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Comunismo

1. Le teorie dei primi socialisti.
In seguito alla Rivoluzione francese e con l’espansione della Rivoluzione industriale, in Europa cominciarono a circolare numerose teorie che avevano il duplice intento di fornire risposte alle domande di giustizia sociale disattese dalla prima e di correggere i drammatici squilibri economici provocati dalla seconda. Le conquiste democratiche ottenute dopo la presa della Bastiglia assestarono un colpo decisivo all’aristocrazia, ma lasciarono pressoché immutata la preesistente sperequazione di ricchezza tra il popolo e le classi dominanti. Il declino della monarchia e l’istituzione della repubblica in Francia non erano stati sufficienti a fare diminuire la povertà.

Fu questo il contesto nel quale sorse quel variegato arco di concezioni definite da Karl Marx e Friedrich Engels (1820-1895), nel Manifesto del partito comunista, «critico-utopistic[he]» . Esse furono ritenute «critiche», poiché coloro che le avevano sostenute si erano opposti, con sfumature diverse, all’ordine sociale esistente e avevano fornito «elementi di grandissimo valore per illuminare gli operai» . D’altro canto, però, si erano dimostrate «utopistiche» , dal momento che i loro fautori avevano presunto di potere realizzare una forma alternativa di organizzazione sociale facendo ricorso alla mera individuazione di idee e principî nuovi e non alla lotta della classe lavoratrice. Secondo Marx ed Engels, i pensatori che li avevano preceduti avevano creduto che CM senza rientro alla prima riga

all’attività sociale dove[sse] subentrare la loro attività inventiva personale, alle condizioni storiche dell’emancipazione del proletariato […] condizioni immaginarie, all’organizzazione del proletariato come classe in un processo graduale […] un’organizzazione della società da essi escogitata di sana pianta. La storia universale dell’avvenire si risolve[va], per essi, nella propaganda e nell’esecuzione pratica dei loro progetti di società.

Nel testo politico più letto della storia dell’umanità, Marx ed Engels avversarono anche molte forme di socialismo, sia del passato che a loro contemporanee. Esse vennero considerate, a seconda dei casi, socialismo «feudale», «piccolo-borghese», «borghese» o – in senso dispregiativo, per evidenziare la loro vuota «fraseologia filosofica» – «tedesco» . La gran parte degli autori di queste teorie era accomunata da due peculiarità. La prima era la convinzione di poter «restaurare gli antichi mezzi di produzione e di scambio e, con essi, i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società». La seconda, invece, ineriva il tentativo, posto in essere da altri, di «imprigionare nuovamente, con la forza, i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà» dai quali erano stati «spezza[ti]». Per queste ragioni, Marx scorse in queste concezioni una forma di socialismo «al contempo reazionario e utopistico».

L’etichetta di «utopisti» assegnata ai primi socialisti, in alternativa a quella di «socialismo scientifico», è stata sovente utilizzata in modo fuorviante e con intento spregiativo . Costoro, infatti, contrastarono l’organizzazione sociale del tempo in cui vissero e contribuirono, sia attraverso i loro scritti che con azioni concrete, alla critica dei rapporti economici esistenti. Dei suoi precursori Marx ebbe, comunque, rispetto . Di Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825) pose in risalto l’enorme divario che lo separava dai suoi rozzi interpreti . A Charles Fourier (1772-1837), pur giudicando come stravaganti «schizzi umoristici» una parte delle sue idee, Marx riconobbe il «grande merito» di avere compreso che l’obiettivo da raggiungere per la trasformazione del lavoro fosse la soppressione non solo del tipo di distribuzione esistente, ma «del modo di produzione» . Nelle teorie di Robert Owen (1771-1858) ravvisò molti elementi degni di interesse e anticipatori del futuro. In Salario, prezzo e profitto, Marx rilevava che Owen già all’inizio dell’Ottocento, in Osservazioni sull’effetto del sistema manifatturiero, aveva «richie[sto] una diminuzione generale della giornata lavorativa quale primo passo per preparare la liberazione della classe operaia» . Inoltre, egli aveva perorato, come nessun altro, la causa della produzione cooperativa.

Ciò nonostante, pur riconoscendo l’influenza positiva che Saint-Simon, Fourier e Owen avevano avuto sul nascente movimento operaio, Marx espresse nei loro confronti un giudizio complessivamente negativo. Egli criticò i suoi predecessori per aver ipotizzato di risolvere le problematiche sociali del tempo mediante la progettazione di chimere irrealizzabili e per aver consumato molto del loro tempo nell’irrilevante esercizio teorico di costruire «castelli in aria».

Marx non contestò solo le proposte da lui giudicate impraticabili o errate, ma stigmatizzò soprattutto l’idea che il cambiamento sociale avvenisse attraverso modelli aprioristici, metastorici e ispirati a una precettistica dogmatica. Anche l’enfasi moralistica dei primi socialisti fu oggetto di giudizio negativo . Negli Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin, Marx criticò il «socialismo utopistico [perché voleva] dare da bere al popolo nuove fantasie, invece di limitare la sua scienza alla conoscenza del movimento sociale fatto dal popolo stesso» . A suo avviso, le condizioni per la rivoluzione non potevano essere importate dall’esterno.

2. I limiti dei precursori.
Una delle tesi più comuni, tra quanti, dopo il 1789, continuarono a battersi per un nuovo e più giusto ordine sociale, non ritenendo esaurienti i pur fondamentali mutamenti politici seguiti alla fine dell’Ancien régime, si basava sul presupposto che tutti i mali della società sarebbero cessati nel momento in cui fosse stato instaurato un sistema di governo fondato sull’assoluta eguaglianza di tutti i suoi componenti.

Questa idea di comunismo primordiale e, per molti versi, dittatoriale fu il principio guida della Congiura degli eguali, la cospirazione promossa, nel 1796, per sovvertire il Direttorio francese. Nel Manifesto degli eguali, Sylvain Maréchal (1750-1803) argomentò che «poiché tutti [gli esseri umani] hanno gli stessi bisogni e le stesse facoltà», non avrebbero dovuto esserci che «una sola educazione e un solo [tipo di] nutrimento». «Perché – si domandava Maréchal – non dovrebbe bastare a ciascuno […] la stessa quantità e la stessa qualità di alimenti?» . Anche la figura di spicco della congiura del 1796, François-Noël Babeuf (1760-1797), era dell’idea che, tramite l’applicazione del «grande principio dell’uguaglianza […] [il] cerchio dell’umanità» si sarebbe esteso e, «gradualmente, frontiere, dogane e cattivi governi [sarebbero] scompar[si]».

Il tema della costruzione di una società basata su un regime di rigida uguaglianza economica riapparve, in Francia, nella pubblicistica comunista successiva alla Rivoluzione di luglio del 1830. In Viaggio a Icaria, un manifesto politico scritto sotto forma di romanzo, Étienne Cabet (1788-1856) indicò come modello una comunità nella quale non sarebbero esistiti né «proprietà, né soldi, [né] vendite, né acquisti» e dove gli esseri umani sarebbero stati «uguali in tutto» . In questa «seconda terra promessa» , la legge avrebbe regolato qualsiasi aspetto della vita: «ogni casa [avrebbe avuto] quattro piani» e «tutti [si sarebbero] vest[iti] allo stesso modo».

Auspici in favore dell’attuazione di relazioni rigidamente egualitarie si trovano anche nell’opera di Théodore Dézamy (1808-1850). Ne Il codice della comunità, egli prefigurò un mondo «diviso in comuni, i cui territori saranno il più possibile uguali, regolari e uniti»; al loro interno sarebbero esistiti «un’unica cucina» e un solo «dormitorio comune» per tutti i bambini. Tutta la cittadinanza avrebbe vissuto come «una sola famiglia, [in] una sola e unica casa».

Vedute analoghe a quelle tanto diffuse in Francia si affermarono anche in Germania. In L’umanità come è e come dovrebbe essere, Wilhelm Weitling (1808-1871) preconizzò che la soppressione della proprietà privata avrebbe automaticamente eliminato l’egoismo, da lui semplicisticamente considerato come la principale causa di tutti i problemi sociali. Secondo Weitling, l’introduzione della «comunanza dei beni» sarebbe stato «il mezzo di redenzione dell’umanità; [avrebbe] trasforma[to] la terra in paradiso» e avrebbe generato immediatamente «un’enorme sovrabbondanza».

Tutti i pensatori che propugnavano simili concezioni incorsero nel medesimo duplice errore. Essi diedero per scontato che l’adozione di un modello sociale basato sulla rigida uguaglianza potesse rappresentare la soluzione di tutti i problemi sociali. Inoltre, contro ogni legge economica, si persuasero che per istituire il tipo di ordinamenti che suggerivano sarebbe stato sufficiente imporre alcune misure dall’alto, i cui effetti non sarebbero stati successivamente alterati dall’andamento dell’economia.

Accanto a questa ingenua ideologia egualitaria, fondata sull’illusoria certezza di poter eliminare, con grande facilità, ogni disparità esistente tra gli esseri umani, tra i primi socialisti era alquanto diffusa anche un’altra convinzione. In molti ritennero che l’elaborazione teorica di migliori sistemi di organizzazione sociale fosse la condizione sufficiente per cambiare il mondo. Sorsero, così, numerosi progetti di riforma, minuziosamente corredati di dettagli e sfumature, con i quali i patrocinatori esposero le loro ipotesi di ristrutturazione della società. Nei loro intenti, andava prioritariamente ricercata la formula giusta, la quale, una volta scoperta, sarebbe stata accettata, di buon grado, dal senso comune dei cittadini e progressivamente attuata ovunque.

Di ciò fu convinto Saint-Simon che, ne L’organizzatore, scrisse: «[I]l vecchio sistema cesserà di agire soltanto quando le idee, circa i mezzi per sostituire con altre le istituzioni […] che ancora esistono, saranno state sufficientemente messe in chiaro, collegate e armonizzate fra di loro, e quando queste idee saranno state approvate dall’opinione pubblica» . Le vedute di Saint-Simon sulla società del futuro sorprendono, però, per la disarmante vaghezza. In Nuovo cristianesimo, egli affermò che la causa della «malattia politica della [sua] epoca» – quella che provocava «sofferenza a tutti i lavoratori utili alla società» e che faceva «assorbire dai sovrani una grande parte del salario dei poveri» – dipendeva dal «sentimento d’egoismo». Dal momento che tale sentimento era «divenuto dominante in tutte le classi e in tutti gli individui» , egli auspicava la nascita di una nuova organizzazione sociale fondata su un unico principio guida: «tutti gli uomini devono comportarsi tra loro come fratelli».

Fourier dichiarò che l’esistenza umana era basata su leggi universali le quali, una volta attuate, avrebbero garantito gioia e godimento in tutto il globo. Nella Teoria dei quattro movimenti, espose quella che non esitò a definire la «scoperta […] più importante di tutti i lavori scientifici realizzati da quando esiste il genere umano» . Fourier si oppose ai sostenitori del «sistema commerciale» e affermò che la società sarebbe stata libera solo nel momento in cui tutti i suoi componenti fossero ritornati a esprimere le loro passioni . Il principale errore del regime politico esistente al suo tempo consisteva, dunque, nella repressione della natura umana.

Infine, ad accomunare molti dei primi socialisti, oltre all’egualitarismo radicale e alla ricerca del migliore modello sociale possibile, vi era anche il loro adoperarsi per promuovere la nascita di piccole comunità alternative. Nello spirito dei loro organizzatori, queste comunità, liberate dalle sperequazioni economiche esistenti nelle società del tempo, avrebbero fornito un impulso decisivo per la diffusione dei principî socialisti e ne avrebbero dovuto agevolare l’affermazione.

Ne Il nuovo mondo industriale e societario, Fourier prefigurò un innovativo ordinamento comunitario, in base al quale i villaggi sarebbero stati «sostituiti da falangi industriali di circa 1.800 persone» . Gli individui sarebbero vissuti nei falansteri, ossia in grandi edifici dotati di spazi comuni, dove avrebbero potuto usufruire collettivamente di tutti i servizi loro necessari. Seguendo il metodo inventato da Fourier, quello della «passione sfarfallante», gli esseri umani avrebbero «svolazza[to] da piacere a piacere ed evita[to] gli eccessi». Avrebbero avuto brevissimi turni di impiego, di «due ore al massimo», grazie ai quali ciascuno avrebbe potuto esercitare «da sette a otto generi di lavoro attraenti nel corso della giornata».

L’individuazione di migliori forme di organizzazione sociale animò anche Owen che, nel corso della sua esistenza, diede vita a importanti esperimenti di cooperazione operaia. Prima a New Lanark in Scozia, dal 1800 al 1825, e poi a New Harmony negli Stati Uniti d’America, dal 1826 al 1828, egli cercò di dimostrare, con la prassi, come realizzare concretamente un ordine sociale più giusto. Ne Il libro del nuovo ordine morale, Owen propose, però, la suddivisione della società in otto classi, l’ultima delle quali, «comprendente le persone dai quaranta ai sessant’anni», avrebbe avuto il monopolio della «decisione finale». Egli auspicava, in modo alquanto ingenuo, che, attraverso l’istituzione di questo sistema gerontocratico, gli individui avrebbero condiviso, «senza contestazioni, la parte loro spettante nel governo della società» , dal momento che tutti, a turno e a tempo debito, avrebbero potuto esercitarlo.

Nel 1849, anche Cabet fondò la colonia di Icaria negli Stati Uniti d’America, a Nauvoo, nell’Illinois, ma il suo autoritarismo diede origine a numerosi conflitti interni alla comunità da lui fondata. Nelle leggi della «Costituzione icariana», egli propose come condizione della nascita della colonia la sua designazione, «per dieci anni, quale […] Direttore unico e assoluto, con il potere di dirigerla in base alla sua dottrina e alle sue idee, al fine di incrementare tutte le probabilità di successo».

Sia nel caso dei vagheggiati falansteri che in quello di sporadiche cooperative, o di stravaganti colonie comuniste, gli esperimenti ideati dai primi socialisti si rivelarono così inadeguati da non lasciare ipotizzare la loro diffusione su vasta scala. Queste sperimentazioni riguardarono un numero irrisorio di lavoratori e si distinsero, spesso, per la molto limitata partecipazione della collettività all’assunzione delle decisioni politiche. Inoltre, molti dei rivoluzionari che animarono tali esperienze, soprattutto quelli non inglesi, non compresero le fondamentali trasformazioni produttive in corso al loro tempo. Molti, tra i primi socialisti, non riuscirono a intuire il legame esistente tra lo sviluppo del capitalismo e il possibile progresso sociale per la classe lavoratrice. Esso dipendeva dalla capacità degli operai di appropriarsi della ricchezza da loro generata nel nuovo modo di produzione.

3. Dove e perché Marx scrisse sul comunismo.
Marx si assegnò un compito del tutto diverso rispetto a quello dei socialisti che l’avevano preceduto. La sua priorità fu quella di «svelare la legge economica del movimento della società moderna» . Egli si prefisse di realizzare una critica complessiva del modo di produzione capitalistico che sarebbe dovuta servire al proletariato, da lui considerato il principale soggetto rivoluzionario, per rovesciare il sistema economico-sociale esistente.

Inoltre, rifuggì dall’idea di potere essere l’ispiratore di un nuovo credo politico dogmatico. Si rifiutò di proporre la configurazione di un modello universale di società comunista, cosa da lui ritenuta teoricamente inutile e politicamente controproducente. Fu per tale ragione che, nel 1873, nel Poscritto alla seconda edizione del Libro primo del Capitale, Marx lasciò intendere che non era certo tra i suoi interessi «prescrivere ricette […] per l’osteria dell’avvenire» . Il senso di questa nota affermazione fu da lui ribadita qualche anno dopo, nel 1879-1880, anche nelle Glosse marginali al «Trattato di economia politica» di Adolf Wagner, allorquando, in risposta a una critica dell’economista tedesco Adolph Wagner (1835-1917), replicò categoricamente: «[N]on ho mai enunciato un “sistema socialista”».

Marx asserì analoghi convincimenti anche nei suoi scritti politici. Di fronte alla nascita della Comune di Parigi, ossia alla prima presa del potere da parte delle classi subalterne, commentò, in La guerra civile in Francia, che «la classe operaia non si aspettava miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre per decreto del popolo». Marx dichiarò che l’emancipazione del proletariato doveva «passare attraverso lunghe lotte e per una serie di processi storici che trasformeranno circostanze e uomini». Non si trattava, dunque, di «realizzare ideali, ma […] [di] liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia società borghese che sta crollando».

Infine, Marx espresse concetti analoghi anche nel carteggio che ebbe con dirigenti del movimento operaio europeo. Quando, ad esempio, nel 1881 Ferdinand Nieuwenhuis (1846-1919), il maggiore esponente della Lega socialdemocratica in Olanda, gli chiese quali misure avrebbero dovuto essere adottate, dopo la presa del potere, da parte di un governo rivoluzionario per costruire la società socialista, Marx rispose che aveva sempre ritenuto simili domande «una sciocchezza». A suo avviso, «ciò che si [sarebbe] dov[uto] fare […] in un particolare momento del futuro, [sarebbe] dipe[so], in tutto e per tutto, dalle reali condizioni storiche in cui si [sarebbe] dov[uto] agire». Egli riteneva impossibile «risolvere un’equazione che non racchiud[esse] nei suoi termini gli elementi della soluzione»; rimase sempre convinto che «l’anticipazione dottrinaria e necessariamente fantasiosa del programma d’azione di una rivoluzione a venire serv[isse] soltanto a distrarre dalla lotta presente».

Il vastissimo carteggio con Engels costituisce la migliore testimonianza della coerenza di queste sue convinzioni. Nel corso della loro quarantennale collaborazione, i due amici si confrontarono su ogni possibile tematica, ma Marx non dedicò il minimo tempo alla discussione sul come avrebbe dovuto essere organizzata la società del domani.

