrich Engels che la prima parte della sua tanto attesa critica dell’economia politica era finalmente completata. Marx viaggiò da Londra ad Amburgo per consegnare il manoscritto del volume I (Il processo di produzione del capitale) del suo magnum opus e, in accordo con il suo editore, Otto Meissner, fu deciso che Il Capitale sarebbe uscito in tre parti. Al culmine della soddisfazione, Marx scrisse che la pubblicazione del suo libro era, «senza dubbio, il colpo più terribile che sia mai stato scagliato contro la testa della borghesia».

Nonostante il lungo lavoro di composizione prima del 1867, la struttura del Capitale si sarebbe notevolmente ampliata negli anni a venire e lo stesso volume I continuò ad assorbire energie significative da parte di Marx, anche dopo la sua pubblicazione. Uno degli esempi più evidenti di questo impegno fu la traduzione francese del Capitale, pubblicata in quarantaquattro puntate tra il 1872 e il 1875. Questa edizione non era una semplice traduzione ma una versione «completamente rivista dall’autore» in cui Marx approfondiva la sezione sul processo di accumulazione del capitale e sviluppava meglio le sue idee sulla differenza tra la «concentrazione» e la «centralizzazione» del capitale.

Alla ricerca della versione definitiva
Dopo le interruzioni dovute alle cattive condizioni di salute – e dopo un periodo di intensa attività politica per l’Associazione internazionale dei lavoratori – Marx si dedicò a lavorare a una nuova edizione del volume I del Capitale all’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento. Insoddisfatto del modo in cui aveva esposto la teoria del valore, trascorse il dicembre 1871 e il gennaio 1872 riscrivendo ciò che aveva pubblicato nel 1867. Una ristampa di Das Kapital in tedesco, che includeva le modifiche apportate da Marx, uscì nel 1872. Fu un anno chiave per la diffusione del Capitale, visto che vide anche la comparsa delle traduzioni in russo e in francese. Quest’ultima fu affidata, dall’editore Maurice Lachâtre, a Joseph Roy, che aveva precedentemente tradotto alcuni testi del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. La prima parte fu pubblicata 150 anni fa, il 17 settembre 1872.

Marx era d’accordo che sarebbe stato positivo pubblicare un’«edizione popolare a buon mercato». «Plaudo alla tua idea di pubblicare la traduzione… a rate periodiche – scrisse al suo editore – In questa forma, il libro sarà più accessibile alla classe operaia e per me questa considerazione prevale su qualsiasi altra». Consapevole, tuttavia, che esisteva un «rovescio della medaglia», anticipò che il «metodo di analisi» da lui utilizzato sarebbe stato «ridotto per una lettura alquanto ardua nei primi capitoli» e che i lettori avrebbero potuto «essere scoraggiati» quando non fossero stati «in grado di proseguire». Non sentiva di poter fare nulla per questo «svantaggio», a parte che per i «lettori attenti e preavvertiti che si preoccupano della verità». Come scrisse Marx in una nota frase della prefazione all’edizione francese del Capitale, «Non esiste una via maestra per l’apprendimento e gli unici che hanno qualche possibilità di raggiungere le sue vette illuminate dal sole sono quelli che non temono la stanchezza mentre scalano ripidi sentieri in salita».

Alla fine, Marx dovette dedicare molto più tempo alla traduzione di quanto avesse inizialmente previsto per la correzione delle bozze. Come scrisse all’economista russo Nikolai Danielson, Roy aveva «spesso tradotto in modo troppo letterale», costringendo lo stesso Marx a «riscrivere interi passaggi in francese, per renderli più appetibili al pubblico francese». All’inizio di quel mese, sua figlia Jenny aveva detto all’amico di famiglia Ludwig Kugelmann che suo padre era «obbligato a fare innumerevoli correzioni», riscrivendo «non solo intere frasi ma intere pagine». Successivamente, Engels scrisse ancora a Kugelmann che la traduzione francese si era rivelata una «vera faticaccia» per Marx e che «doveva più o meno riscrivere tutto dall’inizio».

Nel rivedere la traduzione, inoltre, Marx decise di introdurre alcune aggiunte e modifiche. Nel poscritto a Le Capital non esitò ad attribuirvi «un valore scientifico indipendente dall’originale» e affermava che la nuova versione «dovrebbe essere consultata anche da lettori che hanno familiarità con il tedesco». Il punto più interessante, soprattutto per il suo valore politico, riguarda la tendenza storica della produzione capitalistica. Se nella precedente edizione del volume I del Capitale Marx aveva scritto che «il paese industrialmente più sviluppato mostra a quelli meno sviluppati l’immagine del proprio futuro», nella versione francese le parole in corsivo sono state sostituite con «a coloro che lo seguono sulla scala industriale». Questo chiarimento limitava la tendenza allo sviluppo capitalistico solo ai paesi occidentali già industrializzati.

Dopo uno studio più approfondito della storia, Marx era ora pienamente consapevole che lo schema di progressione lineare attraverso i «modi di produzione borghesi asiatici, antichi, feudali e moderni», che aveva disegnato nella prefazione a Per la critica dell’economia politica, nel 1859, era inadeguato alla comprensione del movimento della storia, e che era anzi opportuno tenersi alla larga da ogni filosofia della storia. Non vedeva lo sviluppo storico in termini di incrollabile progresso lineare verso una fine predefinita. La concezione multilineare più netta che Marx sviluppò nei suoi ultimi anni lo portò a guardare ancora più attentamente alle specificità storiche e alle diseguaglianze dello sviluppo politico ed economico nei diversi paesi e contesti sociali. Questo approccio ha sicuramente accresciuto le difficoltà che aveva dovuto affrontare nel già accidentato percorso di completamento del secondo e terzo volume del Capitale.

Nell’ultimo decennio della sua vita, Marx intraprese indagini approfondite sulle società al di fuori dell’Europa e si espresse inequivocabilmente contro le devastazioni del colonialismo. Sarebbe sbagliato suggerire il contrario e attribuirgli una visione eurocentrica dello sviluppo sociale. Marx criticava i pensatori che, pur evidenziando le conseguenze distruttive del colonialismo, avevano utilizzato categorie specifiche del contesto europeo nelle loro analisi delle aree periferiche del globo. Aveva ripetutamente messo in guardia contro coloro che non osservavano le necessarie distinzioni tra i fenomeni e, soprattutto dopo i suoi progressi teorici negli anni Settanta dell’Ottocento, era molto diffidente nel trasferire categorie interpretative in campi storici o geografici completamente diversi. Tutto questo è più chiaro grazie a Le Capital.

Nel 1878, in una lettera in cui soppesava i lati positivi e negativi dell’edizione francese, Marx scriveva a Danielson che questa conteneva «molte modifiche e integrazioni importanti», ma che era stato anche «a volte obbligato, principalmente nel primo capitolo – a semplificare la faccenda». In seguito, Engels pensò che queste aggiunte fossero semplificazioni non degne di essere riprodotte, e non incluse tutte le modifiche apportate da Marx a Le Capital nella quarta edizione tedesca del Capitale, pubblicata nel 1890, sette anni dopo la morte di Marx. Marx non fu in grado di completare una revisione finale del volume I del Capitale. In effetti, né l’edizione francese del 1872-75 né la terza edizione tedesca pubblicata nel 1881 possono essere considerate la versione definitiva per come Marx avrebbe voluto che fosse.

Marx attraverso Le Capital
Le Capital ebbe una notevole importanza per la diffusione dell’opera di Marx nel mondo. È stato utilizzato per la traduzione di molti estratti in varie lingue, la prima in lingua inglese, pubblicata nel 1883, per esempio. Più in generale, Le Capital ha rappresentato la prima porta d’accesso all’opera di Marx per i lettori di vari paesi. La prima traduzione italiana – pubblicata tra il 1882 e il 1884 – è stata realizzata direttamente dall’edizione francese. Nel caso dello spagnolo, Le Capital ha permesso di tirar fuori alcune edizioni parziali e due traduzioni complete: una a Madrid nel 1967, e una a Buenos Aires nel 1973. Poiché il francese era più conosciuto del tedesco, fu grazie a questa versione che la critica di Marx all’economia politica potè raggiungere più rapidamente molti paesi dell’America ispanica. Più o meno lo stesso valeva per i paesi di lingua portoghese. Nello stesso Portogallo, Le Capital è circolato solo attraverso le poche copie disponibili in francese, fino a quando non è apparsa una versione ridotta in portoghese, poco prima della caduta della dittatura salazarista nel 1974. In generale, attivisti politici e ricercatori sia in Portogallo che in Brasile hanno trovato più facile avvicinarsi all’opera di Marx attraverso la traduzione francese rispetto all’originale. Anche le poche copie che hanno avuto diffusione nei paesi africani di lingua portoghese erano in quella lingua.

Il colonialismo ha anche modellato in parte i meccanismi con cui il Capitale è diventato disponibile nel mondo arabo. Mentre in Egitto e in Iraq è stato l’inglese a caratterizzare maggiormente la diffusione della cultura europea, l’edizione francese ha svolto un ruolo più prominente altrove, soprattutto in Algeria, che, negli anni Sessanta, è stato un centro significativo per facilitare la circolazione delle idee marxiste in Paesi «non allineati». L’importanza di Le Capital si estendeva anche all’Asia, come dimostra il fatto che la prima traduzione vietnamita del volume I, pubblicata tra il 1959 e il 1960, era basata sull’edizione francese.

Così, oltre ad essere spesso consultata da traduttori di tutto il mondo e confrontata con l’edizione del 1890 pubblicata da Engels – che divenne la versione standard di Das Kapital – la traduzione francese è servita come base per traduzioni complete del Capitale in sette lingue. A 150 anni dalla sua prima pubblicazione, continua a essere fonte di stimolante dibattito tra studiosi e attivisti interessati alla critica di Marx al capitalismo.

In una lettera al suo compagno di lunga data Friedrich Adolph Sorge, Marx osservò che con Le Capital aveva «consumato così tanto del [suo] tempo che [non avrebbe] più collaborato in alcun modo a una traduzione». Questo è esattamente quello che è successo. La fatica e gli sforzi che ha impiegato per produrre la migliore versione francese possibile sono state davvero notevoli. Ma possiamo dire che sono stati ben ricompensati. Le Capital ha avuto una notevole diffusione, e le integrazioni e le modifiche apportate da Marx durante la revisione della sua traduzione hanno contribuito alla dimensione anticoloniale e universale del Capitale che oggi viene ampiamente riconosciuta, grazie ad alcuni dei contributi più recenti e profondi degli studi su Marx.

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Karl Marx, inseguendo i movimenti della Storia attraverso il pensiero

Nel 1867, dopo oltre due decenni di rigorosissimo lavoro, Marx fu finalmente in grado di pubblicare il manoscritto del Libro I del Capitale. Nel corso degli anni, egli decise di ampliare la struttura della sua opera e anche il Libro I continuò ad assorbire molte delle sue energie. Uno degli esempi più evidenti dell’impegno di Marx fu la traduzione francese del Libro I che venne presentata come una versione “completamente rivista dall’autore”.

Affidata a Joseph Roy, che aveva già tradotto alcuni testi del filosofo materialista Feuerbach, venne data alle stampe, dall’editore Lachâtre, tra il 1872 e il 1875, in 44 fascicoli. Il primo di essi vide la luce il 17 settembre, centocinquant’anni fa. Marx aveva convenuto circa l’opportunità di dare alle stampe una “edizione popolare economica” e scrisse: “plaudo all’idea di fare uscire la traduzione in fascicoli periodici. In questa forma, l’opera sarà più facilmente accessibile alla classe operaia e ciò è per me più importante di qualsiasi altra cosa”. Tuttavia, consapevole che tale scelta presentava anche “un rovescio della medaglia”, Marx anticipò che il suo metodo di analisi rendeva la comprensione della parte iniziale estremamente difficile. Per ovviare a questo “inconveniente”, nella prefazione all’edizione francese avvertì i lettori: “non esiste una strada maestra per la scienza e solo coloro che non rifuggono dallo sforzo di risalire i suoi scoscesi sentieri possono sperare di raggiungere le sue luminose vette”.
Marx dovette impiegare molto più tempo di quello preventivato per correggerne le bozze. Roy aveva “spesso tradotto troppo letteralmente” ed egli fu costretto a “riscrivere interi passaggi”. Engels affermò che “la traduzione francese procurava a Marx un lavoro colossale” e che spesso egli dovette “rifarla da capo”. Al termine delle sue fatiche, Marx commentò che l’impresa gli era “costata una tale perdita di tempo” che non avrebbe “più partecipato, in alcun modo, ad alcuna traduzione”.

Pur essendo così occupato nella traduzione del testo, nel corso della sua revisione Marx decise di apportarvi alcune rettifiche e nel poscritto non esitò ad attribuirle al libro “un valore scientifico indipendente dall’originale”, aggiungendo che doveva “essere consultato anche dai lettori che conoscono la lingua tedesca”. Il punto più interessante, soprattutto per il suo valore politico, riguarda la tendenza storica della produzione capitalistica. Se nel 1867 Marx aveva scritto che “il paese più sviluppato industrialmente mostra, a quelli meno sviluppati, l’immagine del proprio futuro”, nella versione francese del Capitale le parole in corsivo vennero sostituite con “a quelli che lo seguono nella scala industriale”. Questa precisazione limitava la tendenza dello sviluppo capitalistico solo ai paesi occidentali già industrializzati.
Marx era ormai pienamente consapevole che lo schema della progressione lineare dei “modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese”, che aveva esposto in Per la critica dell’economia politica (1859), era inadeguato per comprendere il movimento della storia. Non concepiva lo sviluppo storico in termini di progresso lineare verso un fine predefinito. La più evidente concezione multilineare, che Marx sviluppò negli ultimi anni di vita, lo portò a guardare con ancora maggiore attenzione alle specificità storiche e alle disomogeneità dello sviluppo politico ed economico di diversi paesi e contesti sociali. Questo approccio aumentò certamente le difficoltà che dovette affrontare nel già accidentato percorso di completamento del secondo e terzo libro del Capitale. Nell’ultimo decennio della sua vita, Marx intraprese approfondite indagini sulle società extraeuropee e si espresse senza ambiguità contro le devastazioni del colonialismo. È un errore madornale suggerire il contrario.

Riferendosi, nel 1878, agli aspetti positivi e negativi della versione francese, Marx scrisse che questa conteneva “molte varianti e aggiunte importanti”, ma ammise anche di essere “stato anche costretto ad appiattire l’esposizione”. Engels decise di non includere tutte le modifiche apportate da Marx nella quarta edizione tedesca (1890) del Capitale che divenne la sua edizione standard.
Ciò nonostante, l’importanza di Le Capital per la diffusione del pensiero di Marx nel mondo fu notevole. Esso rappresentò la porta di accesso al marxismo in numerose lingue e nazioni. Poiché il francese era più conosciuto del tedesco, grazie a questa versione la critica dell’economia politica di Marx poté giungere, più rapidamente, in Spagna e in numerosi paesi dell’America ispanoparlante. Ciò che accade con il portoghese fu molto simile. Militanti e studiosi, sia lusitani che brasiliani, ebbero maggiore semplicità ad avvicinarsi all’opera di Marx attraverso la traduzione francese. Il colonialismo fu determinante anche nei meccanismi di diffusione del marxismo nel mondo arabo e Le Capital venne tradotto sia in Siria (1956) che in Libano (1970). Ebbe un peso rilevante anche in Asia, come dimostra la traduzione vietnamita (1959-60).

Tradotto in sette lingue, senza contare le molte edizioni parziali, centocinquant’anni dopo la sua pubblicazione Le Capital continua ad essere una fonte di dibattito stimolante. Le modifiche apportate da Marx hanno contribuito a fare meglio comprendere la dimensione anticoloniale della sua opera, come dimostrano i contributi più perspicaci della recente letteratura marxiana. Le fatiche di Marx per realizzare la migliore traduzione francese possibile sono state ben compensate.

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La fine del governo spiegata da Marx

In pochi sanno che, tra i numerosi temi ai quali dedicò il suo interesse, Marx si occupò anche della critica dei cosiddetti «governi tecnici». In qualità di giornalista del New-York Tribune, uno dei quotidiani più diffusi del suo tempo, Marx osservò gli avvenimenti politico-istituzionali che portarono alla nascita di uno dei primi casi di «governo tecnico» della storia: il gabinetto di lord Aberdeen, il primo ministro che rimase alla guida dell’Inghilterra dal dicembre 1852 al gennaio 1855.

In un articolo del 1853, intitolato Un governo decrepito. Prospettive del ministero di coalizione, Marx irrise la pretesa del Times di rappresentare come «tecnici» gli esponenti del potere dominante che avevano un’agenda eminentemente politica. Ciò che il Times considerava un modello moderno e avvincente costituiva per lui una farsa. Quando il giornale di Londra annunciò un «ministero composto da uomini nuovi», Marx dichiarò che «il mondo sarà certamente non poco stupito quando avrà appreso che la nuova era nella storia sta per essere inaugurata nientemeno che da logori ottuagenari».

Accanto al giudizio sulle persone, c’era quello, ben più importante, sulle loro idee politiche. Marx si chiese: «Ci viene promessa la scomparsa totale delle lotte tra i partiti, anzi la scomparsa dei partiti stessi. Che cosa vuol dire il Times?». Negli ultimi anni, questa domanda è ritornata di attualità.

La separazione tra «economico» e «politico», che differenzia il capitalismo dai modi di produzione che lo hanno preceduto, pare avere raggiunto il culmine. L’economia non solo domina la politica, dettandole agenda e decisioni, ma è oramai posta al di fuori delle sue competenze e del controllo democratico, al punto che il cambio dei governi non modifica più gli indirizzi di politica economica e sociale. Essi devono essere immutabili.

Negli ultimi trent’anni si è proceduto a trasferire il potere decisionale dalla sfera politica a quella economica. Possibili decisioni politiche sono state trasformate in incontestabili imperativi economici, che sotto la maschera ideologica dell’apoliticità nascondevano, al contrario, un impianto eminentemente politico e dal contenuto reazionario. La ridislocazione di una parte della sfera politica nell’economia, come ambito separato e immodificabile, il passaggio di potere dai parlamenti (già svuotati del loro valore rappresentativo da sistemi elettorali maggioritari e da revisioni autoritarie del rapporto tra il potere governativo e quello legislativo) al mercato e alle sue oligarchie, costituiscono gravi impedimenti democratici del nostro tempo. I rating di Standard & Poor’s, gli indici di Wall Street – questi enormi feticci della società contemporanea – valgono più della volontà popolare. Nel migliore dei casi, il potere politico può intervenire nell’economia (talvolta le classi dominanti ne hanno bisogno per mitigare le distruzioni prodotte dall’anarchia del capitalismo e dalle sue violente crisi), ma senza mai poterne ridiscutere le regole e le scelte di fondo.

Eminente rappresentante di questa politica è stato l’ex presidente del consiglio italiano Mario Draghi, per 17 mesi alla guida di un’amplissima coalizione comprendente il Partito democratico, Forza italia, il Movimento 5 stelle e la Lega nord. Dietro l’impostura del termine «governo tecnico» – o, come si usa dire del «governo dei migliori» o «governo di tutti i talenti» – si cela la sospensione della politica. Nell’articolo del 1853 Operazioni del governo, Marx affermò che «il governo di coalizione (‘tecnico’) rappresenta l’impotenza del potere politico». I governi non discutono più quali indirizzi economici adottare, ma sono gli indirizzi economici a generare la nascita dei governi.

Negli ultimi anni, in Europa si è ripetuto il mantra neoliberista secondo cui, per «ristabilire la fiducia» dei mercati occorreva procedere spediti sulla strada delle «riforme strutturali» (espressione divenuta sinonimo di scempio sociale), ovvero: riduzione salariale, revisione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici circa le norme che regolano l’assunzione e il licenziamento, aumento dell’età pensionabile e privatizzazioni su larga scala. I nuovi «governi tecnici», con a capo gli uomini cresciuti nelle stanze di alcune delle istituzioni economiche maggiormente responsabili della crisi economica, hanno amministrato il potere compiendo queste scelte. Ovviamente, con la pretesa di farlo per il «bene del paese» e per il «futuro delle prossime generazioni». Al muro ogni voce fuori dal coro.

