I. Prologo
In Italia, le teorie di Marx hanno goduto di una popolarità straordinaria. Ispirando partiti, organizzazioni sindacali e movimenti sociali hanno influito, come nessun’altra, alla trasformazione della vita politica nazionale. Diffusesi in ogni campo della scienza e della cultura ne hanno mutato, irreversibilmente, l’indirizzo e lo stesso lessico. Concorrendo alla presa di coscienza della propria condizione delle classi subalterne, sono state il principale strumento teorico nel processo di emancipazione di milioni di donne ed uomini.
Il livello di diffusione che raggiunsero può essere paragonato a quello di pochi altri paesi. È d’obbligo interrogarsi, pertanto, sull’origine di questa notorietà. Ovvero, quando si parlò per la prima volta di «Carlo Marx»? Quando apparve sui giornali questo nome in calce ai primi scritti tradotti? Quando la fama si propagò nell’immaginario collettivo di operai e militanti socialisti? E, soprattutto, in che modo e attraverso quali circostanze si dispiegò l’affermazione del suo pensiero?
II. Karl Marx: Il misconoscimento italiano
Le primissime traduzioni degli scritti di Marx, quasi del tutto sconosciuto durante i moti rivoluzionari del 1848, comparvero soltanto nella seconda metà degli anni Sessanta. Esse, tuttavia, furono poco numerose e relative soltanto all’Indirizzo e agli Statuti della «International Working Men’s Association» [1]. A questo ritardo concorse senz’altro l’isolamento di Marx ed Engels dall’Italia, con la quale, nonostante il fascino che nutrirono per la sua storia e cultura e la partecipazione dimostrata per la sua realtà, non ebbero corrispondenti epistolari fino al 1860 ed effettive relazioni politiche prima del 1870 [2].
Un primo interesse intorno alla figura di Marx fiorì solo in coincidenza dell’esperienza rivoluzionaria della Comune di Parigi. Al «fondatore e capo generale dell’Internazionale» [3], infatti, la stampa nazionale, così come la miriade di fogli operai esistenti, dedicarono, in poche settimane, schizzi biografici e la pubblicazione di estratti di lettere e di risoluzioni politiche (tra queste La guerra civile in Francia). Anche in questa circostanza, gli scritti stampati – che compresi quelli di Engels raggiunsero il numero di 85 nel solo biennio 1871-72 – riguardarono esclusivamente documenti dell’«Internazionale», a testimonianza di un’attenzione inizialmente politica e solo successivamente di carattere teorico [4]. Inoltre, su alcuni giornali comparvero fantasiose descrizioni che concorsero a conferire alla sua immagine un’aureola leggendaria: «Carlo Marx è un uomo astuto e coraggioso a tutta prova. Gite veloci da uno Stato all’altro, continui travestimenti, fanno sì che eluda la sorveglianza di tutti gli spioni polizieschi d’Europa»[5].
L’autorevolezza che cominciò a circondarne il nome fu tanto grande quanto generica[6]. Durante questo periodo, infatti, manuali di propaganda diffusero le concezioni di Marx – o perlomeno quelle presunte tali – insieme a quelle di Darwin e Spencer [7]. Il suo pensiero venne considerato sinonimo di legaritarismo[8] o di positivismo [9]. Le sue teorie furono inverosimilmente sintetizzate con quelle agli antipodi di Fourier, Mazzini e Bastiat[10]. La sua figura accostata – secondo gli equivoci – a quella di Garibaldi[11] o di Schäffle [12].
L’interesse rivolto a Marx, oltre che restare così approssimativo, non si tradusse neanche in adesione alle sue posizioni politiche. Tra gli internazionalisti italiani – che nello scontro tra Marx e Bakunin presero parte in maniera pressoché compatta per quest’ultimo –, infatti, la sua elaborazione rimase pressoché sconosciuta ed il conflitto in seno all’«Internazionale» fu percepito più come scontro personale tra i due che come contesa teorica[13].
Ciò nonostante, nel decennio seguente segnato dall’egemonia del pensiero anarchico – che ebbe facile gioco ad imporsi nella realtà italiana caratterizzata dall’assenza di un moderno capitalismo industriale, dalla conseguente ancora limitata consistenza operaia, nonché dalla viva tradizione cospirativa mutuata dalla recente rivoluzione nel paese [14] –, gli elementi teorici di Marx andarono lentamente affermandosi nelle file del movimento operaio[15]. Anzi, paradossalmente, conobbero una prima divulgazione proprio tramite gli anarchici, che condividevano completamente le teorie dell’autoemancipazione operaia e della lotta di classe, contenute negli Statuti e negli Indirizzi dell’«Internazionale» [16]. Essi, in seguito, continuarono a pubblicare Marx, spesso in polemica con il socialismo che fu verbosamente rivoluzionario, ma, nella pratica, legalitario e revisionista. La più importante iniziativa realizzata fu, senz’altro, la pubblicazione, nel 1879, del compendio del primo libro de Il capitale, a cura di Carlo Cafiero. Fu questa la prima occasione nella quale, seppure in forma popolarizzata, i principali concetti teorici di Marx poterono cominciare a circolare in Italia.
