Un europeo non eurocentrico

1. Gli effetti del colonialismo inglese in India
Negli ultimi decenni, in numerose università è andata sempre più diffondendosi un’interpretazione volta a rappresentare Marx come un autore colpevole di orientalismo, di economicismo e non in grado di decifrare le contraddizioni sociali se non attraverso la sola analisi del conflitto tra capitale e lavoro. In molti, tra teorici della scuola postmoderna, critici dell’eurocentrismo ed esponenti degli studi post-coloniali, hanno sostenuto queste tesi riscuotendo notevole eco e discreto successo. In realtà, una lettura non superficiale dell’opera di Marx – e la necessaria distinzione tra questa e il corpus dogmatico dei manuali di marxismo-leninismo, sui quali alcune di queste tesi sembrano basarsi – mostrano il profilo di un pensatore del tutto diverso dalle raffigurazioni oggi tanto in voga nell’accademia.
Moniti a leggere Marx con maggiore attenzione sono giunti anche dal fondatore della rivista Subaltern Studies. In Dominance without Hegemony: History and Power in Colonial India, Ranajit Guha ha espresso il suo biasimo per una posizione che, paradossalmente, è stata assunta anche da molti dei suoi epigoni: “alcuni degli scritti di Marx – ad esempio certi passaggi dei suoi così tanto conosciuti articoli sull’India – sono stati sicuramente letti senza contestualizzazione e in modo distorto, al punto da ridurre la sua valutazione circa le possibilità storiche del capitale ad adulazioni di un maniaco della tecnologia”. A suo giudizio, quella di Marx fu “una critica che si distingue[va] inequivocabilmente dal liberalismo”, tanto più valida se si considera che essa venne elaborata nell’epoca della “fase ascendente e ottimistica” di quest’ultimo, nel mentre “il capitale cresceva con forza e sembrava che non ci fossero limiti alla sua espansione e capacità di trasformare natura e società”. Insomma, quanto affermato da Partha Chatterjee in The Politics of the Governed: Popular Politics in Most of the World – ovvero che la gran parte dei “marxisti hanno, in generale, creduto che l’influsso del capitale sulla comunità tradizionale fosse il simbolo inevitabile del progresso storico” – è inconfutabile. Tuttavia, sarebbe errato estendere questa posizione anche a Marx e alla sua interpretazione della società.
La convinzione che l’espansione del modo di produzione capitalistico fosse un presupposto fondamentale per la nascita della società comunista attraversa l’intera opera di Marx. Nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx ed Engels riconobbero più di un merito all’epoca borghese. Essa non solo aveva “distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache”, ma aveva anche sostituito allo “sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, (…) lo sfruttamento esplicito, senza pudori, diretto e brutale”. Essi non ebbero dubbi nel dichiarare che “la borghesia [aveva] avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria”. Sfruttando le scoperte geografiche e la nascita del mercato mondiale, aveva “reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi”.