Tuttavia, al contrario di quanto erroneamente sostenuto da molti suoi commentatori, Marx svolse, tanto nelle opere pubblicate quanto in quelle incompiute, numerose considerazioni sul comunismo – per quanto queste non ebbero mai intenti prescrittivi. Esse sono rintracciabili in tre differenti tipologie di scritti. Nella prima rientrano quelli in cui Marx criticò le idee dei socialisti a lui contemporanei ritenute teoricamente sbagliate e politicamente fuorvianti. Alcune parti dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e de L’ideologia tedesca; il capitolo sulla «Letteratura socialista e comunista» del Manifesto del partito comunista; le critiche alle posizioni di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), disseminate nei Grundrisse, nell’Urtext e in Per la critica dell’economia politica; i testi contro l’anarchismo dei primi anni settanta; e le tesi contro Ferdinand Lassalle (1825-1864), contenute nella Critica al programma di Gotha, appartengono a questa categoria. A tutto ciò vanno aggiunti i commenti critici rivolti a Proudhon, agli anarchici aderenti all’Associazione internazionale dei lavoratori e a Lassalle che si trovano sparsi all’interno del copioso carteggio di Marx.

Il secondo tipo di testi in cui Marx delineò alcuni tratti della società comunista è costituito dagli scritti di lotta e di propaganda politica destinati alle organizzazioni della classe proletaria del suo tempo. A esse Marx volle fornire indicazioni più concrete sul profilo della società per la quale lottavano e sugli strumenti necessari per la sua costruzione. Rientrano in questa categoria il Manifesto del partito comunista, le risoluzioni, le relazioni e gli indirizzi redatti per l’Associazione internazionale dei lavoratori (1864-1872) – inclusi Salario, prezzo e profitto e –, nonché alcuni articoli giornalistici, conferenze pubbliche, discorsi, lettere a militanti e altri documenti brevi, quali, ad esempio, il Programma minimo del Partito Operaio Francese.

Infine, i testi nei quali Marx descrisse più diffusamente, nonché in forma più efficace, le possibili caratteristiche della società comunista furono quelli incentrati sul capitalismo. In significativi capitoli del Capitale e in importanti parti dei suoi numerosi manoscritti preparatori, in particolare nei ricchissimi Grundrisse, sono racchiuse alcune delle sue idee fondamentali sul socialismo. Furono proprio le osservazioni critiche nei confronti di specifici aspetti del modo di produzione esistente a generare le riflessioni sulla società comunista che, non a caso, in diverse pagine della sua opera, si susseguono alternandosi tra loro.

Un attento studio delle considerazioni sul comunismo, presenti in ognuno dei testi menzionati, permette di distinguere la concezione di Marx da quelle dei regimi che, nel XX secolo, dichiarando di agire in suo nome, perpetrarono, invece, crimini ed efferatezze. In tal modo, è possibile ricollocare il progetto politico marxiano nell’orizzonte che gli spetta: la lotta per l’emancipazione di quella che Saint-Simon definì «la classe più povera e più numerosa».

Le sue annotazioni sul comunismo non vanno valutate come il modello marxista al quale attenersi dogmaticamente , né, tantomeno, come le soluzioni che, secondo Marx, si sarebbero dovute applicare, in modo indifferenziato, in luoghi e tempi diversi. Tuttavia, questi brani costituiscono un cospicuo e preziosissimo tesoro teorico, ancora oggi utile, per ripensare l’alternativa al capitalismo.

4. Le manchevolezze degli scritti giovanili.
Diversamente da quanto è stato sostenuto in alcuni testi di propaganda marxista-leninista, le teorie di Marx non furono il frutto di un sapere innato, ma si svilupparono attraverso un lungo processo di maturazione concettuale e politica. L’intenso e defatigante studio di molte discipline, in primis dell’economia, e l’osservazione di concreti avvenimenti politici, in particolare quelli relativi alla Comune di Parigi, ebbero considerevole rilevanza per lo sviluppo delle sue riflessioni sulla società comunista.

Alcuni dei testi giovanili di Marx, rimasti in gran parte incompleti, da lui mai pubblicati, e sorprendentemente considerati da tanti suoi epigoni come quelli nei quali si trovano condensate le sue tesi più significative , mostrano, al contrario, tutti i limiti della sua iniziale concezione della società post-capitalista.

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx scrisse sull’argomento in termini molto astratti, non avendo ancora potuto approfondire le ricerche economiche e a causa della carente esperienza politica maturata al tempo. In alcune parti di tale testo, egli descrisse «il comunismo […] [come] negazione della negazione», quale un «momento della dialettica hegeliana»: «l’espressione positiva della proprietà privata soppressa» . In altre, invece, ispirandosi a Ludwig Feuerbach (1804-1872), rappresentò il comunismo, come

umanismo, in quanto compiuto naturalismo, e naturalismo, in quanto umani- smo […]; verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo, la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere.

FINE
Diversi passaggi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono influenzati dalla matrice teleologica della filosofia della storia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Suggestionato da quest’ultimo, Marx asserì che «l’intero movimento della storia […] [era stato] il reale atto di generazione del comunismo» ; che il comunismo sarebbe stato «la soluzione dell’enigma della storia, […] consapevole di essere questa soluzione».

Anche L’ideologia tedesca, redatta assieme a Engels e concepita come un progetto al quale avrebbero dovuto partecipare altri autori , contiene una famosa citazione che ha generato grande confusione tra gli esegeti di Marx. In una pagina di questo manoscritto incompiuto si legge che, mentre nella società capitalistica, con la divisione del lavoro, ogni essere umano «ha una sfera di attività determinata ed esclusiva»,

nella società comunista […], la società regola la produzione in generale e, in tal modo, mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra; la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico .

Numerosi studiosi, marxisti e antimarxisti, hanno ingenuamente creduto che fosse questa, per Marx, la principale caratteristica della società comunista. Ciò fu possibile per la loro scarsa familiarità sia con Il capitale che con importanti testi politici di Marx. Questi autori non si accorsero, malgrado l’elevato numero di analisi e discussioni sorte intorno al manoscritto del 1845-1846, che questo passaggio era la riformulazione di una vecchia – e assai nota – idea di Charles Fourier , riproposta da Engels, ma bocciata da Marx .

Nonostante gli evidenti limiti, L’ideologia tedesca rappresentò un indubbio progresso rispetto ai Manoscritti economico-filosofici del 1844. Contro l’idealismo, privo di qualsiasi concretezza politica, degli esponenti della sinistra hegeliana, gruppo del quale egli aveva fatto parte fino al 1842, Marx chiarì che «non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali». Il comunismo, pertanto, non doveva essere considerato come «uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi, [ma quale] movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».

Ne L’ideologia tedesca, Marx abbozzò anche una prima descrizione del profilo economico della società futura. A suo avviso, se le precedenti rivoluzioni avevano prodotto soltanto «una nuova ripartizione del lavoro ad altre persone»,

il comunismo si distingue da tutti gli altri movimenti, fino a oggi conosciuti, in quanto rovescia la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di relazione sviluppatesi fin qui e, per la prima volta, tratta coscientemente tutti i presupposti naturali come creazione degli uomini finora esistiti. Li spoglia del loro carattere naturale e li assoggetta al potere degli individui uniti. La sua organizzazione è, quindi, essenzialmente economica. È la creazione materiale delle condizioni di questa unione .

Marx asserì anche che «il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta” e simultaneamente». A suo giudizio, ciò presupponeva sia lo «sviluppo universale delle forze produttive» che le «relazioni mondiali a esse connesse» . Inoltre, Marx affrontò, per la prima volta, anche un fondamentale tema politico, che avrebbe ripreso poi in futuro: quello dell’avvento del comunismo come fine della tirannia di classe. Egli affermò, infatti, che la rivoluzione avrebbe «aboli[to] il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi e nazionalità» . Marx continuò, assieme a Engels, a sviluppare le sue riflessioni sulla società post-capitalista nel Manifesto del partito comunista.

In questo testo, che, per la profondità di analisi dei mutamenti prodotti dal capitalismo, giganteggiava rispetto all’approssimativa letteratura socialista del tempo, le valutazioni più interessanti sul comunismo riguardavano i rapporti di proprietà. Egli osservò che la loro radicale trasformazione non sarebbe stata la «cosa che [avrebbe] propriamente caratterizz[ato] il comunismo», poiché anche gli altri nuovi modi di produzione comparsi nella storia avevano mutato i rapporti proprietari antecedentemente esistenti. Per Marx, diversamente da quanti dichiaravano, in maniera propagandistica, che i comunisti avrebbero impedito l’appropriazione personale dei prodotti del lavoro, «quel che contraddistingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese» , l’eliminazione della «facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali […] per asservire lavoro altrui» . A suo avviso i comunisti potevano riassumere la «loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata».

Nel Manifesto del partito comunista, Marx fornì anche un elenco di dieci provvedimenti da realizzare, nei paesi economicamente più sviluppati, in seguito alla conquista del potere. Tra essi rientravano: «espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato ; […] accentramento del credito in mano allo Stato mediante una banca nazionale; […] accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato; […] istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli»; ma anche la «abolizione del diritto di successione», una misura di matrice sansimoniana in seguito fermamente respinta da Marx.

Così come nel caso dei manoscritti redatti tra il 1844 e il 1846, si commetterebbe un errore se i principî elencati nel Manifesto del partito comunista, elaborati quando Marx era appena trentenne, venissero assunti come la compiuta descrizione della società post-capitalista da lui propugnata . La piena maturazione del suo pensiero necessitò di tanti altri anni di studio e di ulteriori esperienze politiche.

5. Comunismo come libera associazione.
Nel Libro primo del Capitale, Marx argomentò che il capitalismo è un modo di produzione sociale «storicamente determinato» , nel quale il prodotto del lavoro è trasformato in merce. In conseguenza di questa peculiarità, gli individui hanno valore solo in quanto produttori e «l’esistenza dell’essere umano» è asservita all’atto della «produ[zione] di merci» . Pertanto, è «il processo di produzione [a] padroneggi[are] gli esseri umani» , non viceversa. Il capitale «non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro» e non ritiene rilevante il miglioramento delle condizioni del proletariato. Quello che gli «interessa è unicamente […] il massimo [sfruttamento] di forza lavoro […], così come un agricoltore avido ottiene aumentati proventi dal suolo rapinandone la fertilità».

Nei Grundrisse, Marx ricordò che, poiché nel capitalismo, «lo scopo del lavoro non è un prodotto particolare che sta in […] rapporto con i bisogni […] dell’individuo, ma [è, invece,] il denaro […], la laboriosità dell’individuo non ha alcun limite» . In siffatta società «tutto il tempo di un individuo è posto come tempo di lavoro e [l’uomo] viene degradato a mero operaio, sussunto sotto il lavoro» . Ciò nonostante, l’ideologia borghese presenta questa condizione come se l’individuo godesse di una maggiore libertà e fosse protetto da norme giuridiche imparziali, in grado di garantire giustizia ed equità. Paradossalmente, malgrado l’economia sia giunta a un livello di sviluppo in grado di consentire a tutta la società di vivere in condizioni migliori rispetto al passato, «le macchine più progredite costringono l’operaio a lavorare più a lungo di quanto era toccato al selvaggio o di quanto lui stesso aveva fatto, [prima di allora,] con strumenti più semplici e rozzi».

Al contrario, il comunismo fu definito da Marx come «un’associazione di liberi esseri umani [einen Verein freier Menschen] che lavor[a]no con mezzi di produzione comuni e spend[o]no coscientemente le loro molteplici forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» . Definizioni simili sono presenti in numerosi manoscritti di Marx. Nei Grundrisse, egli scrisse che la società postcapitalista si sarebbe fondata sulla «produzione sociale» [gemeinschaftlichen Produktion] . Nei Manoscritti economici del 1863-1867, parlò del «passaggio del modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato [Produktionsweise der assoziierten Arbeit] . Nella Critica al programma di Gotha (1875), Marx definì l’organizzazione sociale «fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione» come «società cooperativa» [genossenschaftliche Gesellschaft].

Nel Libro primo del Capitale, Marx chiarì che il «principio fondamentale» di questa «forma superiore di società» sarebbe stato il «pieno e libero sviluppo di ogni individuo» . Ne La guerra civile in Francia, espresse la sua approvazione per le misure adottate dai comunardi che lasciavano «presagire la tendenza di un governo del popolo per il popolo» . Più precisamente, nelle sue valutazioni circa le riforme politiche della Comune di Parigi, egli ritenne che «il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il passo, anche nelle province, all’autogoverno dei produttori». L’espressione venne ripresa negli Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin, dove specificò che un radicale cambiamento sociale avrebbe avuto «inizio con l’autogoverno della comunità» . L’idea di società di Marx è, dunque, l’antitesi dei totalitarismi sorti in suo nome nel XX secolo. I suoi testi sono utili non solo per comprendere il modo di funzionamento del capitalismo, ma anche per individuare le ragioni dei fallimenti delle esperienze socialiste fin qui compiute.

In riferimento al tema della cosiddetta libera concorrenza, ovvero l’apparente eguaglianza con la quale operai e capitalisti si trovano posti sul mercato nella società borghese, Marx dichiarò che essa era tutt’altro dalla libertà umana tanto esaltata dagli esegeti del capitalismo. Egli riteneva che questo sistema costituisse un grande impedimento per la democrazia e mostrò, meglio di chiunque altro, che i lavoratori non ricevono il corrispettivo di quello che producono . Nei Grundrisse, spiegò che quanto veniva rappresentato come uno «scambio di equivalenti» era, invece, «appropriazione di lavoro altrui senza scambio, ma sotto la parvenza dello scambio». Le relazioni tra le persone erano «determinate soltanto dai loro interessi egoistici». Questa «collisione di individui» era stata spacciata come la «forma assoluta di esistenza della libera individualità nella sfera della produzione e dello scambio».

Per Marx non vi era, in realtà, «niente di più falso», poiché, «nella libera concorrenza, non gli individui, ma il capitale è posto in condizioni di libertà» . Nei Manoscritti economici del 1861-63 egli denunciò che era «il capitalista a incassare questo pluslavoro – [che era] […] tempo libero [e] […] la base materiale dello sviluppo e della cultura in generale […] – in nome della società» . Nel Libro primo del Capitale, egli denunciò che la ricchezza della borghesia è possibile solo mediante la «trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse».

Nei Grundrisse, Marx osservò che nel capitalismo «gli individui sono sussunti dalla produzione sociale» , la quale esiste come qualcosa che è a «loro estraneo» . Essa viene realizzata solamente in funzione dell’attribuzione del valore di scambio conferito ai prodotti, la cui compravendita avviene soltanto «post festum» . Inoltre, «tutti i fattori sociali della produzione» , comprese le scoperte scientifiche che si palesano come «una scienza altrui, esterna all’operaio» , sono poste dal capitale. Lo stesso associarsi degli operai nei luoghi e nell’atto della produzione è «operato dal capitale» ed è, pertanto, «soltanto formale». L’uso dei beni creati da parte dei lavoratori «non è mediat[o] dallo scambio di lavori o di prodotti di lavoro reciprocamente indipendenti [, bensì] […] dalle condizioni sociali della produzione entro le quali agisce l’individuo» . Marx fece comprendere come l’attività produttiva nella fabbrica «riguarda[sse] solo il prodotto del lavoro, non il lavoro stesso» , dal momento che avveniva «in un ambiente comune, sotto vigilanza, irreggimentazione, maggiore disciplina, immobilità e dipendenza».

Nel comunismo, invece, la produzione sarebbe stata «immediatamente sociale […], il risultato dell’associazione [the offspring of association] che ripartisce il lavoro al proprio interno». Essa sarebbe stata controllata dagli individui come «loro patrimonio comune» . Il «carattere sociale della produzione» [gesellschaftliche Charakter der Produktion] avrebbe fatto sì che l’oggetto del lavoro fosse stato, «fin dal principio, un prodotto sociale e generale» . Il carattere associativo «è presupposto» e «il lavoro del singolo si pone, sin dalla sua origine, come lavoro sociale» . Come volle sottolineare nella Critica al programma di Gotha, nella società postcapitalistica «i lavori individuali non [sarebbero] più diventa[ti] parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto» . In aggiunta, gli operai avrebbero potuto creare le condizioni per una «scomparsa [del]la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro» . Nel Libro primo del Capitale, Marx evidenziò che nella società borghese «l’operaio esiste in funzione del processo di produzione e non il processo di produzione per l’operaio» .

Inoltre, parallelamente allo sfruttamento dei lavoratori, si manifestava anche quello verso l’ambiente. All’opposto delle interpretazioni che hanno assimilato la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, il suo interesse per la questione ecologica fu rilevante . Marx denunciò, ripetutamente, che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico determinava un aumento «non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo» . Per suo tramite, venivano minate entrambe le «fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio».

Nel comunismo, viceversa, si sarebbero create le condizioni per una forma di «cooperazione pianificata», in virtù della quale «l’operaio si [sarebbe] spoglia[to] dei suoi limiti individuali e [avrebbe] sviluppa[to] la facoltà della sua specie» . Nel Libro secondo Marx scrisse che nel comunismo la società sarebbe stata in grado di «calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e di sussistenza [avrebbe potuto] adoperare». Essa si sarebbe così differenziata, anche da questo punto di vista, dal capitalismo, sotto il quale «l’intelletto sociale si fa valere sempre soltanto post festum, [facendo] così intervenire, costantemente, grandi perturbamenti» . Anche in alcuni brani del Libro terzo, Marx offrì chiarimenti sulle differenze tra il modo di produzione socialista e quello basato sul mercato, auspicando la nascita di una società «organizzata come una associazione cosciente e sistematica» . Egli affermò che «è solo quando la società controlla efficacemente la produzione, regolandola in anticipo, che essa crea il legame fra la misura del tempo di lavoro sociale dedicato alla produzione di un articolo determinato e l’estensione del bisogno sociale che tale articolo deve soddisfare».