III. Gli anni Ottanta e il «marxismo» senza marx
Gli scritti di Marx non furono tradotti neanche durante gli anni Ottanta. Eccetto pochissimi articoli comparsi sulla stampa socialista, le uniche opere pubblicate furono entrambe di Engels (Il socialismo utopico e il socialismo scientifico nel 1883 e L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato nel 1885) e videro la luce – in edizioni di scarsissima diffusione – solo grazie alla caparbia quanto virtuosa iniziativa del socialista beneventano Pasquale Martignetti. Al contrario, cominciarono ad occuparsi di Marx importanti settori della cultura ufficiale, che nutrirono nei suoi confronti minori preclusioni di quelle manifestate, invece, in ambito tedesco. Così, per iniziativa dei più importanti livelli editoriali ed accademici, la prestigiosissima «Biblioteca dell’economista», la stessa che Marx aveva consultato più volte nel corso delle sue ricerche al British Museum, pubblicò, tra il 1882 ed il 1884 in dispense separate e nel 1886 in unico volume, il libro primo de Il capitale . A dimostrazione della vacuità del movimento italiano, Marx venne a conoscenza di quest’iniziativa, che fu l’unica traduzione dell’opera realizzata in Italia fino a dopo la seconda guerra mondiale, solo casualmente e due mesi prima della morte [17]. Engels, invece, soltanto nel 1893[18]!
Pur se in una realtà ancor piena di limiti, come quella che si è tentato sin qui brevemente di descrivere, la prima circolazione del «marxismo» può datarsi proprio a questo periodo. Tuttavia, a causa del numero ridottissimo di traduzioni degli scritti di Marx e della loro così difficile reperibilità, questa diffusione non avvenne quasi mai tramite le fonti originali, ma attraverso riferimenti indiretti, citazioni di seconda mano, compendi ad opera della miriade di epigoni o presunti continuatori, sorti in poco tempo[19].
Durante questi anni si sviluppò un vero e proprio processo di osmosi culturale, che investì non solo le diverse concezioni socialiste presenti sul territorio, ma anche ideologie che con il socialismo non avevano nulla a che fare. Studiosi, agitatori politici e giornalisti formarono le proprie idee ibridando il socialismo con tutti gli altri strumenti teorici di cui disponevano[20]. E se il «marxismo» riuscì rapidamente ad affermarsi sulle altre dottrine, ciò anche in ragione dell’assenza di un socialismo italiano autoctono, l’esito di questa omogeinizzazione culturale fu la nascita di un «marxismo» impoverito e contraffatto[21]. Un «marxismo» passe-partout. Soprattutto, un «marxismo» senza conoscenza di Marx, visto che i socialisti italiani che lo avevano letto dai suoi testi originali potevano contarsi, ancora, sulle dita [22].
Pur se elementare ed impuro, determinista ed in funzione delle contingenze politiche, questo «marxismo» fu comunque capace di conferire identità al movimento dei lavoratori, ad affermarsi nel Partito dei Lavoratori Italiani costituitosi nel 1892 e, finanche, a dispiegare la propria egemonia nella cultura e nella scienza italiana [23].
Del Manifesto del partito comunista, fino alla fine degli anni Ottanta, non ve n’è ancora alcuna traccia. Ciò nonostante, esso eserciterà, insieme con il suo principale interprete, Antonio Labriola, un ruolo importante nella rottura di quel «marxismo» adulterato che aveva, fino ad allora, caratterizzato la realtà italiana. Prima di parlarne, però, è necessario fare un passo indietro.
IV. Le prime pubblicazioni del Manifesto in Italia
Il prologo alla prima stampa del Manifesto del partito comunista ne annunciava la pubblicazione «in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese»[24]. In realtà, questo proposito non fu realizzato. O, come sarebbe meglio affermare, il Manifesto divenne uno degli scritti più diffusi della storia dell’umanità, ma non secondo i piani dei suoi due autori.
Il primo tentativo di traduzione de «il Manifesto in italiano e in spagnolo» fu intrapreso a Parigi da Hermann Ewerbeck, membro dirigente della Lega dei Comunisti della capitale francese [25]. Tuttavia, nonostante a distanza di anni, nello Herr Vogt, Marx segnalasse erroneamente l’esistenza di un’edizione italiana [26], questa impresa non fu mai realizzata. Del progetto iniziale, l’unica traduzione eseguita fu quella inglese del 1850, preceduta da quella svedese del 1848. Successivamente, in seguito alla sconfitta delle rivoluzioni del biennio 1848-49, il Manifesto fu dimenticato. Le uniche ristampe, due negli anni Cinquanta e tre negli anni Sessanta, apparvero in lingua tedesca e per la comparsa di nuove traduzioni bisognerà attendere un ventennio. Nel 1869, infatti, venne data alle stampe l’edizione russa e nel 1871 quella serba. Nello stesso periodo, a New York, videro la luce la prima versione inglese pubblicata negli Stati Uniti (1871) e la prima traduzione francese (1872). Sempre nel 1872 uscì a Madrid la prima traduzione spagnola, seguita, l’anno successivo, da quella portoghese condotta su quest’ultima [27].