Oggi Draghi non è più il presidente del consiglio, la sua maggioranza è implosa e ci saranno elezioni anticipate il 25 di settembre. Se la sinistra non vuole scomparire deve avere il coraggio di proporre le necessarie risposte radicali per uscire dalla crisi. Gli ultimi che possono portare avanti un’agenda politica ecologica e di trasformazione sociale sono i «tecnici» – in realtà molto politici – come il banchiere Draghi. Goodbye Mario. Non sentiremo la tua mancanza.

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La via a sinistra per invocare la pace e poi non disprezzare la guerra

La sinistra è sempre stata contro la guerra. Fin dalla nascita della Prima Internazionale, il movimento socialista si batté per “l’abolizione definitiva di ogni guerra”. Nei documenti di questa organizzazione si leggeva che erano soprattutto i lavoratori a pagare, economicamente, quando non con il loro sangue – e senza alcuna distinzione tra vincitori e sconfitti –, le conseguenze più nefaste delle guerre. In L’Europa può disarmare? (1893), Engels segnalò che la produzione di armamenti senza precedenti avvenuta in Europa rendeva possibile l’approssimarsi di “una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto”. Aggiunse che, “il sistema degli eserciti permanenti era stato spinto a un punto talmente estremo da essere condannato a rovinare economicamente i popoli, per via delle spese belliche, o a degenerare in una guerra di annientamento generale”. Il proletariato doveva battersi per il disarmo, considerato l’unica effettiva “garanzia della pace”.

Ben presto, da argomento teorico analizzato in tempi di pace, la lotta contro il militarismo divenne un problema politico preminente, soprattutto in seguito all’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee. La presunta politica di pace della borghesia venne irrisa e definita con il termine di «pace armata». Jaurès, leader del Partito Socialista Francese, in un discorso del 1895, condensò in una frase i timori delle forze di sinistra: «sempre la vostra società, violenta e caotica, persino quando vuole la pace, persino quando è in stato di quiete apparente, reca in sé la guerra, come la nube reca in sé l’uragano». La mozione votata al Congresso di Stoccarda (1907) della Seconda Internazionale diede due indicazioni fondamentali: la scelta di voto contrario a leggi di bilancio che proponevano l’aumento delle spese militari e l’avversione agli eserciti permanenti.
Tuttavia, con il passare degli anni, socialdemocratici e socialisti si impegnarono sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace. L’opposizione al riarmo e ai preparativi bellici in atto fu molto blanda e la SPD, divenuta molto legalista e moderata, barattò il suo voto favorevole ai crediti militari in cambio della concessione di maggiori libertà politiche in patria. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Il movimento operaio giunse a condividere gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. La Seconda Internazionale si rivelò del tutto impotente di fronte allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, fallendo in uno dei suoi intenti principali: preservare la pace.

I due esponenti di punta del movimento operaio che si opposero con maggiore vigore alla guerra furono la Luxemburg e Lenin. La prima ammodernò il bagaglio teorico della sinistra sulla guerra e mostrò come il militarismo rappresentasse un nerbo vitale dello Stato. Sostenne che la parola d’ordine «guerra alla guerra!» doveva diventare «il punto cruciale della politica proletaria». Pertanto, da quel momento in avanti, la classe lavoratrice doveva avere come «scopo principale», anche in tempo di pace, quello di «lottare contro l’imperialismo e di impedire le guerre». In Il socialismo e la guerra (1915), Lenin ebbe il merito di mostrare la “falsificazione storica” operata dalla borghesia, ogni qual volta provava ad attribuire un significato “progressivo e di liberazione nazionale” a quelle che, in realtà, erano guerre “di rapina”, condotte con il solo obiettivo di decidere a quale delle parti belligeranti sarebbe toccato opprimere maggiormente popolazioni straniere. Per Lenin, i rivoluzionari dovevano “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, poiché quanti volevano una pace veramente “democratica e duratura” dovevano eliminare la borghesia e i governi colonialisti. Lenin era convinto di ciò che la storia ha mostrato essere inesatto, ovvero che ogni lotta di classe condotta conseguentemente in tempo di guerra crea «inevitabilmente» stati d’animo rivoluzionari nelle masse.
Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. La necessità di sostituire gli uomini inviati al fronte, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche nel movimento suffragista. Contrastare quanti agitavano lo spauracchio dell’aggressore, per derubricare fondamentali riforme sociali, fu una delle conquiste più significative delle femministe più radicali del tempo. Esse indicarono come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato.

La profonda frattura politica consumatasi tra rivoluzionari e riformisti dopo la nascita dell’URSS e il dogmatico clima ideologico degli anni Venti e Trenta inficiarono la possibilità di un’alleanza contro il militarismo tra l’Internazionale Comunista e i partiti socialisti europei. In molti ritenevano un “nuovo 1914” pressoché inevitabile. E così fu. Il crescendo di violenze perpetrate dal fronte nazi-fascista e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale generarono uno scenario ancora più nefasto di quello d’inizio secolo. L’URSS fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che fu decisiva al fine della sconfitta del nazismo e divenne un elemento così centrale dell’unità nazionale russa da perdurare fino ai nostri giorni.
A partire dal 1961, sotto la presidenza di Chruščëv, l’URSS inaugurò un nuovo ciclo politico che prese il nome di Coesistenza pacifica. Ciò nonostante, nel 1968, i sovietici invasero con mezzo milione di soldati la Cecoslovacchia che chiedeva maggiore democrazia. Brežnev chiamò questo principio: “sovranità limitata”. Di fronte alla “Primavera di Praga”, egli affermò che “quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare i paesi socialisti verso il capitalismo, questo diventa un problema comune”. Secondo questa logica antidemocratica, la scelta di stabilire cosa fosse o non fosse “socialismo” era puro arbitrio dei dirigenti sovietici. L’URSS continuò a destinare una parte significativa delle sue risorse economiche alle spese militari e ciò contribuì all’affermazione di una cultura di guerra e autoritaria nella società. Un ulteriore esempio evidente di questa politica fu l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979. Così facendo, Mosca si alienò, definitivamente, le simpatie del movimento per la pace. L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’URSS venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli USA.

Le guerre diffondono un’ideologia di violenza che si unisce spesso ai sentimenti nazionalistici che hanno più volte lacerato il movimento operaio. Di rado, esse rafforzano pratiche di democrazia diretta, mentre accrescono il potere di istituzioni autoritarie. È una lezione che la sinistra non dovrebbe mai dimenticare.

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Non c’è spazio per la guerra nella cultura della sinistra

Le cause economiche della guerra
Nei dibattiti della Prima Internazionale, César de Paepe formulò quella che sarebbe divenuta la posizione classica del movimento operaio su questo tema, ovvero l’inevitabilità delle guerre nel regime di produzione capitalistico. Nella società contemporanea, esse non sono provocate dalle ambizioni dei monarchi o di singoli individui, bensì sono determinate dal modello economico-sociale dominante. Il movimento socialista mostrò anche quale era la parte di popolazione sulla quale si abbattevano, ineluttabilmente, le conseguenze più nefaste delle guerre. Nel congresso del 1868, i delegati della Prima Internazionale votarono una mozione che impegnava i lavoratori a perseguire “l’abolizione definitiva di ogni guerra”, dal momento che sarebbero stati soprattutto loro a pagare economicamente, quando non con il loro sangue – e senza alcuna distinzione tra vincitori e sconfitti –, le decisioni delle classi dominanti e dei governi che li rappresentavano.

Karl Marx non riassunse in alcuno scritto le sue concezioni – frammentarie e talvolta contraddittorie – sulla guerra, né formulò linee guida per indicare l’atteggiamento più corretto da adottare in proposito. Non concepì la guerra come una necessaria scorciatoia per la trasformazione rivoluzionaria e impiegò una parte consistente della sua militanza politica per vincolare la classe operaia al principio della solidarietà internazionale. In L’Europa può disarmare?, Friedrich Engels segnalò che la produzione di armamenti senza precedenti avvenuta in Europa rendeva possibile l’approssimarsi di “una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto”. Aggiunse che, “il sistema degli eserciti permanenti era stato spinto a un punto talmente estremo da essere condannato a rovinare economicamente i popoli, per via delle spese belliche, o a degenerare in una guerra di annientamento generale”.

Il fallimento alla prova dei fatti
Ben presto, da argomento teorico analizzato in tempi di pace, la lotta contro il militarismo divenne un problema politico preminente. Con l’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee, la controversia sulla guerra assunse un peso sempre più rilevante nel dibattito della Seconda Internazionale. Nel congresso della sua fondazione, venne approvata una mozione che sanciva la pace quale “condizione prima indispensabile di ogni emancipazione operaia”. La mozione votata al Congresso di Stoccarda, del 1907, riassunse tutti i punti divenuti, fino ad allora, patrimonio comune del movimento operaio. Tra essi figuravano: la scelta di voto contrario a leggi di bilancio che proponevano l’aumento delle spese militari e l’avversione agli eserciti permanenti.

Con il passare degli anni, la Seconda Internazionale si impegnò sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace. L’opposizione al riarmo e ai preparativi bellici in atto fu molto blanda e un’ala del Partito Socialdemocratico Tedesco, divenuto sempre più legalista e moderato, barattò il suo voto favorevole ai crediti militari – e poi finanche l’appoggio all’espansione coloniale –, in cambio della concessione di maggiori libertà politiche in patria. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Il movimento operaio giunse a condividere gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. La Seconda Internazionale si rivelò del tutto impotente di fronte alla guerra, fallendo in uno dei suoi intenti principali: preservare la pace.

I due esponenti di punta del movimento operaio che si opposero con maggiore vigore alla guerra furono la Luxemburg e Lenin. La prima ammodernò il bagaglio teorico della sinistra sulla guerra e mostrò come il militarismo rappresentasse un nerbo vitale dello Stato. Per Lenin, invece, in Il socialismo e la guerra, Lenin ebbe il merito di mostrare la “falsificazione storica” operata dalla borghesia, ogni qual volta provava ad attribuire un significato “progressivo e di liberazione nazionale” a quelle che, in realtà, erano guerre “di rapina”, condotte con il solo obiettivo di decidere a quale delle parti belligeranti sarebbe toccato opprimere maggiormente popolazioni straniere. Per Lenin, i rivoluzionari dovevano “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, poiché quanti volevano una pace veramente “democratica e duratura” dovevano eliminare la borghesia e i governi colonialisti.

Il discrimine nell’opposizione alla guerra
La Prima Guerra Mondiale procurò divisioni non solo in seno alla Seconda Internazionale, ma anche nel movimento anarchico. Nel Manifesto dei Sedici, Kropotkin postulò la necessità di “resistere a un aggressore che rappresenta l’annientamento di tutte le nostre speranze di emancipazione”. La vittoria della Triplice Intesa contro la Germania costituiva il male minore per non compromettere il livello di libertà esistente. Al contrario, coloro che firmarono con Errico Malatesta il Manifesto internazionale anarchico sulla guerra espressero la convinzione che la responsabilità del conflitto non poteva ricadere su un singolo governo e che non andava “fatta nessuna distinzione tra guerra offensiva e difensiva”. Aggiunsero, inoltre, che “nessuno dei belligeranti aveva il diritto di parlare a nome della civilizzazione o di considerarsi in uno stato di legittima difesa”.

Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. A partire dal primo conflitto mondiale, la necessità di sostituire gli uomini inviati al fronte, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche in una fetta consistente del neonato movimento suffragista. Smascherare l’inganno dei governi del tempo – che, agitando lo spauracchio dell’aggressore alle porte, si servirono della guerra per derubricare fondamentali riforme di carattere sociale – rappresentò una delle conquiste più significative delle dirigenti comuniste del tempo. Clara Zetkin e la Luxemburg, furono tra le prime ad avviare, con lucidità e coraggio, il cammino che indicò, a molte generazioni successive, come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato. Dopo di loro, l’ostracismo alla guerra divenne un elemento distintivo della Giornata internazionale delle donne e, all’insorgere di ogni nuovo conflitto bellico, l’opposizione all’aumento delle spese di guerra figurò tra i punti salienti di numerose piattaforme del movimento femminista mondiale.

Il fine non giustifica i mezzi e i mezzi sbagliati danneggiano il fine
Il crescendo di violenze perpetrate dal fronte nazi-fascista – nei confini nazionali così come in politica estera – e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale generarono uno scenario ancora più nefasto di quello della guerra del 1914-1918. L’Unione Sovietica venne attaccata dalle truppe di Hitler nel 1941 e fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che fu decisiva al fine della sconfitta del nazismo e divenne, poi, un elemento così centrale dell’unità nazionale russa da essere sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino e da perdurare fino ai nostri giorni.

A partire dal 1961, sotto la presidenza di Nikita Chruščëv, l’Unione Sovietica inaugurò un nuovo ciclo politico che prese il nome di Coesistenza pacifica. Questa svolta fu intrapresa esclusivamente nei rapporti con gli Stati Uniti d’America e non con i paesi del “socialismo reale”. Dopo la repressione della rivolta ungherese, nel 1956, i sovietici invasero con mezzo milione di soldati e migliaia di carri armati la Cecoslovacchia che chiedeva democratizzazione e di decentramento economico, attraverso la “Primavera di Praga”. L’Unione Sovietica continuò a destinare una parte significativa delle sue risorse economiche alle spese militari e ciò contribuì all’affermazione di una cultura di guerra e autoritaria nella società. Così facendo, si alienò, definitivamente, le simpatie del movimento per la pace, divenuto ancora più vasto in occasione delle straordinarie mobilitazioni contro la guerra in Vietnam.

Nel 1979, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, l’Armata Rossa tornò a essere lo strumento principale della politica estera di Mosca, che continuava ad arrogarsi il diritto di intervenire in quella che riteneva essere la propria “zona di sicurezza”. L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’Unione Sovietica venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli Stati Uniti d’America.

Se è sinistra, è contro la guerra
La Guerra Russo-Ucraina ha posto la sinistra nuovamente di fronte al dilemma del come comportarsi quando un paese vede minacciata la propria legittima sovranità. La mancata condanna dell’attacco della Russia all’Ucraina da parte del governo del Venezuela è un errore politico. In Risultati della discussione sull’autodecisione Lenin scrisse: “se vincesse la rivoluzione socialista a San Pietroburgo, a Berlino e a Varsavia, il governo socialista polacco, come quello russo e tedesco, rinuncerebbe a mantenere con la violenza gli ucraini entro le frontiere dello Stato polacco”. Perché, dunque, ipotizzare che qualcosa di diverso debba essere concesso al governo nazionalista guidato da Putin?

D’altra parte, quanti a sinistra hanno ceduto alla tentazione di diventare – direttamente o indirettamente – co-belligeranti, dando vita a una nuova union sacrée, contribuiscono a rendere sempre meno riconoscibile la distinzione tra atlantismo e pacifismo. La storia dimostra che, quando non si oppongono alla guerra, le forze progressiste smarriscono una parte essenziale della loro ragion d’essere e finiscono con l’essere inghiottite dall’ideologia del campo a loro avverso.

La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Al di là delle spiegazioni – fornite, in queste settimane, da numerosi esperti – sulle radici del conflitto, la posizione di quanti suggeriscono una politica di “non allineamento” è la più efficace per far cessare la guerra al più presto e assicurare che in questo conflitto vi sia il minor numero possibile di vittime. Significa dare forza all’unico vero antidoto all’espansione della guerra su scala generale. A differenza delle tante voci che invocano un nuovo arruolamento, va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica, basata su due punti fermi: la de-escalation e la neutralità dell’Ucraina indipendente.

Diversamente dal celebre detto di Carl von Clausewitz, per la sinistra, la guerra non può essere “la continuazione della politica con altri mezzi”. In realtà, essa non fa che certificare il suo fallimento. Se la sinistra vuole tornare a essere egemone e dimostrarsi capace di declinare la sua storia per i compiti dell’oggi, deve scrivere sulle proprie bandiere, in maniera indelebile, le parole “antimilitarismo” e “no alla guerra”.

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La sinistra di fronte alla guerra

Le cause economiche della guerra
Se la scienza della politica ha fornito motivazioni ideologiche, politiche, economiche e persino psicologiche per spiegare le cause dei conflitti bellici, il pensiero socialista ha offerto il suo apporto più interessante alla comprensione di questo fenomeno evidenziando il forte nesso esistente tra lo sviluppo del capitalismo e la propagazione della guerra.

Nei dibattiti della Prima Internazionale (1864-1872), César de Paepe, uno dei suoi principali dirigenti, formulò quella che sarebbe divenuta la posizione classica del movimento operaio su questo tema, ovvero l’inevitabilità delle guerre nel regime di produzione capitalistico. Nella società moderna, esse non sono provocate dalle ambizioni dei monarchi o di singoli individui, bensì sono determinate dal modello economico-sociale dominante . Il movimento socialista indicò anche quale era la parte di popolazione sulla quale si abbattevano, ineluttabilmente, le conseguenze più nefaste delle guerre. Nel congresso del 1868, i delegati della Prima Internazionale votarono una mozione che impegnava i lavoratori a perseguire «l’abolizione definitiva di ogni guerra» , dal momento che sarebbero stati soprattutto loro a pagare economicamente, quando non con il loro sangue – e senza alcuna distinzione tra vincitori e sconfitti –, le decisioni delle classi dominanti e dei governi che li rappresentavano. La lezione di civiltà del movimento operaio nacque dal convincimento che ogni guerra andava considerata «come una guerra civile» , quale scontro feroce tra lavoratori che, al fine, non faceva altro che privarli dei mezzi necessari alla sopravvivenza. Contro la guerra occorreva agire alacremente, con la renitenza alla leva e attraverso lo sciopero. L’internazionalismo divenne, così, uno dei cardini ai quali ancorare la società dell’avvenire che, una volta superato il capitalismo e rimossa la concorrenza degli stati borghesi sul mercato mondiale, avrebbe eliminato anche le ragioni primarie alla base di ogni guerra.

Tra i precursori del socialismo, Claude Henri de Saint Simon si era decisamente schierato non solo in opposizione alla guerra, ma anche al conflitto sociale, ritenuti entrambi colpevoli di ostacolare il fondamentale progresso della produzione industriale. Karl Marx non riassunse in alcuno scritto le sue concezioni – frammentarie e talvolta contraddittorie – sulla guerra, né formulò linee guida per indicare l’atteggiamento più corretto da adottare in proposito. Quando dovette scegliere tra campi opposti, la sua unica costante fu l’opposizione alla Russia zarista, ritenuta l’avamposto della controrivoluzione e uno dei principali ostacoli all’emancipazione della classe lavoratrice . Nel Capitale (1867) affermò che la violenza era una potenza economica, «la levatrice di ogni vecchia società che è gravida di una nuova» .

Tuttavia, non concepì la guerra come una necessaria scorciatoia per la trasformazione rivoluzionaria e impiegò una parte consistente della sua militanza politica per vincolare la classe operaia al principio della solidarietà internazionale. Come sostenne anche Friedrich Engels, questa agiva in modo determinante, nelle singole nazioni, contro il rischio di pacificazione del conflitto di classe che l’invenzione del nemico esterno, prodotto dalla propaganda bellica, generava ogni volta che scoppiava una guerra. In diverse lettere scambiate con dirigenti del movimento operaio, Engels pose l’accento sulla forza ideologica esercitata dall’inganno del patriottismo e sul ritardo che un’ondata sciovinistica avrebbe causato sull’inizio della rivoluzione proletaria. Inoltre, nell’Anti-Dühring (1878), dopo aver analizzato gli effetti della diffusione di armi sempre più letali, affermò che il socialismo aveva il compito di «fare saltare in aria il militarismo e, con esso, tutti gli eserciti permanenti» .

Il tema della guerra fu così importante per Engels che egli decise di dedicarvi uno dei suoi ultimi scritti. In L’Europa può disarmare? (1893), segnalò che, nel vecchio continente, durante i precedenti venticinque anni, ogni Stato aveva cercato di superare l’altro in potenza militare e in preparazione bellica. Ciò aveva generato una produzione di armamenti senza precedenti che rendeva possibile l’approssimarsi di «una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto» . Secondo il co-autore del Manifesto del partito comunista (1848), «in tutta Europa, il sistema degli eserciti permanenti era stato spinto a un punto talmente estremo da essere condannato a rovinare economicamente i popoli, per via delle spese belliche, o a degenerare in una guerra di annientamento generale». Nella sua analisi, Engels non trascurò di sottolineare che gli eserciti venivano mantenuti non solo per motivi militari, ma anche per fini politici. Essi dovevano «proteggere non tanto dal nemico esterno, quanto da quello interno». Si trattava di accrescere le forze che dovevano reprimere il proletariato e le lotte operaie. Poiché erano i ceti popolari a pagare più di tutti i costi della guerra, attraverso la massa di soldati che fornivano allo Stato e le imposte, il movimento operaio doveva battersi per una «riduzione omogenea e progressiva del servizio militare» e per il disarmo, considerato l’unica, effettiva, «garanzia della pace» .

