Un ragazzo avanza solitario sul bordo della carreggiata che collega l’aeroporto al centro abitato. Indossa il tipico giubbotto sportivo americano sul cui retro appaiono, in genere vistosamente impressi, il nome di una squadra di basket o la bandiera a stelle e strisce. Il suo reca, invece, una sola parola, di cinque lettere: Black.
Lo avvicino per parlargli e per chiedergli notizie sul luogo nel quale mi trovo. Mi risponde, laconico, che lui vive qui da quando è nato, che vi si è abituato. Lo scenario che fa da sfondo alla nostra conversazione è surreale. Non avevo mai visto nulla del genere. Continuo a guardarmi intorno e mi accorgo di quanto corrispondano a verità le cose lette su questo posto. Sono circondato da un numero infinito di edifici abbandonati. Vecchie fabbriche, incustodite da decenni, che hanno assunto le sembianze di giganteschi relitti, corrose dal tempo e dalle intemperie. Immobili sventrati, vetri in pezzi sparsi ovunque, macchinari ricoperti dal ghiaccio e dalla neve. Un deserto abitato soltanto da cani randagi, tossicodipendenti, senza casa e altri soggetti ai margini della società. Sono a Detroit: la città fantasma. Uno degli esempi più eclatanti dell’altra America, quella che non viene mai mostrata nelle ovattate serie televisive ambientate a Manhattan.
LA CHIAMAVANO MOTOR CITY
Se l’archeologia industriale fosse una scienza, Detroit sarebbe il primo modello da studiare. Eppure la sua storia annovera sviluppo e splendore. Conosciuta come la Motor City – da cui nacque anche il soprannome Motown, utilizzato dalla celebre casa discografica di soul e rhythm and blues -, Detroit costituì per decenni il principale centro automobilistico del globo. Nel 1902 la città salutò la nascita della Cadillac. E fu proprio qui, un anno più tardi, che Henry Ford inaugurò gli stabilimenti dai quali, nel 1908, uscì il primo esemplare di Modello T, la prima vettura della storia prodotta attraverso la catena di montaggio. La General Motors aprì quello stesso anno seguita dalla Chrysler poco dopo, nel 1925.
Sulle ali del progresso, la città si ampliò in maniera considerevole. Nella seconda decade del Novecento la popolazione raddoppiò e Detroit divenne il quarto agglomerato urbano più numeroso del paese. Una fetta consistente dei suoi nuovi abitanti vi era giunta dagli stati del Sud. Parte di quella schiera di afroamericani in cerca di lavoro (nella sola Detroit, in questo periodo, ne arrivarono oltre centoventimila) che si rese protagonista di quel fenomeno denominato la prima grande migrazione.
L’espansione non riguardò soltanto il mondo delle quattro ruote. In seguito allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale Detroit si sviluppò rapidamente in funzione della produzione di armi, ed è noto che contribuì alla guerra più di ogni altra città americana. Grazie a questi rapidi mutamenti, nel 1956 il numero di residenti toccò il suo picco: ben 1.865.000. Illustri professori e stimati giornalisti del tempo la glorificarono quale migliore esempio della fine della lotta di classe in America; come l’emblema del tentativo riuscito, da parte di grandi masse di lavoratori, di entrare nelle file della classe media e di poter beneficiare dei piaceri dell’imborghesimento.
Quanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Con gli anni Sessanta cominciò l’inizio del declino, che si fece poi più rapido in seguito alle crisi petrolifere del 1973 e del 1979. Oggi Detroit conta appena settecentomila abitanti, il minor numero degli ultimi cento anni. La spirale verso il basso pare sia destinata a non arrestarsi. Nel primo decennio del XXI secolo la città ha perso addirittura un quarto della sua popolazione totale e continua a precipitare a ritmo costante: ogni venti minuti un’altra famiglia racimola tutte le sue cose, le spedisce verso una nuova destinazione e si lascia alle spalle Detroit.
100.000 LOTTI VUOTI
Continuo il mio giro per i suoi quartieri ed è come trovarmi in un luogo abitato da spettri. Nel suo perimetro ci sono più di centomila lotti vuoti e case abbandonate, in rovina o pericolanti. Diecimila dovrebbero essere demolite nei prossimi quattro anni, ma mancano i soldi per farlo. La sensazione che si respira percorrendola è desolante poiché spesso, in un intero isolato, è rimasta soltanto una casa ancora abitata. Detroit è talmente vuota che nei suoi spazi sgombri potrebbero entrarvi Boston o l’intera San Francisco. Per contrastare questo stato di estrema desolazione, l’amministrazione comunale sta tentando di concentrare la popolazione in determinate aree e di trasformarne altre in aziende agricole. In realtà la crisi economica scoppiata nel 2008 ha reso questo scenario ancora più lugubre. La città, da poco dichiarata in bancarotta, è in dissesto finanziario e di recente sono stati tagliati gli ultimi servizi pubblici, inclusi gli autobus – unico mezzo di trasporto per i ceti meno abbienti – e le luci notturne nelle zone periferiche. La situazione sociale non è migliore di quella ambientale. A Detroit una persona su tre vive in povertà, condizione che colpisce più della metà dei minori. Il livello di segregazione razziale è ancora altissimo. Oltre l’ottanta per cento della popolazione è di origine afroamericana e vive in centro, mentre gli operai bianchi, o meglio l’ultima parte di coloro che non sono ancora riusciti a partire, si sono spostati in sobborghi protetti e vicini ai grandi magazzini. Il tasso di criminalità è uno dei più alti del paese e la disoccupazione reale è giunta al cinquanta per cento.
ROTTAMI VERSO LA CINA
Nel 2009, sotto i colpi della crisi, la General Motors e la Chrysler dichiararono bancarotta, mentre la Ford fu duramente colpita dalla recessione. Gli aiuti ricevuti dalle Big Three alla fine dello scorso decennio, dall’amministrazione Bush così come da quella Obama, ammontano a ottanta miliardi di dollari. Le misure furono accompagnate da pesanti ristrutturazioni, ovvero tagli salariali, maggiore precarietà e tanti licenziamenti. Gli stabilimenti chiusi qui riaprirono in Messico, Brasile, Polonia e, soprattutto, in Cina.
In fondo Detroit non racconta solo del Novecento, ma testimonia anche i mutamenti dell’oggi e ciò che ci attende in futuro. Ci mostra che le fabbriche sono vuote non perché il lavoro non esiste più, ma perché la produzione è stata spostata altrove, in luoghi dove il costo del lavoro è più basso e la lotta per il riconoscimento dei diritti sociali è più debole.
Fa scuro in fretta a Detroit d’inverno. In prossimità dell’uscita dall’autostrada alcune persone chiedono l’elemosina. Più avanti, nel cuore di quella che un tempo era la zona industriale, si intravede un fuoco. Lo ha acceso un gruppo di giovani intento a smantellare i resti di una fabbrica che saranno poi spediti, via mare, verso Oriente. Questi rottami di ferro vengono pagati due dollari e mezzo per libbra e sono gli ultimi oggetti utili da cui ricavare qualcosa. Rappresentano uno dei principali prodotti dell’esportazione statunitense in Cina, e Detroit è la città che ne offre di più al mondo. Servono a costruire altrove ciò che prima era qui. A creare le infrastrutture che permetteranno uno sfruttamento e un guadagno maggiore per i padroni. Non si illudano, però. Con le nuove fabbriche sorgeranno anche nuovi conflitti e nuove speranze.
Marcello Musto insegna alla York University di Toronto. I suoi articoli sono disponibili sul sito marcellomusto.com