Al tempo, in Italia, il Manifesto era ancora sconosciuto. La sua prima breve esposizione, composta da riassunti ed estratti dal testo, comparve solo nel 1875, nell’opera di Vito Cusumano, Le scuole economiche della Germania in rapporto alla questione sociale . In essa si poteva leggere che: «dal punto di vista del proletariato questo programma è tanto importante quanto la Déclaration des droits des hommes per la borghesia: esso è uno dei fatti più importanti del XIX secolo, uno di quei fatti che caratterizzano, che danno nome e indirizzo ad un secolo» [28]. In seguito, i riferimenti al Manifesto furono poco frequenti. Tuttavia, lo scritto venne citato, nel 1883, negli articoli che diedero notizia della scomparsa di Marx. Il foglio socialista «La Plebe» ne parlava come di uno «dei documenti fondamentali del socialismo contemporaneo (…) simbolo della maggioranza del proletariato socialista dell’occidente e dell’America del Nord»[29]. Il quotidiano borghese la «Gazzetta Piemontese», invece, presentava Marx come l’autore del «famoso Manifesto dei Comunisti, che divenne il labaro del socialismo militante, il catechismo dei diseredati, il vangelo sul quale votano, giurano, combattono gli operai tedeschi e la maggior parte degli operai inglesi»[30]. A dispetto di questi apprezzamenti, la sua stampa dovette, però, ancora attendere.
Nel 1885, dopo aver ricevuto una copia del Manifesto da Engels, Martignetti ne realizzò la traduzione. Tuttavia, per mancanza di danaro, l’edizione non fu mai pubblicata. La prima traduzione italiana apparve, con oltre quarant’anni di ritardo, soltanto nel 1889, anno nel quale erano già state pubblicate 21 edizioni in tedesco, 12 in russo, 11 in francese, 8 in inglese, 4 in spagnolo, 3 in danese (la prima nel 1884), 2 in svedese, ed 1 rispettivamente in lingua portoghese, ceka (1882), polacca (1883), norvegese (1886) e yiddish (1889). Il testo italiano fu dato alle stampe con il titolo di Manifesto dei socialisti redatto da Marx e Engels , in dieci puntate tra l’agosto ed il novembre, sul giornale democratico di Cremona «L’Eco del popolo». Questa versione, però, si distinse per la pessima qualità, risultando priva delle prefazioni di Marx ed Engels, della terza sezione («Letteratura socialista e comunista») e di diverse altre parti che furono omesse o riassunte. Inoltre, la traduzione di Leonida Bissolati, eseguita dall’edizione tedesca del 1883 e confrontata con quella francese del 1885 curata da Laura Lafargue, semplificava le espressioni maggiormente complicate. Dunque, più che di una traduzione, si trattò di un popolarizzazione dello scritto, con un certo numero di passaggi testualmente tradotti[31].
La seconda edizione italiana, che fu la prima ad uscire in brochure, giunse nel 1891. La traduzione, condotta dalla versione francese del 1885 del giornale parigino «Le Socialiste», e la prefazione furono opera dell’anarchico Pietro Gori. Il testo si segnala per l’assenza del preambolo e per i diversi errori presenti. L’editore Flaminio Fantuzzi, anche egli vicino alle posizioni anarchiche, avvisò Engels solo a cose fatte e questi, in una lettera a Martignetti, espresse il suo particolare fastidio per le «prefazioni di sconosciuti tipo Gori» [32].
La terza traduzione italiana uscì nel 1892, in feuilletton sul periodico «Lotta di classe» di Milano. Questa versione, che si presentava come la «prima e sola traduzione italiana del Manifesto, che non sia un tradimento»[33], fu condotta da Pompeo Bettini sull’edizione tedesca del 1883. Seppure presentava anch’essa errori e semplificazioni di alcuni passaggi, si affermò decisamente sulle altre, ebbe numerose riedizioni fino al 1926 e diede avvio al processo di formazione della terminologia marxista in Italia [34]. L’anno seguente, con alcune correzioni e miglioramenti di stile e con l’indicazione che «la versione completa [era stata] eseguita sulla 5.a edizione tedesca (Berlino 1891)»[35], questa traduzione apparve in brochure, in mille copie. Nel 1896 la ristampa in duemila copie. Il testo conteneva le prefazioni del 1872, 1883 e 1890, tradotte da Filippo Turati, direttore di «Critica Sociale» al tempo la principale rivista del socialismo italiano, e l’apposito proemio Al lettore italiano che questi era riuscito ad ottenere da Engels per l’occasione, al fine di poter distinguere la nuova edizione da quelle che l’avevano preceduta. La prefazione italiana fu l’ultima scritta per il Manifesto da uno dei suoi autori.