Il fallimento alla prova dei fatti
Ben presto, da argomento teorico analizzato in tempi di pace, la lotta contro il militarismo divenne un problema politico preminente. Il movimento operaio dovette confrontarsi con alcune questioni concrete di fronte alle quali l’iniziale posizione assunta dai suoi rappresentanti fu la netta contrarietà a qualsiasi modalità di sostegno alla guerra. Nel conflitto franco-prussiano del 1870 (quello che precedette la nascita della Comune di Parigi), i deputati socialdemocratici Wilhelm Liebknecht e August Bebel condannarono i fini annessionistici perseguiti dalla Germania di Bismark e votarono contro i crediti di guerra. La loro decisione di «respingere la proposta di legge per il finanziamento di fondi aggiuntivi per continuare la guerra» costò la loro condanna a due anni di prigione per alto tradimento, ma contribuì a mostrare alla classe lavoratrice una strada alternativa a quella di concorrere, comunque, a incrementare la spirale del conflitto.

Con l’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee, la controversia sulla guerra assunse un peso sempre più rilevante nel dibattito della Seconda Internazionale (1889-1916). Nel congresso della sua fondazione, venne approvata una mozione che sanciva la pace quale «prima condizione indispensabile di ogni emancipazione operaia» . La presunta politica di pace della borghesia venne irrisa e definita con il termine di «pace armata». Jean Jaurès, leader del Partito Socialista Francese (SFIO), in un discorso al parlamento del 1895, condensò in una frase, divenuta poi celebre, i timori delle forze di sinistra di fronte alla situazione del tempo: «sempre la vostra società, violenta e caotica, persino quando vuole la pace, persino quando è in stato di quiete apparente, reca in sé la guerra, come la nube reca in sé l’uragano» .

La Weltpolitik – la strategia aggressiva adottata dall’Impero tedesco per estendere il potere della Germania sul piano internazionale – modificò lo scenario geopolitico e il rafforzamento dei principi antimilitaristi nel movimento operaio influenzò, sempre più, le discussioni sulla guerra. Da questo momento in poi, quest’ultima non venne considerata soltanto come un’occasione propizia per lo sviluppo di scenari rivoluzionari che avrebbero accelerato il crollo del sistema (una tesi presente a sinistra sin dai tempi della Guerra Rivoluzionaria del 1792 ). La guerra, invece, venne concepita dal movimento operaio come pericolo per le sciagurate conseguenze – quali carestia, miseria e disoccupazione – che arrecava al proletariato. Essa costituiva, dunque, una grave minaccia per le forze progressiste e, come scrisse Karl Kautsky in La rivoluzione sociale (1902), in caso di guerra, queste ultime sarebbero state «pesantemente gravate di ulteriori compiti» che avrebbero allontanato, non avvicinato, il traguardo della vittoria finale.

La mozione «Sul militarismo e sui conflitti internazionali», votata al congresso della Seconda Internazionale di Stoccarda, nel 1907, riassunse tutti i punti divenuti, fino ad allora, patrimonio comune del movimento operaio. Tra essi figuravano: la scelta di voto contrario a leggi di bilancio che proponevano l’aumento delle spese militari, l’avversione agli eserciti permanenti e la volontà di sostituirli con un sistema di milizie popolari e, infine, l’adesione al progetto di istituire organismi internazionali di arbitrato per la ricomposizione pacifica dei conflitti tra le nazioni. Venne escluso, invece, il ricorso allo sciopero generale da proclamarsi contro ogni sorta di guerra, sostenuto da Gustave Hervé, poiché ritenuto, dalla maggioranza dei presenti, una posizione troppo radicale e troppo manichea. La mozione terminava con un emendamento redatto da Rosa Luxemburg, Vladimir Lenin e Julij Martov, nel quale si affermava che «nel caso in cui la guerra scoppiasse, i socialisti (avevano) il dovere d’intervenire per farla cessare prontamente e di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e accelerare la caduta della dominazione capitalista» . Tale emendamento non obbligava il Partito Socialdemocratico Tedesco ad alcun mutamento della sua linea politica e, pertanto, anche i suoi rappresentanti lo approvarono. Questo testo fu l’ultimo documento inerente la guerra della Seconda Internazionale a riscuotere l’unanimità dei consensi.

L’intensificarsi della concorrenza tra gli Stati capitalisti sul mercato mondiale e lo scoppio di diversi conflitti locali resero lo scenario generale ancora più allarmante. La pubblicazione del libro di Jaurès La nuova armata (1911) favorì la discussione di un altro tema al centro del dibattito di quel periodo: la distinzione tra guerra offensiva e guerra difensiva, nonché sulla condotta da assumere rispetto a quest’ultima, anche nel caso in cui un paese vedesse minacciata la propria indipendenza. Per Jaurès il compito esclusivo dell’esercito era quello di difendere l’autonomia di una nazione da ogni aggressione offensiva – ovvero tutte quelle che non accettavano la risoluzione di un conflitto mediante arbitrato. Tutte le azioni militari che ricadevano in questo ambito erano da considerarsi legittime. La perspicace critica della Luxemburg verso questa posizione evidenziò come i «fenomeni storici quali le guerre moderne non (potevano) essere misurati con il metro della ‘giustizia’, o mediante uno schema cartaceo di difesa e aggressione» . Occorreva considerare, inoltre, la difficoltà di poter stabilire se una guerra fosse davvero offensiva o difensiva, ovvero se lo Stato che l’aveva iniziata avesse deliberatamente deciso di attaccare o era stato costretto a farlo a seguito degli stratagemmi adottati dalla nazione che gli si opponeva. Dunque, per la Luxemburg, tale distinzione andava scartata, così come andava criticata l’idea di «nazione armata» di Jaures, poiché tendeva, infine, ad accrescere la militarizzazione già esistente nella società.

Con il passare degli anni, la Seconda Internazionale si impegnò sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace. L’opposizione al riarmo e ai preparativi bellici allora in atto fu molto blanda e un’ala del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD), divenuto sempre più legalista e moderato, barattò il suo voto favorevole ai crediti militari – e poi finanche l’appoggio all’espansione coloniale –, in cambio della concessione di maggiori libertà politiche in patria. Dirigenti di rilievo e riconosciuti teorici, quali Gustav Noske, Henry Hyndman e Arturo Labriola, furono tra i primi ad approdare a queste posizioni. Successivamente, la maggior parte dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, dei laburisti inglesi e delle altre forze riformiste europee finì con l’appoggiare la Prima Guerra Mondiale (1914-1918). Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Sostenendo la tesi che i «vantaggi del progresso» non dovessero essere monopolizzati dai capitalisti, il movimento operaio giunse a condividere gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. La Seconda Internazionale si rivelò del tutto impotente di fronte alla guerra, fallendo uno dei suoi intenti principali: preservare la pace.

Lenin e gli altri delegati al Congresso di Zimmerwald (1915), tra i quali Lev Trotsky che ne redasse il manifesto finale, prefigurarono che «per decine d’anni le spese della guerra avrebbero assorbito le migliori energie dei popoli, compromettendo la conquista di miglioramenti sociali e impedendo qualsiasi progresso». La guerra rivelava il «vero carattere del capitalismo moderno, che è incompatibile non solo con gli interessi delle classi operaie, ma anche con le condizioni elementari di esistenza della comunità umana» . Fu un monito che venne accolto solo da una minoranza del movimento operaio, al pari di quello indirizzato a tutti i lavoratori europei dal Congresso di Kienthal (1916): «i vostri governi e i loro giornali vi dicono che bisogna continuare la guerra per uccidere il militarismo. Essi vi ingannano! Mai la guerra ha ucciso la guerra. Anzi, essa suscita sentimenti e velleità di rivincita. In questo modo, i vostri padroni, votandovi al sacrificio, vi chiudono in un cerchio infernale» . Rompendo, infine, con l’approccio adottato al Congresso di Stoccarda, in favore degli organismi internazionali di arbitrato, nel documento finale di Kienthal si affermava che «le illusioni del pacifismo borghese» non sarebbero state in grado di interrompere la spirale della guerra e che, anzi, avrebbero concorso a preservare il sistema socioeconomico vigente. L’unico antidoto per impedire che insorgessero futuri conflitti bellici venne ravvisato nella conquista del potere politico e della proprietà capitalistica da parte delle masse popolari.

I due esponenti di punta del movimento operaio che si opposero con maggiore vigore alla guerra furono la Luxemburg e Lenin. La prima ammodernò il bagaglio teorico della sinistra sulla guerra e mostrò come il militarismo rappresentasse un nerbo vitale dello Stato . Sostenne, con convinzione ed efficacia paragonabile a quella di pochi altri dirigenti comunisti, che la parola d’ordine «guerra alla guerra!» doveva diventare «il punto cruciale della politica proletaria». Come scrisse nelle Tesi sui compiti della socialdemocrazia internazionale (1915), la Seconda Internazionale era implosa per non essere riuscita a «realizzare una tattica e un’azione comune del proletariato in tutti i paesi» . Pertanto, da quel momento in avanti, la classe lavoratrice doveva avere come «scopo principale», anche in tempo di pace, quello di «lottare contro l’imperialismo e di impedire le guerre» .

In Il socialismo e la guerra (1915) e in numerosi altri scritti composti durante la Prima Guerra Mondiale, Lenin ebbe il merito di enucleare due questioni fondamentali. La prima ineriva la «falsificazione storica» operata dalla borghesia, ogni qual volta aveva provato ad attribuire un significato «progressivo e di liberazione nazionale» a quelle che, in realtà, erano guerre «di rapina» , condotte con il solo obiettivo di decidere a quale delle parti belligeranti sarebbe toccato opprimere maggiormente popolazioni straniere e, al fine, accrescere le sperequazioni prodotte dal capitalismo. La seconda riguardò lo smascheramento delle contraddizioni dei socialisti riformisti – da Lenin definiti «socialsciovinisti» –, i quali finirono con il sostenere le ragioni della guerra, dopo averla descritta, nelle mozioni approvate dalla Seconda Internazionale, un’azione «delittuosa». Dietro la loro pretesa di «difendere la patria», si nascondeva il «diritto» che si arrogavano determinate grandi potenze di «depredare le colonie e di opprimere i popoli stranieri». Le guerre non venivano combattute per tutelare «l’esistenza delle nazioni», ma per la «difesa dei privilegi, del predominio, dei saccheggi, delle violenze» delle varie «borghesie imperialiste» . I socialisti che capitolarono davanti al patriottismo avevano barattato la lotta di classe con il «diritto alle briciole dei profitti ottenuti dalla loro borghesia nazionale, mediante il depredamento di altre nazioni» . Conseguentemente, Lenin si disse favorevole alle «guerre difensive», includendo in questa categoria non la difesa nazionale dei paesi europei indicata da Jaurès, ma le «guerre giuste» degli «Stati oppressi, assoggettati e privi di diritti» dalle «grandi potenze schiaviste che li opprimono e li depredano» . La tesi più celebre di questo scritto, ovvero la necessità per i rivoluzionari di «trasformare la guerra imperialista in guerra civile» indicò a quanti volevano una pace veramente «democratica e duratura» la necessità di condurre «la guerra civile contro i governi e la borghesia» . Lenin era convinto di ciò che la storia ha mostrato essere inesatto, ovvero che ogni lotta di classe condotta conseguentemente in tempo di guerra crea «inevitabilmente» stati d’animo rivoluzionari nelle masse.

Il discrimine nell’opposizione alla guerra
La Prima Guerra Mondiale procurò divisioni non solo in seno alla Seconda Internazionale, ma anche nel movimento anarchico. Poco dopo lo scoppio del conflitto, Kropotkin dichiarò, in un articolo che suscitò scalpore, «che il compito di ogni persona avente a cuore l’idea di progresso umano era quello di stroncare l’invasione dei tedeschi nell’Europa occidentale» . Questa affermazione, giudicata da molti come l’abbandono dei principi per i quali egli si era battuto per una vita intera, esprimeva il tentativo di andare oltre lo slogan dello «sciopero generale contro la guerra» – rimasto inascoltato dalle masse lavoratrici – e di evitare, nel caso di una vittoria tedesca del conflitto, l’arretramento generale dello scenario politico continentale. A suo giudizio, se gli antimilitaristi fossero rimasti inerti avrebbero indirettamente aiutato gli invasori nei loro piani di conquista e ciò, nel lungo termine, avrebbe rappresentato un ostacolo ancora più arduo da superare per quanti lottavano per la rivoluzione sociale.

Nella sua replica a Kropotkin, Errico Malatesta asserì che, pur non essendo un pacifista e nonostante ritenesse legittimo utilizzare le armi nell’evenienza di guerre di liberazione, il conflitto mondiale in corso non era – così come raccontava la propaganda borghese – una lotta della democrazia «per il benessere generale contro il nemico comune», ma un ennesimo esempio di sopraffazione della classe lavoratrice da parte dei poteri dominanti. Egli era consapevole che «la vittoria della Germania avrebbe certamente determinato il trionfo del militarismo, ma anche che il trionfo degli alleati avrebbe significato il dominio russo britannico in Europa e in Asia» .

Nel Manifesto dei Sedici (1916), Kropotkin postulò la necessità di «resistere a un aggressore che rappresenta l’annientamento di tutte le nostre speranze di emancipazione» . La vittoria della Triplice Intesa contro la Germania costituiva il male minore per non compromettere il livello di libertà esistente. Al contrario, coloro che firmarono con Malatesta il Manifesto internazionale anarchico sulla guerra (1915) espressero la convinzione che la responsabilità del conflitto non poteva ricadere su un singolo governo e che non andava «fatta nessuna distinzione tra guerra offensiva e difensiva». Aggiunsero, inoltre, che «nessuno dei belligeranti aveva il diritto di parlare a nome della civilizzazione o di considerarsi in uno stato di legittima difesa» . La Prima Guerra Mondiale era un ulteriore episodio del conflitto tra capitalisti di diversi stati imperialisti compiuta a spese della classe operaia. Malatesta, Emma Goldman, Ferdinand Nieuwenhuis e la stragrande maggioranza del movimento anarchico erano tutti convinti che sarebbe stato un errore imperdonabile appoggiare i governi borghesi e optarono, senza se e senza ma, in continuità con lo slogan «nessun uomo e neanche un centesimo per l’esercito», per un deciso rifiuto di partecipare – anche indirettamente – a qualsiasi ipotesi bellica.

Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. A partire dal primo conflitto mondiale, la sostituzione degli uomini inviati al fronte – con un salario di gran lunga inferiore e, pertanto, in condizioni di sovrasfruttamento –, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche in una fetta consistente del neonato movimento suffragista. Alcune sue dirigenti giunsero a promuovere petizioni per permettere alle donne di arruolarsi nell’esercito. Smascherare l’inganno dei governi del tempo – che, agitando lo spauracchio dell’aggressore alle porte, si servirono della guerra per derubricare fondamentali riforme di carattere sociale – rappresentò una delle conquiste più significative delle femministe comuniste del tempo. Clara Zetkin, Aleksandra Kollontaj, Silvia Pankhurst e, naturalmente, la Luxemburg, furono tra le prime ad avviare, con lucidità e coraggio, il cammino che indicò, a molte generazioni successive, come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato. Dopo di loro, l’ostracismo alla guerra divenne un elemento distintivo della Giornata internazionale delle donne e, all’insorgere di ogni nuovo conflitto bellico, l’opposizione all’aumento delle spese di guerra figurò tra i punti salienti di numerose piattaforme del movimento femminista globale mondiale.

Il fine non giustifica i mezzi e i mezzi sbagliati danneggiano il fine
La profonda frattura politica consumatasi tra rivoluzionari e riformisti, le grandi distanze strategiche che separarono questi due campi dopo la nascita dell’Unione Sovietica e il dogmatico clima ideologico degli anni Venti e Trenta inficiarono la possibilità di un’alleanza contro il militarismo tra l’Internazionale Comunista (1919-1943) e i partiti socialisti e socialdemocratici europei . Dopo aver sostenuto la guerra, questi ultimi, riunitisi nell’Internazionale Operaia Socialista (1923-1940), si erano definitivamente screditati agli occhi dei primi. A Mosca, invece, resisteva la tesi leninista della “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile», per suscitare una nuova fase rivoluzionaria. Dirigenti politici e teorici di primo piano ritenevano pressoché inevitabile un «nuovo 1914». Così, da entrambi i versanti, più che agire per impedire lo scoppio di una nuova guerra, si discuteva sul cosa fare quando essa sarebbe iniziata. Gli slogan e le dichiarazioni di principio divergevano sostanzialmente da quanto ci si attendeva potesse accadere e da quanto si trasformava in azione politica. Tra le voci critiche nel campo comunista vi furono quelle di Nikolaj Bucharin, assertore della parola d’ordine «lotta per la pace» e uno dei dirigenti russi più convinti che quest’ultima fosse «una delle più importanti questioni del mondo contemporaneo», e di Georgi Dimitrov, sostenitore della tesi che non tutte le grandi potenze fossero egualmente corresponsabili del possibile insorgere di un conflitto e favorevole al riavvicinamento con i partiti riformisti per costruire un amplio fronte popolare contro la guerra. Entrambe queste interpretazioni contrastarono la litania dell’ortodossia sovietica che, lungi dall’aggiornare l’analisi teorica, ripeteva che il pericolo della guerra si annidava, senza alcuna distinzione e con uguale corresponsabilità, in tutte le potenze imperialistiche.

Di tutt’altro avviso fu Mao Zedong. Alla testa del movimento di liberazione contro l’invasione giapponese, sostenne in Sulla guerra di lunga durata (1938) che le «guerre giuste» , quelle alle quali i comunisti dovevano prendere parte attivamente, sprigionavano una «grandissima forza, potevano trasformare moltissime cose o aprire la strada alla loro trasformazione» . La strategia indicata da Mao fu, dunque, quella di «lottare contro la guerra mediante la guerra, contrapporre una guerra giusta a una guerra ingiusta» e, inoltre, «prolungare la guerra fino a quando essa non avesse conseguito il suo scopo politico». Tesi che richiamano alla «onnipotenza della guerra rivoluzionaria» si trovano anche in La guerra e i problemi della strategia (1938), testo nel quale Mao sostenne che «non è possibile trasformare il mondo se non con un fucile» e che «il compito centrale e la forma suprema della rivoluzione stanno nella conquista del potere mediante la lotta armata, nella soluzione del problema mediante la guerra» .

In Europa, il crescendo di violenze perpetrate dal fronte nazi-fascista – nei confini nazionali così come in politica estera – e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) generarono uno scenario ancora più nefasto di quello della guerra del 1914-1918. L’Unione Sovietica venne attaccata dalle truppe di Hitler nel 1941 e fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che risultò decisiva al fine della sconfitta del nazismo e divenne, poi, un elemento così centrale dell’unità nazionale russa da essere sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino e da perdurare fino ai nostri giorni.

Con la successiva suddivisione del mondo in due blocchi, Iosif Stalin ritenne che il compito principale del movimento comunista internazionale continuasse a essere la salvaguardia dell’Unione Sovietica. La costituzione di una zona cuscinetto di otto paesi (sette dopo la fuoriuscita della Jugoslavia dalla sua orbita), in Europa dell’Est, rappresentò un elemento centrale di questa politica. Nel medesimo periodo, la Dottrina Truman segnò l’avvento di un nuovo tipo di guerra: la Guerra Fredda. Con il supporto alle forze anticomuniste in Grecia, attraverso il Piano Marshall (1948) e mediante la creazione della NATO (1949), gli Stati Uniti d’America scongiurarono la possibile avanzata delle forze progressiste nell’Europa occidentale. L’Unione Sovietica rispose con il Patto di Varsavia (1955). Questo scenario generò una spropositata corsa agli armamenti che riguardò, nonostante il ricordo, ancora vivissimo nell’opinione pubblica, dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, anche il proliferare delle testate nucleari.