Nelle Glosse marginali al «Trattato di economia politica» di Adolf Wagner, infine, compare un’altra indicazione in proposito: «il volume della produzione» avrebbe dovuto essere «regolato razionalmente» . L’applicazione di questo criterio avrebbe consentito di abbattere anche gli sprechi dell’«anarchico sistema della concorrenza», il quale, nel ricorrere delle sue crisi strutturali, oltre a «determina[re] lo sperpero smisurato dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro sociali» , non era in grado di risolvere le contraddizioni derivanti dall’introduzione dei macchinari, dovute essenzialmente «al loro uso capitalistico».

6. Proprietà collettiva e tempo libero.
Per ribaltare questo stato di cose, contrariamente a quanto credevano molti socialisti contemporanei a Marx, non bastava modificare la redistribuzione dei beni di consumo. Occorreva modificare alla radice gli assetti produttivi della società. Fu per questo che, nei Grundrisse, Marx annotò che «lasciare sussistere il lavoro salariato e, allo stesso tempo, sopprimere il capitale [era] una rivendicazione che si autocontraddice[va]» . Occorreva, viceversa, la «dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio» . Nel discorso pubblicato con il titolo Salario, prezzo e profitto, egli ammonì gli operai affinché sulle loro bandiere non apparisse «la parola d’ordine conservatrice “Equo salario per un’equa giornata di lavoro”», ma il «motto rivoluzionario “Soppressione del sistema del lavoro salariato”».

Per di più, come si trova dichiarato nella Critica al programma di Gotha, nel modo di produzione capitalistico «le condizioni materiali della produzione [erano] a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa [era] soltanto proprietaria della [propria] forza lavoro» . Pertanto, era essenziale rovesciare i rapporti proprietari alla base del modo di produzione borghese. Nei Grundrisse, Marx ricordò che «le leggi della proprietà privata – ovvero la libertà, l’uguaglianza, la proprietà sul lavoro e la sua libera disposizione – si riversano nella mancanza di proprietà dell’operaio, nell’espropriazione del suo lavoro e nel suo riferirsi a esso come proprietà altrui» . In un intervento svolto, nel 1869, al Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Marx affermò che la «proprietà privata dei mezzi di produzione» serviva soltanto ad assicurare alla classe borghese il «potere con il quale essa [avrebbe] costr[etto] altri esseri umani a lavorare» per lei. Egli ribadì lo stesso concetto in un altro breve scritto politico, il Programma elettorale dei lavoratori socialisti, aggiungendo che «i produttori possono essere liberi solo quando sono in possesso dei mezzi di produzione» e che l’obiettivo della lotta del proletariato doveva essere la «restituzione alla comunità di tutti i mezzi di produzione».

Nel Libro terzo del Capitale, Marx osservò che, quando i lavoratori avrebbero instaurato un modo di produzione comunista, «la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui [sarebbe] appar[sa] così assurda come la proprietà privata di un essere umano da parte di un altro essere umano». Egli manifestò la sua più radicale critica verso l’idea di possesso distruttivo insita nel capitalismo, ricordando che «anche un’intera società, una nazione, o anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra». Per Marx, gli esseri umani erano «soltanto […] i suoi usufruttuari» e, dunque, avevano «il dovere di tramandare alle generazioni successive [il mondo] migliorato, come boni patres familias».

Un diverso assetto della proprietà dei mezzi di produzione avrebbe mutato alla radice anche i tempi di vita della società. Nel Libro primo del Capitale, Marx disvelò, con inequivocabile chiarezza, le ragioni per le quali, nel capitalismo, «l’economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva del lavoro non ha affatto lo scopo di accorciare la giornata lavorativa». Il tempo che il progredire della tecnica e della scienza renderebbe disponibile per i singoli viene, infatti, immediatamente convertito in pluslavoro. La classe dominante ha come unica ambizione quella di «ridurre il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci» . Il suo solo scopo è quello di sviluppare la forza produttiva con il solo fine di «abbrevia[re] la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per sé stesso, per prolungare […] la parte […] nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista» . Questo sistema differisce dalla schiavitù o dalle corvées dovute al signore feudale, poiché «pluslavoro e lavoro necessario sfumano l’uno nell’altro» e rendono più difficilmente percettibile l’entità dello sfruttamento.

Nei Grundrisse, Marx mise bene in evidenza che è solo grazie a questo surplus del tempo di lavoro di tutti che si rende possibile il «tempo libero per alcuni» . La borghesia consegue l’accrescimento delle sue facoltà materiali e culturali solo grazie alla limitazione imposta a quello del proletariato. Lo stesso accade nelle nazioni capitalisticamente più avanzate, a discapito delle periferie del sistema. Nei Manoscritti economici del 1861-1863, Marx ribadì che il progresso della classe dominante è speculare alla «mancanza di sviluppo della massa lavoratrice» . Il tempo libero della prima «corrisponde al tempo asservito» dei lavoratori; «lo sviluppo sociale dell’una fa del lavoro di [questi] altr[i] la propria base naturale» . Questo tempo di pluslavoro degli operai non solo è il pilastro sul quale poggia la «esistenza materiale» della borghesia, ma crea la condizione anche per il suo «tempo libero, la sfera del [suo] sviluppo». Come meglio non si potrebbe dichiarare: «il tempo libero dell’una corrisponde al […] tempo soggiogato al lavoro […] dell’altra».

Per Marx, al contrario, la società comunista sarebbe stata caratterizzata da una diminuzione generalizzata dei tempi di lavoro. Nel documento Istruzioni per i delegati del Consiglio Generale provvisorio. Le differenti questioni, da lui predisposto per il primo congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori, enunciò che la riduzione della giornata lavorativa era la «condizione preliminare senza la quale [sarebbero] aborti[ti] tutti gli ulteriori tentativi di miglioramento e di emancipazione». Era necessario non solo «fare recuperare l’energia e la salute alla classe lavoratrice», ma anche «fornire a essa la possibilità di sviluppo intellettuale, di relazioni e attività sociali e politiche» . Nel Libro primo del Capitale, Marx argomentò che il «tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per la libera espressione delle energie vitali, fisiche e mentali», considerati dai capitalisti «fronzoli puri e semplici» , sarebbero stati gli elementi fondativi della nuova società. Il decremento delle ore destinate al lavoro – non solo del tempo di lavoro necessario per creare nuovo pluslavoro in favore della classe capitalista – avrebbe favorito, così appuntò Marx nei Grundrisse, «il libero sviluppo delle individualità», ovvero «la formazione e lo sviluppo artistico e scientifico […] degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro».

Sulla base di queste convinzioni, egli ravvisò nella «economia di tempo, e [nella] ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, la prima legge economica alla base della produzione sociale» . Nelle Teorie sul plusvalore precisò, ancor più, che «la ricchezza non è niente altro che tempo disponibile». Nella società comunista l’autogestione dei lavoratori avrebbe dovuto assicurare una maggiore quantità di tempo che non doveva essere «assorbito dal lavoro immediatamente produttivo, [ma] dar[e] luogo al godimento, all’ozio e, pertanto, alla libera attività e al libero sviluppo» . In questo testo, così come nei Grundrisse, Marx citò un breve pamphlet intitolato La fonte e il rimedio delle difficoltà nazionali dedotte dai principi di economia politica in una lettera al signor John Russell, del quale condivideva pienamente la definizione di benessere formulata dall’anonimo autore: «una nazione si può dire veramente ricca, quando in essa invece di lavorare per 12 ore si lavora soltanto per sei.

La ricchezza reale non è l’imposizione del tempo di lavoro supplementare, ma è il tempo [che viene reso] disponibile a ogni individuo e a tutta la società, fuori da quello usato nella produzione immediata». La medesima idea si trova ribadita in un altro brano dei Grundrisse, nel quale Marx domandava retoricamente: «che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive degli individui? […] Che cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle [loro] doti creative?» . È evidente, dunque, che il modello socialista al quale egli guardava non contemperava uno stato di miseria generalizzata, ma il conseguimento di una maggiore ricchezza collettiva.

7. Ruolo dello Stato, diritti individuali e libertà.
Nella società comunista, accanto alle trasformazioni dell’economia, avrebbero dovuto essere ridefiniti anche il ruolo dello Stato e le funzioni della politica. Ne La guerra civile in Francia, Marx tenne a chiarire che, in seguito alla presa del potere, la classe lavoratrice avrebbe dovuto lottare per «estirpare le basi economiche sulle quali riposa l’esistenza delle classi e, quindi, il dominio di classe». Una volta che sarà «emancipato il lavoro, ogni essere umano div[errà] un lavoratore e il lavoro produttivo cess[erà] di essere l’attributo di una classe» . La nota affermazione «la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina statale così com’è» stava a significare, come Marx ed Engels spiegarono nell’opuscolo Le cosiddette scissioni nell’Internazionale, che il movimento operaio avrebbe dovuto tendere a trasformare «le funzioni governative […] in semplici funzioni amministrative» . Anche se con una formulazione alquanto concisa, negli Estratti e commenti critici a «Stato e anarchia» di Bakunin, Marx spiegò che «la distribuzione delle funzioni [governative avrebbe dovuto] diven[tare] un fatto amministrativo che non attribuisce alcun potere». In questo modo, si sarebbe potuto evitare, quanto più possibile, che l’esercizio degli incarichi politici generasse nuove dinamiche di dominio e soggezione.

Marx valutò che, con lo sviluppo della società moderna, «il potere dello Stato [aveva] assu[nto] sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di una forza pubblica organizzata di asservimento sociale, di uno strumento del dispotismo di classe» . Nel comunismo, al contrario, i lavoratori avrebbero dovuto impedire che lo Stato divenisse un ostacolo alla piena emancipazione degli individui. A essi Marx indicò la necessità che «gli organi meramente repressivi del vecchio potere governativo [fossero] amputati», mentre le sue «funzioni legittime» avrebbe[ro] dovuto essere «strappate da un’autorità che usurpava il primato della società […] e restituite agli agenti responsabili della società» . Nella Critica al programma di Gotha Marx chiarì che «la libertà consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa», chiosando con sagacia che «le forme dello Stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la “libertà dello Stato”».

In questo stesso testo, Marx sottolineò anche l’esigenza che, nella società comunista, le politiche pubbliche privilegiassero la «soddisfazione collettiva dei bisogni». Le spese per le scuole, le istituzioni sanitarie e gli altri beni comuni sarebbero «notevolmente aumentat[e] fin dall’inizio, rispetto alla società attuale, e [sarebbero] aument[ate] nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando» . L’istruzione avrebbe assunto una funzione di primario rilievo e, così come aveva ricordato ne La guerra civile in Francia, riferendosi al modello adottato dai comunardi parigini nel 1871, «tutti gli istituti di istruzione [sarebbero] stati aperti gratuitamente al popolo e liberati da ogni ingerenza sia della Chiesa che dello Stato». Solo così la cultura sarebbe «stata resa accessibile a tutti» e la scienza affrancata sia «dai pregiudizi di classe [che] dalla forza del governo».

Differentemente dalla società liberale, nella quale «l’eguale diritto» lascia inalterate le disuguaglianze esistenti, per Marx nella società comunista «il diritto [avrebbe] dov[uto] essere disuguale, invece di essere uguale». Una sua trasformazione in tal senso avrebbe riconosciuto, e tutelato, gli individui in base ai loro specifici bisogni e al minore o maggiore disagio delle loro condizioni, poiché «non sarebbero individui diversi, se non fossero disuguali». Sarebbe stato possibile, inoltre, determinare la giusta partecipazione di ciascuna persona ai servizi e alla ricchezza disponibile. La società che ambiva a seguire il principio «ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» aveva, davanti a sé, questo cammino complesso e irto di difficoltà. Tuttavia, l’esito finale non era garantito da «magnifiche sorti e progressive» e, allo stesso tempo, non era irreversibile.

Marx assegnò un valore fondamentale alla libertà individuale e il suo comunismo fu radicalmente diverso tanto dal livellamento delle classi, auspicato da diversi suoi predecessori, quanto dalla grigia uniformità politica ed economica, realizzata da molti suoi seguaci. Nell’Urtext , però, pose l’accento anche sull’«errore di quei socialisti, specialmente francesi», che, considerando «il socialismo [quale] realizzazione delle idee borghesi», avevano cercato di «dimostrare che il valore di scambio [fosse], originariamente […], un sistema di libertà ed eguaglianza per tutti, […] falsificato [… poi] dal capitale» . Nei Grundrisse, Marx etichettò come «insulsaggine [quella] di considerare la libera concorrenza quale ultimo sviluppo della libertà umana». Difatti, questa tesi «non significa[va] altro se non che il dominio della borghesia [era] il termine ultimo della libertà umana», idea che, ironicamente, Marx definì «allettante per i parvenus».

Allo stesso modo, egli contestò l’ideologia liberale secondo la quale «la negazione della libera concorrenza equivale alla negazione della libertà individuale e della produzione sociale basata sulla libertà individuale». Nella società borghese si rendeva possibile soltanto un «libero sviluppo su base limitata, sulla base del dominio del capitale». A suo avviso, «questo genere di libertà individuale [era], al tempo stesso, la più completa soppressione di ogni libertà individuale e il più completo soggiogamento dell’individualità alle condizioni sociali, le quali assumono la forma di poteri oggettivi […] [e] oggetti indipendenti […] dagli stessi individui e dalle loro relazioni».

L’alternativa all’alienazione capitalistica era realizzabile solo se le classi subalterne avessero preso coscienza della loro condizione di nuovi schiavi e avessero dato inizio alla lotta per una trasformazione radicale del mondo nel quale venivano sfruttati. La loro mobilitazione e la loro partecipazione attiva a questo processo non poteva arrestarsi, però, all’indomani della presa del potere. Avrebbe dovuto proseguire al fine di scongiurare la deriva verso un socialismo di Stato nei cui confronti Marx manifestò sempre la più tenace e convinta opposizione.

In una significativa lettera indirizzata, nel 1868, al presidente dell’Associazione generale degli operai tedeschi, Marx spiegò che «l’operaio non andava trattato con provvedimenti burocratici», affinché potesse obbedire «all’autorità e ai superiori; la cosa più importante era insegnargli a camminare da solo» . Egli non mutò mai questa convinzione nel corso della sua esistenza. Non a caso, come primo punto degli Statuti dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, da lui redatto, aveva posto: «l’emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi». Aggiungendo, in quello immediatamente successivo, che la loro lotta non doveva «tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire diritti e doveri eguali per tutti» . Molti dei partiti e dei regimi politici sorti nel nome di Marx, utilizzando in modo strumentale e citando impropriamente il concetto di «dittatura del proletariato» , non hanno seguito la direzione da lui indicata. Tuttavia, ciò non vuol dire che non sia possibile provarci ancora.

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La teoria dell’alienazione in Marx

I. I limiti del “giovane Marx”
L’alienazione è stata una delle teorie più rilevanti e dibattute del XX secolo e la concezione che ne elaborò Marx assunse un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema. A favorire la diffusione di questa complessa tematica fu la pubblicazione, nel 1932, di un inedito appartenente alla produzione giovanile di Marx, i Manoscritti economico filosofici del 1844. In questo testo, che finì con l’assumere un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema, mediante l’introduzione della categoria di lavoro alienato (entfremdete Arbeit), Marx non solo traghettò la problematica dell’alienazione dalla sfera filosofica, religiosa e politica a quella economica della produzione materiale, ma fece di quest’ultima il presupposto fondamentale per comprendere e poter superare le prime . A differenza di molti dei suoi critici e presunti seguaci, Marx trattò l’alienazione sempre come un fenomeno storico e non naturale.

Tuttavia, le riflessioni contenute in questi appunti – scritti da un autore appena ventiseienne – sintetizzano un pensiero frammentario e ancora molto parziale, se rapportato al complesso della sua elaborazione teorica . Ciò nonostante, i Manoscritti economico filosofici del 1844 sono stati considerati, erroneamente, come il principale testo marxiano relativo alla teoria dell’alienazione ed è stato a partire da esso che numerosi autori hanno esteso oltremodo il significato di questo concetto, sino a renderlo generico e privo di quel potenziale critico e anticapitalista che gli era stato conferito da Marx.

Fu così per Herbert Marcuse che finì con identificare l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. Nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, egli sostenne che il «carattere di peso del lavoro» non poteva essere ricondotto meramente a «determinate condizioni presenti nell’esecuzione del lavoro, alla sua organizzazione tecnico-sociale» , ma andava considerato come uno dei suoi tratti fondamentali. Per Marcuse esisteva una «negatività originaria del fare lavorativo», che egli reputava appartenere alla «essenza stessa dell’esistenza umana» . La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. Il superamento dell’alienazione fu ritenuto possibile soltanto attraverso il gioco, momento nel quale l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva: «un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico» . In Eros e civiltà, Marcuse prese le distanze dalla concezione marxiana in modo netto. Egli affermò che l’emancipazione dell’uomo poteva realizzarsi solo mediante la liberazione dal lavoro (abolition of labor) e attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il concetto di alienazione approdò anche nell’ambito della psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud, per la quale, nella società borghese, l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione , deve necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni. Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta ad un mero fenomeno soggettivo.