Negli anni seguenti vennero pubblicate altre due edizioni che, seppur prive dell’indicazione del traduttore, riprendevano decisamente la versione di Bettini. La prima, alla quale mancavano, però, la prefazione e la terza sezione, venne realizzata per dare al Manifesto un’edizione popolare ed a buon mercato. Essa fu promossa, in occasione del 1° Maggio del 1897, dalla rivista «Era Nuova» ed apparve a Diano Marina (in Liguria) in ottomila copie. La seconda, senza le prefazioni, a Firenze, presso l’editore Nerbini, nel 1901.
V. Il Manifesto tra la fine dell’Ottocento e il fascismo
Negli anni Novanta, il processo di diffusione degli scritti di Marx ed Engels compì un grande progresso. Il consolidamento delle strutture editoriali di quello che era divenuto il Partito Socialista Italiano, l’opera svolta dai numerosi giornali ed editori minori e la collaborazione di Engels alla «Critica Sociale», furono tutte circostanze che concorsero a determinare una maggiore conoscenza dell’opera di Marx. Ciò non bastò, però, ad arginare il processo di alterazione che ne accompagnava la divulgazione. La scelta di combinare le concezioni di Marx con le teorie più disparate fu tanto opera di quel fenomeno denominato «socialismo della cattedra» che del movimento operaio, i cui contributi teorici, pur se divenuti di una certa mole, si caratterizzavano ancora per una stentatissima conoscenza degli scritti marxiani.
Marx aveva ormai assunto un’indiscussa notorietà, ma era ancora considerato come un primus inter pares nella moltitudine dei socialisti esistenti[36]. Soprattutto, fu messo in circolazione da pessimi interpreti del suo pensiero. Per tutti, valga l’esempio di colui che fu considerato «il più socialista, il più marxista (…) degli economisti italiani» [37]: Achille Loria; correttore e perfezionatore di quel Marx che nessuno conosceva abbastanza per dire in cosa fosse stato corretto o perfezionato. Poiché è nota la sua descrizione dipinta da Engels nella Prefazione al Libro Terzo de Il capitale – «improntitudine illimitata, agilità da anguilla per sgusciare da situazioni insostenibili, eroico disdegno delle pedate ricevute, prontezza nell’appropriarsi prodotti altrui…» [38] –, per meglio descrivere la falsificazione subita da Marx, può essere utile ricordare un aneddoto raccontato, nel 1896, da Benedetto Croce. Nel 1867, a Napoli, in occasione della costituzione della prima sezione italiana dell’«Internazionale», uno sconosciuto personaggio straniero, «molto alto e molto biondo, dai modi dei vecchi cospiratori e dal parlare misterioso», intervenne per convalidare la nascita del circolo. Ancora a distanza di molti anni, un avvocato napoletano, presente all’incontro, era convinto che «quell’uomo alto e biondo fosse stato Carlo Marx» [39] e ci volle una grande fatica per riuscire a convincerlo del contrario. Poiché in Italia molti concetti marxiani sono stati introdotti dall’«illustre Loria» [40], si può concludere che quello che è stato inizialmente divulgato sia stato un Marx snaturato, un Marx, anche questo, «alto e biondo!» [41]
Tale realtà mutò soltanto grazie all’opera di Labriola, che per primo introdusse in Italia il pensiero marxiano in maniera autentica. Più che essere interpretato, attualizzato o «completato» con altri autori, si può affermare che, grazie a lui, Marx venne svelato per la prima volta [42]. Questa impresa avvenne tramite i Saggi sulla concezione materialistica della storia, pubblicati da Labriola tra il 1895 ed il 1897. Il primo di questi, In memoria del Manifesto dei comunisti, consisteva proprio in uno studio sulla genesi del Manifesto che, a seguito dell’approvazione giunta da Engels poco prima della sua morte [43], ne divenne il più importante commento e l’interpretazione ufficiale di parte «marxista».
Molti dei limiti della realtà italiana poterono essere così affrontati. Secondo Labriola, la rivoluzione «non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni, ma deve essere e sarà il risultato dei proletari stessi»[44]. «Il comunismo critico – che per il filosofo napoletano era il nome più adatto per descrivere le teorie di Marx ed Engels – non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse (…) non è in somma, un seminario in cui si formi lo stato maggiore dei capitani della rivoluzione proletaria; ma è solo la coscienza di tale rivoluzione» [45]. Il Manifesto , dunque, non è «il vademecum della rivoluzione proletaria» [46], ma lo strumento per smascherare l’ingenuità del socialismo che si pensa possibile «senza rivoluzione, ossia senza fondamentale mutazione della struttura elementare e generale della società» [47].
Con Labriola il movimento operaio italiano ebbe, finalmente, un teorico capace, al contempo, di conferire dignità scientifica al socialismo, di compenetrare e rinvigorire la cultura nazionale, di misurarsi con i massimi livelli della filosofia e del marxismo europei. Tuttavia, il rigore del suo marxismo, problematico per le immediate circostanze politiche e critico verso i compromessi teorici, ne decretò anche l’inattualità [48].