A partire dal 1961, sotto la presidenza di Nikita Chruščëv, l’Unione Sovietica inaugurò un nuovo ciclo politico che prese il nome di Coesistenza pacifica. Questa svolta, contraddistinta dall’impegno di non ingerenza e di rispetto della sovranità dei singoli stati, nonché di cooperazione economica con alcuni paesi capitalisti, sarebbe dovuta servire a scongiurare il pericolo di un terzo conflitto mondiale (che anche la Crisi dei missili di Cuba, del 1962, aveva dimostrato possibile) e avrebbe dovuto suffragare la tesi della non inevitabilità della guerra. Tuttavia, questo tentativo di collaborazione costruttiva fu intrapreso esclusivamente nei rapporti con gli Stati Uniti d’America e non con i paesi del «socialismo reale». Nel 1956, infatti, l’Unione Sovietica aveva già represso nel sangue la rivolta ungherese. I partiti comunisti dell’Europa occidentale non condannarono, anzi giustificarono, l’intervento delle truppe sovietiche in nome della protezione del blocco socialista e Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, dichiarò: «si sta con la propria parte anche quando sbaglia» . La maggioranza di quanti condivisero questa posizione se ne pentì amaramente quando, anni dopo, compresero gli effetti devastanti prodotti dall’intervento sovietico.

Eventi analoghi accaddero in piena epoca di Coesistenza Pacifica, in Cecoslovacchia, nel 1968. Alle richieste di democratizzazione e di decentramento economico, fiorite con la «Primavera di Praga», il politburo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica rispose, con deliberazione unanime, inviando mezzo milione di soldati e migliaia di carri armati. Al congresso del Partito Operaio Unificato Polacco, del 1968, Leonid Brežnev spiegò di voler dare concreta attuazione a un principio che definì di «sovranità limitata». Egli affermò che «quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti». Secondo questa logica antidemocratica, la scelta di stabilire cosa fosse o non fosse «socialismo» era, naturalmente, puro arbitrio dei dirigenti sovietici. Questa volta, le critiche a sinistra non mancarono e furono, anzi, prevalenti. La riprovazione nei confronti dell’Unione Sovietica non fu espressa soltanto dai neonati movimenti della nuova sinistra, ma dalla maggioranza dei partiti comunisti e anche dalla Cina. Ciò nonostante, i russi non fecero marcia indietro e portarono a compimento quello che definirono essere un processo di «normalizzazione». L’Unione Sovietica continuò a destinare una parte significativa delle sue risorse economiche alle spese militari e ciò contribuì all’affermazione di una cultura autoritaria e di guerra nella società. Così facendo, si alienò, definitivamente, le simpatie del movimento per la pace, divenuto ancora più vasto in occasione delle straordinarie mobilitazioni contro la guerra in Vietnam.

Uno dei principali avvenimenti bellici verificatisi nel decennio successivo fu l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nel 1979, l’Armata Rossa tornò ad essere lo strumento principale della politica estera di Mosca, che continuava ad arrogarsi il diritto di intervenire in quella che riteneva essere la propria «zona di sicurezza». L’infausta decisione di occupare l’Afghanistan si trasformò in un estenuante stillicidio che si protrasse per oltre dieci anni, causando un numero ingente di morti e profughi. In questa occasione, le reticenze del movimento comunista internazionale furono molto minori rispetto a quelle palesatesi dinanzi agli attacchi sovietici in Ungheria e in Cecoslovacchia. Tuttavia, questa nuova guerra rese ancora più evidente, all’opinione pubblica mondiale, la frattura esistente tra il «socialismo reale» e una politica alternativa, fondata sull’opposizione al militarismo e sulla pace.
L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’Unione Sovietica venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli Stati Uniti d’America che, parallelamente, dall’inizio della guerra fredda, si erano distinti per aver promosso, più o meno segretamente, colpi di stato e la sostituzione di governi democraticamente eletti in oltre 20 paesi del mondo. Infine, le «guerre socialiste» tra Cambogia e Vietnam e tra Cina e Vietnam, scoppiate nel biennio 1977-1979 e aventi come sfondo la crisi sino-sovietica, contribuirono a fare cadere l’ultima arma ancora nelle mani dell’ideologia «marxista-leninista» (che, in realtà, dell’impianto iniziale di Marx ed Engels aveva conservato ben poco), secondo la quale la guerra era determinata esclusivamente dagli squilibri economici generati dal capitalismo.

Se è sinistra, è contro la guerra
La fine della Guerra Fredda non ha diminuito le ingerenze nella sovranità territoriale dei singoli paesi, né ha accresciuto il livello di libertà, di ogni popolo, quanto a poter scegliere il regime politico dal quale intende essere governato. Le tante guerre intraprese – anche senza il mandato dell’ONU e definite, per assurdo, «umanitarie» – dagli Stati Uniti d’America negli ultimi venticinque anni, alle quali si sono aggiunte nuove forme di conflitti, di sanzioni illegali, e di condizionamenti politici, economici e mediatici, testimoniano che al bipolarismo tra le due superpotenze mondiali, caratteristico del «secolo breve», non è seguita l’era di libertà e progresso tanto propagandata dal mantra neoliberale del «Nuovo Ordine Mondiale» post-1991. In questo contesto, numerose forze politiche che un tempo si richiamavano ai valori della sinistra sono state compartecipi di diversi conflitti bellici e, dal Kosovo, all’Afghanistan, all’Iraq – per citare soltanto le principali guerre dichiarate dalla NATO, dopo la caduta del Muro di Berlino –, hanno, di volta in volta, dato il loro sostegno all’intervento armato, rendendosi sempre meno distinguibili dalla destra.

La Guerra Russo-Ucraina ha posto la sinistra nuovamente di fronte al dilemma del come comportarsi quando un paese vede minacciata la propria legittima sovranità. La mancata condanna dell’attacco della Russia all’Ucraina da parte del governo del Venezuela è un errore politico. Non disapprovare oggi l’invasione russa compromette la credibilità di denuncia verso altre aggressioni che potrebbero essere condotte, in futuro, dagli Stati Uniti d’America. È vero, come scrisse Marx a Ferdinand Lassalle, in una lettera del 1860, che «in politica estera parole come ‘reazionario’ e ‘rivoluzionario’ non servono a nulla» e che quanto «è reazionario dal punto di vista soggettivo» può rivelarsi «oggettivamente rivoluzionario in politica estera» . Tuttavia, le forze di sinistra avrebbero dovuto apprendere dal Novecento che le alleanze con il «nemico del mio nemico» conducono, spesso, ad accordi controproducenti. Ciò è ancor più vero quando, come nel nostro tempo storico, il fronte progressista è politicamente debole, teoricamente confuso e, inoltre, non è incalzato dalla forza delle mobilitazioni di massa.

Rammentando il Lenin di La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione (1916), «il fatto che la lotta per la libertà nazionale contro una potenza imperialista può essere utilizzata, in certe condizioni, da un’altra grande potenza per i suoi scopi egualmente imperialisti, non può costringere la socialdemocrazia a rinunciare al riconoscimento del diritto di autodecisione delle nazioni» . Al di là degli interessi geopolitici e delle trame che, solitamente, a essi si accompagnano, le forze di sinistra hanno storicamente sostenuto il principio dell’autodeterminazione dei popoli e hanno ugualmente difeso il diritto di ogni singolo Stato a stabilire le proprie frontiere sulla base della volontà espressa dalla sua popolazione. La sinistra si è battuta contro guerre e «annessioni», perché consapevole che queste generano drammatici conflitti tra il proletariato della nazione dominante e quello della nazione oppressa e creano le condizioni affinché quest’ultimo si unisca alla propria borghesia nel considerare nemico il proletariato della nazione dominante. In Risultati della discussione sull’autodecisione (1916) Lenin scrisse: «se vincesse la rivoluzione socialista a San Pietroburgo, a Berlino e a Varsavia, il governo socialista polacco, come quello russo e tedesco, rinuncerebbe a mantenere con la violenza gli ucraini entro le frontiere dello Stato polacco» . Perché, dunque, ipotizzare che qualcosa di diverso debba essere concesso al governo nazionalista guidato da Putin?

D’altra parte, quanti a sinistra hanno ceduto alla tentazione di diventare – direttamente o indirettamente – co-belligeranti, dando vita a una nuova union sacrée (espressione coniata nel 1914, proprio per salutare l’abiura delle forze della sinistra francese che, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, decisero di avallare le scelte belliche del governo), contribuiscono a rendere sempre meno riconoscibile la distinzione tra atlantismo e pacifismo. La storia dimostra che, quando non si oppongono alla guerra, le forze progressiste smarriscono una parte essenziale della loro ragion d’essere e finiscono con l’essere inghiottite dall’ideologia del campo a loro avverso. Ciò succede ogni qual volta i partiti di sinistra fanno della loro presenza al governo la cifra fondamentale della loro azione politica – come nel caso dei comunisti italiani che appoggiarono gli interventi NATO in Kosovo e Afghanistan o, di quello odierno, della maggioranza di Unidas Podemos, che unisce la sua voce al coro unanime di tutto l’arco parlamentare spagnolo, in favore dell’invio di armi all’esercito ucraino. Già per il passato, in molti casi, questa subalternità è stata punita, anche elettoralmente, alla prima occasione possibile.

Bonaparte non è la democrazia
Quando Marx scrisse sulla Guerra di Crimea (1853-1856) per il New-York Daily Tribune compose una serie di brillanti articoli che contengono spunti di grande interesse utili per sviluppare parallelismi storici con l’oggi. Nel 1853, parlando del maggiore monarca moscovita del XV secolo – considerato colui che unificò la Russia e gettò le basi dell’autocrazia in quel paese – affermò: «basta sostituire una serie di date e nomi con degli altri e diventa chiaro che le politiche di Ivan III, e quelle della Russia di oggi, non sono semplicemente simili, ma identiche» . Purtroppo, questo esempio risuona ancora come attuale. L’anno seguente, invece, in opposizione ai democratici liberali che esaltavano la coalizione antirussa, Marx dichiarò: «è un errore definire la guerra contro la Russia come un conflitto tra libertà e dispotismo. A parte il fatto che, se ciò fosse vero, la libertà sarebbe attualmente rappresentata da un Bonaparte, l’obiettivo manifesto della guerra è il mantenimento dei trattati di Vienna, ossia di quegli stessi trattati che cancellano la libertà e l’indipendenza delle nazioni» . Se sostituissimo Bonaparte con gli Stati Uniti d’America e i trattati di Vienna con la NATO, queste osservazioni sembrano scritte per l’oggi.

La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Al di là delle spiegazioni – fornite, in queste settimane, da numerosi esperti – sulle radici del conflitto (che non ridimensionano, in alcun modo, la barbarie dell’invasione russa), la posizione di quanti suggeriscono una politica di «non allineamento» è la più efficace per far cessare la guerra al più presto e assicurare che in questo conflitto vi sia il minor numero possibile di vittime. Non si tratta affatto di comportarsi come le «anime belle» imbevute di astratto idealismo che Georg Hegel riteneva incapaci di misurarsi con la realtà concreta delle contraddizioni terrene. Al contrario, significa dare forza all’unico vero antidoto all’espansione della guerra su scala generale. A differenza delle tante voci che invocano l’aumento delle spese militari e un nuovo arruolamento, o di chi, come il Commissario Europeo per le Relazioni Esterne, afferma che è compito dell’Europa fornire al governo ucraino «gli armamenti necessari per una guerra» , va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica, basata su due punti fermi: la de-escalation e la neutralità dell’Ucraina indipendente.

Inoltre, nonostante essa appaia rafforzata a seguito delle mosse compiute dalla Russia, bisogna lavorare affinché l’opinione pubblica smetta di considerare la più grande e aggressiva macchina bellica del mondo – la NATO – come la soluzione ai problemi della sicurezza globale. Al contrario, va mostrato come questa sia un’organizzazione pericolosa e inefficace che, con la sua volontà di espansione e di dominio unipolare, contribuisce ad aumentare le tensioni belliche nel mondo.

In Il socialismo e la guerra, Lenin sostenne che i marxisti si distinguono dai pacifisti e dagli anarchici poiché riconoscono «la necessità dell’esame storico (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx sic!) di ogni singola guerra» . Continuando, affermò che «nella storia sono più volte avvenute guerre che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi con ogni guerra, sono state progressive e utili all’evoluzione dell’umanità». Se ciò è stato vero per il passato, sarebbe miope ipotizzare che possa ripetersi nel contesto di diffusione delle armi di distruzione di massa della nostra società contemporanea. Raramente le guerre – da non confondere con le rivoluzioni – hanno avuto l’effetto democratizzante auspicato dai teorici del socialismo. Al contrario, esse si sono spesso rivelate come il modo peggiore per realizzare la rivoluzione, sia per il costo di vite umane che per la distruzione delle forze produttive che esse comportano. Le guerre diffondono, infatti, un’ideologia di violenza che si unisce, spesso, a quei sentimenti nazionalistici che hanno più volte lacerato il movimento operaio. Di rado, esse rafforzano pratiche di autogestione e democrazia diretta, mentre accrescono il potere di istituzioni autoritarie. È una lezione che non andrebbe mai dimenticata anche dalle sinistre moderate.

Il monito più fecondo delle Riflessioni sulla guerra (1933) di Simone Weil discende dalla capacità di saper comprendere «come può una rivoluzione evitare la guerra». Secondo l’autrice francese, «è su questa labile possibilità che occorre puntare, o abbandonare ogni speranza». La guerra rivoluzionaria si trasforma spesso nella «tomba della rivoluzione», poiché essa non permette ai «cittadini armati, di fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza giurisdizione speciale, senza pene per i disertori». La guerra incrementa, come nessun altro fenomeno sociale, l’apparato militare, poliziesco e burocratico. Cancella «l’individuo di fronte alla burocrazia statale con il sostegno di un fanatismo esasperato», avvantaggiando la macchina statale e non i lavoratori. Pertanto, la Weil ne desunse che «se la guerra non termina al più presto e per sempre (…) si avranno solo quelle rivoluzioni che, anziché distruggere l’apparato statale lo perfezionano» o, detto ancor più chiaramente, «si finirebbe per estendere sotto altra forma il regime che ci vuole sopprimere». E per questo che, in caso di guerra, «bisogna scegliere tra l’intralciare il funzionamento della macchina bellica, della quale siamo un ingranaggio, e l’aiutare quella macchina a stritolare alla cieca le vite umane» .

Per la sinistra, diversamente dal celebre detto di Carl von Clausewitz, la guerra non può essere «la continuazione della politica con altri mezzi». In realtà, essa altro non è se non la certificazione del suo fallimento. Se la sinistra vuole tornare a essere egemone e dimostrare di essere capace di declinare la sua storia per i compiti dell’oggi, deve scrivere sulle proprie bandiere, in maniera indelebile, le parole «antimilitarismo» e «no alla guerra!»

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Nella storia della sinistra la discriminante dell’adesione alla guerra

Il pensiero socialista ha offerto il suo apporto più interessante alla comprensione del fenomeno della guerra evidenziando il forte nesso esistente tra lo sviluppo del capitalismo e la propagazione della guerra. I dirigenti della Prima Internazionale evidenziarono che le guerre non sono provocate dalle ambizioni dei monarchi, bensì sono determinate dal modello economico-sociale dominante. La lezione di civiltà del movimento operaio nacque dal convincimento che ogni guerra andava considerata “come una guerra civile”. Nel Capitale, Marx affermò che la violenza era una potenza economica, “la levatrice di ogni vecchia società che è gravida di una nuova”. Tuttavia, non concepì la guerra come una necessaria scorciatoia per la trasformazione rivoluzionaria e impiegò una parte consistente della sua militanza politica per vincolare la classe operaia al principio della solidarietà internazionale.

Con l’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee, la controversia sulla guerra assunse un peso sempre più rilevante nel dibattito della Seconda Internazionale. Nel congresso della sua fondazione, venne approvata una mozione che sanciva la pace quale “condizione prima indispensabile di ogni emancipazione operaia”. Tuttavia, con il passare degli anni, essa si impegnò sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace e la maggior parte delle forze riformiste europee finì con l’appoggiare la Prima Guerra Mondiale. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Il movimento operaio condivise gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. Per Lenin, invece, i rivoluzionari dovevano “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, poiché quanti volevano una pace veramente “democratica e duratura” dovevano eliminare la borghesia e i governi colonialisti.

La “Grande Guerra” procurò divisioni anche nel movimento anarchico. Kropotkin postulò la necessità di “resistere a un aggressore che rappresenta l’annientamento di tutte le nostre speranze di emancipazione”. La vittoria della Triplice Intesa contro la Germania costituiva il male minore per non compromettere il livello di libertà esistente. Al contrario, Malatesta espresse la convinzione che la responsabilità del conflitto non poteva ricadere su un singolo governo e che non andava “fatta nessuna distinzione tra guerra offensiva e difensiva”.
Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. La necessità di sostituire gli uomini inviati al fronte, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche nel movimento suffragista. Contrastare quanti agitavano lo spauracchio dell’aggressore, per derubricare fondamentali riforme sociali, fu una delle conquiste più significative della Luxemburg e delle femministe comuniste del tempo. Esse indicarono come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato.

Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l’URSS fu impegnata in quella Grande Guerra Patriottica che divenne, poi, un elemento centrale dell’unità nazionale russa. Con la suddivisione del mondo in due blocchi, Stalin ritenne che il compito principale del movimento comunista internazionale fosse la salvaguardia dell’URSS. La costituzione di una zona cuscinetto di otto paesi, in Europa dell’Est, rappresentò un elemento centrale di questa politica. Con Chruščëv, venne inaugurato un ciclo politico che prese il nome di Coesistenza Pacifica. Tuttavia, questo tentativo di “collaborazione costruttiva” fu intrapreso esclusivamente nei rapporti con gli USA e non con i paesi del “socialismo reale”. Nel 1956, l’URSS aveva già represso nel sangue la rivolta ungherese. Eventi analoghi accaddero in Cecoslovacchia, nel 1968. Alle richieste di democratizzazione, fiorite con la “Primavera di Praga”, il PCUS rispose inviando mezzo milione di soldati. Brežnev spiegò di attuare seguendo un principio che venne definito di “sovranità limitata”. Con l’invasione dell’Afghanistan, nel 1979, l’Armata Rossa tornò ad essere lo strumento principale della politica estera di Mosca, che continuava ad arrogarsi il diritto di intervenire in quella che riteneva essere la propria “zona di sicurezza”. L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’URSS venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli USA. La fine della Guerra Fredda non ha diminuito le ingerenze nella sovranità territoriale dei singoli paesi, né ha accresciuto il livello di libertà, di ogni popolo, quanto a poter scegliere il regime politico dal quale intende essere governato.

Quando Marx scrisse sulla Guerra di Crimea, nel 1854, affermò, in opposizione ai democratici liberali che esaltavano la coalizione antirussa: “è un errore definire la guerra contro la Russia come un conflitto tra libertà e dispotismo. A parte il fatto che, se ciò fosse vero, la libertà sarebbe attualmente rappresentata da un Bonaparte, l’obiettivo manifesto della guerra è il mantenimento dei trattati di Vienna, ossia di ciò che cancella la libertà e l’indipendenza delle nazioni”. Se sostituissimo Bonaparte con gli USA e i trattati di Vienna con la NATO, queste osservazioni sembrano scritte per l’oggi.
La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica, basata su due punti fermi: la de-escalation e la neutralità dell’Ucraina indipendente.

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Alienazione, storia di un concetto

Da quando sono stati pubblicati per la prima volta negli anni Trenta, i primi scritti di Karl Marx sull’alienazione sono serviti come pietra di paragone radicale nei campi del pensiero sociale e filosofico, dando vita a consensi, contestazioni e dibattiti. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx sviluppò per la prima volta il concetto di lavoro alienato, spingendosi oltre le nozioni filosofiche, religiose e politiche esistenti di alienazione per collocarlo nella sfera economica della produzione materiale. Si è trattato di una mossa rivoluzionaria e l’alienazione è stato un concetto che Marx non ha mai messo da parte e che avrebbe continuato a perfezionare e sviluppare nei decenni successivi. Sebbene i teorici sul tema dell’alienazione abbiano, per la maggior parte, continuato a fare uso dei primi scritti di Marx, è nell’opera successiva che Marx fornisce un resoconto più completo e sviluppato dell’alienazione, nonché una teoria del suo superamento. Nei taccuini dei Grundrisse (1857-58), così come in altri manoscritti preparatori de Il Capitale (1867), Marx propone una concezione dell’alienazione che trova storicamente fondamento nella sua analisi dei rapporti sociali sotto il capitalismo. Se questo importante aspetto della teoria di Marx è stato finora sottovalutato, resta la chiave per comprendere cosa intendesse il Marx maturo per alienazione – e contribuisce a dare gli strumenti concettuali che saranno necessari per trasformare il sistema economico e sociale dell’ipersfruttamento in cui viviamo oggi.