Diversamente dalla maggioranza dei suoi colleghi, Erich Fromm non separò mai le manifestazioni dell’alienazione dal contesto storico capitalistico e con i suoi scritti Psicoanalisi della società contemporanea e L’uomo secondo Marx si servì di questo concetto per tentare di costruire un ponte tra la psicoanalisi ed il marxismo. Tuttavia, Fromm affrontò questa problematica privilegiando sempre l’analisi soggettiva e la sua concezione di alienazione, riassunta come «una forma di esperienza per la quale la persona conosce se stessa come un estraneo» , risultò troppo circoscritta al singolo. La sua interpretazione della concezione dell’alienazione presente in Marx si basò sui soli Manoscritti economico-filosofici del 1844 e si caratterizzò per una profonda incomprensione della specificità e della centralità del concetto di lavoro alienato nel pensiero di Marx.

A partire dagli anni Quaranta, in un periodo caratterizzato dagli orrori della guerra, dalla conseguente crisi delle coscienze e, nel panorama filosofico francese, dal neohegelismo di Alexandre Kojeve, il fenomeno dell’alienazione fu affrontato anche da Jean-Paul Sartre e dagli esistenzialisti francesi . Tuttavia, anche in questa circostanza, la nozione di alienazione assunse un profilo molto più vago di quello esposto da Marx. Essa fu identificata con un indistinto disagio dell’uomo nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, significativamente, come condition humaine non sopprimibile. I filosofi esistenzialisti non fornirono una specifica origine sociale dell’alienazione, ma, tornando ad assimilarla con ogni fatticità (il fallimento dell’esperienza socialista in Unione sovietica favorì certamente l’affermazione di questa posizione), concepirono l’alienazione come un generico senso di alterità umana.

Se Marx aveva contribuito a sviluppare una critica della soggezione umana basata sull’opposizione ai rapporti di produzione capitalistici , gli esistenzialisti, invece, intrapresero una strada diversa, ovvero tentarono di riassorbire il pensiero di Marx, attraverso quelle parti della sua opera giovanile che potevano risultare più utili alle loro tesi, in una discussione priva di una specifica critica storica e, a tratti, meramente filosofica . Inoltre, alcune frasi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono estrapolate dal loro contesto e trasformate in citazioni sensazionali con lo scopo di dimostrare la presunta esistenza di un “nuovo Marx”, radicalmente diverso da quello fino ad allora conosciuto, perché intriso di teoria filosofica e ancora privo del determinismo economico che alcuni suoi commentatori attribuivano ad Il capitale, testo, a dire il vero, molto poco letto da quanti sostennero questa tesi. Anche rispetto al solo manoscritto del 1844, gli esistenzialisti francesi privilegiarono di gran lunga la nozione di autoalienazione (Selbstentfremdung), ovvero, il fenomeno per il quale il lavoratore è alienato dal genere umano e dai suoi simili, che Marx aveva trattato nel suo scritto giovanile, ma sempre in relazione all’alienazione oggettiva.

Negli anni Sessanta, l’esegesi della teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 divenne il pomo della discordia rispetto all’interpretazione generale di Marx. In questo periodo venne concepita la distinzione tra due presunti Marx: il “giovane Marx” e il “Marx maturo” . Questa arbitraria ed artificiale contrapposizione fu alimentata sia da quanti preferirono il Marx delle opere giovanili e filosofiche (ad esempio la gran parte degli esistenzialisti), sia da quanti (tra questi Louis Althusser e quasi tutti i marxisti sovietici) affermarono che il solo vero Marx fosse quello de Il capitale. Coloro che sposarono la prima tesi considerarono la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il punto più significativo della critica marxiana della società; mentre quelli che abbracciarono la seconda ipotesi mostrarono, spesso, una vera e propria «fobia dell’alienazione»; tentando, in un primo momento, di minimizzarne il rilievo e, quando ciò non fu più possibile, considerando il tema dell’alienazione come «un peccato di gioventù, un residuo di hegelismo» , successivamente abbandonato da Marx. I primi rimossero la circostanza che la concezione dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 era stata scritta da un autore appena agli albori dei suoi studi principali; i secondi, invece, non vollero riconoscere l’importanza della teoria dell’alienazione in Marx anche quando, con la pubblicazione di nuovi inediti, divenne evidente che egli non aveva mai smesso di occuparsene nel corso della sua esistenza e che essa, anche se mutata, aveva conservato un posto di rilievo nelle tappe principali dell’elaborazione del suo pensiero.

Sostenere, come affermarono in tanti, che la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 fosse il tema centrale del pensiero di Marx è un falso che denota soltanto la scarsa familiarità con la sua opera da parte di coloro che propesero per questa tesi. D’altro canto, quando Marx ritornò ad essere l’autore più discusso e citato nella letteratura filosofica mondiale proprio per le sue pagine inedite relative all’alienazione, il silenzio dell’Unione sovietica su questa tematica, e sulle controversie ad essa legate, fornisce uno dei tanti esempi di utilizzo strumentale dei suoi scritti in quel paese. Infatti, l’esistenza del fenomeno dell’alienazione in Unione sovietica, così come nei suoi paesi satelliti, fu semplicemente negata e tutti i testi che trattavano questa problematica vennero ritenuti sospetti. Secondo Henry Lefebvre: «nella società sovietica non poteva, non doveva più essere questione di alienazione. Il concetto doveva sparire, per ordine superiore, per la ragion di Stato» . E, così, fino agli anni Settanta, furono pochissimi gli autori che, nel cosiddetto “campo socialista”, scrissero opere in proposito.

II. La trasformazione del concetto
Nel frattempo, in Europa occidentale, la descrizione di una condizione di estraneazione generalizzata, prodotta da un controllo sociale invasivo e dalla manipolazione dei bisogni creata dalla capacità d’influenza dei mass-media, fu avanzata da Max Horkheimer e Theodor Adorno, i due esponenti di punta della scuola di Francoforte. In Dialettica dell’illuminismo, essi affermarono che «la razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. È il carattere coatto […] della società estraniata a se stessa» . In questo modo, essi avevano posto in evidenza come, nel capitalismo contemporaneo, persino la sfera del divertimento, un tempo libera ed alternativa al lavoro, fosse stata assorbita negli ingranaggi della riproduzione del consenso.

In ambito marxista, la riscoperta della teoria dell’alienazione si accompagnò al successo di Storia e coscienza di classe, il libro nel quale, già nel 1923, György Lukács aveva elaborato il concetto di reificazione (Verdinglichung o Versachlichung), ovvero il fenomeno attraverso il quale l’attività lavorativa si contrappone all’uomo come qualcosa di oggettivo ed indipendente e lo domina mediante leggi autonome ed a lui estranee. Nei tratti fondamentali, però, la teoria di Lukács era ancora troppo simile a quella hegeliana, poiché anche egli aveva concepito la reificazione come un “fatto strutturale fondamentale” . Così, quando dopo la comparsa della traduzione francese, nel 1960, questo testo tornò ad esercitare una grande influenza tra gli studiosi ed i militanti di sinistra, Lukács decise di ripubblicare il suo scritto in una nuova edizione introdotta da una lunga prefazione autocritica, nella quale, per chiarire la sua posizione, egli affermò: “Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui, anche in questo libro, l’estraneazione viene posta sullo stesso piano dell’oggettivazione” .

In questo periodo, il concetto di alienazione entrò anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Infatti, nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come una problematica che riguardava il singolo essere umano anziché le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente, e non nelle pratiche collettive volte a mutare la società.

Nell’opera dei sociologi statunitensi, quindi, l’alienazione venne concepita come una manifestazione relativa al sistema di produzione industriale, a prescindere se esso fosse capitalistico o socialista, e come una problematica inerente soprattutto la coscienza umana. Questo approccio finì col mettere ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione dell’analisi di questa nozione, la quale, anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, fu assunta non più come una questione sociale, ma quale patologia individuale, e la cui cura riguardava i singoli individui . Ciò determinò un profondo mutamento della concezione dell’alienazione. Se nella tradizione marxista essa rappresentava uno dei concetti critici più incisivi del modo di produzione capitalistico, in sociologia subì un processo di istituzionalizzazione e finì con l’essere considerata come un fenomeno relativo al mancato adattamento degli individui alle norme sociali.

A partire dagli anni Sessanta, esplose una vera e propria moda per la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri e articoli sul tema. Fu il tempo dell’alienazione tout-court. Il periodo nel quale autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, all’anomia, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifesta nel rapporto con le nuove tecnologie; e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, e all’inquinamento ambientale.

Il concetto di alienazione sembrò riflettere alla perfezione lo spirito del tempo. La popolarità del termine e la sua applicazione indiscriminata diedero origine, però, ad una profonda ambiguità teorica . Così, nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e lo spropositato ampliamento della sua nozione generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno così tanto diffuso da apparire immodificabile.

Successivamente, la teoria dell’alienazione approdò anche alla critica della produzione immateriale. Con il libro La società dello spettacolo, divenuto dopo la sua uscita nel 1967 un vero e proprio manifesto di critica sociale per la generazione di studenti in rivolta contro il sistema, Guy Debord riprese alcune delle tesi già avanzate da Horkheimer e Adorno, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente. Debord affermò che, nelle circostanze date, il non-lavoro non poteva più essere considerato come una sfera differente dall’attività produttiva.

Anche Jean Baudrillard utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi (1970), egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna, prendendo così le distanze dalla concezione marxiana ancorata alla centralità della produzione. Secondo Baudrillard «l’era del consumo», in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche «l’era dell’alienazione radicale» . Le conclusioni politiche di questi autori furono, però, confuse e pessimistiche e, di certo, lontane da Marx e dalla sua individuazione della classe lavoratrice quale soggetto rivoluzionario di riferimento.

III. Alienazione e conflitto sociale
Gli scritti di Marx ebbero un ruolo fondamentale per coloro che tentarono di opporsi alle tendenze, manifestatesi nell’ambito delle scienze sociali, di mutare il senso del concetto di alienazione. L’attenzione rivolta alla teoria dell’alienazione in Marx, inizialmente incentrata sui Manoscritti economico-filosofici del 1844, si spostò, dopo la pubblicazione di ulteriori inediti, su nuovi testi e con essi fu possibile ricostruire il percorso della sua elaborazione dagli scritti giovanili ad Il capitale. Quando nel 1857, dopo una lunga pausa, Marx riprese a scrivere di economia nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (i cosiddetti Grundrisse), egli tornò ad utilizzare il concetto di alienazione ripetutamente. La sua esposizione ricordava, per molti versi, quella dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, anche se, grazie agli studi condotti nel frattempo, la sua analisi risultò essere molto più approfondita:

“il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte dagli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto tra le cose; la capacità personale in una capacità delle cose” .

Nei Grundrisse, la descrizione dell’alienazione acquisì maggiore spessore rispetto a quella compiuta negli scritti giovanili, essendo stata arricchita, nel tempo, dalla comprensione di importanti categorie economiche e da una più rigorosa analisi sociale. Accanto al nesso tra alienazione e valore di scambio, tra i passaggi più brillanti che delinearono le caratteristiche di questo fenomeno della società moderna figurano anche quelli in cui l’alienazione venne messa in relazione con la contrapposizione tra capitale e «forza-lavoro viva»:

“le condizioni oggettive del lavoro vivo si presentano come valori separati, autonomizzati di fronte alla forza-lavoro viva quale esistenza soggettiva […], sono presupposte come un’esistenza autonoma di fronte ad essa, come l’oggettività di un soggetto che si distingue dalla forza-lavoro vivo e le si contrappone autonomamente; la riproduzione e la valorizzazione, ossia l’allargamento di queste condizioni oggettive è perciò al tempo stesso la riproduzione e la nuova produzione di esse in quanto ricchezza di un soggetto che è estraneo, indifferente e si contrappone autonomamente alla forza-lavoro. Ciò che viene riprodotto e nuovamente prodotto non è soltanto l’esistenza di queste condizioni oggettive del lavoro vivo, ma la loro esistenza di valori autonomi, ossia appartenenti ad un soggetto estraneo, opposto a questa forza-lavoro viva. Le condizioni oggettive del lavoro acquistano un’esistenza soggettiva di fronte alla forza-lavoro viva – dal capitale nasce il capitalista” .

I Grundrisse non furono l’unico testo della maturità di Marx in cui ricorre, con frequenza, la problematica dell’alienazione. Un lustro dopo la loro stesura, infatti, essa riapparve in Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, manoscritto nel quale l’analisi economica e quella politica dell’alienazione vennero messe in maggiore relazione tra loro: «il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore» . In queste bozze preparatorie de Il capitale, Marx pose in evidenza che nella società capitalistica, mediante «la trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale» , si realizza una vera e propria «personificazione delle cose e reificazione delle persone», ovvero si crea un’apparenza in forza della quale «non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro, appaiono sottomessi al lavoratore, ma egli ad essi» . In realtà, a suo giudizio:

“il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose. Senza salariato, dacché gli individui si fronteggiano come persone libere, niente produzione di plusvalore; senza produzione di plusvalore, niente produzione capitalistica, quindi niente capitale e niente capitalisti! Capitale e lavoro salariato (come noi chiamiamo il lavoro dell’operaio che vende la propria capacità lavorativa) esprimono due fattori dello stesso rapporto. Il denaro non può diventare capitale senza scambiarsi preventivamente contro forza-lavoro che l’operaio vende come merce; d’altra parte, il lavoro può apparire come lavoro salariato solo dal momento in cui le sue proprie condizioni oggettive gli stanno di fronte come potenze autonome, proprietà estranea, valore esistente per sé e arroccato in sé stesso; insomma, capitale” .

Nel modo di produzione capitalistico il lavoro umano è diventato uno strumento del processo di valorizzazione del capitale, che «nell’incorporare la forza-lavoro viva alle sue parti componenti oggettive […] diventa un mostro animato, e comincia ad agire come se avesse l’amore in corpo» . Questo meccanismo si espande su scala sempre maggiore, fino a che la cooperazione nel processo produttivo, le scoperte scientifiche e l’impiego dei macchinari, ossia i progressi sociali generali creati dalla collettività, diventano forze del capitale che appaiono come proprietà da esso possedute per natura e si ergono estranee di fronte ai lavoratori come ordinamento capitalistico:

“le forze produttive […] sviluppate del lavoro sociale […] si rappresentano come forze produttive del capitale. […] L’unità collettiva nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle energie naturali e delle scienze, dei prodotti del lavoro come macchinario – tutto ciò si contrappone agli operai singoli, in modo autonomo, come qualcosa di straniero, di oggettivo, di preesistente, senza e spesso contro il loro contributo attivo, come pure forme di esistenza dei mezzi di lavoro da essi indipendenti e su di essi esercitanti il proprio dominio; e l’intelligenza e la volontà dell’officina collettiva incarnate nel capitalista o nei suoi subalterni, nella misura in cui l’officina collettiva si basa sulla loro combinazione, gli si contrappongono come funzioni del capitale che vive nel capitalista” .

È mediante questo processo, dunque, che, secondo Marx, il capitale diventa qualcosa di «terribilmente misterioso». Accade in questo modo che «le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali torreggianti di fronte all’operaio e, in questa forma, vengono capitalizzate» .

La diffusione, a partire dagli anni Sessanta, de Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito e, soprattutto, dei Grundrisse aprì la strada ad una concezione dell’alienazione differente rispetto a quella egemone in sociologia e in psicologia, la cui comprensione era finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia. La pubblicazione di quella che, dopo i Manoscritti economico-filosofici del 1844 negli anni Trenta, può essere considerata la “seconda generazione” di scritti di Marx sull’alienazione fornì non solo una coerente base teorica per una nuova stagione di studi, ma soprattutto una piattaforma ideologica anticapitalista allo straordinario movimento politico e sociale esploso nel mondo in quel periodo.

IV. Il feticismo della merce e l’alternativa della cooperazione
La più efficace descrizione dell’alienazione realizzata da Marx resta, comunque, quella contenuta nel celebre paragrafo Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano in Il capitale. Al suo interno egli mise in evidenza che, nella società capitalistica, gli uomini sono dominati dai prodotti che hanno creato e vivono in un mondo in cui le relazioni reciproche appaiono «non come rapporti immediatamente sociali tra persone [… ma come], rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose» . Più precisamente:

“l’arcano della forma di merce consiste […] nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, come sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. […] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci” .

Il feticismo, infatti, non venne concepito da Marx come una problematica individuale, ma fu sempre considerato un fenomeno sociale . Non una manifestazione dell’anima, ma un potere reale, una dominazione concreta, che si realizza, nell’economia di mercato, in seguito alla trasformazione dell’oggetto in soggetto. Per questo motivo, egli non limitò la propria analisi dell’alienazione al disagio del singolo essere umano, ma analizzò i processi sociali che ne stavano alla base, in primo luogo l’attività produttiva. Per Marx, inoltre, il feticismo si manifesta in una precisa realtà storica della produzione, quella del lavoro salariato, e non è legato al rapporto tra la cosa in generale e l’uomo, ma da quello che si verifica tra questo e un tipo determinato di oggettività: la merce.

Nella società borghese le proprietà e le relazioni umane si trasformano in proprietà e relazioni tra cose. La teoria che, dopo la formulazione di Lukács, fu designata col nome di reificazione illustrava questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattava da quello delle merci. Diversamente da quanto sostenuto da coloro che hanno negato la presenza di riflessioni sull’alienazione nell’opera matura di Marx, essa non venne sostituta da quella del feticismo delle merci, perché questa ne rappresenta solo un suo aspetto particolare.