In I risultati futuri della dominazione britannica in India (1853), uno dei tanti articoli giornalistici di Marx apparsi sul New-York Tribune, egli scrisse che “l’Inghilterra deve assolvere una doppia missione in India, una distruggitrice, l’altra rigeneratrice: annientare la vecchia società asiatica e porre le fondamenta materiali della società occidentale in Asia”. Egli non nutrì alcuna illusione sulle caratteristiche di fondo del capitalismo, ben sapendo che la borghesia non aveva “mai dato impulso al progresso senza trascinare gli individui nel sangue e nel fango, nella miseria e nella degradazione”. Tuttavia, fu altresì convinto che lo scambio globale e lo sviluppo delle forze produttive degli esseri umani, mediante la trasformazione della produzione in un “dominio scientifico dei fattori naturali”, avrebbero creato le basi per una società diversa: “l’industria borghese e il commercio [avrebbero] crea[to … le] condizioni materiali per un mondo nuovo”.
Queste asserzioni valsero a Marx le accuse di Edward Said, il quale, in Orientalismo, non solo dichiarò che “le analisi economiche di Marx [erano] del tutto compatibili con la visione d’insieme dell’orientalismo”, ma insinuò anche che esse “dipend[evano] dal vecchio pregiudizio di ineguaglianza tra Est e Ovest”. Il primo a mettere in evidenza gli errori di questa interpretazione, troppo circoscritta e faziosa, fu Sadiq Jalal al-Azm che, nell’articolo Orientalism and Orientalism in Reverse, bollò il “resoconto [di Said] delle vedute e delle analisi di Marx, su processi storici e situazioni altamente complessi, come una farsa”. A suo avviso, non c’era “nulla di specifico, né con l’Asia né con l’Oriente, nell’ampia interpretazione teorica di Marx”. Rispetto a “capacità produttive, organizzazione sociale, ascendente storico, potere militare e sviluppi scientifici e tecnologici, (…) Marx, come chiunque altro, conosceva la superiorità dell’Europa moderna sull’Oriente. Tuttavia, accusarlo di (…) trasformare questo fatto contingente in una realtà necessaria per tutti i tempi era assurdo”. Anche Aijaz Ahmad, in In Theory: Classes, Nations, Literatures, ha ben mostrato come Said avesse “decontestualizz[ato] citazioni, con scarso senso di cosa [rappresentasse] il passaggio citato” nell’opera di Marx, semplicemente per “inserir[le] nel [suo] archivio orientalista”. L’autore indiano ha correttamente osservato che “la denuncia di Marx della società pre-coloniale in India non è più stridente della sua denuncia del passato feudale dell’Europa”. A suo giudizio, “per Marx l’idea di un certo ruolo progressivo del colonialismo era legato all’idea di un ruolo progressivo del capitale in confronto a ciò che era esistito precedentemente, tanto all’interno dell’Europa quanto al fuori di essa”; “la distruzione della classe contadina europea nel corso dell’accumulazione originaria [venne] descritta in toni analoghi” alle mutazioni intervenute in India.
In ogni caso, gli articoli di Marx sull’India del 1853 offrono una visione ancora molto parziale e semplicistica del colonialismo, se confrontati con le riflessioni che, successivamente, egli elaborò sull’argomento. Le considerazioni sulla presenza britannica in India vennero emendate qualche anno dopo, quando, scrivendo sulla ribellione dei Sepoy del 1857 per lo stesso quotidiano americano, nell’articolo Investigazione sulle torture in India, Marx si schierò, con decisione, dalla parte di quanti tentarono di “espellere i conquistatori stranieri”. Analoghe prese di posizione sono molto frequenti, sia nelle sue opere che nei suoi interventi politici.