Una lunga traiettoria
Il primo resoconto sistematico dell’alienazione è stato fornito da Hegel ne La fenomenologia dello spirito (1807), dove i termini Entausserung («alienazione»), Entfremdung («straniamento») e Vergegenständlichung (letteralmente: «oggettivazione») sono stati usati per descrivere il divenire altro da sé dello Spirito nel regno dell’oggettività. Il concetto di alienazione continuò a occupare un posto di rilievo negli scritti della sinistra hegeliana e Ludwig Feuerbach sviluppò una teoria dell’alienazione religiosa in L’essenza del cristianesimo (1841) dove descrisse la proiezione dell’uomo della propria essenza su una divinità immaginaria. Ma il concetto di alienazione è in seguito sparito dalla riflessione filosofica, e nessuno dei maggiori pensatori della seconda metà dell’Ottocento vi prestò grande attenzione. Anche Marx usava raramente questo termine nelle opere pubblicate mentre era in vita, e la discussione sull’alienazione era palesemente assente dal marxismo della Seconda Internazionale (1889-1914). Fu durante questo periodo, tuttavia, che diversi pensatori svilupparono concetti che in seguito vennero associati all’alienazione. Nei suoi La divisione del lavoro sociale (1893) e Il suicidio. Studio di sociologia (1897), Émile Durkheim introdusse il concetto di «anomia» per indicare un insieme di fenomeni in base ai quali le norme che garantiscono la coesione sociale entrano in crisi a seguito di una maggiore estensione della divisione del lavoro. Alla base del pensiero dei sociologi tedeschi c’erano anche gli sconvolgimenti sociali associati ai grandi cambiamenti nel processo di produzione. Georg Simmel in La filosofia del denaro (1900) ha prestato grande attenzione al dominio delle istituzioni sociali sugli individui e alla crescente impersonalità delle relazioni umane. Max Weber, in Economia e società (1922), si sofferma sui fenomeni di «burocratizzazione» e di «calcolo razionale» nelle relazioni umane, ritenendoli l’essenza del capitalismo. Ma questi autori pensavano di descrivere tendenze inarrestabili delle relazioni umane e le loro riflessioni erano spesso guidate dal desiderio di migliorare l’ordine sociale e politico esistente, non certo di sostituirlo con uno diverso.

Il ritorno a una teoria marxista dell’alienazione avvenne in gran parte grazie a György Lukács, che in Storia e coscienza di classe (1923) introdusse il termine «reificazione» (Versachlichung) per descrivere il fenomeno per cui l’attività lavorativa si confronta con gli esseri umani come qualcosa di oggettivo e indipendente, dominandoli attraverso leggi autonome esterne. Quando i Manoscritti economici e filosofici del 1844 apparvero finalmente in tedesco nel 1932, il testo inedito della giovinezza di Marx fece scalpore in tutto il mondo. Il concetto di alienazione di Marx descriveva il prodotto del lavoro di fronte al lavoro «come qualcosa di estraneo, come un potere indipendente dal produttore». Elencò i quattro modi in cui l’operaio è alienato nella società borghese: (1) dal prodotto del suo lavoro, che diventa «un oggetto estraneo che ha potere su di lui»; (2) nella sua attività lavorativa, che percepisce come «diretta contro sé stesso», come se «non gli appartenesse»; (3) dall’«essere specie dell’uomo», che si trasforma in «un essere a lui estraneo»; e (4) da altri esseri umani, e in relazione «al loro lavoro e all’oggetto del lavoro». Per Marx, a differenza di Hegel, l’alienazione non coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, ma piuttosto con un fenomeno specifico all’interno di una forma precisa di economia: cioè il lavoro salariato e la trasformazione dei prodotti del lavoro in oggetti contrapposti ai produttori. Mentre Hegel presentava l’alienazione come una manifestazione ontologica del lavoro, Marx la concepiva come caratteristica di una particolare fase della produzione: il capitalismo.

Divergendo fondamentalmente da Marx, nella prima parte del ventesimo secolo, la maggior parte degli autori che si sono occupati dell’alienazione la consideravano un aspetto universale della vita. In Essere e tempo (1927), Martin Heidegger affronta l’alienazione in termini puramente filosofici. La categoria da lui usata per la sua fenomenologia dell’alienazione era «caduta» [Verfallen], cioè la tendenza dell’esistenza umana a perdersi nell’inautenticità del mondo circostante. Heidegger considerava questa caduta non come una «proprietà cattiva e deplorevole di cui forse gli stadi più avanzati della cultura umana potrebbero liberarsi», ma piuttosto come «una forma esistenziale di Essere-nel-mondo», come una realtà che fa parte della dimensione fondamentale della storia. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’alienazione divenne un tema ricorrente – sia in filosofia che in letteratura – sotto l’influenza dell’esistenzialismo francese. Ma si identificava con un diffuso malcontento dell’uomo nella società, una scissione tra l’individualità umana e il mondo dell’esperienza, una condizione umana insormontabile. La maggior parte dei filosofi esistenzialisti non proponeva un’origine sociale per l’alienazione, la vedeva come inevitabilmente legata a tutta la «fatticità» (senza dubbio il fallimento dell’esperienza sovietica ha favorito tale visione) e l’alterità umana. Marx aveva contribuito a sviluppare una critica della sottomissione umana nei rapporti di produzione capitalistici. Gli esistenzialisti, al contrario, hanno cercato di assorbire quelle parti dell’opera di Marx che ritenevano utili per il loro approccio, ma in una discussione meramente filosofica priva di uno specifico resoconto storico.

Per Herbert Marcuse, come per gli esistenzialisti, l’alienazione era associata all’oggettivazione in quanto tale, piuttosto che a una condizione particolare sotto il capitalismo. In Eros e civiltà (1955), si allontanò da Marx, sostenendo che l’emancipazione umana può essere raggiunta solo con l’abolizione – non la liberazione – del lavoro e con l’affermazione della libido e del gioco nelle relazioni sociali. Marcuse alla fine si oppose al dominio tecnologico in generale, perdendo la specificità storica che legava l’alienazione ai rapporti capitalistici di produzione, e le sue analisi sul cambiamento sociale erano pessimiste al punto che spesso la classe operaia veniva associata ai soggetti che agivano in difesa del sistema.

L’irresistibilità delle teorie dell’alienazione
Un decennio dopo l’intervento di Marcuse, il termine alienazione è entrato nel vocabolario della sociologia nordamericana. La sociologia tradizionale lo ha trattato come un problema dell’essere umano individuale, non delle relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni è stata centrata sulla capacità degli individui di adattarsi all’ordine esistente piuttosto che su pratiche collettive per cambiare la società. Questo importante cambiamento di approccio ha finito per mettere in secondo piano l’analisi dei fattori storico-sociali. Nella tradizione marxista il concetto di alienazione aveva contribuito ad alcune delle critiche più acute al modo di produzione capitalistico, ma la sua istituzionalizzazione nel campo della sociologia lo ha ridotto a fenomeno di disadattamento individuale alle norme sociali. Queste interpretazioni hanno contribuito a un impoverimento teorico del discorso sull’alienazione, che – lungi dall’essere un fenomeno complesso legato all’attività lavorativa dell’uomo – è diventato, per alcuni sociologi, un fenomeno positivo, un mezzo per esprimere la creatività. In questa veste, la categoria dell’alienazione è stata diluita al punto da essere virtualmente priva di significato.

Nello stesso periodo, la categoria dell’alienazione si è fatta strada nella psicoanalisi. Erich Fromm l’ha utilizzata per cercare di costruire un ponte verso il marxismo. Per Fromm, tuttavia, l’enfasi era sulla soggettività, e la sua nozione di alienazione, riassunta in Psicanalisi della società contemporanea (1955) come «una modalità di esperienza in cui l’individuo sperimenta sé stesso come estraneo», rimaneva ancora troppo centrata sull’individuo. Il resoconto di Fromm del concetto di Marx si basava esclusivamente sui Manoscritti economico-filosofici e metteva da parte il ruolo del lavoro alienato nel pensiero di Marx. Questa lacuna impediva a Fromm di dare il giusto peso all’alienazione oggettiva (quella del lavoratore nel processo lavorativo e in relazione al prodotto del lavoro).

Negli anni Sessanta, le teorie dell’alienazione sono diventate di moda e il concetto è parso esprimere alla perfezione lo spirito dell’epoca. In La società dello spettacolo di Guy Debord (1967), la teoria dell’alienazione si collegava alla critica della produzione immateriale: «Con la Seconda rivoluzione industriale, il consumo alienato è diventato un dovere per le masse tanto quanto la produzione alienata». In La società dei consumi (1970), Jean Baudrillard ha preso le distanze dall’attenzione marxista sulla centralità della produzione e ha identificato il consumo come il fattore primario nella società moderna. La crescita della pubblicità e dei sondaggi di opinione aveva creato bisogni spuri e consenso di massa in un’«era di consumo» e «alienazione radicale». La diffusione del termine, tuttavia, insieme alla sua applicazione indiscriminata, ha creato una profonda ambiguità concettuale. Nel giro di pochi anni, l’alienazione si è trasformata fino a descrivere quasi tutto nello spettro dell’infelicità umana; è diventato un fenomeno così totalizzante da generare la convinzione che non avrebbe mai potuto essere modificato. Con centinaia di libri e articoli pubblicati sull’argomento in tutto il mondo, ci si trovava nell’era dell’alienazione tout court. Autori di varie estrazioni politiche e discipline accademiche hanno identificato tra le sue cause la mercificazione, l’eccessiva specializzazione, l’anomia, la burocratizzazione, il conformismo, il consumismo, la perdita del senso di sé tra le nuove tecnologie, l’isolamento personale, l’apatia, l’emarginazione sociale o etnica e l’inquinamento ambientale. Il dibattito ha assunto tratti ancora più paradossali nel contesto accademico nordamericano, dove il concetto di alienazione ha subito una vera e propria distorsione e ha finito per essere utilizzato dai difensori delle stesse classi sociali contro cui per tanto tempo era stato diretto.

L’alienazione secondo Karl Marx
I Grundrisse, scritti nel 1857-1858, forniscono il miglior resoconto di Marx sul tema dell’alienazione, sebbene rimasti inediti anche in Germania fino al 1939. Quando il testo fu infine tradotto in lingue europee e asiatiche alla fine degli anni Sessanta, con l’edizione in inglese del 1973, gli studiosi concentrarono maggiormente la loro attenzione sul modo in cui Marx concettualizzava l’alienazione nei suoi scritti maturi. Il resoconto dei Grundrisse ricordava le analisi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, ma si arricchiva di una comprensione molto maggiore delle categorie economiche e di un’analisi sociale più rigorosa. Nei Grundrisse, Marx ha usato più di una volta il termine «alienazione» e ha sostenuto che nel capitalismo

Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra cose; la capacità personale, in una capacità delle cose.

I Grundrisse non furono l’unico testo incompiuto della maturità di Marx a presentare un resoconto dell’alienazione. Cinque anni dopo la sua stesura, Il Capitale, Libro 1, Capitolo IV inedito (1863-1864) ha avvicinato le analisi economiche e politiche dell’alienazione. «Il dominio del capitalista sull’operaio – scriveva Marx – è il dominio delle cose sugli esseri umani, del lavoro morto sui vivi, del prodotto sul produttore». Nella società capitalistica, in virtù della «trasposizione della produttività sociale del lavoro negli attributi materiali del capitale», si ha una vera e propria «personificazione delle cose e reificazione delle persone», dando l’impressione che «le condizioni materiali del lavoro non siano soggette al lavoratore, ma lui a loro». Marx ha fornito un resoconto simile – molto più elaborato di quello dei suoi primi scritti filosofici – in una famosa sezione del Capitale: «Il feticismo della merce e il suo segreto». Per Marx, nella società capitalista, le relazioni tra le persone non appaiono «come relazioni sociali dirette tra le persone… ma piuttosto come rapporti materiali tra le persone e rapporti sociali tra le cose». Questo fenomeno è quello che definì «il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci». Il feticismo delle merci non ha sostituito l’alienazione dei suoi primi scritti. Nella società borghese, sosteneva Marx, le qualità e le relazioni umane si trasformano in qualità e relazioni tra le cose. Questa teoria di ciò che Lukács chiamerebbe reificazione illustrava questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattava in relazione alle merci. «Nella società borghese – sosteneva Marx – le qualità e le relazioni umane si trasformano in qualità e relazioni tra le cose».

La diffusione degli scritti di Marx sull’alienazione ha aperto la strada a un allontanamento dalla concettualizzazione del fenomeno da parte della sociologia e della psicologia tradizionali. Il resoconto dell’alienazione di Marx era orientato al suo superamento nella pratica, all’azione politica dei movimenti sociali, dei partiti e dei sindacati per cambiare le condizioni di lavoro e di vita della classe operaia. La pubblicazione di quella che, dopo i Manoscritti economico-filosofici del 1844 degli anni Trenta, può essere pensata come la «seconda generazione» degli scritti di Marx sull’alienazione ha quindi fornito non solo una base teorica coerente per nuovi studi sull’alienazione, ma soprattutto una piattaforma ideologica anticapitalista per gli straordinari movimenti politici e sociali esplosi nel mondo in quegli anni. L’alienazione è andata oltre i libri dei filosofi e le aule universitarie. È scesa in piazza ed è entrata nelle lotte operaie, è diventata una critica della società borghese in generale.

Dagli anni Ottanta del Novecento, il mondo del lavoro ha subito una sconfitta epocale, il sistema economico globale è più sfruttatore che mai e la sinistra è ancora nel bel mezzo di una profonda crisi. Certo, Marx non può dare una risposta a molti problemi contemporanei, ma individua le questioni essenziali. In una società dominata dal libero mercato e dalla concorrenza tra individui, il racconto dell’alienazione di Marx continua a fornire uno strumento critico indispensabile sia per comprendere che per criticare il capitalismo oggi.

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Il vecchio Karl Marx

Il lavoro dei suoi ultimi anni di vita, tra il 1881 e il 1883, è uno dei settori meno sviluppati all’interno degli studi su Karl Marx. Questa negligenza è in parte dovuta al fatto che le infermità di Marx in quel periodo gli hanno impedito di scrivere in modo regolare, non ci sono praticamente opere pubblicate risalenti a quella fase.

In mancanza delle pietre miliari che hanno caratterizzato il primo lavoro di Marx, dai suoi primi scritti filosofici ai successivi studi di economia politica, i biografi hanno a lungo considerato quegli ultimi anni come un capitolo minore segnato dal declino della salute e dalla crollo delle capacità intellettuali.

Tuttavia, c’è un numero crescente di ricerche che suggerisce che questa storia non è esaustiva e che gli ultimi anni di Marx potrebbero effettivamente essere una miniera d’oro piena di nuove intuizioni sul suo pensiero. In gran parte contenuti in lettere, quaderni e altri marginalia, gli ultimi scritti di Marx ritraggono un uomo che, lontano da quello che si considerava un declino, ha continuato a lottare con le proprie idee a proposito del capitalismo come modo di produzione globale. Come suggerito dalle sue ultime ricerche sulle cosiddette «società primitive», sulla comune agraria russa del diciannovesimo secolo e sulla «questione nazionale» nelle colonie europee, gli scritti di Marx di quel periodo rivelano in realtà una mente che si interroga sulle implicazioni nel mondo reale e sulla complessità del suo stesso pensiero, in particolare sull’espansione del capitalismo oltre i confini europei.

Il pensiero dell’ultimo Marx è l’oggetto del libro di Marcello Musto L’ultimo Marx. Qui, Musto intreccia magistralmente ricchi dettagli biografici e l’impegno sofisticato con la scrittura matura, spesso auto-interrogativa di Marx.

Il redattore di Jacobin Nicolas Allen ha parlato con Musto della complessità dello studio degli ultimi anni di vita di Marx e del motivo per cui alcuni degli ultimi dubbi e perplessità di Marx ci tornano più utili di alcune delle sue prime affermazioni più sicure.


L’ultimo Marx di cui scrivi, coprendo approssimativamente gli ultimi tre anni della sua vita negli anni Ottanta dell’Ottocento, è spesso trattato come un ripensamento per i marxisti e gli studiosi di Marx. A parte il fatto che Marx non ha pubblicato grandi opere nei suoi ultimi anni, perché pensi che il periodo abbia ricevuto molta meno attenzione?

Tutte le biografie intellettuali di Marx pubblicate fino a oggi hanno dedicato pochissima attenzione all’ultimo decennio della sua vita, dedicando di solito non più di poche pagine alla sua attività dopo lo scioglimento dell’Associazione internazionale dei lavoratori nel 1872. Non a caso, questi studiosi usano quasi sempre il titolo generico «L’ultimo decennio» per queste parti (molto brevi) dei loro libri. Mentre questo interesse limitato è comprensibile per studiosi come Franz Mehring (1846-1919), Karl Vorländer (1860-1928) e David Riazanov (1870-1938), che scrissero biografie di Marx tra le due guerre mondiali e poterono concentrarsi solo su un numero limitato di manoscritti inediti, per chi è venuto dopo quell’epoca turbolenta la questione è più complessa.

Due degli scritti più noti di Marx – i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e L’ideologia tedesca (1845-1846), entrambi molto lontani dall’essere completati – furono pubblicati nel 1932 e iniziarono a circolare solo nella seconda metà degli anni Quaranta. Mentre la Seconda guerra mondiale lasciava il posto a un senso di profonda angoscia derivante dalle barbarie del nazismo, in un clima in cui si affermavano filosofie come l’esistenzialismo, il tema della condizione dell’individuo nella società acquisì grande risalto e creò le condizioni perfette per un crescente interesse per le idee filosofiche di Marx, come l’alienazione e l’essere umano. Le biografie di Marx pubblicate in questo periodo, proprio come la maggior parte dei volumi accademici usciti dal mondo accademico, riflettevano questo spirito del tempo e davano un peso eccessivo ai suoi scritti giovanili. Molti dei libri che pretendevano di introdurre i lettori al pensiero di Marx nel suo insieme, negli anni Sessanta e Settanta, erano per lo più incentrati sul periodo 1843-48, quando Marx, al momento della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista (1848), aveva solo trent’anni.

In questo contesto, non solo l’ultimo decennio della vita di Marx è stato trattato come un ripensamento, ma lo stesso Capitale è stato relegato in una posizione secondaria. Il sociologo liberale Raymond Aron descrisse perfettamente questo atteggiamento nel libro Marxismi immaginari: da una sacra famiglia all’altra (1969), dove si beffava dei marxisti parigini che passavano frettolosamente al Capitale, suo capolavoro e frutto di molti anni di lavoro, pubblicato nel 1867, e rimase affascinato dall’oscurità e dall’incompletezza dei Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Possiamo dire che il mito del «Giovane Marx» – alimentato anche da Louis Althusser e da chi sosteneva che la giovinezza di Marx non poteva essere considerata parte del marxismo – è stato uno dei principali equivoci nella storia degli studi su Marx. Marx non pubblicò opere che avrebbe considerato «maggiori» nella prima metà degli anni Quaranta. Ad esempio, se vogliamo capire il suo pensiero politico, si devono leggere i discorsi e le risoluzioni di Marx per l’Associazione internazionale dei lavoratori, non gli articoli di giornale del 1844 apparsi nell’Annuario franco-tedesco. E anche se analizziamo i suoi manoscritti incompleti, i Grundrisse (1857-58) o le Teorie del plusvalore (1862-1863), questi erano per lui molto più significativi della critica al neo-hegelismo in Germania, «abbandonato al rosicchiare le critiche ai topi» nel 1846. La tendenza a dare eccessiva enfasi ai suoi primi scritti non è cambiata molto dalla caduta del muro di Berlino. Le biografie più recenti — nonostante la pubblicazione di nuovi manoscritti nel Marx-Engels-Gesamtausgabe (Mega), l’edizione storico-critica delle opere complete di Marx e Friedrich Engels (1820-1895) — si affacciano proprio su questo periodo.