A cavallo tra i due secoli, infatti, la pubblicazione de La filosofia di Marx di Giovanni Gentile (libro segnalato in seguito da Lenin come «degno di attenzione» [49]), degli scritti di Croce che proclamavano la «morte del socialismo» [50] e – sul versante militante – dei lavori di Francesco Saverio Merlino[51] e di Antonio Graziadei [52], fecero spirare anche in Italia il vento della «crisi del marxismo». Nel Partito Socialista Italiano, tuttavia, non vi era – come in Germania – un «marxismo» ortodosso e, in realtà, lo scontro fu combattuto tra due «revisionismi», uno riformista e l’altro sindacal-rivoluzionario [53].
In questo stesso periodo, a partire dal 1899 e fino al 1902, ci fu un proliferare di traduzioni di Marx ed Engels che fornirono al lettore italiano buona parte delle opere al tempo disponibili. Fu in questo contesto che, nel 1902, in appendice alla terza edizione dello scritto di Labriola In memoria del Manifesto dei comunisti, apparve una nuova traduzione del Manifesto, l’ultima eseguita in Italia fino alla fine della seconda guerra mondiale. Questa, la cui paternità fu assegnata da alcuni a Labriola e da altri a sua moglie Rosalia Carolina De Sprenger, conteneva alcune inesattezze ed omissioni e venne ripresa in poche altre riedizioni dello scritto.
La versione più utilizzata fino al secondo dopoguerra fu, dunque, quella di Bettini, riprodotta in numerose ristampe. Ad una prima nel 1910, ne seguirono diverse a cura della «Società editrice Avanti», divenuta il principale veicolo di propaganda del Partito Socialista. In particolare, due nel 1914, la seconda delle quali includeva I fondamenti del comunismo di Engels. Ancora tra il 1914 ed il 1916 (ristampa nel biennio 1921-22) venne inserita nel primo tomo dell’edizione delle Opere di Marx ed Engels che, a riprova della confusione generale dominante, in Italia – come in Germania – furono raccolte insieme con quelle di Lassalle. Poi nel 1917, per due volte nel 1918 con in appendice i 14 punti della Conferenza di Kienthal ed il manifesto della Conferenza di Zimmerwald, nel 1920 (con due ristampe nel 1922) in una traduzione rivista da Gustavo Sacerdote e, infine, nel 1925. A queste edizioni «Avanti», vanno aggiunte altre sette ristampe che apparvero, presso case editrici minori, tra il 1920 ed il 1926.
Durante la prima decade del secolo, il «marxismo» fu congedato dalla pratica politica quotidiana del Partito Socialista Italiano. In un famoso dibattito parlamentare del 1911, infatti, il presidente del consiglio Giovanni Giolitti poteva affermare: «il Partito Socialista ha moderato assai il suo programma. Carlo Marx è stato mandato in soffitta» [54]. I commenti ai testi di Marx, che solo poco tempo prima avevano inondato il mercato librario, si arrestarono. E, se si escludono il «ritorno a Marx» degli studi filosofici di Rodolfo Mondolfo[55] e poche altre eccezioni, lo stesso si verificò durante gli anni Dieci. Quanto alle iniziative ad opera di altre realtà, il campo borghese aveva da tempo celebrato la «dissoluzione del marxismo», mentre nella chiesa cattolica le condanne pregiudiziali prevalsero di gran lunga sui tentativi di analisi.
Nel 1922 l’irrompere della barbarie fascista. Dal 1923, tutti gli esemplari del Manifesto furono ritirati dalle biblioteche pubbliche e universitarie. Nel 1924 tutte le pubblicazioni di Marx e quelle legate al movimento operaio furono date al fuoco [56]. Le leggi «fascistissime» del 1926, infine, decretarono lo scioglimento dei partiti di opposizione e diedero inizio al periodo più tragico della storia italiana moderna.
Se si escludono alcune edizioni illegali dattilografate o ciclostilate, i pochi scritti di Marx pubblicati in lingua italiana tra il 1926 ed il 1943 apparvero all’estero (tra questi si segnalano due versioni del Manifesto stampate in Francia, nel 1931 e nel 1939, e un’altra pubblicata a Mosca nel 1944, con una nuova traduzione di Palmiro Togliatti). Uniche eccezioni a questa congiura del silenzio furono tre diverse edizioni del Manifesto del partito comunista. Due di queste apparvero, «a uso degli studiosi» e con diritto di consultazione solo tramite richiesta preventiva, nel 1934. La prima nel volume collettaneo Politica ed economia, che raccolse, accanto a quello di Marx, testi di Labriola, Loria, Pareto, Weber e Rimmel; la traduzione era quella di Bettini rivisitata dal curatore Robert Michels [57]. La seconda a Firenze nella versione di Labriola, in un altro volume collettivo, Le carte dei diritti, primo tomo della collana «Classici del liberalismo e del socialismo». E poi da ultimo, nel 1938, stavolta a cura di Croce, in appendice ad una raccolta di saggi di Labriola, dal titolo La concezione materialistica della storia, nella traduzione da lui stesso eseguita. Il volume comprendeva anche un saggio di Croce, divenuto poi famoso, dal titolo quanto mai esplicito: Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Il filosofo idealista, però, si sbagliava. Il «marxismo» italiano non era morto, ma soltanto imprigionato nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci[58] che avrebbero presto dispiegato tutto il loro valore teorico e politico.