2. “Unicamente nell’Europa occidentale”
Una delle esposizioni più analitiche circa gli effetti positivi del processo produttivo capitalistico si trova nel primo libro di Il capitale (1867). Nonostante fosse divenuto molto più consapevole, rispetto al passato, del carattere distruttivo del capitalismo, nel suo magnum opus egli riassunse le sei condizioni generate dal capitale – in particolare dalla sua “centralizzazione” – che costituiscono i presupposti fondamentali per la possibile nascita della società comunista. Esse erano: 1) la cooperazione lavorativa; 2) l’apporto scientifico-tecnologico fornito alla produzione; 3) l’appropriazione delle forze della natura da parte della produzione; 4) la creazione di grandi macchinari adoperabili soltanto in comune dagli operai; 5) il risparmio dei mezzi di produzione; 6) la tendenza a creare il mercato mondiale.
Per Marx, il capitalismo avrebbe creato le condizioni per il superamento dei rapporti economico-sociali da esso stesso originati e, pertanto, il possibile trapasso a una società socialista. Così come nelle sue considerazioni sul profilo economico delle società extra-europee, il punto centrale della sua riflessione consisteva nello sviluppo del capitalismo in vista del suo rovesciamento. Marx riconobbe che questo modo di produzione, nonostante lo spietato sfruttamento degli esseri umani, presentava alcuni elementi potenzialmente progressivi, tali da consentire, molto più che in altre società del passato, la valorizzazione delle potenzialità dei singoli individui. Profondamente avverso al dettame produttivistico del capitalismo, ovvero al primato del valore di scambio e all’imperativo della produzione di pluslavoro, Marx valutò la questione dell’aumento delle capacità produttive in relazione all’incremento delle facoltà individuali. Come scrisse anche nei Grundrisse, egli considerò il capitalismo come “un necessario punto di passaggio”, affinché potessero dispiegarsi le condizioni che avrebbero permesso al proletariato di lottare, con speranze di successo, per l’instaurazione di un modo di produzione socialista.
Se Marx ritenne che il capitalismo fosse una transizione essenziale, affinché si venissero a determinare le condizioni storiche entro le quali il movimento operaio potesse lottare per una trasformazione comunista della società, viceversa, non pensò mai che questa idea andasse applicata in modo rigido e dogmatico. Al contrario, egli negò più volte – sia in testi pubblicati che in manoscritti non dati alle stampe – di avere concepito un’interpretazione unidirezionale della storia, in base alla quale gli esseri umani erano destinati a compiere ovunque il medesimo cammino e, per giunta, attraverso le stesse tappe.
Nel corso degli ultimi anni della sua esistenza, Marx confutò la tesi, a lui erroneamente attribuita, della inesorabilità storica del modo di produzione borghese. La sua totale estraneità a questa posizione si espresse nel dibattito sul possibile sviluppo del capitalismo in Russia. Allo scrittore e sociologo Nikolaj Michajlovskij, che lo aveva accusato di aver considerato il capitalismo quale tappa imprescindibile anche per l’emancipazione della Russia, Marx replicò che nel primo libro di Il capitale egli aveva “prete[so] unicamente di indicare la via mediante la quale, nell’Europa occidentale, l’ordine economico capitalistico [era] usc[ito] dal grembo dell’ordine economico feudale”. Marx rinviò alla lettura di un passaggio dell’edizione francese (1872-75) di Il capitale, nel quale aveva sostenuto che la base dell’intero percorso di separazione dei produttori dai loro mezzi di produzione era stata “l’espropriazione dei coltivatori”. Egli aveva aggiunto che questo processo si era “compiuto in modo radicale solo in Inghilterra, (…) [e che] tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale percorrevano lo stesso movimento”. Dunque, aveva preso in esame soltanto il ‘vecchio continente’, non il mondo intero.
È in questo orizzonte spaziale che va inquadrata l’affermazione presente nella prefazione al primo libro di Il capitale: “il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire”. Marx scrisse per il lettore tedesco, osservando che gli abitanti di quella nazione erano “tormentati, come tutto il resto dell’Europa occidentale continentale, non solo dallo sviluppo della produzione capitalistica, ma anche dalla mancanza di tale sviluppo”. A suo giudizio, accanto alle “miserie moderne” sopravviveva l’oppressione di “tutta una serie di miserie ereditarie che sorg[eva]no dal vegetare di modi di produzione antiquati e sorpassati che ci sono stati trasmessi con il loro seguito di rapporti sociali e politici anacronistici”.
In Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Dipesh Chakrabarty ha, invece, erroneamente interpretato questo passaggio come un tipico esempio di storicismo che segue il principio “prima in Europa e poi altrove”. Le “ambiguità nella prosa di Marx” sono state presentate come un prototipo di quanti considerano la “storia come una stanza d’attesa, un periodo che è necessario per la transizione al capitalismo in qualunque tempo e luogo particolare. Questo è il periodo al quale (…) è spesso consegnato il terzo mondo”. In ogni caso, nel saggio The Fetish of “the West” in Postcolonial Theory, Neil Lazarus ha giustamente osservato che “non tutte le narrative storiche sono teleologiche o storiciste”.
Quanto alla Russia, Marx condivise l’opinione di Michajlovskij secondo la quale essa avrebbe potuto “appropiar[si] di tutti frutti (…) [del] regime capitalistico (…), sviluppando i suoi presupposti storici, (…) senza sperimentare la tortura di questo regime”. Egli contestò a Michajlovskij di aver trasfigurato il suo “schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia universale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino”. Marx fece notare che la corretta interpretazione dei fenomeni storici non poteva essere affidata alla “chiave universale di una teoria storico-filosofica, la cui virtù suprema consiste nell’essere metastorica”.
La problematica sollevata da Michajlovskij – che ignorava la vera posizione di Marx – prefigurò, però, uno dei limiti fondamentali che avrebbe caratterizzato il marxismo novecentesco. Al tempo, inoltre, queste idee già serpeggiavano tra i seguaci di Marx, sia in Russia che altrove. La critica di Marx a tale concezione fu tanto più importante perché, oltre che a essere rivolta al presente, anticipò quanto sarebbe accaduto successivamente.