Un altro motivo di questa negligenza è l’elevata complessità della maggior parte degli studi condotti da Marx nella fase finale della sua vita. Scrivere del giovane studente della sinistra hegeliana è molto più facile che cercare di superare l’intricato groviglio di manoscritti multilingue e interessi intellettuali dei primi anni Ottanta dell’Ottocento, e questo potrebbe aver ostacolato una comprensione più rigorosa delle importanti conquiste raggiunte da Marx. Pensando erroneamente di aver rinunciato all’idea di continuare il suo lavoro e di rappresentare gli ultimi dieci anni della sua vita come «una lenta agonia», troppi biografi e studiosi di Marx non sono riusciti ad approfondire ciò che effettivamente fece in quel periodo.


Nel recente film Miss Marx, c’è una scena subito dopo il funerale di Marx che mostra Friedrich Engels ed Eleanor, la figlia più giovane di Marx, che setacciano carte e manoscritti nello studio di Marx. Engels esamina un articolo e fa un’osservazione sul tardo interesse di Marx per le equazioni differenziali e la matematica. Gli ultimi anni di Karl Marx sembrano dare l’impressione che, nei suoi ultimi anni, la gamma di interessi di Marx fosse particolarmente ampia. C’era un filo conduttore che teneva insieme questa preoccupazione per argomenti così diversi come l’antropologia, la matematica, la storia antica e il genere?

Poco prima della sua morte, Marx chiese a sua figlia Eleanor di ricordare a Engels di «fare qualcosa» con i suoi manoscritti incompiuti. Come è noto, per i dodici anni in cui sopravvisse a Marx, Engels intraprese l’ardua impresa di mandare in stampa i volumi II e III del Capitale ai quali l’amico aveva lavorato ininterrottamente dalla metà degli anni Sessanta al 1881 ma non era riuscito a portare a termine. Altri testi scritti dallo stesso Engels dopo la morte di Marx nel 1883 compivano indirettamente la sua volontà ed erano strettamente legati alle indagini da lui condotte negli ultimi anni della sua vita. Ad esempio, Le origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) fu chiamato dal suo autore «l’esecuzione di un lascito» e si ispirò alle ricerche antropologiche di Marx, in particolare ai brani che copiò, nel 1881, dall’Ancient Society di Lewis Henry Morgan (1877) e dai commenti che ha aggiunto ai riassunti di questo libro.

Non c’è solo un filo conduttore negli ultimi anni di ricerca di Marx. Alcuni dei suoi studi nascevano semplicemente da recenti scoperte scientifiche su cui desiderava rimanere aggiornato, o da eventi politici che considerava significativi. Marx aveva già appreso in precedenza che il livello generale di emancipazione in una società dipendeva dal livello di emancipazione delle donne, ma gli studi antropologici condotti negli anni Ottanta dell’Ottocento gli diedero l’opportunità di analizzare in modo più approfondito l’oppressione di genere. Marx ha dedicato molto meno tempo alle questioni ecologiche rispetto ai due decenni precedenti, ma d’altra parte si è nuovamente immerso nei temi storici. Tra l’autunno 1879 e l’estate 1880, ha compilato un taccuino intitolato Notes on Indian History (664-1858), e tra l’autunno 1881 e l’inverno 1882 ha lavorato intensamente sui cosiddetti estratti cronologici, una cronologia anno per anno annotata di 550 pagine scritte con una calligrafia ancora più piccola del solito. Questi includevano riassunti di eventi mondiali, dal I secolo a.C. alla Guerra dei Trent’anni nel 1648, riassumendone le cause e le caratteristiche salienti.

È possibile che Marx volesse verificare se le sue concezioni fossero ben fondate alla luce dei principali sviluppi politici, militari, economici e tecnologici. In ogni caso, bisogna tener presente che, quando Marx intraprese questo lavoro, era ben consapevole che il suo fragile stato di salute gli impediva di compiere un ultimo tentativo per completare il volume II del Capitale. La sua speranza era di apportare tutte le correzioni necessarie per preparare una terza edizione riveduta in tedesco del Volume I, ma alla fine non ebbe nemmeno la forza per farlo.

Tuttavia, non direi che la ricerca che ha condotto negli ultimi anni della sua vita è stata più ampia del solito. Forse l’ampiezza delle sue indagini è più evidente in questo periodo perché non sono state condotte parallelamente alla stesura di alcun libro o manoscritto preparatorio significativo. Ma le diverse migliaia di pagine di brani realizzati da Marx in otto lingue, fin da quando era studente universitario, da opere di filosofia, arte, storia, religione, politica, diritto, letteratura, storia, economia politica, relazioni internazionali, tecnologia, matematica, fisiologia, geologia, mineralogia, agronomia, antropologia, chimica e fisica, testimoniano la sua perpetua fame di conoscenza in una grandissima varietà di discipline. Ciò che può sorprendere è che Marx non è stato in grado di rinunciare a questa abitudine anche quando la sua forza fisica era diminuita considerevolmente. La sua curiosità intellettuale, insieme al suo spirito autocritico, ha prevalso su una gestione più mirata e «oculata» del suo lavoro.

Ma di solito queste idee su «cosa avrebbe dovuto fare Marx» sono il frutto del desiderio contorto di coloro che avrebbero voluto che fosse un individuo che non aveva fatto altro che scrivere Il Capitale, nemmeno per difendersi dalle controversie politiche in cui si trovava invischiato. Anche se una volta si definiva «una macchina, condannata a divorare libri per poi gettarli, in forma mutata, nel letamaio della storia», Marx era un essere umano. Il suo interesse per la matematica e il calcolo differenziale, ad esempio, nasce come stimolo intellettuale alla ricerca di un metodo di analisi sociale, ma diventa uno spazio ludico, un rifugio nei momenti di grande difficoltà personale, «un’occupazione per mantenere la quiete della mente», come diceva a Engels.


Nella misura in cui ci sono stati studi sugli ultimi scritti di Marx, questi tendono a concentrarsi sulla sua ricerca sulle società non europee. Riconoscendo che ci sono vie di sviluppo oltre al «modello occidentale», è giusto dire, come alcuni sostengono, che si trattava del Marx che voltava pagina, cioè un Marx «non eurocentrico»? O è più esatto dire che questa era l’ammissione di Marx che il suo lavoro non doveva mai essere applicato senza prima prestare attenzione alla realtà materiale delle diverse società storiche?

La prima e preminente chiave per comprendere la più ampia varietà di interessi geografici nella ricerca di Marx, durante l’ultimo decennio della sua vita, risiede nel suo progetto di fornire un resoconto più ampio delle dinamiche del modo di produzione capitalistico su scala globale. L’Inghilterra era stata il principale campo di osservazione del Capitale, volume I; dopo la sua pubblicazione, volle ampliare le indagini socioeconomiche per i due volumi del Capitale che restavano da scrivere. Fu per questo che nel 1870 decise di imparare il russo, per questo chiedeva costantemente libri e statistiche sulla Russia e sugli Stati uniti. Riteneva che l’analisi delle trasformazioni economiche di questi paesi sarebbe stata molto utile per comprendere le possibili forme in cui il capitalismo può svilupparsi in periodi e contesti diversi. Questo elemento cruciale è sottovalutato nella letteratura secondaria sul tema oggi di tendenza a proposito di «Marx ed eurocentrismo».

Un’altra questione chiave per la ricerca di Marx sulle società non europee era se il capitalismo fosse un prerequisito necessario per la nascita della società comunista e a quale livello doveva svilupparsi a livello internazionale. La concezione multilineare più marcata che Marx assunse nei suoi ultimi anni lo portò a guardare con maggiore attenzione alle specificità storiche e alle differenze dello sviluppo economico e politico nei diversi paesi e contesti sociali. Marx divenne molto scettico sul trasferimento di categorie interpretative tra contesti storici e geografici completamente diversi e, come scrisse, si rese conto anche che «eventi di sorprendente somiglianza, che si verificano in diversi contesti storici, portano a risultati totalmente disparati». Questo approccio ha certamente aumentato le difficoltà che ha dovuto affrontare nel corso già accidentato del completamento dei volumi incompiuti del Capitale e ha contribuito alla lenta accettazione che la sua opera principale sarebbe rimasta incompleta. Ma certamente ha aperto nuove speranze rivoluzionarie.

Contrariamente a quanto credono ingenuamente alcuni autori, Marx non scoprì improvvisamente di essere stato eurocentrico e dedicò la sua attenzione a nuove materie di studio perché sentiva il bisogno di correggere le sue opinioni politiche. Era sempre stato un «cittadino del mondo», come era solito definirsi, e aveva costantemente cercato di analizzare i cambiamenti economici e sociali nelle loro implicazioni globali. Come si è già sostenuto, Marx, come ogni altro pensatore del suo livello, era consapevole della superiorità dell’Europa moderna sugli altri continenti del mondo, in termini di produzione industriale e di organizzazione sociale, ma non ha mai ritenuto necessario questo fatto contingente o fattore permanente. E, naturalmente, è sempre stato un appassionato nemico del colonialismo. Queste considerazioni sono fin troppo ovvie per chiunque abbia letto Marx.


Uno dei capitoli centrali de L’ultimo Marx tratta del rapporto di Marx con la Russia. Come dimostrerai, Marx intrattenne un dialogo molto intenso con diverse parti della sinistra russa, in particolare intorno alla ricezione del primo volume del Capitale. Quali erano i punti principali di quei dibattiti?

Per molti anni Marx aveva identificato la Russia come uno dei principali ostacoli all’emancipazione della classe operaia. Ha sottolineato più volte che il suo lento sviluppo economico e il suo regime politico dispotico hanno contribuito a fare dell’impero zarista l’avamposto della controrivoluzione. Ma negli ultimi anni di vita, iniziò a guardare alla Russia in modo piuttosto diverso. Riconobbe alcune possibili condizioni per un’importante trasformazione sociale dopo l’abolizione della servitù della gleba nel 1861. La Russia sembrava a Marx più propensa a produrre una rivoluzione rispetto alla Gran Bretagna, dove il capitalismo aveva creato il numero proporzionalmente più grande di operai di fabbrica nel mondo, ma dove il movimento dei lavoratori, godendo di migliori condizioni di vita in parte basate sullo sfruttamento coloniale, si era indebolito e aveva subito l’influenza negativa del riformismo sindacale.

I dialoghi intrapresi da Marx con i rivoluzionari russi erano sia intellettuali che politici. Nella prima metà degli anni Settanta dell’Ottocento acquisì familiarità con la principale letteratura critica sulla società russa e dedicò particolare attenzione all’opera del filosofo socialista Nikolai Chernyshevsky (1828-1889). Riteneva che un dato fenomeno sociale che aveva raggiunto un alto grado di sviluppo nelle nazioni più avanzate potesse diffondersi molto rapidamente tra gli altri popoli e salire da un livello inferiore a uno superiore, passando nei momenti intermedi. Ciò diede a Marx molti spunti di riflessione nel riconsiderare la sua concezione materialistica della storia. Da tempo era consapevole che lo schema di progressione lineare attraverso i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno, che aveva tracciato nella prefazione a Contributo alla critica dell’economia politica (1859), era del tutto inadeguato per la comprensione del movimento della storia, e che era anzi consigliabile tenersi alla larga da qualsiasi filosofia della storia. Non poteva più concepire la successione dei modi di produzione nel corso della storia come una sequenza fissa di tappe predefinite.

Marx ha anche colto l’occasione per discutere con militanti di varie tendenze rivoluzionarie in Russia. Considerava molto il carattere concreto dell’attività politica del populismo russo – che all’epoca era un movimento anticapitalista di sinistra – soprattutto perché non ricorreva a insensate manifestazioni ultrarivoluzionarie o a generalizzazioni controproducenti. Marx valutava l’importanza delle organizzazioni socialiste esistenti in Russia per il loro carattere pragmatico, non per dichiarazione di fedeltà alle proprie teorie. Infatti, osservò che spesso erano quelli che si dicevano «marxisti» i più dottrinari. La sua esposizione alle teorie e all’attività politica dei populisti russi – come con i comunardi di Parigi un decennio prima – lo ha aiutato a essere più flessibile nell’analizzare l’irruzione degli eventi rivoluzionari e le forze soggettive che li hanno modellati. Lo ha avvicinato a un vero internazionalismo su scala globale.

Il tema centrale dei dialoghi e degli scambi che Marx ebbe con molte figure della sinistra russa era la questione molto complessa dello sviluppo del capitalismo, che aveva implicazioni politiche e teoriche cruciali. La difficoltà di questa discussione è evidenziata anche dalla scelta finale di Marx di non inviare alla rivista Otechestvennye Zapiski una lettera ficcante in cui aveva criticato alcune interpretazioni errate del Capitale, o di rispondere alla «domanda vitale» di Vera Zasulich sul futuro del comune rurale (l’obshchina) con una semplice missiva breve e cauta, e non con un testo più lungo che aveva appassionatamente scritto e riscritto attraverso tre bozze preparatorie.


La corrispondenza di Marx con la socialista russa Vera Zasulich è oggetto di molto interesse oggi. In quell’occasione Marx ha suggerito che la comune rurale russa avrebbe potuto appropriarsi degli ultimi progressi della società capitalista – la tecnologia, in particolare – senza dover subire gli sconvolgimenti sociali che erano così distruttivi per i contadini dell’Europa occidentale. Puoi spiegare un po’ più in dettaglio il pensiero che ha informato queste conclusioni di Marx?

Per una fortuita coincidenza, la lettera di Zasulich giunse a Marx proprio mentre il suo interesse per le forme arcaiche di comunità, già approfondito nel 1879 attraverso lo studio dell’opera del sociologo Maksim Kovalevsky, lo stava portando a prestare maggiore attenzione alle più recenti scoperte degli antropologi del suo tempo. Teoria e pratica lo avevano portato allo stesso punto. Attingendo alle idee suggerite dall’antropologo Morgan, scrisse che il capitalismo poteva essere sostituito da una forma superiore di produzione collettiva arcaica.

Questa ambigua affermazione richiede almeno due precisazioni. Innanzitutto, grazie a ciò che aveva appreso da Chernyshevsky, Marx sosteneva che la Russia non poteva ripetere servilmente tutte le fasi storiche dell’Inghilterra e di altri paesi dell’Europa occidentale. In linea di principio, la trasformazione socialista dell’obshchina sarebbe potuta esserci senza un passaggio attraverso il capitalismo. Ma questo non significa che Marx avesse cambiato il suo giudizio critico sulla comune rurale in Russia, o che credesse che i paesi in cui il capitalismo era ancora sottosviluppato fossero più vicini alla rivoluzione di altri con uno sviluppo produttivo più avanzato. Non si era improvvisamente convinto che le comuni rurali arcaiche fossero un luogo di emancipazione per l’individuo più avanzato delle relazioni sociali esistenti sotto il capitalismo.

In secondo luogo, la sua analisi della possibile trasformazione progressiva dell’obshchina non doveva essere elevata a un modello più generale. Si trattava di un’analisi specifica di una particolare produzione collettiva in un preciso momento storico. In altre parole, Marx dimostrò una la flessibilità teorica e una mancanza di schematismo che molti marxisti dopo di lui non sono riusciti a dimostrare. Alla fine della sua vita, Marx rivelò un’apertura teorica sempre maggiore, che gli consentì di considerare altre possibili strade al socialismo che non aveva mai preso sul serio prima o che prima aveva considerato irraggiungibili.

Il dubbio di Marx fu sostituito dalla convinzione che il capitalismo fosse una tappa inevitabile per lo sviluppo economico in ogni paese e condizione storica. Il nuovo interesse che riemerge oggi per le considerazioni che Marx non ha mai inviato a Zasulich, e per altre idee simili espresse più chiaramente nei suoi ultimi anni, risiede in una concezione della società postcapitalista che è agli antipodi dell’equazione del socialismo con le forze produttive – una concezione dai toni nazionalisti e dalla simpatia per il colonialismo, che si affermò all’interno della Seconda Internazionale e dei partiti socialdemocratici. Le idee di Marx differiscono anche profondamente dal presunto «metodo scientifico» dell’analisi sociale preponderante nell’Unione sovietica e nei suoi satelliti.


Anche se le lotte per la salute di Marx sono ben note, è ancora doloroso leggere il capitolo finale di L‘ultimo Marx, dove si racconta la sua condizione in deterioramento. Le biografie intellettuali di Marx sottolineano giustamente che per coglierlo in pieno si debbano collegare la sua vita e le sue attività politiche con il corpo del suo pensiero; ma che dire di questo periodo successivo, quando Marx era in gran parte inattivo a causa di infermità? Come autore della sua biografia intellettuale, come approcci quel periodo?

Uno dei migliori studiosi di Marx di sempre, Maximilien Rubel (1905–1996), autore del libro Karl Marx. Saggio di biografia intellettuale. Prolegomeni a una sociologia etica (1957), sosteneva che, per poter scrivere di Marx, bisogna essere allo stesso tempo un po’ filosofo, un po’ storico, un po’ economista e un po’ sociologo. Aggiungo che, scrivendo la biografia di Marx, si impara molto anche sulla medicina. Marx ha affrontato durante tutta la sua vita matura una serie di problemi di salute. La più lunga fu una brutta infezione della pelle che lo accompagnò durante tutta la stesura del Capitale e si manifestò con ascessi e foruncoli gravi e debilitanti su varie parti del corpo. Fu per questo motivo che, quando Marx terminò la sua opus magnum, scrisse: «Spero che la borghesia ricordi i miei carbonchi fino all’ultimo giorno!».

Gli ultimi due anni della sua vita furono particolarmente duri. Marx soffrì un dolore atroce per la perdita della moglie e della figlia maggiore, e aveva una bronchite cronica che si trasformò spesso in una grave pleurite. Lottò, invano, per trovare il clima che gli offrisse le condizioni migliori per guarire, e viaggiò, tutto solo, in Inghilterra, Francia e perfino in Algeria, dove intraprese un lungo periodo di complicate cure. L’aspetto più interessante di questa parte della biografia di Marx è la sagacia, sempre accompagnata da autoironia, che ha dimostrato nell’affrontare la fragilità del suo corpo. Le lettere che scriveva alle figlie e a Engels, quando sentiva che era vicino alla fine della strada, rendevano più evidente il suo lato più intimo. Rivelano l’importanza di quello che lui chiamava «il mondo microscopico», a cominciare dalla passione vitale che nutriva per i suoi nipoti. Includono le considerazioni di un uomo che ha attraversato un’esistenza lunga e intensa ed è arrivato a valutarne tutti gli aspetti.

I biografi devono raccontare le sofferenze della sfera privata, soprattutto quando sono rilevanti per comprendere meglio le difficoltà sottese alla scrittura di un libro, o le ragioni per cui un manoscritto è rimasto incompiuto. Ma devono anche sapere dove fermarsi, e devono evitare di guardare indiscretamente le faccende esclusivamente private.


Gran parte del pensiero tardo di Marx è contenuto in lettere e quaderni. Dovremmo accordare a questi scritti lo stesso status dei suoi scritti più compiuti? Quando sostieni che la scrittura di Marx è «essenzialmente incompleta», hai in mente qualcosa del genere?

Il Capitale è rimasto incompiuto a causa della miseria opprimente in cui Marx ha vissuto per due decenni e della sua costante malattia legata alle preoccupazioni quotidiane. Inutile dire che il compito che si era posto — comprendere il modo di produzione capitalistico nella sua media ideale e descriverne le tendenze generali di sviluppo — era straordinariamente difficile da realizzare. Ma non fu l’unico progetto rimasto incompleto. L’autocritica spietata di Marx ha aumentato le difficoltà di più di una delle sue imprese, e la grande quantità di tempo che ha dedicato a molti progetti che voleva pubblicare era dovuta all’estremo rigore a cui ha sottoposto tutto il suo pensiero.