Con la liberazione dal fascismo, il Manifesto ricominciò ad apparire in diverse edizioni. Federazioni provinciali del «Partito Comunista Italiano», iniziative di singoli e piccole case editrici nell’Italia meridionale già liberata, diedero al testo di Marx ed Engels una nuova linfa. Tre edizioni apparvero nel 1943 e otto nel 1944. E così di seguito negli anni successivi: dalle nove edizioni pubblicate alla fine della guerra, nel 1945, all’exploit del 1948, in occasione del centenario.
VI. Conclusione
Ripercorrendo la storia dell’edizione italiana del Manifesto del partito comunista risalta, con evidenza, l’enorme ritardo con il quale esso venne pubblicato. Contrariamente a molti paesi dove il Manifesto fu il primo scritto di Marx ed Engels ad essere tradotto, in Italia apparve solo dopo altre opere [59]. Anche la sua influenza politica fu modesta e esso non incise mai direttamente sui principali documenti del movimento operaio. Tanto meno fu determinante nella formazione della coscienza politica dei dirigenti socialisti. Tuttavia, fu di grande rilevanza per gli studiosi (si è visto il caso di Labriola) e, attraverso le sue edizioni, svolse un ruolo importante tra i militanti, fino a divenirne il riferimento teorico privilegiato.
Ad oltre centocinquant’anni dalla sua pubblicazione, preso in esame da un numero ormai incalcolabile di esegeti, oppositori e seguaci di Marx, il Manifesto ha attraversato le più svariate stagioni ed è stato letto nei modi più diversi. Pietra miliare del «socialismo scientifico» o plagio del Manifeste de la démocratie di Victor Considerant; testo incendiario colpevole di aver fomentato l’odio tra le classi nel mondo o simbolo di liberazione del movimento operaio internazionale; classico del passato o opera anticipatrice della realtà odierna della «globalizzazione capitalistica». Quale che sia l’interpretazione per la quale si propenda, una cosa è certa: pochissimi altri scritti nella storia possono vantare analoga vitalità e diffusione. Ancora oggi, infatti, il Manifesto continua ad essere stampato ed a far parlare di sé in America latina come in Cina, negli Stati Uniti come in Italia e nell’intera Europa.
Se la perpetua giovinezza di uno scritto sta nella sua capacità di sapere invecchiare, ovvero di essere sempre capace di stimolare nuovi pensieri, si può allora affermare che il Manifesto possiede senz’altro questa virtù.
Riferimenti
1. Per un indice completo degli scritti di Marx ed Engels pubblicati in lingua italiana dal 1848 al 1926 si veda Emilio Gianni, Diffusione, popolarizzazione e volgarizzazione del marxismo in Italia , Pantarei, Milano 2004. Per una ricostruzione storiografica della prima diffusione delle opere di Marx in Italia si rimanda alla raccolta di saggi di Gian Mario Bravo, Marx ed Engels in Italia, Editori Riuniti, Roma 1992. Di notevole interesse, inoltre, Gerhard Kuck (a cura di), Karl Marx, Friedrich Engels und Italien: Teil I, Herausgabe und Verbreitung der Werke von Karl Marx und Friedrich Engels in Italien , e Teil II, Die Entwicklung des Marxismus in Italien: Wege, Verbreitung, Besonderheiten . Il primo dei due tomi comprende una completa «Auswahlbibliographie zur italienischen Marx/Engels-Forschung», dagli anni Settanta dell’Ottocento al 1943, pp. 131-148.
2. Cfr. Giuseppe Del Bo (a cura di), La corrispondenza di Marx e Engels con italiani (1848-1895) , Feltrinelli, Milano 1964, pp. IX-XXI.
3. Carlo Marx capo supremo dell’Internazionale , in «Il proletario Italiano», Torino, 27-VII-1871.
4. Cfr. Roberto Michels, Storia del marxismo in Italia, Luigi Mongini Editore, Roma 1909, p. 15, che sottolinea come “dapprima fu il Marx politico, che spinse a poco a poco gli Italiani ad occuparsi anche del Marx scienziato”.
5. Carlo Marx capo supremo dell’Internazionale , op. cit.
6. Cfr. Renato Zangheri, Storia del socialismo italiano, Volume I, Einaudi, Torino 1993, p. 338.
7. Quale esempio in proposito si rimanda al manuale di Oddino Morgari, L’arte della propaganda socialista, Libr. Editr. Luigi Contigli, Firenze 1908 (2ª ediz.), p. 15. Esso proponeva ai propagandisti del partito di utilizzare questo modo di apprendimento: leggere anzitutto un riassunto qualsiasi di Darwin e di Spencer che darà allo studioso la direzione generale del pensiero moderno; poi verrà Marx a completare la “formidabile triade” che rinchiuderà degnamente il “vangelo dei socialisti contemporanei”. In proposito cfr. Roberto Michels, Storia del marxismo in Italia, op. cit., p. 102.