L’avanzamento teorico compiuto da Marx rispetto alla concezione dell’alienazione dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 a Il capitale non consiste, però, soltanto in una sua più precisa descrizione, ma anche in una diversa e più compiuta elaborazione delle misure ritenute necessarie per il suo superamento. Se, nel 1844, Marx aveva considerato che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, ne Il capitale, e nei suoi manoscritti preparatori, il percorso indicato per costruire una società libera dall’alienazione divenne molto più complesso. Marx riteneva che il capitalismo fosse un sistema nel quale i lavoratori sono soggiogati dal capitale e dalle sue condizioni, ma egli era anche convinto del fatto che esso avesse creato le basi per una società più progredita e che l’umanità potesse proseguire il cammino dello sviluppo sociale generalizzando i benefici prodotti da questo nuovo modo di produzione. Secondo Marx, a un sistema che produce enorme accumulo di ricchezza per pochi e spoliazione e sfruttamento per la massa dei lavoratori, occorre sostituire «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» . Questo diverso tipo di produzione si differenzierebbe da quello basato sul lavoro salariato, poiché porrebbe i suoi fattori determinanti sotto il governo collettivo, assumendo un carattere immediatamente generale e trasformando il lavoro in una vera attività sociale. La sua creazione non è un processo meramente politico, ma investe necessariamente la trasformazione radicale della sfera della produzione. Come Marx scrisse in Il capitale. Libro III:

“di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi, per sua natura, oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa” .

Questa produzione dal carattere sociale, insieme con i progressi tecnologici e scientifici e la conseguente riduzione della giornata lavorativa, crea le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale. In essa, il lavoro coercitivo e alienato, imposto dal capitale e sussunto dalle sue leggi, viene progressivamente sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale in funzione delle merci e del denaro . Non è più il regno della libertà del capitale, ma quello dell’autentica libertà umana dell’individuo sociale, descritto da Marx in alcune delle sue pagine più brillanti e, paradossalmente, più distanti dal cosiddetto “socialismo reale” eretto, arbitrariamente, in suo nome.

Con la diffusione de Il capitale e dei suoi manoscritti preparatori, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per divenire critica sociale e irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze. Il drammatico aumento di povertà, diseguaglianze e sfruttamento, prodotto su scala globale dal capitalismo degli ultimi decenni, impone che lì vi ritorni, il prima possibile, per non essere nuovamente confinata alle sole pagine dei libri.

References
1. Per una trattazione estesa di questo testo cfr. Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi, Carocci, Roma 2011, pp. 308-12 e 51-4.
2. Per un’antologia completa dei testi marxiani sull’alienazione si rimanda a Marcello Musto (a cura di), Karl Marx. Scritti sull’alienazione, Donzelli, Roma 2018.
3. Herbert Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, in Id., Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 170.
4. Ivi, p. 171.
5. Ivi, p. 155.
6. Con questa espressione Marcuse si riferiva al lavoro fisico e al travaglio, non al lavoro tout court.
7. Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1971, p. 250.
8. Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Edizioni di comunità, Milano 1981, p. 121.
9. Sebbene i filosofi esistenzialisti si servirono spesso di questo concetto, nei loro testi esso non appare così diffusamente come, invece, generalmente si ritiene.
10. Cfr. George Lichtheim, Alienation, in David Sills (ed.), International Encyclopedia of the Social Sciences, vol. I, , Crowell – Macmillan Inc., New York 1968, pp. 264-8, che scrisse: «l’alienazione (che i pensatori romantici avevano attribuito all’aumentata razionalizzazione e specializzazione dell’esistenza) fu attribuita da Marx alla società e specificamente allo sfruttamento del lavoratore da parte del non-lavoratore, ovvero il capitalista. […] Diversamente dai pensatori romantici e dai loro predecessori illuministi del XVIII secolo, Marx attribuì questa disumanizzazione non alla divisione del lavoro per sé, ma alla forma storica che aveva preso sotto il capitalismo», p. 266.
11. Cfr. Ornella Pompeo Faracovi, Il marxismo francese contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1972, p. 28; e István Mészáros, La teoria dell’alienazione in Marx, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 301-2.
12. Cfr. Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi, op. cit., pp. 223-267.
13. Adam Schaff, L’alienazione come fenomeno sociale, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 27 e 53.
14. Eccezione di rilievo a questo atteggiamento fu lo studioso polacco Adam Schaff, che nel libro Il marxismo e la persona umana, Feltrinelli, Milano 1965, mise in evidenza come l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non comportava la scomparsa automatica dell’alienazione, poiché anche nelle società “socialiste” il lavoro conservava il carattere di merce.
15. Henry Lefebvre, Critica della vita quotidiana, vol. I, Dedalo, Bari 1977, p. 62.
16. Max Horkheimer – Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 127.
17. György Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1971, p. 112
18. Ivi, p. XXV.
19. Per una critica delle conseguenze politiche di questa impostazione cfr. David Schweitzer – Felix Geyer, Introduction, in Id. (eds.), Alienation: Problems of Meaning, Theory and Method, Routledge, London 1981, che affermò «riallocando il problema dell’alienazione nell’individuo, anche la soluzione al problema tende a essere posto sull’individuo; ovvero, ci devono essere adattamenti e aggiustamenti individuali in conformità degli assetti e dei valori dominanti», p. 12. Eguale matrice culturale hanno tutte le presunte strategie di disalienazione, promosse dalle amministrazioni aziendali, che vanno sotto il nome di “relazioni umane”. Nel volume James W. Rinehart, The Tiranny of Work: Alienation and the Labour Process, Harcourt Brace Jovanovich, Toronto 1987, si ricorda come queste strategie, lungi dall’umanizzare l’attività lavorativa, sono funzionali alle esigenze padronali e mirano esclusivamente a intensificare il lavoro ed a ridurre i suoi costi per l’impresa.
20. Cfr. Richard Schacht, Alienation, Doubleday, Graden City 1970, il quale notò che «non c’era quasi alcuno aspetto della vita contemporanea che non sia stato discusso nei termini di “alienazione”», p. lix.
21. Cfr. David Schweitzer, Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in philosophy and the social sciences, in Giora Shoham (ed.), Alienation and Anomie Revisited, Ramot, Tel Aviv 1982, secondo cui «il vero significato di alienazione è spesso diluito fino al punto di un’assenza virtuale di significato», p. 57.
22. Cfr. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 70-1.
23. Jean Baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 2010, p. 234.
24. Karl Marx, Grundrisse, La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I, pp. 97-8. Per un’analisi completa di questo testo si rimanda a Marcello Musto (a cura di), I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, ETS, Pisa 2015.
25. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. II, pp. 22-3.
26. Karl Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 20.
27. Ivi, p. 94.
28. Ivi, p. 90.
29. Karl Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, op. cit., p. 37.
30. Ivi, p. 39.
31. Ivi, p. 90.
32. Ivi, p. 96.
33. Karl Marx, Il capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 105.
34. Ivi, pp. 104-5.
35. Su queste tematiche il contributo di Alfonso Maurizio Iacono è imprescindibile. Cfr., in particolare, The History and Theory of Fetishism, Palgrave, New York 2015.
36. Cfr. Adam Schaff, op. cit., pp. 149-50.
37. Karl Marx, Il capitale, op. cit., p. 110.
38. Karl Marx, Il capitale, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 933.
39. Cf. Alfonso Maurizio Iacono, The Ambivalence of Cooperation, in Marcello Musto (Ed.), Marx’s Capital after 150 Years: Critique and Alternative to Capitalism, Routledge, London 2019, in press.

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Marx militante

I. L’uomo giusto al posto giusto
L’Associazione Internazionale dei Lavoratori nacque il 28 settembre del 1864 presso la sala del St. Martin’s Hall, un edificio situato nel cuore di Londra, quel giorno gremito da 2.000 lavoratrici e lavoratori. Le organizzazioni operaie che fondarono l’Internazionale erano molto differenti tra loro. Il centro motore fu il sindacalismo inglese. I suoi dirigenti, quasi tutti riformisti, erano interessati soprattutto a questioni di carattere economico. Essi lottavano per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori senza, però, mettere in discussione il capitalismo. Pertanto, concepirono l’Internazionale come uno strumento che avrebbe potuto favorire il loro obiettivo, impedendo l’importazione della mano d’opera dall’estero durante gli scioperi.

Un altro significativo ramo dell’organizzazione, a lungo dominante in Francia e forte anche in Belgio e nella Svizzera francese, fu quello dei mutualisti. Seguaci delle teorie di Pierre-Joseph Proudhon, essi si opponevano a qualsiasi tipo di coinvolgimento politico dei lavoratori, erano contrari allo sciopero come strumento di lotta ed esprimevano posizioni conservatrici rispetto all’emancipazione della donna. Fautori di un sistema cooperativo su base federalistica, ritenevano possibile modificare il capitalismo mediante un equo accesso al credito. Per queste ragioni, costituirono l’ala destra dell’Internazionale.

Accanto a queste due componenti, numericamente maggioritarie, il terzo gruppo, per ordine d’importanza, furono i comunisti, riuniti attorno alla figura di Karl Marx e attivi, con piccoli gruppi dalla sfera d’influenza molto circoscritta, in alcune città tedesche e svizzere, così come a Londra. Anticapitalisti, si opponevano al sistema di produzione esistente, rivendicando la necessità dell’azione politica per il suo rovesciamento.

Tra le file dell’Internazionale, al tempo della sua fondazione, erano presenti anche componenti che non avevano nulla a che fare con la tradizione socialista – come alcuni gruppi di esuli dei paesi dell’est Europa – ispirati da concezioni vagamente democratiche. Tra queste possono essere annoverati i seguaci di Giuseppe Mazzini, esponente di un pensiero interclassista orientato principalmente alle rivendicazioni nazionali, che concepiva l’Internazionale come un’associazione utile per diffondere generici appelli di riscatto ai popoli europei.

A completare il quadro dell’organizzazione, rendendone ancora più complesso l’equilibrio, vi furono anche vari gruppi di lavoratori francesi, belgi e svizzeri, che aderirono all’Internazionale portandovi le teorie più diverse e confuse, tra le quali anche alcune ispirate all’utopismo. Infine, mai associatasi all’Internazionale, seppure ruotasse nella sua orbita, vi era anche l’Associazione Generale dei Lavoratori Tedeschi, il partito diretto dai seguaci di Ferdinand Lassalle, che aveva una netta posizione antisindacale e concepiva l’azione politica esclusivamente nella rigida cornice dei confini nazionali.

Furono questi gli eterogenei gruppi fondatori dell’Internazionale e fu questo il variegato e complesso intreccio, di culture e di esperienze politiche e sindacali, che caratterizzò la sua nascita. Costruire l’impalcatura generale e saper compiere la sintesi politica di un’organizzazione così ampia, nonostante la sua forma federativa, si presentò, sin dall’inizio, come un compito molto arduo. Inoltre, tutte queste differenti tendenze, anche dopo aver aderito a un programma comune, continuarono a esercitare una notevole influenza, spesso centrifuga, nelle sezioni locali dove furono maggioritarie.

L’impresa politica di riuscire a far convivere tutte queste anime nella stessa organizzazione e, per giunta, con un programma così distante dalle impostazioni iniziali di ognuna di esse, fu indiscutibilmente opera di Marx. Le sue doti politiche gli permisero di conciliare ciò che appariva non conciliabile e assicurarono un futuro all’Internazionale, la quale, senza il suo protagonismo, avrebbe sicuramente condiviso lo stesso rapido oblio di tutte le altre numerose associazioni operaie che l’avevano preceduta (Collins e Abramsky 1965, 34) . Fu Marx a dare una chiara finalità all’Internazionale. Fu Marx a realizzare un programma politico non preclusivo eppure fermamente di classe, a garanzia di un’organizzazione che ambiva ad essere di massa e non settaria. Anima politica del suo Consiglio Generale, fu sempre Marx che redasse tutte le sue principali risoluzioni e compilò tutti i rapporti preparatori per i congressi (a eccezione di quello di Losanna del 1867, in quanto coincidente con il suo impegno nella revisione delle bozze di stampa di Il capitale). Egli fu “l’uomo giusto al posto giusto” (Eccarius 1864, 11), come scrisse il dirigente operaio tedesco Johann Georg Eccarius.

Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto dalle tante ricostruzioni fantasiose, che lo raffigurarono come il fondatore dell’Internazionale, egli non fu tra gli organizzatori dell’assemblea tenutasi alla St. Martin’s Hall. Vi assistette, al contrario, da “personaggio muto” (Marx 1974c, 11). Nonostante l’iniziale posizione defilata, Marx seppe riconoscere immediatamente le potenzialità dell’evento e si mise subito al lavoro, affinché l’organizzazione potesse intraprendere e portare al successo il suo imponente compito. Grazie al prestigio che, pur circoscritto in piccoli ambiti, accompagnava il suo nome, egli fu nominato tra i 34 membri del Comitato Direttivo Provvisorio dell’Associazione, dal quale, conquistatane la fiducia nel giro di poco tempo, si vide affidare il compito di scrivere l’Indirizzo Inaugurale e gli Statuti Provvisori dell’Internazionale.

Secondo Marx, gli operai dovevano intendere che “i padroni della terra e del capitale non vogliono che una cosa: impiegare i loro privilegi politici per difendere e perpetuare i loro monopoli economici. Non certo vogliono favorire la via dell’emancipazione del lavoro, anzi, vogliono solo continuare a frapporle ogni sorta di ostacoli”. Pertanto: “la conquista del potere è politico è divenuto il grande dovere della classe operaia” (Marx 2014a, 30–31).

Fu grazie alla perspicacia di Marx che l’Internazionale divenne un organo di sintesi politica delle tendenze presenti nei diversi contesti nazionali. L’Internazionale fu capace di unificarle in un progetto di lotta comune, garantendo autonomia alle sezioni locali, ma non una totale indipendenza dal centro dirigente (Bravo 1979, 25). Le fatiche per tenere, di volta in volta, unita l’organizzazione furono estenuanti per Marx; soprattutto se si considera che la sua concezione anticapitalistica non era la posizione politica dominante all’interno dell’organizzazione. Tuttavia, nel tempo, a volte anche attraverso scontri e rotture, grazie all’incessante tenacia del suo operato, il pensiero di Marx divenne la dottrina egemone.

La sua elaborazione trasse non pochi benefici dalle lotte politiche di quegli anni. Il nuovo profilo delle mobilitazioni operaie; l’esperienza rivoluzionaria della Comune di Parigi; la prova, per lui inedita, di tenere insieme un’organizzazione politica, per di più di tale portata e complessità; le polemiche con le altre tendenze del movimento operaio, nate dalle varie questioni che si susseguirono nella vita dell’Associazione, spinsero nuovamente Marx oltre gli steccati dell’economia politica, alla quale si era completamente dedicato in seguito alla sconfitta della rivoluzione del 1848 e del conseguente riflusso delle forze più progressiste. Inoltre, egli fu sollecitato a sviluppare le sue idee, talvolta a rivederle, mettendo in discussione antiche certezze, ponendosi nuovi interrogativi ed elaborando, più concretamente in termini di definizione della società comunista, la sua critica al capitalismo.

2. La struttura e i primi sviluppi dell’Internazionale
Tanto nel corso della sua esistenza, quanto nei decenni successivi, l’Internazionale è stata rappresentata come un’organizzazione vasta e finanziariamente potente. Il numero dei suoi aderenti fu sempre stimato in eccesso, sia per un’insufficiente conoscenza della realtà, sia per le esagerazioni di alcuni dei suoi dirigenti, sia per giustificare la brutale repressione nei confronti dell’Internazionale. Il pubblico istruttore che, nel giugno del 1870, processò alcuni dei dirigenti francesi dell’Internazionale, dichiarò che l’organizzazione aveva oltre 800.000 membri in Europa (Testut 1870, 310). Un anno più tardi, dopo la sconfitta della Comune di Parigi, The Times affermò che essi erano 2.500.000. Mentre il suo principale studioso del tempo nel campo conservatore, Oscar Testut, si spinse addirittura a immaginare la soglia dei 5.000.000 di componenti (The Times 1871; Testut 1871).

In realtà, anche in Inghilterra, con l’unica eccezione degli operai siderurgici, la forza dell’Internazionale tra i proletari dell’industria fu sempre limitatissima (Collins e Abramsky 1965, 70; D’Hondt 1968, 475). Essi non divennero mai la maggioranza dell’Associazione, tantomeno dopo la sua espansione nei paesi dell’Europa meridionale. L’altro grande limite dell’Internazionale fu quello di non essere riuscita a coinvolgere il mondo del lavoro non qualificato.

Infine, l’Internazionale restò sempre un’organizzazione di soli occupati, i senza lavoro non entrarono mai a farne parte. Analoga fu la provenienza dei suoi dirigenti che, pur con alcune eccezioni, furono prevalentemente artigiani e intellettuali. Poter disporre di un resoconto dei mezzi dell’Internazionale è ugualmente complicato. A dispetto delle fantasiose descrizioni sulla presunta abbondanza delle sue risorse economiche, l’organizzazione ebbe una situazione finanziaria cronicamente instabile. La quota d’iscrizione per i singoli militanti era di uno scellino; mentre i sindacati avrebbero dovuto versare, in quanto soggetto collettivo, tre penny per ogni loro singolo membro. Le somme raccolte non superarono mai le poche decine di sterline annue, sufficienti appena a pagare il salario di 4 scellini a settimana per il segretario generale e l’affitto della sede, per la quale l’Internazionale fu spesso minacciata di sfratto per morosità.

In uno dei più importanti documenti della vita dell’organizzazione, Marx ne riassunse così le funzioni: “è compito dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori di unificare i movimenti spontanei delle classi operaie e di dare loro uniformità, ma non di dirigerle o di imporre loro un qualsivoglia sistema dottrinario” (Marx 2014d, 37).