3. Il dibattito sul comunismo in Russia
Marx espresse gli stessi convincimenti nel 1881, quando la rivoluzionaria Vera Zasulič lo interpellò circa il futuro della comune [Obščina] agricola. La Zasulič gli chiese se quest’ultima avesse potuto svilupparsi in forma socialista, o se era destinata a perire, perché il capitalismo si sarebbe necessariamente imposto anche in Russia. Nella sua risposta, Marx ribadì che nel primo libro di Il capitale egli aveva “espressamente limitato [la] ‘fatalità storica'” dello sviluppo del capitalismo – che introduceva la “separazione radicale dei mezzi di produzione dal produttore” – solamente “ai paesi dell’Europa occidentale”.
Riflessioni ancora più circostanziate al riguardo sono reperibili nelle bozze preparatorie della lettera spedita alla Zasulič. In esse Marx evidenziò la peculiare caratteristica dovuta alla coesistenza tra l’Obščina e le forme economiche più avanzate. Egli osservò che la Russia era “contemporanea a una cultura superiore [ed era] legata al mercato mondiale, in cui predomina la produzione capitalistica. Appropriandosi dei risultati positivi di questo modo di produzione, essa [era …] in grado di sviluppare e trasformare, invece di distruggere, la forma ancora arcaica della sua comune rurale”. I contadini avrebbero potuto “integrare le acquisizioni positive elaborate dal sistema capitalistico, senza dover passare sotto le sue forche caudine”.
A quanti ritenevano che il capitalismo dovesse rappresentare una tappa irrinunciabile anche per la Russia, poiché sostenevano che era impossibile che la storia procedesse per balzi, Marx domandò, in modo ironico, se, conseguentemente, anche la Russia, così “come l’Occidente”, avrebbe dovuto “attraversare un lungo periodo d’incubazione dell’industria meccanica per potere arrivare alle macchine, ai bastimenti a vapore e alle ferrovie”. Egli sollevò, a sua volta, l’interrogativo sul come sarebbe stato possibile “introdurre nel loro paese, in un batter d’occhio, tutto il meccanismo dello scambio (banche, società per azioni, etc.), la cui elaborazione [era] costata secoli all’Occidente”. Era evidente che la storia della Russia, o di qualsiasi altro paese, non doveva per forza ripercorrere tutte le tappe che avevano segnato la storia dell’Inghilterra o di altre nazioni europee. Quindi, anche la trasformazione socialista dell’Obščina avrebbe potuto compiersi senza passare necessariamente attraverso il capitalismo.
Il modello di società comunista che aveva in mente Marx non era affatto un modo “primitivo di produzione cooperativa o collettiva, [che era] il risultato dell’individuo isolato”, bensì quello derivante dalla “socializzazione dei mezzi di produzione”. Negli ultimi anni di vita, egli non aveva mutato il suo giudizio, complessivamente critico, sulle comuni rurali in Russia e, nel procedere della sua analisi, lo sviluppo dell’individuo e della produzione sociale avevano conservato intatta la loro insostituibile centralità.
Nelle riflessioni sul caso russo non si palesa, dunque, alcun drammatico strappo rispetto alle sue precedenti convinzioni. Gli elementi di novità, intervenuti rispetto al passato, riguardano, invece, la maturazione della sua posizione teorico-politica che lo portò a considerare come possibili, per il passaggio al comunismo, altre strade – anche al di fuori dei paesi europei – mai valutate prima di allora o, fino ad allora, ritenute irrealizzabili.
Marx affermò che, “teoricamente parlando”, era possibile che l’Obščina potesse “conservarsi sviluppando la sua base, la proprietà comune della terra (…). Essa può diventare il primo punto di partenza del sistema economico al quale tende la società moderna; può cambiare di pelle senza incontrare il suicidio. Può assicurarsi i frutti con i quali la produzione capitalistica ha arricchito l’umanità, senza passare per il regime capitalistico”. La contemporaneità con la produzione capitalistica offriva alla comune agraria russa “già pronte le condizioni materiali del lavoro cooperativo, organizzato su vasta scala”.