8. Ivi, p. 101.
9. Si veda lo scritto molto diffuso di Enrico Ferri, Socialismo e scienza positiva. Darwin, Spencer, Marx, Casa Editrice Italiana, Roma 1894. Nella sua prefazione l’autore italiano affermava: “io intendo provare come il socialismo Marxista (…) non sia che il completamento pratico e fecondo, nella vita sociale, di quella moderna rivoluzione scientifica (…) decisa e disciplinata dalle opere di Carlo Darwin e Erberto Spencer”.
10. Cfr. Gnocchi Viani, Il socialismo moderno, Casa di pubblicità Luigi Pugni, Milano 1886. In proposito si veda la critica a Gnocchi Viani di Roberto Michels, Storia critica del movimento socialista italiano. Dagli inizi fino al 1911 , Società An. Editrice “La voce”, Firenze 1926, p. 136.
11. A mo’ di esempio si veda la lettera della «Associazione democratica di Macerata» a Marx del 22-XII-1871. Questa organizzazione propose Marx come “triunviro onorario insieme ai cittadini Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini”, in Del Bo (a cura di), op. cit., p. 166. Nel riportare la notizia a Wilhelm Liebknecht, il 2-I-1872, Engels scrisse: “Una società di Macerata nella Romagna ha nominato come suoi 3 presidenti onorari: Garibaldi, Marx e Mazzini. Questa confusione rispecchia fedelmente lo stato dell’opinione pubblica tra gli operai italiani. Manca solo Bakunin per completare il quadro”, MEW 33, Dietz Verlag, Berlin 1966, p. 368.
12. Cfr. Roberto Michels, Storia del marxismo in Italia, op. cit., p. 101, che afferma come “agli occhi di molti lo Schäffle passò per il più autentico di tutti i marxisti”.
13. Cfr. Paolo Favilli, Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra , FrancoAngeli, Milano 2000 (1996), p. 50. Sui congressi della «Internazionale» italiana si veda Gastone Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi, Editori Riuniti, Roma 1992 (1963), in particolare pp. 51-95.
14. Cfr. Paolo Favilli, Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra , op. cit., p. 45.
15. Ivi, p. 42.
16. Ivi, pp. 59-61.
17. Cfr. Tullio Martello a Karl Marx, 5-I-1883, in Giuseppe del Bo (a cura di), Corrispondenze con italiani, op. cit., p. 294.
18. Cfr. Filippo Turati a Friedrich Engels, 1-VI-1893, Ivi, pp. 479-480.
19. Cfr. Roberto Michels, Storia critica del movimento socialista italiano. Dagli inizi fino al 1911 , op. cit., p. 135, che afferma come, in Italia, il marxismo non scaturì, “nella quasi totalità dei suoi adepti, da una profonda conoscenza delle opere scientifiche del maestro, ma da contatti presi lì per lì con qualche suo scrittarello politico e qualche (non suo) riassunto d’economia e spesso, quel che era peggio, attraverso i suoi epigoni della socialdemocrazia tedesca”.
20. Cfr. Antonio Labriola,Discorrendo di socialismo e filosofia, in Scritti filosofici e politici, (a cura di Franco Sbarberi), Einaudi, Torino 1973, p. 731, che affermava come “molti di quelli che in Italia si danno al socialismo, e non da semplici agitatori, conferenzieri e candidati, sentono che è impossibile di farsene una persuasione scientifica, se non riallacciandolo per qualche via o tramite alla rimanente concezione genetica delle cose, che sta più o meno in fondo a tutte le scienze. Di qui la manía che è in molti, di cacciar dentro al socialismo tutta quella rimanente scienza di cui più o meno essi dispongono”.
21. Cfr. Gian Mario Bravo, Marx e il marxismo nella prima sinistra italiana, op. cit., p. 103.
22. Cfr. Roberto Michels, Storia del marxismo in Italia, op. cit., p. 99.
23. Cfr. Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1967, pp. 146 e 148.
24. Friedrich Engels – Karl Marx, Manifesto del partito comunista, MEW 4, p. 461.
25. Cfr. Friedrich Engels a Karl Marx, 25-IV-1848, MEGA² III/2, p. 153.
26. Cfr. Karl Marx, Herr Vogt, MEGA² I/18, p. 107.
27. Per la bibliografia e la storia delle edizioni del Manifesto del partito comunista si veda l’indispensabile Bert Andréas, Le Manifeste Communiste de Marx et Engels, Feltrinelli, Milano 1963 e la pregevole pubblicazione del Manifesto a cura delle Edizioni Lotta Comunista, Milano 1998, ricchissima di notizie a riguardo.
28. Vito Cusumano, Le scuole economiche della Germania in rapporto alla questione sociale , Giuseppe Marghieri Editore, Prato 1875, p. 278.