Nonostante la notevole autonomia concessa alle federazioni e alle singole sezioni locali, l’Internazionale, però, conservò sempre un luogo di direzione politica. Il suo Consiglio Generale, infatti, costituì l’organo in cui si compiva la sintesi tra le varie tendenze politiche e dal quale venivano emanate le linee direttive dell’organizzazione. Dall’ottobre del 1864 all’agosto del 1872, esso si riunì, con grande regolarità, per ben 385 volte. Nel corso dei tanti mercoledì sera durante i quali, in una stanza piena del fumo di sigari e pipe, si svolsero le sedute del Consiglio Generale, i suoi membri dibatterono di numerosissime problematiche, tra le quali: le condizioni lavorative degli operai, gli effetti dell’introduzione dei macchinari, gli scioperi da sostenere, il ruolo e l’importanza dei sindacati, la questione irlandese, i numerosi problemi di politica estera e, naturalmente, come costruire la società dell’avvenire. Il Consiglio Generale fu anche l’organismo che si occupò della stesura dei documenti dell’Internazionale. Circolari, lettere e risoluzioni furono le misure utilizzate correntemente, mentre manifesti, indirizzi e appelli furono i documenti eccezionali, diramati in circostanze particolari (Haupt 1978, 78).

La prima conferenza dell’organizzazione, tenutasi a Londra. Essa si svolse tra il 25 e il 29 di settembre, alla presenza di 30 delegati provenienti da Inghilterra, Francia, Svizzera e Belgio e di alcuni altri rappresentanti di Germania, Polonia e Italia. I delegati giunti a Londra nel settembre del 1865, infatti, fornirono notizie, soprattutto di carattere organizzativo, sui primi passi che l’Internazionale aveva cominciato a muovere nei loro paesi. In questa sede fu convocato, per l’anno successivo, il primo congresso generale, del quale furono stabiliti anche i temi da porre in discussione. Marx li riassunse in una lettera indirizzata a Hermann Jung, segretario corrispondente per la Svizzera dell’Internazionale:

“I. Questioni riguardanti l’Associazione: 1. Questioni della sua organizzazione; 2. Istituzioni per il mutuo soccorso per i soci dell’Associazione. (…)
II. Questioni sociali: 1. Lavoro cooperativo; 2. Limitazione del tempo di lavoro; 3. Lavoro delle donne e dei bambini; 4. Unioni di mestiere. II loro passato, presente e futuro; 5. Unificazione degli sforzi nella lotta tra capitale e lavoro con l’aiuto dell’Associazione internazionale; 6. Credito internazionale: fondazione di istituti di credito internazionale, loro forma e loro modalità di azione; 7. Imposte dirette e indirette; 8. Eserciti Permanenti e loro rapporti con la produzione.
III. Politica internazionale: Necessità di eliminare l’influenza moscovita in Europa mediante la realizzazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione e la restaurazione della Polonia su basi democratiche e sociali.
IV. Questione filosofica: L’idea religiosa e i suoi rapporti con lo sviluppo sociale, politico e intellettuale” (Marx 1974b, 533-4).

Tra il 3 e l’8 settembre del 1866, la città di Ginevra ospitò il primo congresso dell’Internazionale. Vi presero parte 60 delegati provenienti da Inghilterra, Francia, Germania e Svizzera. L’organizzazione giunse a questo appuntamento con un bilancio molto positivo, avendo raccolto sotto le sue bandiere, due anni appena dopo la sua fondazione, oltre cento sindacati e organizzazioni politiche. I partecipanti del congresso si divisero sostanzialmente in due blocchi. Il primo, composto dai delegati inglesi, dai pochi tedeschi presenti e dalla maggioranza degli svizzeri, seguì le direttive del Comitato Centrale redatte da Marx, assente a Ginevra. Il secondo, del quale facevano parte francesi e una parte degli svizzeri di lingua francese, era costituito dai mutualisti. Al tempo, l’Internazionale era un’organizzazione in cui prevalevano le posizioni moderate. I mutualisti, infatti, guidati dal parigino Henri Tolain, prefiguravano una società in cui il lavoratore avrebbe dovuto essere al tempo stesso produttore, capitalista e consumatore. Essi consideravano la concessione del credito gratuito come la misura determinante per trasformare la società; si opponevano al lavoro femminile, condannato dal punto di vista morale e sociale; e avversavano qualsiasi interferenza dello Stato in materia di rapporti di lavoro (inclusa la riduzione legale della giornata lavorativa a otto ore), poiché erano convinti che essa avrebbe minacciato le relazioni private tra lavoratore e padrone e rafforzato il sistema vigente.

Sulla base delle deliberazioni predisposte da Marx, i dirigenti del Comitato Centrale presenti al congresso riuscirono ad arginare i mutualisti, numericamente forti, e ad acquisire risultati favorevoli rispetto all’importanza dell’intervento dello Stato. Nei confronti di quest’ultimo tema, nella parte dedicata al ‘Lavoro dei giovani e dei fanciulli (dei due sessi)’ del documento Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio. Le singole questioni, Marx aveva chiarito che:

“non possiamo far ciò se non mediante leggi generali, che vengano attuate tramite il potere dello Stato. Facendo introdurre tali leggi, la classe operaia non accrescerà la forza del potere governativo. Come vi sono leggi per difendere i privilegi della proprietà, perché non dovrebbero esistere per impedirne gli abusi? Al contrario, tali leggi trasformerebbero il potere diretto contro di esse in loro proprio agente. La classe operaia, allora, tramite una misura generale farà quanto essa tenterebbe invano di compiere con un numero altissimo di sforzi individuali” (Marx 2014d, 36–37).

Queste rivendicazioni riformistiche, dunque, lungi dal rendere più forte la società borghese come credevano erroneamente Proudhon e i suoi seguaci, rappresentavano, invece, un punto di partenza indispensabile per l’emancipazione della classe operaia. Nelle istruzioni preparate da Marx per il congresso di Ginevra, infine, venne riconosciuta la funzione fondamentale del sindacato, contro la quale si erano espressi non solo i mutualisti, ma anche alcuni seguaci di Robert Owen in Inghilterra e, fuori dall’Internazionale, i lassalliani tedeschi :

“[La sua] attività non è soltanto legittima, ma necessaria. Non vi si può rinunciare, finché dura il sistema attuale; al contrario, esse devono generalizzare la loro azione attraverso la fondazione e l’unione di associazioni analoghe in ogni paese. D’altra parte, e senza poterlo prevedere, i sindacati hanno costituito centri organizzatori della classe operaia, come i comuni e le municipalità medievali avevano avuto una pari funzione per la classe borghese. Se esse sono indispensabili nella guerra di scaramucce tra lavoro e capitale, sono certo molto più importanti come forze organizzate di trasformazione del sistema del lavoro salariato e del predominio capitalistico”.

Nello stesso documento, però, Marx non aveva esentato dalle critiche i sindacati, ritenuti responsabili di essersi

“occupati troppo esclusivamente di lotte locali immediate contro il capitale e [di] non [aver] avuto sufficiente consapevolezza del loro potere d’azione contro il sistema della schiavitù del salariato. Si [erano] tenuti troppo lontani dal movimento generale sociale e politico” (Marx 2014d, 39).

Inoltre, tra le principali risoluzioni approvate al Congresso di Ginevra vi fu quella relativa a una questione ritenuta essenziale per la liberazione della classe operaia dal giogo del capitale: la limitazione della giornata lavorativa.

“Consideriamo la limitazione della giornata lavorativa la condizione preliminare senza la quale abortiranno tutti gli ulteriori tentativi di miglioramento e di emancipazione.

È necessario far recuperare l’energia e la salute alla classe lavoratrice, che costituisce la gran massa di ogni nazione. Non è meno necessario fornire a essa la possibilità di sviluppo intellettuale, di relazioni sociali e di attività sociale e politica” (Marx 2014d, 35).

La deliberazione dei delegati fu quella di promuovere “otto ore di lavoro come limite legale della giornata lavorativa”, una proposta che, come essi avevano ben previsto, col tempo sarebbe divenuta “lo stendardo comune di tutte le rivendicazioni delle classi operaie del mondo” (Marx 1974a, 576-7).

A partire dalla fine del 1866, gli scioperi si intensificarono in numerosi paesi europei. Organizzati da grandi masse di lavoratori, contribuirono alla presa di coscienza delle condizioni in cui erano costretti a vivere e furono il cuore pulsante di una nuova e significativa stagione di lotte. Queste mobilitazioni rappresentarono il primo momento di incontro e di coordinamento con l’Internazionale, che le sostenne con proclami e appelli di solidarietà, organizzò raccolte di denaro in favore degli scioperanti e promosse incontri per bloccare i tentativi di parte padronale volti a fiaccarne la resistenza.

Fu proprio per il ruolo concreto svolto, in questa fase, dall’Internazionale che i lavoratori cominciarono a riconoscerla come luogo di difesa dei loro interessi comuni e a richiederne l’adesione (Freymond 1962, XI). Dunque, nonostante le complicazioni derivanti dall’eterogeneità di paesi, lingue e culture politiche, l’Internazionale riuscì a riunire e coordinare più organizzazioni e numerose lotte nate spontaneamente. Il suo più grande merito fu quello di aver saputo indicare l’assoluta necessità della solidarietà di classe e della cooperazione internazionale, mutando, irreversibilmente, il carattere parziale degli obiettivi e delle strategie del movimento operaio.

Fu questo lo scenario che precedette il congresso del 1867, svoltosi nella città di Losanna, dal 2 all’8 settembre, con la partecipazione di 64 delegati provenienti da 6 paesi (questa volta giunsero anche un rappresentante dal Belgio e uno dall’Italia). Tra essi vi fu una consistente presenza di mutualisti, che imposero nell’agenda del congresso, tipici temi proudhoniani, quali la discussione sul movimento cooperativo e sull’uso alternativo del credito. La mancata partecipazione di Marx all’assise e la sua assenza dal Consiglio Generale durante le settimane in cui furono redatti i documenti preparatori, dovuta alla revisione delle ultime bozze di stampa di Il capitale, si ripercossero negativamente nei contenuti del congresso, i cui lavori rimasero circoscritti alle cronache dei progressi ottenuti dall’organizzazione nei vari paesi e ai dibattiti sulle tematiche preferite dai mutualisti.

3. La sconfitta dei mutualisti
Nell’Internazionale, sin dal tempo della sua nascita, le idee di Proudhon erano state egemoni in Francia e in altre regioni di lingua francese, quali la Svizzera romanda, la Vallonia e la città di Bruxelles. I mutualisti furono per quattro anni la parte più moderata dell’Internazionale. I sindacati inglesi, ovvero la componente maggioritaria dell’organizzazione, pur non condividendo le posizioni anticapitalistiche di Marx, non ebbero, sulle scelte politiche dell’organizzazione, l’effetto zavorra dei seguaci di Proudhon. Sulla base delle concezioni dell’anarchico francese, i mutualisti ritenevano che l’emancipazione economica dei lavoratori sarebbe stata raggiunta tramite la fondazione di cooperative di produzione, finanziate da una banca popolare centrale. Fermamente contrari all’intervento dello Stato in qualsiasi campo, si opponevano alla socializzazione della terra e dei mezzi di produzione e contrastavano la pratica dello sciopero.

Marx svolse, senza alcun dubbio, un ruolo centrale nel corso della lunga lotta per ridurre l’influenza di Proudhon all’interno dell’Internazionale. Le sue idee furono di fondamentale importanza per la maturazione teorica dei dirigenti dell’organizzazione e fu notevole la sua capacità politica per affermarle, vincendo tutti i principali scontri interni. Rispetto alla cooperazione, ad esempio, egli aveva già dichiarato nelle Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio. Le singole questioni del 1866 che:

“per convertire la produzione sociale in un largo e armonioso sistema di libero lavoro cooperativo sono indispensabili cambiamenti sociali generali, trasformazioni delle condizioni generali della società, realizzabili soltanto con l’impiego delle forze organizzate della società, cioè del potere governativo, strappato dalle mani dei capitalisti e dei proprietari fondiari e posto nelle mani dei produttori.”

Raccomandando, inoltre, ai lavoratori “di interessarsi maggiormente della cooperazione di produzione che di quella di consumo: la seconda, infatti, tocca soltanto la superficie del sistema economico attuale, mentre l’altra lo attacca alla sua base” (Marx 2014d, 37).

Ancor più che Marx, però, coloro che resero marginale la dottrina proudhoniana nell’Internazionale furono gli stessi operai. Fu prima di tutto la proliferazione degli scioperi a convincere i mutualisti di quanto fossero sbagliate le loro concezioni. Furono le lotte proletarie a indicare loro che lo sciopero era la risposta immediata e necessaria per migliorare le condizioni esistenti, ma anche, al contempo, per rafforzare la coscienza di classe indispensabile per costruire la società del futuro. Furono le donne e gli uomini che in carne e ossa arrestarono la produzione capitalistica, per rivendicare diritti e giustizia sociale, a spostare i rapporti di forza nell’Internazionale e, ancora più significativamente, nella società. Furono i bronzisti di Parigi, i tessitori di Rouen e Lione, gli operai del carbone di St. Etienne coloro che, con una forza superiore a qualsiasi discussione teorica, convinsero i dirigenti internazionalisti francesi dell’esigenza di socializzare il suolo e l’industria. Fu, insomma, il movimento operaio a dimostrare, smentendo Proudhon, che era impossibile separare la questione economico-sociale da quella politica (Freymond 1962, XIV).

Il Congresso di Bruxelles, svoltosi tra 6 e il 13 settembre del 1868, alla presenza di 99 delegati provenienti da Francia, Inghilterra, Svizzera, Germania, Spagna (un unico delegato) e Belgio (con ben 55 rappresentanti), sancì il ridimensionamento dei mutualisti. Al suo culmine, vi fu il pronunciamento dei delegati a favore della proposta, avanzata da De Paepe, sulla socializzazione dei mezzi di produzione. La risoluzione votata – tra quelle che ebbero maggior rilievo in tutta la vita dell’Internazionale – rappresentò un decisivo passo in avanti nel percorso di definizione delle basi economiche del socialismo, questione che veniva ora trattata non più solamente negli scritti di singoli intellettuali, ma nel programma di una grande organizzazione transnazionale. Per ciò che concerne le miniere e i trasporti, il congresso dichiarò che:

“a) le cave, i bacini carboniferi e le altre miniere, così come le ferrovie, in una condizione normale della società dovranno appartenere alla comunità, rappresentata dallo Stato, ma uno Stato esso stesso soggetto alle leggi di giustizia;
b) che le cave, i bacini carboniferi e le altre miniere, e le ferrovie, verranno concessi dallo Stato non a compagnie di capitalisti, come accade oggi, ma ad associazioni di lavoratori legati per contratto a garantire alla società l’uso razionale e scientifico delle ferrovie, etc., a un costo quanto più possibile vicino alle spese di gestione. Il medesimo contratto obbligherà a riservare allo Stato il diritto di verificare i conti delle compagnie, prevenendo in tal modo qualsivoglia possibilità di ricostruire dei monopoli. Un secondo contratto dovrà garantire i diritti vicendevoli di ciascun membro delle compagnie nei confronti dei suoi colleghi lavoratori.”

Rispetto alla proprietà agricola, fu sancito che:

“l’evoluzione economica della società moderna creerà la necessità sociale di trasformare il suolo coltivabile in proprietà comune della società, e che la terra, per il vantaggio comune, verrà concessa a compagnie agricole a condizioni analoghe a quelle stabilite per le miniere e le ferrovie”.

Analoghe considerazioni vennero riservate a canali, strade e telegrafi:

“considerando che le vie e gli altri mezzi di comunicazione esigono una comune direzione sociale, il congresso ritiene che essi debbano restare proprietà comune della società”.

Non mancarono, infine, interessanti riflessioni intorno alla questione ambientale:

“considerando che l’abbandono delle foreste a individui privati causerebbe la distruzione dei boschi necessari alla conservazione delle fonti e, di conseguenza, alla buona qualità del terreno e così anche della salute e della vita delle popolazioni, il congresso ritiene che le foreste debbano restare proprietà della società” (Marx 2014c, 43–44).

A Bruxelles, dunque, vi fu il primo netto pronunciamento dell’Internazionale sulla necessità della socializzazione dei mezzi di produzione, attraverso l’utilizzo del potere pubblico . Ciò costituì un’importante vittoria del Consiglio Generale e la prima comparsa dei principi socialisti nel programma politico di una vasta organizzazione del movimento operaio.

Se il Congresso di Bruxelles del 1868 fu l’assise dalla quale prese inizio la svolta collettivista dell’Internazionale, quello dell’anno successivo, svoltosi tra il 5 e il 12 settembre del 1869 a Basilea, le diede definitivo compimento, sradicando il proudhonismo anche dalla sua terra madre, la Francia. Il nuovo testo, nel quale si affermava “che la società ha il diritto di abolire la proprietà privata della terra e renderla parte della comunità” (Burgelin, Langfeldt, e Molnár 1962, II:74), fu accolto anche dai delegati francesi. Dopo Basilea, l’Internazionale in Francia non fu più mutualista.

Il congresso di Basilea ebbe anche un altro motivo di interesse: la partecipazione del delegato Michail Bakunin. Non essendo riuscito a conquistare la direzione della Lega della Pace, nel settembre del 1868 egli aveva fondato a Ginevra l’Alleanza della Democrazia Socialista, organizzazione che, in dicembre, presentò domanda di adesione all’Internazionale.

