Da alcuni giorni, in tutte le cassette postali e, al costo di un solo euro, in ogni edicola, imperversa indiscriminatamente «La vera storia italiana». Opuscolo anonimo di 160 pagine, stampato dalla Mondadori, diffuso, a quanto pare, in dieci milioni di copie.
Il testo propagandistico, che avrebbe l’intento di ricordare agli elettori prima del voto i benefici recati al paese dall’attuale governo durante i trascorsi cinque anni, non è altro che l’ultimo disperato tentativo del Presidente del Consiglio di mascherare la realtà dei suoi fallimenti politici e disastri sociali.
Se non fosse serio, il fascicolo andrebbe quasi apprezzato per le molte parti nelle quali sembra proprio emergere una profonda autoironia. Non si può purtroppo dire lo stesso della sezione filosofica: «Pensieri a confronto». Una sorta di storia intellettuale in pillole che esibisce il grezzo retroterra culturale della destra.
Vale la pena di soffermarsi sulla sfida principale: Karl Marx versus John Stuart Mill.
Il primo, naturalmente additato quale capofila dei pensatori da condannare (per sua fortuna in buona compagnia di Hobbes, Hegel e Gramsci – tutti riportati graficamente in nero), viene dipinto come l’ignobile barbuto teorico del «rifiuto delle forme istituzionali dello Stato borghese che si realizza nella dittatura del proletariato». Del secondo, su sfondo bianco, si può leggere invece: «Per Stuart Mill le leggi della produzione sono ‘leggi reali di natura’ mentre le leggi della distribuzione sono il risultato della volontà umana e quindi del diritto e del costume. Per una più equa distribuzione della ricchezza si possono immaginare (sic!) delle leggi migliori. Fra l’individualismo e il socialismo occorre aderire al primo, che garantisce la libertà individuale senza impedire la lotta all’ingiustizia sociale».
In vero, sarà bene confessarlo sin dal principio, Marx non nutrì mai particolari simpatie per gli «economisti inglesi filantropi» e, tra questi, per Stuart Mill.
Lo riteneva, infatti, un prodotto confuso delle rivoluzioni del 1848, che avevano spinto quegli uomini «che ancora rivendicavano valore scientifico e volevano essere qualcosa di più di meri sofisti o sicofanti delle classi dominanti» a tentare la fallace impresa di accordare l’economia politica del capitale con le rivendicazioni del proletariato. Ecco, per Marx, Stuart Mill era il tipico rappresentante di questa categoria e i suoi «sincretistici compendi» il frutto equivoco di questo antitetico miscuglio.
In particolare, contro la sua concezione appena ricordata – volendo citare correttamente: «le leggi e le condizioni della produzione della ricchezza partecipano del carattere delle verità fisiche (…) non così la distribuzione della ricchezza. Questa è puramente materia delle istituzioni umane» – Marx scagliò diverse frecce. Ad onor della «vera storia», vale la pena ricordarne almeno una: «l’insulsaggine di J. St. Mill, che ritiene eterni i rapporti borghesi di produzione ma storiche le loro forme di distribuzione, rivela che egli non capisce né gli uni né le altre». Accanto al malinteso di fondo dell’economia politica, la rappresentazione delle forme borghesi di produzione come assolute e di quelle di distribuzione come relative, e dunque transitorie, era necessaria affinché i rapporti borghesi fossero «interpolati del tutto surrettiziamente come incontestabili leggi di natura della società in abstracto». Veniva in questo modo svelato come l’apologetica degli economisti fosse ancillare alla mistificazione del modo di produzione capitalistico e alla reificazione dei rapporti sociali.
In realtà, «la forma di distribuzione non è che la forma di produzione sub alia specie». Infatti, come Marx dimostrava, mediante la sua analisi scientifica, ne Il capitale: «i rapporti di distribuzione sono in sostanza identici ai rapporti di produzione, costituiscono il rovescio di questi ultimi, così che gli uni e gli altri hanno lo stesso carattere storicamente transitorio».
Concludeva arrabbiato, ancora riferendosi all’economista inglese: «nella piattezza della pianura anche i mucchi di terra sembrano colline; si misuri la piattezza della nostra odierna borghesia con il calibro dei suoi ‘grandi intelletti’».
Tuttavia, scavando bene ne Il capitale – e naturalmente accontentandosi di una nota a piè di pagina, invece che di un riferimento nel testo – si può trovare la seguente confessione di Marx, probabilmente scritta in preda a uno dei suoi rarissimi momenti di affabilità verso gli avversari: «ad evitare malintesi osservo, che, se pure uomini come J. St. Mill sono degni di biasimo per la contraddizione fra i loro vecchi dogmi economici e le loro tendenze moderne, sarebbe estrema ingiustizia metterli in un sol fascio con il gregge degli apologeti dell’economia volgare».
Forse anche questa frase si addice al caso nostro.
Si farebbe, infatti, un torto troppo grande anche a Stuart Mill – in vita sempre aspramente osteggiato dai conservatori – se lo si lasciasse in balia dell’On. Berlusconi.
In proposito all’invasione de «La vera storia italiana» e alle più generali circostanze odierne, le considerazioni di Stuart Mill, contenute nel suo scritto del 1859 Sulla libertà, si rileggono con interesse e sono, purtroppo, ancora attuali: «è da sperare che sia trascorsa l’epoca in cui era necessario difendere la ‘libertà di stampa’ come una delle garanzie contro un governo corrotto o tirannico. Possiamo supporre che non sia più necessario dimostrare che non si può consentire a una legislatura o a un esecutivo, i cui interessi non si identifichino con quelli dei cittadini, di imporre loro delle opinioni e di stabilire quali dottrine o argomentazioni essi possano ascoltare».
Per avversare il Presidente del Consiglio (in carica per altri pochi giorni) stavolta non serve scomodare il nostro Marx. Basta un buon liberale come Stuart Mill.
Marcello
Musto