29. In «La Plebe», Milano, Aprile 1883, Nr. 4.
30. Dall’Enza: Carlo Marx e il socialismo scientifico e razionale, in «Gazzetta Piemontese», Torino, 22-III-1883.
31. Cfr. Bert Andréas, op. cit., p. 145.
32. Friedrich Engels a Pasquale Martignetti, 2-IV-1891, in MEW 38, Dietz Verlag, Berlin 1964, p. 72.
33. In «Lotta di classe», Milano, Anno I, Nr. 8, 17/18-IX-1892.
34. Cfr. Michele A. Cortellazzo, La diffusione del Manifesto in Italia alla fine dell’Ottocento e la traduzione di Labriola , in «Cultura Neolatina», 1981, Nr. 1-2, p. 98, che afferma: «il 1892 è lo spartiacque che divide l’insieme delle traduzioni ottocentesche del Manifesto in due campi ben distinti: al di là di quell’anno stanno le traduzioni approssimative, lacunose e largamente debitrici alle versioni straniere, più importanti per il loro valore di primi documenti della diffusione del testo in Italia che per la qualità della traduzione; al di qua la traduzioni complete e scrupolose che, anche per la loro tiratura, influirono decisamente sulla diffusione del marxismo in Italia».
35. Carlo Marx – Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, Uffici della Critica Sociale, Milano 1893, p. 2.
36. Cfr. Gaetano Arfé, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Mondadori, Milano 1977, p. 70.
37. Filippo Turati ad Achille Loria, 26-XII-1890, in «Appendice» a Paolo Favilli, Il socialismo italiano e la teoria economica di Marx (1892-1902) , Bibliopolis, Napoli 1980, pp. 181-182.
38. Friedrich Engels, Vorwort a Karl Marx, Das Kapital. Dritter Band, MEGA II/15, p. 21.
39. Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Bibliopolis, Napoli 2001, p. 65.
40. Friedrich Engels, op. cit., p. 21.
41. Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, op. cit., p. 65.
42. Cfr. Antonio Labriola a Benedetto Croce, 25-V-1895, in Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, op. cit., p. 269. In proposito si veda anche Mario Tronti, Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi – Gramsci e Labriola , in Alberto Caracciolo – Gianni Scalia (a cura di), La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci , Feltrinelli, Milano 1959, p. 148.
43. “Tutto molto bene, solo qualche piccolo errore di fatto e all’inizio uno stile un pò troppo erudito. Sono molto curioso di vedere il resto”, in Friedrich Engels a Antonio Labriola, 8-VII-1895, MEW 39, Dietz Verlag, Berlin 1968, p. 498.
44. Cfr. Antonio Labriola,In memoria del Manifesto dei comunisti, in Scritti filosofici e politici, op. cit., p. 507.
45. Ivi, p. 503.
46. Ivi, p. 493.
47. Ivi, pp. 524-525.
48. Cfr. Eugenio Garin, Antonio Labriola e i saggi sul materialismo storico, in Antonio Labriola, La concezione materialistica della storia, Laterza, Bari 1965, p. XLVI.
49. Vladimir Illich Lenin, Karl Marx, in Opere, Volume XXI, p. 76.
50. In proposito si veda il saggio di Benedetto Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900) , in Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, op. cit., pp. 265-305.
51. Cfr. Francesco Saverio Merlino, L’utopia collettivista e la crisi del socialismo scientifico , Treves, Milano 1897; Francesco Saverio Merlino, Pro e contro il socialismo. Esposizione critica dei principi e dei sistemi socialisti , Treves, Milano 1897.
52. Cfr. Antonio Graziadei, La produzione capitalistica, Bocca, Torino 1899.
53. Cfr. Roberto Michels, Storia del marxismo in Italia, op. cit., p. 120.
54. La frase fu pronunciata da Giolitti in parlamento l’8 aprile del 1911. Si vedano gli Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Sessione 1909-1913, Vol. XI, p. 13717. In proposito si veda Enzo Santarelli, La revisione del marxismo in Italia. Studi di critica storica , Feltrinelli, Milano 1964, pp. 131-132.
55. Cfr. Rodolfo Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, Einaudi, Torino 1968.
56. Cfr. Antonio Gramsci, La costruzione del partito comunista (1923-1926), Einaudi, Torino, 1978, pp. 475-476.
57. Le modifiche alla versione di Bettini contenute in questa nuova edizione furono un vero e proprio tentativo di deformazione e soppressione di alcune parti del testo, per renderlo meno pericolo e più consono all’ideologia fascista. In proposito cfr. Franco Cagnetta, Le traduzioni italiane del «Manifesto del partito comunista» , in «Quaderni di Rinascita», N. 1, Il 1848, Rinascita, Roma 1949, pp. 28-29.
58. Cfr. Enzo Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, op. cit., p. 23.
59. La cronologia delle edizioni degli scritti maggiori di Marx ed Engels fino alla pubblicazione delManifesto del partito comunista è la seguente: 1871. Karl Marx,La guerra civile in Francia; 1873. Friedrich Engels,Dell’autorità; 1873. Karl Marx, Dell’indifferenza in materia politica; 1879. Carlo Cafiero, Il capitale di Carlo Marx brevemente compendiato da Carlo Cafiero ; 1882-84. Karl Marx, Il capitale; 1883. Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza; 1885. Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato ; 1889. Karl Marx-Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista (traduzione Bissolati); 1891. Karl Marx-Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista (traduzione Gori); 1892. Karl Marx-Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista (traduzione Bettini).
Marcello
Musto