Al di là della sua indisponibilità ad accettare l’idea che uno sviluppo storico predefinito potesse manifestarsi, in egual modo, in scenari economici e politici distinti, i progressi teorici di Marx furono dovuti anche all’evoluzione delle sue elaborazioni sugli effetti prodotti dal capitalismo nei paesi economicamente più arretrati. Egli non riteneva più, come aveva asserito nel 1853 sul New-York Tribune, a proposito dell’India, che “l’industria e il commercio borghesi [avrebbero] crea[to… le] condizioni materiali per un mondo nuovo”. Lustri di nuovi e dettagliati studi e di attenta osservazione dei mutamenti intervenuti nello scenario politico internazionale, avevano concorso a fargli maturare una visione del colonialismo britannico ben diversa da quella espressa quando era un giornalista di appena trentacinque anni. Gli effetti prodotti dal capitalismo nei paesi colonizzati furono valutati in tutt’altro modo. Riferendosi “alle Indie Orientali”, in una delle bozze della lettera alla Zasulič, Marx scrisse che “tutti sa[peva]no che lì la soppressione della proprietà comune del suolo non [era] stata che un atto di vandalismo degli inglesi; non [aveva] spinto il popolo indigeno avanti, ma indietro”. A suo avviso, i britannici erano stati capaci solo di “distruggere l’agricoltura indigena e [di] raddoppiare il numero e l’intensità delle carestie”. Il capitalismo non arrecava progresso ed emancipazione come millantavano i suoi apologeti, ma solo rapina delle risorse naturali, devastazioni ambientali e nuove forme di schiavitù e di dipendenza umana.
Infine, Marx ritornò sulla possibile concomitanza tra capitalismo e forme comunitarie del passato, conservate nei paesi extra-europei, anche nel 1882. Nella Prefazione a una nuova edizione russa del Manifesto del partito comunista, redatta assieme a Engels, il destino dell’Obščina fu accomunato a quello delle lotte proletarie in Europa: “in Russia, accanto all’ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e assieme alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, oltre la metà del suolo si trova sotto forma di proprietà comune dei contadini. Si presenta, quindi, il problema: la comunità rurale russa, questa forma – è vero – in gran parte già dissolta dell’originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera? Oppure essa dovrà attraversare, prima, lo stesso processo di dissoluzione che ha costituito lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un’evoluzione comunista”.
La posizione dialettica raggiunta da Marx gli consentì di abbandonare l’idea secondo la quale il modo di produzione socialista poteva essere costruito solo attraverso determinate tappe. Inoltre, egli negò espressamente la necessità storica dello sviluppo del capitalismo in ogni parte del mondo. Nei suoi ragionamenti non vi è traccia di determinismo economico. Le considerazioni che svolse, con ricchezza di argomentazioni, sul futuro dell’Obščina sono agli antipodi dell’equiparazione fra socialismo e sviluppo delle forze produttive affermatasi, con accenti nazionalistici, tanto in seno ai partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale (presso i quali sorsero finanche simpatie verso il colonialismo), quanto, con richiami a un presunto ‘metodo scientifico’ dell’analisi sociale, nel movimento comunista internazionale del Novecento.
Marx non mutò le sue idee di base sul profilo che avrebbe assunto la società comunista. Guidato dall’ostilità verso gli schematismi del passato, così come verso i nuovi dogmatismi che stavano nascendo in suo nome, ritenne possibile lo scoppio della rivoluzione in luoghi e forme precedentemente poco considerati. Per Marx il futuro restava nelle mani della classe lavoratrice e nella sua capacità di determinare, con le sue lotte e attraverso le proprie organizzazioni di massa, rivolgimenti sociali e la nascita di un sistema economico-politico alternativo.

 

Bibliografia
Aijaz Ahmad, In Theory: Classes, Nations, Literatures, Verso, London 1992.
Dipesh Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton 2000.
Partha Chatterjee, The Politics of the Governed: Popular Politics in Most of the World, Columbia University Press, New York 2004.
Ranajit Guha, Dominance without Hegemony: History and Power in Colonial India, Harvard University Press, Cambridge 1997.
Sadiq Jalal al-Azm, Orientalism and Orientalism in Reverse, in Khamsin, vol. 8 (1980).
Neil Lazarus, The Fetish of “the West” in Postcolonial Theory, in Crystal Bartolovich and Neil Lazarus (eds.), Marxism, Modernity and Postcolonial Studies, Cambridge University Press, Cambridge 2002.
Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, Roma 2008 [1978].

Published in:

Antonio Carioti (Ed.), Karl Marx: vivo o morto? Il profeta del comunismo duecento anni dopo

Publisher:

Solferino

Pub Info:

2018, pp. 201-213

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