Da giovane, Marx era noto tra i suoi amici universitari per la sua meticolosità. Ci sono storie che lo descrivono come qualcuno che si rifiutava di scrivere una frase se non era in grado di dimostrarla in dieci modi diversi. Ecco perché il giovane studioso più prolifico della sinistra hegeliana pubblicò ancora meno di molti altri. La convinzione di Marx che le sue informazioni fossero insufficienti e i suoi giudizi immaturi, gli impedirono di pubblicare scritti che rimasero in forma di bozze o frammenti. Ma è anche per questo che i suoi appunti sono estremamente utili e dovrebbero essere considerati parte integrante della sua opera. Molte delle sue incessanti fatiche ebbero straordinarie conseguenze teoriche per il futuro.

Ciò non toglie che ai suoi testi incompleti si possa attribuire lo stesso peso di quelli pubblicati. Distinguerei cinque tipi di scritti: opere pubblicate, i rispettivi manoscritti preparatori, articoli giornalistici, lettere e quaderni di appunti. Ma anche all’interno di queste categorie vanno fatte delle distinzioni. Alcuni dei testi pubblicati di Marx non dovrebbero essere considerati come la sua ultima parola sui problemi in questione. Il Manifesto del Partito Comunista, ad esempio, è stato considerato da Engels e Marx come un documento storico della loro giovinezza e non come il testo definitivo in cui si affermavano le loro principali concezioni politiche. Oppure bisogna tenere presente che scritti di propaganda politica e scritti scientifici spesso non sono combinabili.

Purtroppo questo tipo di errori è molto frequente nella letteratura secondaria su Marx. Per non parlare dell’assenza della dimensione cronologica in molte ricostruzioni del suo pensiero. I testi degli anni Quaranta dell’Ottocento non possono essere citati indistintamente accanto a quelli degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, poiché non hanno lo stesso peso delle conoscenze scientifiche e dell’esperienza politica. Alcuni manoscritti furono scritti da Marx solo per sé stesso, mentre altri erano veri e propri materiali preparatori per libri da pubblicare. Alcuni sono stati rivisti e spesso aggiornati da Marx, mentre altri sono stati da lui abbandonati senza possibilità di aggiornarli (in questa categoria c’è il volume III del Capitale). Alcuni articoli giornalistici contengono considerazioni che possono essere considerate un completamento delle opere di Marx. Altri, invece, sono stati scritti in fretta per raccogliere fondi per pagare l’affitto. Alcune lettere includono le opinioni autentiche di Marx sulle questioni discusse. Altri contengono solo una versione ammorbidita, perché erano rivolti a persone al di fuori della cerchia di Marx, con le quali a volte era necessario esprimersi diplomaticamente.

Per tutte queste ragioni è evidente che una buona conoscenza della vita di Marx è indispensabile per una corretta comprensione delle sue idee. Vi sono infine gli oltre duecento quaderni contenenti riassunti (e talvolta commentari) di tutti i più importanti libri letti da Marx nel lungo arco temporale che va dal 1838 al 1882. Sono indispensabili per comprendere la genesi della sua teoria e della quegli elementi che non ha saputo sviluppare come avrebbe voluto.

Le idee concepite da Marx durante gli ultimi anni della sua vita sono state raccolte principalmente all’interno di questi quaderni. Sono certamente molto difficili da leggere, ma ci danno accesso a un tesoro molto prezioso: non solo le ricerche compiute da Marx prima della sua morte, ma anche le domande che si poneva. Alcuni dei dubbi che nutriva, oggi possono esserci più utili di alcune delle sue certezze.

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Davide Bondì, Sinistra X Milano

QUALE MARX? AMBIENTALISMO, ASSOCIAZIONISMO E ANTICOLONIALISMO

Il 14 marzo 1883, Friedrich Engels bussò al n. 41 di Maitland Park Road, nella zona nord di Londra, intorno alle 14,30. La casa era in lacrime, Karl Marx era vicino alla fine. Lenchen (Helene Demuth, governante e parte integrante della famiglia) era discesa dal piano superiore e, dopo aver fatto attendere l’ospite alcuni minuti, lo aveva finalmente invitato a salire nella stanza in cui il “Moro” si era assopito. Una volta giunto, Engels si avvide che Marx, sì, giaceva «ma per non svegliarsi mai più. Non c’erano più né polso né respiro. In due minuti era spirato serenamente e senza dolore». Erano le 14,45.
Il libro di Marcello Musto (Karl Marx. 1857-1883, Torino, Einaudi, 2018) è una documentata ricostruzione della biografia politico-intellettuale di Marx dagli anni della maturità al commosso racconto della morte, che l’autore trae da una lettera di Engels a Friedrich Sorge. Per lungo tempo, gli studiosi hanno privilegiato le opere giovanili di Marx (i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e l’Ideologia tedesca del 1845-46), dove più evidente è l’itinerario del filosofo che si districa dall’abbraccio hegeliano e pone al centro della riflessione il problema dei bisogni e della praxis. Mentre il Marx maturo rimaneva in sordina e sbiadiva nell’immagine statica dello scenziato sociale costruita nella prima metà del Novecento. Musto mostra invece l’intimità del nesso esistente tra rivoluzione filosofica e pensiero sociale, teoria e indagine sperimentale negli scritti della maturità. Si pone così sulla linea della solida interpretazione che Antonio Labriola diede del materialismo storico in tre saggi di fine Ottocento, che bisognerebbe rileggere da capo (o forse leggere per la prima volta) per rintracciare il nòcciolo della «conversione totale dello spirito filosofico» promossa da Marx nella sua stessa, multiforme, opera piuttosto che in Hegel, in Spencer, in Freud o in Nietzsche (lascio al lettore il privilegio di dare un nome a queste combinazioni).
Nella prima parte, l’autore compulsa le acquisizioni testuali dell’ultima edizione critica in tedesco delle opere di Marx ed Engels (MEGA2). Individua così la genesi immediata dei tre libri del Capitale nei ricchissimi appunti consegnati ai Grundrisse (Lineamenti fondamentali, 1857-1858). Riallaccia quindi le pagine dei Grundrisse e degli altri quaderni vergati tra il 1858 e il 1867 (data di pubblicazione del primo libro) agli interventi giornalistici, senza separare lo svolgimento intellettuale dalle vicende dolorose della vita domestica e dall’impegno nella sfera politica. Sono pagine capaci di mettere in luce lo sforzo interpretativo del presente che sta a monte di una veduta critica.
La seconda parte del libro mira alla ricostruzione del ruolo di Marx nella prima Internazionale dei lavoratori. Annunciata nell’assemblea tenutasi nella sala del St Martin’s Hall di Londra il 28 settembre del 1864, essa perse mordente con il trasferimento del suo Consiglio generale negli Stati Uniti d’America sancito dal Congresso dell’Aia (2-7 settembre 1872). Affiora così, tra le pieghe di un libro il cui fascino sembra in larga parte discendere dalla classicità dello stile espositivo e dall’accuratezza della ricostruzione, un’immagine di Marx per alcuni aspetti nuova. L’autore infatti ricorda che nel corso del terzo congresso, organizzato a Bruxelles tra il 6 e il 13 settembre del 1868, Marx dettò una risoluzione inerente al problema ambientale. «Considerando» – vi si legge – «che l’abbandono delle foreste a individui privati causerebbe la distruzione dei boschi necessari alla conservazione delle fonti e, di conseguenza, alla buona qualità del terreno e così anche della salute e della vita delle popolazioni, il Congresso ritiene che le foreste debbano restare proprietà della società» (p. 130). La questione ambientale era pertanto connessa alla teoria della socializzazione dei mezzi di produzione, fatta valere contro i mutualisti di Pierre-Joseph Proudhon (che volevano associazioni private di produttori sostenute dal credito elargito dalle banche popolari) e contro coloro che, seguendo Ferdinand Lassalle, si aspettavano la soluzione della questione operaia per intervento dello Stato (prussiano, per di più!). Marx riteneva necessario combattere perché la socializzazione delle più importanti produzioni fosse affidata a un potere pubblico capace di garantire un costo dei beni comuni accessibile a tutti e vicino alle spese di gestione. Possiamo ancora considerare valida, mi sembra, questa indicazione ad accostare ecologia e lavoro, prendendo atto della difficoltà di salvare l’ambiente senza emancipare il lavoro e viceversa. Difficile, verrebbe da dire, «dare l’assalto al cielo» solo a metà!
Ma che significa emancipare il lavoro o conferirgli forma sociale? La risposta si evince dall’ultima parte del libro dedicata all’analisi del capitalismo e al profilo dell’organizzazione comunista. Marx non ispirò un credo politico dogmatico né intese elargire formule o ricette dell’avvenire. Indicò gli strumenti critici per liberare dalla vecchia società gli elementi della nuova di cui è gravida. Concepì l’autogoverno dei produttori come uno strumento per garantire il «pieno e libero sviluppo di ogni individuo» (p. 294) assicurando a ciascuno una maggiore quantità di tempo da dedicare alla realizzazione personale. Il suo comunismo mirava a una più equa distribuzione della ricchezza, e non alla miseria generalizzata e livellante realizzata da quei regimi dispotici e burocratici che, «dichiarando di agire in suo nome, perpetrarono, invece, crimini ed efferatezze» (p. 288). «L’idea di società di Marx è dunque l’antitesi dei totalitarismi sorti in suo nome nel XX secolo» (p. 294). Essa richiede la cornice di un cosmopolitismo dei diritti sociali e individuali dal cui grembo emergano libere associazioni di produttori capaci di garantire beni comuni sufficienti alla realizzazione e al benessere di ciascuno.
Al centro della sua interpretazione del presente non può essere posta, infine, una teoria storico-filosofica della marcia universale di tutti i popoli, come i nouveau philosophe alla Jean-François Lyotard hanno fatto credere per molti anni universalizzando le prese di posizione colonialistiche di alcune personalità di spicco della Seconda Internazionale. In diversi brani della sua opera, Marx ha rivendicato la necessità dello sviluppo del capitalismo industriale per la formazione di un proletariato capace di liberare l’umanità dalla lotta di classe, ma non ha mai concepito questo processo quale struttura fissa da raccomandare per l’evoluzione dei paesi extra-europei. Se qualche marxista lo ha fatto per supportare ideologicamente il colonialismo, e lo ha fatto in questi termini, non parlava in nome di Marx ma di un manichino su cui adagiare una veste d’altri. Ne sono conferma gli scritti sulla proprietà comune in India e in Russia, presi in considerazione nella parte del libro dedicata alle ricerche dell’ultimo decennio. Il procedimento critico applicato da Marx poggia qui sull’esame concreto e circostanziato di ogni realtà che conduce a individuare diverse vie da seguire per l’emancipazione sociale e scalza pertanto ogni possibilità di una utilizzazione strumentale della teoria del conflitto di classe. A chi ancora ama dilettarsi con l’immagine di un Marx eurocentrico e colonialista val la pena ricordare l’adattamento del verso dantesco (Purg., V, 13) consegnato all’ultima riga della prefazione del Libro primo del Capitale: «Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!»

Davide Bondì

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Felice Di Maro, Goodreads

C’è una svolta ed è importante negli studi su Marx e riguarda i ripensamenti su alcune tematiche delle sue opere composte dal 1857 in poi. Hanno ricevuto nuove analisi in relazione ai materiali di preparazione e successivi, inediti s’intende, di Marx stesso che sono stati raccolti in circa 200 quaderni di appunti che comprendono compendi di libri letti da Marx e le riflessioni che da essi hanno preso origine.

Anche la sua biografia si è maggiormente illuminata con l’analisi della sua corrispondenza con Engels e con altri. Al riguardo, Marcello Musto, che è l’Autore dell’opera ha ricordato (p. X) quanto scrisse Maximilien Rubel, comunista militante e studioso del pensiero di Marx, che una «biografia monumentale» di Marx doveva essere ancora scritta ed era il 1957 (Karl Marx, “Saggio di biografia intellettuale” in Prolegomeni a una sociologia etica, Cooperativa Colibrì, 2001p.3).

Fino ad oggi, non è stata ancora scritta però penso che con la pubblicazione di quest’opera si è incominciato ad analizzare la biografia di Marx e le sue opere insieme, cioè con processi unitari di studi.

«Karl Marx» è il titolo di quest’opera ed ha per sottotitolo: “Biografia intellettuale e politica 1857-1883”, pp. XIV – 400 (Einaudi). È un libro innovativo che rivela un Marx, pensatore e rivoluzionario, molto diverso da quello che è stato raffigurato, per lungo tempo, da tanti suoi critici e marxisti correnti.

Biografia soltanto? L’interrogativo è d’obbligo, ovviamente dobbiamo intenderci perché, confessiamolo, siamo abituati  ad analizzare in prevalenza la “Vita di Marx” di Franz Mehring pubblicata nel 1918 che è stato all’epoca un lavoro certo non facile ma realizzato dal fondatore del partito comunista tedesco che pur conoscendo analiticamente la produzione di Marx pubblicò questo libro utilizzando le documentazioni disponibili di allora e chiaramente, oggi, con quest’opera, che qua si presenta umilmente una recensione, è stata realizzata da uno studioso che è professore associato di sociologia teorica presso la York University di Toronto che utilizza fonti di archivio come quello di Amsterdam e di Mosca.

Vengono presentati presentati i nuovi processi di ricerca e gli aspetti biografici sono non separati da quelli delle opere e dei ripensamenti e ci fanno conoscere un Marx diverso senza modificarne il profilo. Marx è stato e rimane un rivoluzionario contro il capitalismo.

Attenzione. L’opera merita di essere letta perché oltre ad essere stata scritta con un linguaggio accessibile presenta il risultato di ricerche che sono ancora all’inizio come dichiara l’Autore: “Il frutto di questo lavoro è ancora incompleto e parziale”, p. IX. In pratica siamo ad una svolta negli studi di Marx.

 

Quindi Marx ha ancora tanto da offrire? Penso proprio di sì, al riguardo qualche osservazione, e a frontiera con il quadro del libro, potrà essere d’aiuto anche per una lettura più in profondità di questo libro.

Una premessa importante è che Marx e le sue opere, sono state approfondite nel tempo da studiosi che hanno pubblicato contributi, come dire, scientifici, i quali vengono continuamente studiati dai cultori e amanti di Marx. Da alcuni anni ci sono persone che studiano Marx, anche pubblicando saggi interessanti, ma non sono né filosofi e né storici e non è che siano impegnati nei partiti comunisti e posso assicurare che non è che siano comunisti, ovviamente che si presentino come tali, e che conoscano a fondo le opere di Marx. Sia chiaro Marx rimane il riferimento teorico dei comunisti e dei socialisti chiaramente non riformisti e di sinistra e di quanti lottano per un’alternativa al capitalismo ma che non si dichiarino di essere di destra o liberisti.

Si tenga però in conto che la classe operaia di oggi è in parte, s’intende, rappresentata da profili come quelli del fattorino di Amazon e del rider di Deliveroo che non hanno in comune niente con gli operai rivoluzionari dell’Ottocento che avevano come riferimenti il quadro degli obiettivi presentati dalle note opere del “Manifesto” e del “Capitale” di abbattere il capitalismo e costruire una nuova società. Sia chiaro, la fase che stiamo attraversando è molto complessa ed è progressivamente sempre più liberista, al riguardo sarebbe importante fare una riflessione su cosa sia la classe operaia oggi, e soprattutto cosa vuole fare per abbattere il capitalismo, e naturalmente capire se lo vuole abbattere s’intende.

 

C’è da dire anche che Marx, e le sue opere, sono all’attenzione di persone che sono cultori di Marx, ma che non desiderano per niente la fine del capitalismo. Sembra strano ma è un fenomeno che ho colto e che ho cercato di comprenderne le motivazioni e sono in ricerca, ma è chiaro che si voglia o no, Marx non appartiene soltanto ai comunisti e ai socialisti e a quelli che vogliono la fine del capitalismo, ma appartiene all’umanità e quindi le tematiche in generale o alcuni tratti delle sue opere che sono noti perché le sue opere essendo in Rete accessibili a tutti sono all’attenzione di chiunque e sono nati e si sono evoluti nel tempo processi di conoscenza che sono diventati culturali sulle opere di Marx e anche sulla sua biografia. Non è questa la sede per approfondire e ritornerò su questi temi.

Quest’opera si posiziona in questi processi, appena parzialmente descritti e promuoverà nel tempo nuove operazioni di conoscenza. Il libro sollecita nuove ricerche perché presenta una serie di tematiche lasciate ai margini dagli studiosi di Marx e delinea in parte anche un nuovo profilo di Marx con sfumature fino ad oggi sconosciute. Rappresenta il risultato anche storiografico di una reinterpretazione complessiva dell’opera di Marx iniziata nel 1998 con la pubblicazione della “Marx-Engels-Gesamtausgabe (acronimo utilizzato nel libro, MEGA; Gesamtausgabe = edizione completa) che è l’edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels: 26 volumi fino ad oggi e 40 sono stati pubblicati dal 1975 al 1989.

Un grazie speciale lo si deve all’Autore, Marcello Musto, che ci ha fatto conoscere con questo libro il cantiere di lavoro di Marx e ci ha mostrato come analizzò accuratamente temi cruciali del suo tempo come quelli delle società extraeuropee e come fu animato da un notevole interesse per le forme di proprietà collettiva non controllate dallo Stato. Importante è come Musto ha presentato un tema che non è stato analizzato in profondità e che riguarda la nota associazione dei lavoratori (1aInternazionale) che in una società comunista non si doveva limitare la libertà dei singoli individui.

 

Oltre alla prefazione che presenta in sintesi il quadro unitario delle ricerche il libro si suddivide in quattro parti. La prima: “La critica dell’economia politica” è dedicata all’elaborazione e stesura del Capitale e al carattere incompiuto dell’opera. La seconda: “La militanza politica” tratta il tema della partecipazione di Marx all’Associazione internazionale dei lavoratori e si mette in evidenza che non fu una sua creazione esclusiva. La terza: “Le ricerche dell’ultimo decennio” propone una disamina della corrispondenza e dei manoscritti, alcuni ancora inediti, degli ultimi anni di vita di Marx. La quarta: “La teoria politica” esamina le concezioni di Marx a riguardo del modo di produzione capitalistico e al profilo che avrebbe potuto assumere la società comunista.

Segue l’apparato delle note che non sono nel testo, la bibliografia, suddivisa in scritti di Karl Marx (Marx Engels Opere, edizioni singole in italiano, Marx Engels Gesamtausgabe, Marx-Engels Werke, Marx Engels Collected Works, Edizioni singole in altre lingue, Manoscritti inediti) scritti di altri autori, e un ottimo indice dei nomi, davvero prezioso per chi voglia approfondire il quadro delle relazioni di Marx e le sue opere e con i vari personaggi citati nel testo.

 

La terza parte penso che rispetto al quadro generale del libro abbia un carico d’innovazione maggiore, come io ho letto e interpretato s’intende. Si compone di due Capitoli: VII e VIII, pp.181-249. Nel primo “Studi teorici e lotta politica si utilizza la corrispondenza con Engels e altri e si coglie il contesto della deriva socialdemocratica che Marx aveva cercato di ostacolare e il quadro delle battaglie politiche a livello internazionale; segue la preparazione del secondo libro del Capitale e i nuovi orizzonti ricerca; si conclude con “Dagli Urali alla California”. Nel secondo c’è proprio l’altro Marx con lo studio dell’antropologia, ma anche gli anni senza sua moglie Jenny e il viaggio tra Algeria e Francia e gli ultimi mesi.

Si è avviata una fase di studi che permetterà di avere un profilo biografico completo di Marx relazionato con l’insieme delle sue opere e si potranno meglio conoscere le motivazioni per le quali vari suoi lavori sono stati pubblicati dopo la sua morte.