La richiesta fu inizialmente respinta dal Consiglio Generale. L’Internazionale non poteva accettare al suo interno organizzazioni che continuassero a essere affiliate a un’altra parallela struttura trans-nazionale; inoltre, uno degli obiettivi del programma dell’Alleanza della Democrazia Socialista – “l’eguaglianza delle classi” (Bakunin 1973, 174) – era radicalmente distante da uno dei punti fondamentali di quello dell’Internazionale: l’abolizione delle classi. Dopo poco, però, l’Alleanza della Democrazia Socialista cambiò la parte del suo programma criticata dal Consiglio Generale e accettò di sciogliere la rete delle sue sezioni – molte delle quali, in realtà, non esistevano ed erano frutto della fantasia di Bakunin (Carr 2002, 360). Così, il 28 luglio 1869, la sezione ginevrina, composta da 104 membri, fu ammessa all’Internazionale (Carr 2002, 344) . Pur conoscendo bene Bakunin, Marx sottovalutò le conseguenze del suo ingresso nell’Internazionale. Il famoso rivoluzionario russo conquistò rapidamente una notevole influenza in varie sezioni svizzere, spagnole e francesi (e poi italiane, dopo la Comune di Parigi). Dopo aver finalmente sconfitto i mutualisti e lo spettro di Proudhon, Marx si trovò, da quel momento, a dover fronteggiare un rivale ancora più ostico, uno sfidante che formò una nuova tendenza – l’anarchismo collettivista – all’interno dell’organizzazione e che mirava a conquistarla.

4. La lotta per la liberazione dell’Irlanda
Il periodo compreso tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta fu ricco di conflitti sociali. In questo arco temporale, molti dei lavoratori che presero parte alle proteste decisero di rivolgersi all’Internazionale, la cui fama andava diffondendosi sempre più, per richiedere il suo intervento a sostegno delle loro lotte. Il 1869 fu per l’Internazionale un anno di significativa espansione in tutt’Europa.

In questa fase furono particolarmente significative anche la nascita di alcune sezioni di lavoratori irlandesi in Inghilterra. Nell’analizzare la questione irlandese, Marx non solo continuò la battaglia politica – contro lo scetticismo dei dirigenti operai inglesi – affinché l’Internazionale assumesse una posizione radicale e non meramente “umanitaria”, del tipo “giustizia per l’Irlanda”, ma maturò anche una svolta importante rispetto alle sue precedenti concezioni. Scrisse, infatti, all’amico Ludwig Kugelmann:

“mi sono sempre più convinto – e adesso si tratta di inculcare questa convinzione nella classe operaia inglese – che essa, qui in Inghilterra, non potrà mai fare nulla di decisivo fino a quando non differenzierà, nel modo più categorico, la sua politica sull’Irlanda dalle vedute delle classi dominanti; fino a quando non solo farà causa comune con gli irlandesi, ma prenderà persino l’iniziativa per lo scioglimento dell’Unione [Anglo-irlandese] fondata nel 1801 e per la sua sostituzione con un libero rapporto federale. Ciò deve essere fatto non come un atto di simpatia verso l’Irlanda, ma come una rivendicazione fondata sull’interesse del proletariato inglese. Altrimenti, il popolo inglese rimane al guinzaglio delle classi dominanti perché con queste esso deve fare causa comune di fronte all’Irlanda. Ogni suo movimento nella stessa Inghilterra rimane paralizzato dal dissidio con gli irlandesi che, nella stessa Inghilterra, formano una parte considerevole della classe operaia. La prima condizione dell’emancipazione qui – il crollo dell’oligarchia terriera inglese – rimane impossibile, poiché la sua posizione non può essere presa d’assalto finché il suo avamposto in Irlanda resta sbarrato” (Marx 1975d, 691) .

Nel dicembre 1869, egli riassunse le convinzioni maturate circa il corretto rapporto tra la classe operaia inglese e la liberazione dell’Irlanda anche a Engels, al quale fece notare:

“per lungo tempo, ho creduto che fosse possibile abbattere il regime irlandese mediante l’ascesa della classe operaia inglese. Ho sempre sostenuto questo parere nella New-York Tribune. Uno studio più approfondito mi ha persuaso ora del contrario. La classe operaia inglese non farà mai nulla, finché non si sarà liberata dell’Irlanda. È dall’Irlanda che si deve fare leva. Per questo motivo, la questione irlandese è così importante per il movimento sociale in genere” (Marx 1975e, 448).

Inoltre, se Marx riteneva che l’Irlanda fosse determinante per l’Inghilterra, quest’ultima – definita “metropoli della proprietà fondiaria e del capitalismo nel mondo intero” – lo sarebbe stata, a suo modo di vedere, per l’intero continente e per lo sviluppo della rivoluzione proletaria in generale. Lo aveva comunicato chiaramente a Laura e Paul Lafargue, nel marzo del 1870:

“per accelerare lo sviluppo dell’Europa è necessario affrettare la catastrofe dell’Inghilterra ufficiale. A questo scopo bisogna colpire in Irlanda. È questo il suo punto più debole. Se cade l’Irlanda, l’impero britannico è finito e la lotta di classe in Inghilterra, fino a questo momento sonnacchiosa e lenta, assumerà forme violente” (Marx 1975a, 724).

Come era stato indicato nella Circolare privata del 28 marzo 1870, l’obiettivo dell’Internazionale doveva essere quello di “spingere avanti la rivoluzione sociale in Inghilterra”. Tuttavia, ciò sarebbe stato possibile soltanto se l’assetto politico che determinava “la schiavitù dell’Irlanda” (Marx 2014g, 204) fosse stato trasformato.

Nella lettera a Meyer e Vogt, questi temi furono ulteriormente trattati: “l’antagonismo tra inglesi e irlandesi (…) permette ai governi dei due paesi, ogni volta che lo ritengano opportuno, di togliere mordente al conflitto sociale sia aizzandoli l’uno contro l’altro, sia, in caso di necessità, mediante la guerra tra i due paesi”. Proprio ai due compagni d’oltreoceano Marx espose meglio che in qualsiasi altro scritto in merito le scelte politiche che si rendevano necessarie nella situazione esistenze:

“l’Inghilterra, in quanto metropoli del capitale, in quanto potenza fino ad oggi dominante il mercato mondiale, è per il momento il paese più importante per la rivoluzione operaia, oltre a ciò essa è l’unico paese, nel quale le condizioni materiali di tale rivoluzione si siano sviluppate fino a un grado di maturità. Perciò l’obiettivo più importante dell’Internazionale è quello di accelerare la rivoluzione sociale in Inghilterra. L’unico mezzo per accelerarla è di rendere indipendente l’Irlanda. Da qui trae origine, per l’Internazionale, il compito di mettere sempre in primo piano il conflitto tra Inghilterra e Irlanda, di prendere sempre aperta posizione a favore dell’Irlanda” (Marx 1975c, 720).

L’Internazionale, e in particolare il Consiglio Generale di Londra, dovevano far comprendere ai lavoratori britannici che “l’emancipazione nazionale dell’Irlanda” non poteva essere trattata come una “questione di astratta giustizia o di sentimenti umanitari”, così come veniva discussa da alcuni liberali illuminati o da esponenti religiosi. Si trattava, invece, di una fondamentale questione di solidarietà di classe e della “prima condizione per la loro stessa emancipazione sociale” (Marx 1975c, 720).

5. L’opposizione alla guerra franco-prussiana e la rivolta dei comunardi
Nell’estate del 1870, nel corso della preparazione del congresso, Marx scrisse a Hermann Jung, al quale inviò una dettagliata nota relativa ai temi da affrontare durante la prossima assise dell’Internazionale. In essa, egli elencò:

“I. [L]a necessità di abolire i debiti di Stato. Discussione sul diritto di risarcimento; II. [I]l nesso tra l’azione politica e il movimento sociale della classe operaia; III. Mezzi pratici per trasformare la proprietà fondiaria in proprietà comune (…); IV. Trasformazione delle banche in banche nazionali; V. Le condizioni della produzione cooperativa su scala nazionale; VI. [I]l dovere della classe operaia di collaborare alla realizzazione di una statistica generale del lavoro conformemente alle risoluzioni del congresso di Ginevra del 1866; VII. Riapertura della questione (…) sui mezzi per sopprimere la guerra”.

A questi punti, egli aggiunse la proposta del consiglio generale belga di prendere in considerazione “i mezzi pratici per formare sezioni di operai agricoli in seno all’Internazionale e per stabilire la solidarietà tra i proprietari agricoli e i [lavoratori] dagli altri settori industriali” (Marx 1975b).

Tuttavia, la guerra franco-prussiana, scoppiata il 19 luglio del 1870, impose la sospensione del congresso. Lo scoppio di una guerra al centro dell’Europa impose all’Internazionale un’assoluta priorità: aiutare il movimento operaio a esprimere una posizione indipendente e lontana dalle retoriche nazionalistiche del tempo. Nel Primo indirizzo sulla guerra franco-prussiana, Marx scrisse:

“mentre la Francia ufficiale e la Germania ufficiale si gettano in una lotta fratricida, gli operai della Francia e della Germania si scambiano messaggi di pace e di benvolere; questo solo grande fatto, che non ha parallelo nella storia del passato, apre la prospettiva di un futuro più sereno. Esso dimostra che, in contrapposto alla vecchia società, con le sue miserie economiche e col suo delirio politico, sta per sorgere una società nuova, la cui legge internazionale sarà la pace, perché la sua legge nazionale sarà dappertutto la stessa, il lavoro! Pioniere di questa nuova società è l’Associazione internazionale dei lavoratori” (Marx 2014b, 192–93).

Questo testo, pubblicato in 30.000 copie, 15.000 per la Germania e 15.000 per la Francia (stampate a Ginevra), costituì la più importante dichiarazione di politica estera mai pronunciata dall’Internazionale. Tuttavia, la sconfitta francese segnò la nascita di una nuova e più potente stagione degli stati nazionali e dello sciovinismo ideologico che l’accompagnò in tutt’Europa.

Era, questo, lo scenario temuto da Marx, prefigurato come possibile allorquando, nel Secondo indirizzo sulla guerra franco-prussiana, aveva scritto che “la presente tremenda guerra sarà soltanto l’annunciatrice di nuovi conflitti internazionali ancora più mortali, e [avrebbe portato] in ogni paese a nuovi trionfi dei signori della spada, della terra e del capitale sugli operai” (Marx 2014e, 195).

Dopo la cattura di Bonaparte, sconfitto a Sedan dai tedeschi, il 4 settembre 1870, venne proclamata in Francia la Terza Repubblica. Nel gennaio dell’anno seguente, la resa di Parigi, che era stata assediata per oltre quattro mesi, costrinse i francesi ad accettare le condizioni imposte da Bismarck. Ne seguì un armistizio che permise lo svolgimento di elezioni e la successiva nomina di Adolphe Thiers a capo del potere esecutivo, con il sostegno di una vasta maggioranza legittimista e orleanista. Nella capitale, però, in controtendenza con il resto della Francia, lo schieramento progressista-repubblicano vinse con una schiacciante maggioranza e il malcontento popolare fu più esteso che altrove. La chiara prospettiva di un governo che non avrebbe realizzato alcuna riforma sociale, e che voleva disarmare la città, animò la sommossa dei parigini. Essa si concluse con la cacciata di Thiers e con la nascita, il 18 marzo, della Comune di Parigi, il più importante evento politico della storia del movimento operaio del XIX secolo.

Se Bakunin aveva incitato gli operai a trasformare la guerra patriottica in guerra rivoluzionaria (Lehning 1977, XVI), a Londra, il Consiglio Generale rispose, in un primo momento, con il silenzio. L’organismo incaricò Marx di redigere un testo a nome dell’Internazionale, ma egli ne ritardò la pubblicazione. Le ragioni di questa attesa furono sofferte e complicate. Conoscendo bene i reali rapporti di forza in campo e le debolezze della Comune, Marx sapeva, sin dal principio, che essa era condannata alla sconfitta. Anzi, egli aveva tentato di mettere in guardia la classe operaia francese già dal settembre 1870. Nel Secondo indirizzo sulla guerra franco-prussiana, infatti, aveva affermato: “ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, nel corso della crisi attuale, con il nemico che quasi bussa alle porte di Parigi, sarebbe una follia disperata. I lavoratori francesi (…) non devono lasciarsi illudere dai ricordi del 1792” (Marx 2014e, 195).

Marx comprese che, quale fosse stato l’esito della rivoluzione, la Comune aveva aperto un nuovo capitolo nella storia del movimento operaio. Scrisse, infatti, a Kugelmann:

“questa insurrezione di Parigi, anche se sarà sopraffatta dai lupi, dai porci e dai volgari cani della vecchia società, è l’azione più gloriosa del nostro partito dopo l’insurrezione di giugno. Si confrontino questi parigini che danno l’assalto al cielo con i mansueti schiavi delle divinità celesti del sacro romano impero tedesco-prussiano, con le sue postume mascherate che puzzano di caserma, di chiesa, di piccola nobiltà rurale e soprattutto di filisteismo” (Marx 1990b, 198-9).

Una dichiarazione piena di fervore sulla vittoria della Comune avrebbe rischiato, però, di generare false aspettative tra i lavoratori di tutt’Europa e di contribuire, poi, alla diffusione di demoralizzazione e sfiducia. Marx decise, dunque, di ritardare la consegna del documento affidatogli e si assentò per diverse settimane dalle riunioni del Consiglio Generale. Le sue amare previsioni si avverarono presto e il 28 maggio, poco più di due mesi dopo la sua proclamazione, la Comune di Parigi fu repressa nel sangue. Due giorni dopo, Marx ritornò al Consiglio Generale e portò con sé un manoscritto intitolato La guerra civile in Francia. Letto e approvato all’unanimità, fu pubblicato (come d’abitudine per i documenti del Consiglio Generale) con in calce i nomi di tutti i suoi componenti e divenne, in poche settimane, il documento del movimento operaio che fece più scalpore in tutto l’Ottocento. Parlando della Comune di Parigi, Marx sostenne che:

“Le poche ma importanti funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale, non sarebbero state soppresse, come venne affermato falsamente in malafede, ma adempiute da funzionari comunali, e quindi strettamente responsabili. L’unità della nazione non doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla Costituzione comunale, e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva essere l’incarnazione di questa unità indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che un’escrescenza parassitaria. Mentre gli organi puramente repressivi del vecchio potere governativo dovevano essere amputati, le sue funzioni legittime dovevano essere strappate a un’autorità che usurpava una posizione predominante sulla società stessa, e restituite agli agenti responsabili della società” (Marx 2014f, 169).

La Comune di Parigi era stata un esperimento politico del tutto innovativo:

“fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro. Senza quest’ultima condizione, la Costituzione della Comune sarebbe stata una cosa impossibile e un inganno. Il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale. La Comune doveva dunque servire da leva per svellere le basi economiche su cui riposa l’esistenza delle classi, e quindi del dominio di classe. Con l’emancipazione del lavoro tutti diventano operai, e il lavoro produttivo cessa di essere un attributo di classe” (Marx 2014f, 171).

Per Marx, la nuova fase della lotta di classe inaugurata dalla Comune di Parigi avrebbe avuto successo – e, dunque, avrebbe prodotto cambiamenti radicali – solo mediante la realizzazione di un programma chiaramente anticapitalista:

“La Comune, essi esclamano, vuole abolire la proprietà, […] quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l’espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato. […] Ma se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista; se delle associazioni cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all’anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalistica: che cosa sarebbe questo o signori, se non comunismo, «possibile» comunismo? La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre per decreto del popolo. Sa che per realizzare la sua propria emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese” (Marx 2014f, 172).

La Comune di Parigi fu repressa con brutale violenza dalle armate di Versailles. Durante la ‘settimana di sangue’ (21-28 maggio) vennero uccisi durante i combattimenti o giustiziati sommariamente circa 10.000 comunardi. Fu il massacro più violento della storia della Francia. I prigionieri catturati furono oltre 43.000 e di questi 13.500 di essi vennero condannati al carcere, ai lavori forzati, alla pena di morte o furono deportati.

Da questo momento, l’Internazionale fu nell’occhio del ciclone e venne ritenuta responsabile di ogni atto contro l’ordine costituito, al punto tale che Marx domandò ironicamente come mai non le fosse stata attribuita anche la colpa delle calamità naturali:

“dopo il grande incendio di Chicago, il telegrafo annunciava la medesima notizia su tutta la terra: era l’opera infernale dell’Internazionale, ed è in effetti strano che non si sia attribuito alla sua azione demoniaca l’uragano che ha devastato le Indie occidentali” (Marx 1968a, 461).

A nome del Consiglio generale, Marx fu costretto a passare intere giornate a rispondere alle falsificazioni sull’Internazionale e sulla sua persona scritte dai giornali: “in questo momento ho l’onore di essere l’uomo più calunniato e più minacciato di Londra” (Marx 1990c, 229). Intanto, i governi di tutt’Europa, preoccupati che, dopo Parigi, avrebbero potuto svilupparsi altre sollevazioni, intensificarono ancor di più i loro strumenti repressivi.

Nonostante i drammatici avvenimenti di Parigi e il furore della brutale repressione messa in atto da tutti i governi europei, la forza dell’Internazionale aumentò in seguito agli avvenimenti della Comune di Parigi. Anche se spesso circondata dalle menzogne scritte contro di essa dai suoi avversari, la parola “Internazionale” divenne, in questo periodo, nota a tutti. Sulle bocche dei capitalisti e della classe borghese fu sinonimo di minaccia all’ordine costituito, ma su quella delle operaie e degli operai assunse il significato di speranza in un mondo senza sfruttamento e ingiustizie (Haupt 1978, 28). La fiducia che ciò fosse realizzabile aumentò dopo la Comune. L’insurrezione parigina diede forza al movimento operaio, lo spinse ad assumere posizioni più radicali e a intensificare la militanza. Parigi mostrò che la rivoluzione era possibile, che l’obiettivo poteva e doveva essere la costruzione di una società radicalmente diversa da quella capitalistica, ma anche che, per raggiungerlo, i lavoratori dovevano dare vita a forme di associazioni politiche stabili e ben organizzate (Haupt 1978, 93–95). Questa enorme vitalità si manifestò ovunque. I partecipanti alle riunioni del Consiglio Generale raddoppiarono; mentre i giornali legati all’Internazionale incrementarono la loro diffusione e aumentarono di numero dopo la nascita di molte nuove testate.