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L’alternativa possibile della Comune di Parigi

Il 18 marzo del 1871 scoppiò in Francia una nuova rivoluzione che mise in pratica la democrazia diretta e l’autogoverno dei produttori. Quell’esperienza indica ancora come si può costruire una società radicalmente diversa da quella capitalista.
I borghesi avevano sempre ottenuto tutto. Sin dalla rivoluzione del 1789, erano stati i soli ad arricchirsi nei periodi di prosperità, mentre la classe lavoratrice aveva dovuto regolarmente sopportare il costo delle crisi. La proclamazione della Terza Repubblica aprì nuovi scenari e offrì l’occasione per ribaltare questo corso. Napoleone III era stato sconfitto e catturato dai tedeschi, a Sedan, il 4 settembre 1870. Nel gennaio dell’anno seguente, la resa di Parigi, che era stata assediata per oltre quattro mesi, aveva costretto i francesi ad accettare le condizioni imposte da Otto von Bismarck. Ne seguì un armistizio che permise lo svolgimento di elezioni e la successiva nomina di Adolphe Thiers a capo del potere esecutivo, con il sostegno di una vasta maggioranza legittimista e orleanista. Nella capitale, però, in controtendenza con il resto del paese, lo schieramento progressista-repubblicano era risultato vincente con una schiacciante maggioranza e il malcontento popolare era più esteso che altrove. La prospettiva di un esecutivo che avrebbe lasciato immutate tutte le ingiustizie sociali, che voleva disarmare la città ed era intenzionato a far ricadere il prezzo della guerra sulle fasce meno abbienti, scatenò la ribellione. Il 18 marzo scoppiò una nuova rivoluzione; Thiers e la sua armata dovettero riparare a Versailles.

Di lotta e di governo

Gli insorti decisero di indire subito libere elezioni, per assicurare all’insurrezione la legittimità democratica. Il 26 marzo, una schiacciante maggioranza (190.000 voti contro 40.000) approvò le ragioni della rivolta e 70 degli 85 eletti si dichiararono a favore della rivoluzione. I 15 rappresentanti moderati del cosiddetto «parti de maires», un gruppo composto da ex-presidenti di alcuni arrondissement, si dimisero immediatamente e non entrarono a far parte del consiglio della Comune. Furono seguiti poco dopo da quattro radicali. I restanti 66 membri – non facilmente distinguibili per le loro doppie appartenenze politiche – rappresentavano posizioni molto variegate. Tra essi vi erano una ventina di repubblicani neo-giacobini (inclusi gli autorevoli Charles Delescluze e Felix Pyat), una dozzina di proseliti di Auguste Blanqui, 17 appartenenti dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (al cui interno erano presenti sia i mutualisti seguaci di Pierre-Joseph Proudhon che i collettivisti legati a Karl Marx, spesso in contrasto tra loro) e un paio di indipendenti. La maggioranza dei componenti della Comune erano operai o rappresentanti riconosciuti della classe lavoratrice. In 14 provenivano dalla Guardia Nazionale. Fu proprio il comitato centrale di quest’ultima a consegnare il potere nelle mani della Comune, anche se questo atto fu l’inizio di una lunga serie di contraddizioni e conflitti tra le due entità.

Il 28 marzo una grande massa di cittadini si riunì nei pressi dell’Hôtel de Ville e salutò festante l’insediamento della nuova assemblea che prese ufficialmente il nome di Comune di Parigi. Anche se resistette soltanto 72 giorni, fu il più importante evento politico della storia del movimento operaio del XIX secolo. La Comune fece rinascere la speranza in una popolazione stremata da mesi di stenti. Nei quartieri sorsero comitati e gruppi in suo sostegno. In ogni angolo della metropoli, si moltiplicarono iniziative di solidarietà e piani per la costruzione di un mondo nuovo. Montmartre fu ribattezzata «la cittadella della libertà». Uno dei sentimenti predominanti fu il desiderio di condividere. Militanti come Louise Michel funsero da esempio per il loro spirito di abnegazione – Victor Hugo scrisse di lei: «facevi ciò che fanno le grandi anime folli. Glorificavi coloro che vengono schiacciati e sottomessi». Tuttavia, la Comune non visse per impulso di un leader o di poche figure carismatiche. Anzi, la sua principale caratteristica fu la sua dimensione spiccatamente collettiva. Donne e uomini si associarono volontariamente per un progetto comune di liberazione. L’autogestione non fu più considerata un’utopia. L’autoemancipazione venne ritenuta imprescindibile.

La trasformazione del potere politico

Tra i primi decreti di emergenza emanati per arginare la dilagante povertà vi furono il blocco del pagamento degli affitti (era giusto che «la proprietà facesse la sua parte di sacrifici») e la sospensione della vendita degli oggetti – per un valore non superiore ai 20 franchi – che si trovavano presso il monte di pietà. Vennero anche istituite nove commissioni collegiali che avrebbero dovuto sostituire i ministeri esistenti: guerra, finanze, sicurezza generale, educazione, sussistenza, giustizia, lavoro e scambio, relazioni estere, servizi pubblici. In seguito, venne nominato un delegato alla direzione di ognuna di esse.
Il 19 aprile, tre giorni dopo le elezioni suppletive a seguito delle quali fu possibile sostituire 31 seggi rimasti quasi subito vacanti, la Comune redasse la Dichiarazione al popolo francese, all’interno della quale furono conclamati «la garanzia assoluta della libertà individuale, della libertà di coscienza e della libertà di lavoro» e «l’intervento permanente dei cittadini nelle vicende comunali». Venne affermato che il conflitto tra Parigi e Versailles «non poteva terminare con illusori compromessi» e che il popolo aveva «il dovere di lottare e vincere!». Ben più significativi dei contenuti di questo testo – sintesi alquanto ambigua per evitare tensioni tra le diverse tendenze politiche – furono gli atti concreti attraverso i quali i militanti della Comune si batterono per una trasformazione totale del potere politico. Essi avviarono un insieme di riforme che miravano a mutare profondamente non solo le modalità con le quali la politica veniva amministrata, ma la sua stessa natura. La democrazia diretta della Comune prevedeva la revocabilità degli eletti e il controllo del loro operato attraverso il vincolo di mandato (una misura insufficiente a dirimere la complessa questione della rappresentanza politica). I magistrati e le altre cariche pubbliche – anch’essi assoggettati a controllo permanente e alla possibilità di revoca – non sarebbero stati designati arbitrariamente, come in passato, ma nominati a seguito di concorso o di elezioni trasparenti. Occorreva impedire la professionalizzazione della sfera pubblica. Le decisioni politiche non spettavano a gruppi ristretti di funzionari e tecnici, ma dovevano essere prese dal popolo. Eserciti e forze di polizia non sarebbero più state istituzioni separate dal corpo della società. La separazione tra Stato e chiesa fu reputata una necessità irrinunciabile.
Il cambiamento politico non poteva, però, esaurirsi con l’adozione di queste misure. Doveva intervenire ben più alla radice. Bisognava ridurre drasticamente la burocrazia trasferendo l’esercizio del potere nelle mani del popolo. La sfera sociale doveva prevalere su quella politica e quest’ultima – come aveva già sostenuto Henri de Saint-Simon – non sarebbe più esistita come funzione specializzata, poiché sarebbe stata progressivamente assimilata dalle attività della società civile. Il corpo sociale si sarebbe reimpossessato di funzioni che erano state trasferite allo Stato. Abbattere il dominio di classe esistente non sarebbe stato sufficiente; occorreva estinguere il dominio di classe in quanto tale. Tutto ciò avrebbe consentito la realizzazione del disegno auspicato dai comunardi: una repubblica costituita dall’unione di libere associazioni veramente democratiche che sarebbero divenute promotrici dell’emancipazione di tutte le sue componenti. Era l’autogoverno dei produttori.

La priorità delle riforme sociali

La Comune riteneva che le riforme sociali fossero ancor più rilevanti dei rivolgimenti dell’ordine politico. Esse rappresentavano la sua ragion d’essere, il termometro attraverso il quale misurare la fedeltà ai princìpi per i quali era sorta, l’elemento di maggiore distinzione rispetto alle rivoluzioni che l’avevano preceduta nel 1789 e nel 1848. La Comune ratificò più di un provvedimento dal chiaro connotato di classe. Le scadenze dei debiti vennero procrastinate di tre anni e senza pagamento degli interessi. Gli sfratti per mancato versamento degli affitti vennero sospesi e si dispose che le abitazioni vacanti venissero requisite a favore dei senzatetto. Si organizzarono progetti per limitare la durata della giornata lavorativa (dalle iniziali 10 ore alle otto contemplate per il futuro), si proibì, pena sanzioni, la pratica diffusa tra gli imprenditori di comminare multe pretestuose agli operai al solo scopo di ridurre loro le paghe, furono stabiliti minimi salariali dignitosi. Venne sancita l’interdizione al cumulo di più lavori e fissato un limite massimo agli stipendi di quanti ricoprivano incarichi pubblici. Si fece quanto possibile per aumentare gli approvvigionamenti alimentari e per diminuire i prezzi. Il lavoro notturno nei panifici fu vietato e vennero aperte alcune macellerie municipali. Furono implementate diverse misure di assistenza sociale per i soggetti più deboli – compresa l’offerta di vivande a donne e bambini abbandonati – e venne deliberata la fine della discriminazione esistente tra figli legittimi e naturali.
Tutti i comunardi ritennero che la funzione dell’educazione fosse un fattore indispensabile per la liberazione degli individui, sinceramente convinti che essa rappresentasse il presupposto di ogni serio e duraturo mutamento sociale e politico. Pertanto, animarono molteplici e rilevanti dibattiti intorno alle proposte di riforma del sistema educativo. La scuola sarebbe stata resa obbligatoria e gratuita per tutte e tutti. L’insegnamento di stampo religioso sarebbe stato sostituito da quello laico, ispirato a un pensiero razionale e scientifico, e le spese di culto non sarebbero più gravate sul bilancio dello Stato. Nelle commissioni appositamente istituite e sugli organi di stampa apparvero numerose prese di posizione che evidenziarono quanto fosse fondamentale la scelta di investire sull’educazione femminile. Per diventare davvero «un servizio pubblico», la scuola doveva offrire uguali opportunità ai «bambini dei due sessi». Infine, essa doveva vietare «distinzioni di razza, nazionalità, fede o posizione sociale». Agli avanzamenti di carattere teorico, si accompagnarono prime iniziative pratiche e, in più di un arrondissement, migliaia di bambini della classe lavoratrice ricevettero gratuitamente i materiali didattici ed entrarono, per la prima volta, in un edificio scolastico.

La Comune legiferò anche misure di carattere socialista. Si decise che le officine abbandonate dai padroni fuggiti fuori città, ai quali si garantì un indennizzo al momento del ritorno, sarebbero state consegnate ad associazioni cooperative di operai. I teatri e i musei – che sarebbero stati aperti a tutti e non a pagamento – vennero collettivizzati e affidati alla gestione di quanti si erano uniti nella «Federazione degli artisti di Parigi», presieduta dal pittore e instancabile militante Gustave Courbet. A essa presero parte circa 300 scultori, architetti, litografi e pittori (tra i tanti anche Édouard Manet). A questa iniziativa seguì la nascita della «Federazione artistica» che raccolse gli attori e il mondo della lirica.
Tutte queste azioni e disposizioni furono sorprendentemente realizzate in 54 giorni, in una Parigi ancora martoriata dagli effetti della Guerra franco-prussiana. La Comune poté operare soltanto dal 29 marzo al 21 maggio e, per giunta, nel mezzo di una eroica resistenza agli attacchi di Versailles, per difendersi dai quali fu necessario un gran dispendio di energie umane e risorse finanziarie. Inoltre, poiché la Comune non disponeva di alcun mezzo coercitivo, molte delle decisioni assunte non furono applicate uniformemente nella vasta area della città. Esse costituirono, tuttavia, un notevole tentativo di riforma sociale e indicarono il cammino per un cambiamento possibile.

Una lotta collettiva e femminista

La Comune fu ben più degli atti approvati dalla sua assemblea legislativa. Ambì finanche ad alterare energicamente lo spazio urbano, come dimostra la scelta di abbattere la Colonna Vendôme, reputata monumento alla barbarie e riprovevole simbolo della guerra, e a laicizzare alcuni luoghi di culto, destinando il loro uso alla collettività. La Comune visse grazie a una straordinaria partecipazione di massa e a un solido spirito di mutua assistenza. In questo rivolgimento contro l’autorità, i club rivoluzionari sorti con incredibile rapidità in quasi tutti gli arrondissement ebbero una funzione ragguardevole. Se ne costituirono ben 28 e rappresentarono uno degli esempi più calzanti della mobilitazione spontanea che accompagnò la Comune. Aperti ogni sera, essi offrirono ai cittadini la possibilità di incontrarsi, dopo il lavoro, per dibattere liberamente sulla situazione sociale e politica, verificare quanto realizzato dai propri rappresentanti e suggerire alternative per la risoluzione delle problematiche quotidiane. Si trattava di associazioni orizzontali che favorivano la formazione e l’espressione della sovranità popolare, ma anche di spazi di autentica sorellanza e fraternità. Erano i luoghi dove ciascuno poteva respirare l’inebriante possibilità di rendersi padrone del proprio destino.
Tale percorso di emancipazione non prevedeva discriminazioni di carattere nazionale. Il titolo di cittadini della Comune andava garantito a tutti coloro che si adoperavano per il suo sviluppo e gli stranieri avevano gli stessi diritti sociali garantiti ai francesi. Riprova di questo principio di uguaglianza fu il ruolo predominante assunto da diversi stranieri (circa 3.000 in totale). L’ungherese e membro dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori Léo Frankel non solo sedette tra gli eletti della Comune, ma fu anche il responsabile della commissione lavoro – uno dei «ministeri» più importanti di Parigi. Ruolo altrettanto rilevante ebbero i polacchi Jaroslaw Dombrowski e Walery Wroblewski, entrambi autorevoli generali a capo della Guardia Nazionale.

In questo contesto, le donne, pur se ancora private del diritto al voto e, di conseguenza, anche a quello di sedere tra i rappresentanti del Consiglio della Comune, svolsero una funzione essenziale per la critica dell’ordine sociale esistente. Trasgredirono le norme della società borghese e affermarono una loro nuova identità in opposizione ai valori della famiglia patriarcale. Uscirono dalla dimensione privata e si occuparono della sfera pubblica. Costituirono l’«Unione delle donne per la difesa di Parigi e per la cura dei feriti» (sorta grazie all’incessante attività di Élisabeth Dmitrieff, militante dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori) ed ebbero un ruolo centrale nell’identificazione di battaglie sociali strategiche. Ottennero la chiusura delle case di tolleranza, conseguirono la parità di salario con gli insegnanti maschi, coniarono lo slogan «uguale retribuzione per uguale lavoro», rivendicarono pari diritti nel matrimonio, pretesero il riconoscimento delle libere unioni, promossero la nascita di camere sindacali esclusivamente femminili. Quando, alla metà di maggio, la situazione militare volse al peggio, con le truppe di Versailles giunte alle porte di Parigi, le donne presero le armi e riuscirono anche a formare un loro battaglione. In molte esalarono l’ultimo respiro sulle barricate. La propaganda borghese le rese oggetto dei più spietati attacchi, tacciandole di avere dato fuoco alla città durante gli scontri e bollandole con l’epiteto dispregiativo di pétroleuses.

Accentrare o decentralizzare?

La Comune voleva instaurare un’autentica democrazia. Si trattava di un progetto ambizioso e di difficile attuazione. La sovranità popolare alla quale ambivano i rivoluzionari implicava una partecipazione del più alto numero possibile di cittadini. Sin dalla fine di marzo, a Parigi si erano sviluppati una miriade di commissioni centrali, sotto-comitati di quartiere, club rivoluzionari e battaglioni di soldati che affiancarono il già complesso duopolio composto dal consiglio della Comune e dal comitato centrale della Guardia Nazionale. Quest’ultimo, infatti, aveva conservato il controllo del potere militare, operando, spesso, come un vero contropotere del primo. Se l’impegno diretto di un’ampia parte della popolazione costituiva una vitale garanzia democratica, le troppe autorità in campo avevano reso complicato il processo decisionale e tortuosa l’applicazione delle ordinanze.
Il problema della relazione tra l’autorità centrale e gli organi locali produsse non pochi cortocircuiti, determinando una situazione caotica e non di rado paralizzante. L’equilibrio già precario saltò del tutto quando, dinanzi all’emergenza della guerra, all’indisciplina presente tra i ranghi della Guardia Nazionale e a una crescente inefficacia dell’azione governativa, Jules Miot propose la creazione di un Comitato di Salute Pubblica di cinque componenti – una soluzione che si ispirava al modello dittatoriale di Maximilien Robespierre nel 1793. La misura venne approvata, con 45 voti a favore e 23 contrari, il primo maggio. Fu un drammatico errore che decretò l’inizio della fine di un’esperienza politica inedita e spaccò la Comune in due blocchi contrapposti. Al primo appartenevano neo-giacobini e blanquisti, propensi alla concentrazione del potere e, al fine, in favore del primato della dimensione politica su quella sociale. Del secondo facevano parte la maggioranza dei membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, per i quali la sfera sociale era più significativa di quella politica. Essi ritenevano necessaria la separazione dei poteri e credevano che la repubblica non dovesse mai mettere in discussione le libertà politiche. Coordinati dall’infaticabile Eugène Varlin, pronunciarono un netto rifiuto alle derive autoritarie e non parteciparono all’elezione del Comitato di Salute Pubblica. Per loro, il potere centralizzato nelle mani di pochi individui sarebbe stato in netto contrasto con i postulati della Comune. I suoi eletti non erano i possessori della sovranità – essa apparteneva al popolo – e, pertanto, non avevano alcun diritto di alienarla. Il 21 maggio, allorquando la minoranza prese di nuovo parte a una seduta del consiglio della Comune, fu posto in essere un nuovo tentativo di ritessere l’unità al suo interno. Era, però, già troppo tardi.

La Comune come sinonimo della rivoluzione

La Comune di Parigi fu repressa con brutale violenza dalle armate di Versailles. Durante la cosiddetta «settimana di sangue» (21-28 maggio) vennero uccisi tra i 17.000 e i 25.000 cittadini. Gli ultimi combattimenti si svolsero lungo la cinta del cimitero Père-Lachaise. Il giovane Arthur Rimbaud descrisse la capitale francese come una «città dolorosa, quasi morta». Fu il massacro più violento della storia della Francia. Solo in 6.000 riuscirono a fuggire e a riparare in esilio tra Inghilterra, Belgio e Svizzera. I prigionieri catturati furono 43.522. Un centinaio di questi subì la condanna a morte, a seguito di processi sommari inscenati da corti marziali, mentre in circa 13.500 vennero spediti in carcere, ai lavori forzati, o deportati (in numero consistente soprattutto nella remota Nuova Caledonia). Alcuni di essi solidarizzarono e condivisero la stessa sorte degli insorti algerini che avevano capeggiato la rivolta anticoloniale di Mokrani, svoltasi in contemporanea alla Comune e anch’essa schiacciata dalla violenza delle truppe francesi.
Lo spettro della Comune intensificò la repressione anti-socialista in tutt’Europa. Sottacendo l’inaudita violenza di Stato operata da Thiers, la stampa conservatrice e liberale accusò i comunardi dei peggiori crimini ed espresse grande sollievo per il ripristino «dell’ordine naturale» e della legalità borghese, nonché compiacimento per il trionfo della «civiltà» sull’anarchia. Quanti avevano osato infrangere l’autorità e attentare ai privilegi della classe dominante furono puniti in modo esemplare. Le donne tornarono a essere considerate esseri inferiori e gli operai, dalle mani sporche e piene di calli, che avevano osato pensare di poter governare, furono ricacciati nei posti della società ritenuti a loro congeniali.
Eppure, l’insurrezione parigina diede forza alle lotte operaie e le spinse verso posizioni più radicali. All’indomani della sua sconfitta, Eugène Pottier scrisse un canto destinato a diventare il più celebre del movimento dei lavoratori. I suoi versi recitavano: «Uniamoci e domani L’Internazionale sarà il genere umano!». Parigi aveva mostrato che bisognava perseguire l’obiettivo della costruzione di una società radicalmente diversa da quella capitalistica. Da quel momento in poi, anche se per i suoi protagonisti non giunse mai Il tempo delle ciliegie (secondo il titolo del celebre brano composto dal comunardo Jean Baptiste Clément), la Comune incarnò contemporaneamente l’idea astratta e il cambiamento concreto. Divenne sinonimo del concetto stesso di rivoluzione, fu un’esperienza ontologica della classe lavoratrice. In La guerra civile in Francia, Marx affermò che questa «avanguardia del proletariato moderno» riuscì ad «annettere alla Francia gli operai di tutto il mondo». La Comune di Parigi mutò le coscienze dei lavoratori e la loro percezione collettiva. A distanza di 150 anni, il suo rosso vessillo continua a sventolare e ci ricorda che un’alternativa è sempre possibile. Vive la Commune!