6. La svolta politica della conferenza di Londra
In questo scenario, che non consentiva la convocazione di un nuovo congresso, a quasi due anni di distanza dall’ultimo, il Consiglio Generale decise di promuovere una conferenza nella città di Londra. Essa si svolse tra il 17 e il 23 settembre alla presenza di 22 delegati, giunti da Inghilterra (per la prima volta venne rappresentata anche l’Irlanda), Belgio, Svizzera e Spagna, più gli esuli francesi. Nonostante gli sforzi per rendere la conferenza il più rappresentativa possibile, si trattò, di fatto, di un Consiglio Generale allargato.

Sin dalla sua convocazione, Marx aveva annunciato che “nelle presenti circostanze la questione dell’organizzazione era la più importante”, ragione per la quale la conferenza si sarebbe concentrata “esclusivamente sulle questioni organizzative e politiche”, lasciando da parte le discussioni teoriche (Marx 1968b, 259). Egli ribadì questa decisione durante la prima sessione dei lavori:

“il Consiglio Generale ha convocato una conferenza per concertare coi delegati dei diversi paesi le misure da prendere per fermare i pericoli che l’Associazione corre in un gran numero di paesi e per procedere a un’organizzazione nuova, rispondente ai bisogni della situazione. In secondo luogo per elaborare una risposta ai vari governi che non cessavano di lavorare per l’annientamento dell’Associazione con tutti i mezzi a loro disposizione. E, infine, per risolvere definitivamente il conflitto svizzero” (Marx 1962a, 152).

Dare una nuova impronta all’organizzazione, difendere l’Internazionale dall’offensiva delle forze a lei ostili e porre un argine all’accresciuta influenza di Bakunin: furono queste, dunque, le priorità dell’assise di Londra. Per realizzare tali obiettivi, Marx fece ricorso a tutte le sue energie. Fu, di gran lunga, il delegato più attivo della conferenza, prendendo la parola ben 102 volte; osteggiò con successo le proposte che non rispondevano ai suoi piani; e riuscì a persuadere gli indecisi (Molnár 1963a, 127). A Londra si ebbe la conferma della sua statura all’interno dell’organizzazione. Egli non solo ne era la mente, colui che ne elaborava la linea politica, ma anche uno dei suoi militanti più combattivi e capaci.

La decisione di maggior rilievo assunta durante la conferenza, e per la quale essa venne poi ricordata, fu l’approvazione della risoluzione IX, avanzata da Vaillant. Il leader delle residue forze blanquiste, che avevano aderito all’Internazionale dopo la fine della Comune, propose la trasformazione di quest’ultima in un partito internazionale centralizzato e disciplinato, sotto la guida del Consiglio Generale. Nonostante alcune profonde divergenze – a dividere loro e Marx era, soprattutto, la tesi blanquista secondo la quale per fare la rivoluzione sarebbe bastato un nucleo ben organizzato di militanti –, Marx non esitò a stabilire un’alleanza con il gruppo di Vaillant. Con il loro supporto, infatti, non solo avrebbe potuto contrastare con maggior forza l’anarchismo politico che andava rafforzandosi all’interno dell’organizzazione, ma – questione ancora più importante – avrebbe avuto un fronte più ampio di consensi per far maturare i cambiamenti resisi necessari nella nuova stagione della lotta di classe. Una delle risoluzioni approvate alla conferenza di Londra stabilì:

“che la classe operaia, contro questo potere collettivo delle classi possidenti, può agire come classe soltanto allorquando si costituisce come partito politico autonomo, contrapposto a tutte le vecchie formazioni partitiche delle classi possidenti;
che questa costruzione della classe operaia in partito politico è indispensabile per il trionfo della rivoluzione sociale e del suo fine ultimo: l’abolizione delle classi;
che l’unione delle singole forze, che la classe operaia ha già in parte edificato tramite le sue lotte economiche, deve servire anche come leva per la sua battaglia contro il potere politico dei suoi sfruttatori”

La conferenza ribadì, così, a tutti i membri dell’Internazionale che il “movimento economico [della classe operaia] e la sua azione politica sono indissolubilmente uniti” (Marx e Engels 2014b, 239).
Se il Congresso di Ginevra del 1866 aveva sancito l’importanza del sindacato, la Conferenza di Londra del 1871 definì l’altro strumento fondamentale di lotta del movimento operaio: il partito politico . La deliberazione approvata a Londra, con l’invito a realizzare organizzazioni politiche in ogni paese e con il conferimento di poteri più ampi al Consiglio Generale, ebbe gravi ripercussioni nella vita dell’Associazione, che non era ancora pronta a sostenere una simile accelerazione e a passare da un modello flessibile a un altro politicamente uniforme (Freymond e Molnár 1966, 27).

In seguito alla conclusione della conferenza, Marx era convinto che le risoluzioni approvate a Londra avrebbero riscosso l’approvazione di quasi tutte le principali federazioni e sezioni locali. Tuttavia, egli dovette ben presto ricredersi. I militanti della Federazione del Giura – il gruppo svizzero dell’Internazionale guidato dagli anarchici – convocarono, per il 12 di novembre, il loro congresso nel piccolo comune di Sonvilier. L’iniziativa, alla quale Bakunin non poté prendere parte, fu significativa, poiché con essa nacque ufficialmente l’opposizione all’interno dell’Internazionale. Nella Circolare a tutte le federazioni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, diramata alla fine dei lavori, Guillaume e gli altri partecipanti al congresso accusarono il Consiglio Generale di aver introdotto nell’organizzazione “il principio d’autorità” e di aver cambiato la struttura originaria, “trasforma[ndola] in un’organizzazione gerarchica, diretta e governata da un comitato”.

Gli svizzeri si dichiararono “contro ogni autorità direttrice, anche quando detta autorità fosse eletta e approvata dai lavoratori” e sottolinearono che nell’Internazionale doveva essere conservato il “principio dell’autonomia delle sezioni”, anche attraverso il ridimensionamento del Consiglio Generale in “un semplice ufficio di corrispondenza e di statistica” (Aa. Vv. 1962, 264–65). L’istanza finale fu la convocazione, al più presto, di un congresso.

Se la posizione della Federazione del Giura era stata messa in conto, Marx fu probabilmente sorpreso quando, nel 1872, segni di insofferenza e di ribellione alla sua linea politica giunsero da più parti. In molti paesi, le decisioni assunte a Londra furono giudicate come una pesante ingerenza nell’autonomia politica locale e, pertanto, un’inaccettabile imposizione. La federazione belga, che durante la conferenza aveva tentato di costruire una mediazione tra le parti, cominciò ad assumere una posizione molto critica nei confronti di Londra. Successivamente anche gli olandesi ne presero le distanze. Ancora più dure furono le reazioni in Europa meridionale, dove l’opposizione raccolse, rapidamente, notevoli consensi. La grande maggioranza degli internazionalisti iberici si schierò decisamente contro il Consiglio Generale e sposò le idee di Bakunin, anche perché più consoni a un paese in cui il proletariato industriale era presente solo nei principali centri e dove il movimento dei lavoratori era ancora molto debole e interessato, principalmente, alle rivendicazioni di carattere economico.

Anche in Italia gli esiti della Conferenza di Londra non raccolsero che pareri negativi. Coloro che non seguirono Mazzini, il quale raggruppò a Roma, dal 1° al 6 novembre del 1871, nel Congresso Generale delle Società Operaie Italiane, il blocco più moderato dei lavoratori italiani, aderirono alle posizioni di Bakunin. I partecipanti alla conferenza fondativa della Federazione Italiana dell’Internazionale, svoltasi a Rimini dal 4 al 6 agosto del 1872, assunsero la posizione più radicale contro il Consiglio Generale: non avrebbero partecipato al prossimo congresso dell’Internazionale, ma sarebbero stati presenti a Neuchatel, in Svizzera, dove proponevano di svolgere un “congresso generale antiautoritario” (Aa. Vv. 1979, 787). Di fatto, questo fu il primo atto dell’imminente scissione.

Le contestazioni contro il Consiglio Generale furono di diverso tipo ed ebbero, talvolta, anche solo motivazioni di carattere personale. Si venne così a formare una strana alchimia che rese la direzione dell’organizzazione ancora più problematica. Tuttavia, al di là del fascino esercitato dalle teorie di Bakunin in alcuni paesi e della capacità politica di Guillaume nel mettere insieme i vari oppositori, l’avversario principale della svolta avviata con la risoluzione sulla “Azione politica della classe operaia” fu un ambiente non ancora pronto a recepire il salto di qualità proposto da Marx. Nonostante le dichiarazioni di duttilità che l’accompagnarono, la svolta iniziata a Londra fu percepita da molti come una pesante imposizione. Il principio di autonomia delle varie realtà di cui si componeva l’Internazionale era considerato uno dei capisaldi dell’Associazione non solo dal gruppo più legato a Bakunin, ma dalla gran parte delle federazioni e delle sezioni locali. Fu questo l’errore di valutazione commesso di Marx e che accelerò la crisi dell’Internazionale (Freymond e Molnár 1966, 27–28).

7. La crisi dell’Internazionale
La battaglia finale giunse alla fine dell’estate del 1872. Dopo le vicende che, per tre anni, avevano stravolto il corso della sua storia – la guerra franco-prussiana, la violenta ondata repressiva seguita alla Comune di Parigi e i numerosi scontri interni – l’Internazionale poté, finalmente, riunirsi nuovamente a congresso. La sua quinta assise generale si svolse a L’Aia, tra il 2 e il 7 settembre. L’importanza decisiva dell’evento spinse Marx a parteciparvi di persona, accompagnato da Engels. Tutte le sessioni furono contraddistinte da un irriducibile antagonismo tra i due schieramenti che si contrapponevano. Il dibattito fu di gran lunga più povero di quello dei due congressi che l’avevano preceduto.

L’approvazione delle risoluzioni del congresso di L’Aia fu possibile solo grazie a una impropria composizione della sua platea. Per quanto spuria e, per molti versi, tenuta unita da fini strumentali, la coalizione di delegati che a L’Aia fu in minoranza rappresentava, in realtà, la parte più consistente dell’Internazionale (Guillaume 2004, 497–98; Freymond 1962, 25).

La decisione di maggior rilievo assunta da Marx a L’Aia fu l’introduzione della principale deliberazione politica della conferenza del 1871 nello statuto dell’Associazione. Al suo interno fu aggiunto un articolo, il 7a, in cui venne riassunta la risoluzione IX approvata a Londra. Se negli Statuti Provvisori del 1864 era stato affermato che “l’emancipazione economica della classe operaia è il grande scopo al quale ogni movimento politico è subordinato come mezzo”, l’integrazione del 1872 rispecchiava i nuovi rapporti di forza all’interno dell’organizzazione. La lotta politica non era più considerata un tabù, ma, anzi, lo strumento necessario per la trasformazione della società: “poiché i signori della terra e del capitale si servono dei loro privilegi politici per difendere e perpetuare il loro monopolio economico e asservire il lavoro, la conquista del potere politico diventa il grande dovere del proletariato” (Engels e Marx 2014, 221–22).

L’Internazionale era ormai molto differente rispetto a ciò che era stata ai tempi della sua fondazione. Le componenti democratico-radicali avevano abbandonato l’Associazione, dopo essere state messe all’angolo. I mutualisti erano stati sconfitti e le loro forze drasticamente ridotte. I riformisti non costituivano più la parte prevalente dell’organizzazione (tranne che in Inghilterra) e l’anticapitalismo era diventato la linea politica di tutta l’Internazionale, anche delle nuove tendenze che si erano formate nel corso degli ultimi anni. Anche se, durante l’esistenza dell’Internazionale, l’Europa era stata attraversata da una fase di grande prosperità economica, che aveva, in alcuni casi, reso meno difficile la loro condizione, gli operai avevano compreso che il loro stato sarebbe davvero cambiato solo con la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e non attraverso rivendicazioni economiche volte a ottenere blandi palliativi alle condizioni esistenti. Inoltre, essi avevano cominciato a organizzare le loro lotte sempre più a partire dai propri bisogni materiali e non, come un tempo, in base alle iniziative dei vari gruppi cui appartenevano.

Lo scenario, d’altronde, era mutato radicalmente anche all’esterno dell’organizzazione. L’unificazione della Germania, avvenuta nel 1871, sancì l’inizio di una nuova era in cui lo stato-nazione si affermò definitivamente come forma d’identità politica, giuridica e territoriale. Il nuovo contesto rendeva poco plausibile la continuità di un organismo sovranazionale al quale le organizzazioni dei vari paesi, anche se munite di autonomia, dovevano cedere una parte consistente della direzione politica e una quota dei contributi dei propri iscritti. Inoltre, la differenza tra i movimenti e le organizzazioni esistenti nei vari paesi era aumentata, rendendo estremamente difficile al Consiglio Generale la realizzazione di una sintesi politica in grado di soddisfare le esigenze dei gruppi operanti nei singoli contesti nazionali.

La configurazione iniziale dell’Internazionale era, dunque, superata e la sua missione originaria si era conclusa. Non si trattava più di predisporre e coordinare iniziative di solidarietà su scala europea a sostegno degli scioperi, né di indire congressi per discutere dell’utilità delle organizzazioni sindacali o della necessità di socializzare la terra e i mezzi di produzione. Questi temi, ormai, erano divenuti patrimonio collettivo di tutte le componenti dell’organizzazione. Dopo la Comune di Parigi la vera sfida per il movimento operaio era la rivoluzione, ovvero come organizzarsi per porre fine al modo di produzione capitalistico e rovesciare le istituzioni del mondo borghese. Non era più questione di riformare la società esistente, ma di come costruirne una nuova (Freymond 1962, X). Per avanzare lungo questo nuovo cammino della lotta di classe, Marx riteneva improcrastinabile la costruzione, in ogni paese, di partiti politici della classe operaia.

Durante il congresso di L’Aia si susseguirono diverse votazioni, intorno alle quali si aprirono asperrime polemiche. La prima di esse riguardò l’articolo 7a. In seguito alla sua approvazione, la finalità della conquista del potere politico entrò ufficialmente nello statuto dell’Associazione, all’interno del quale venne anche indicato lo strumento indispensabile per conseguirlo: la costituzione del partito operaio.

La successiva decisione di conferire poteri più ampi al Consiglio Generale contribuì a rendere la situazione ancor più intollerabile per la minoranza. Da quel momento, al più importante organismo dell’Internazionale veniva demandato il compito di sorvegliare che in ogni paese vi fosse una “rigida osservazione dei principi e degli statuti e regolamenti generali dell’Internazionale” e gli veniva attribuito “il diritto di sospendere branche, sezioni, consigli o comitati federali e federazioni dell’Internazionale fino al successivo congresso” (Burgelin, Langfeldt, e Molnár 1962, II:374). Per la prima volta nella storia dell’Internazionale, durante la sua massima assise vennero votate anche delle espulsioni. A causare grande scalpore vi furono quelle di Bakunin e di Guillaume, proposte da una commissione che era stata incaricata di svolgere un’indagine sull’Alleanza della Democrazia Socialista.

Nella seduta mattutina del 6 settembre si consumò l’ultimo atto dell’Internazionale così come era stata concepita e costituita nel corso degli ultimi anni. Fu il momento più drammatico dell’intero congresso di L’Aia. Engels prese la parola e, tra lo stupore dei presenti, propose “che la sede del Consiglio Generale venisse trasferita a New York per l’anno 1872-1873 e che esso fosse formato da membri del consiglio federale americano” (Engels 1962, 355). Poche parole sconvolsero consolidate certezze. Il Consiglio Generale sarebbe stato spostato oltreoceano, lontanissimo dalle federazioni europee; Marx e altri “fondatori” dell’Internazionale non avrebbero più fatto parte del suo organismo centrale; essi sarebbero stati sostituiti da compagni i cui nomi erano a tutti ignoti. Furono in molti, anche nelle fila della maggioranza, a votare contro lo spostamento della sede a New York, avendo compreso che con questa decisione si sarebbe sancita la fine dell’Internazionale come struttura operativa.

Secondo Marx, era meglio rinunciare all’Internazionale piuttosto che vederla finire nelle mani dei suoi avversari e assistere alla sua mutazione in un’organizzazione settaria. La sua fine, che sarebbe certamente seguita al trasferimento del Consiglio Generale negli Stati Uniti, era di gran lunga preferibile alla prospettiva di un lento e dispendioso stillicidio di lotte fratricide. L’opposizione ai gruppi settari e a ridurre la lotta del movimento operaio a chiese di partito, numericamente inconsistenti, fu una costante delle riflessioni politiche sviluppate da Marx in questo periodo. Per Marx l’Internazionale doveva essere una

“organizzazione reale e militante della classe proletaria in tutti i paesi, solidale nella lotta comune contro i capitalisti, i proprietari fondiari e il loro potere di classe organizzato nello Stato. Perciò gli statuti dell’Internazionale riconoscono soltanto semplici associazioni operaie che perseguono tutte lo stesso scopo e accettano tutte lo stesso programma, un programma che si limita a tracciare le grandi linee del movimento proletario e ne lascia l’elaborazione teorica all’impulso dato dalle necessità stesse della lotta pratica, oltre che allo scambio di idee che si svolge nelle sezioni, ammettendo nei suoi organi e nei suoi congressi tutte le convinzioni socialiste” (Marx e Engels 2014a, 242–43).

Tuttavia, non appare convincente la tesi, suggerita da numerosi studiosi , che a determinare il declino dell’Internazionale sia stato il conflitto tra le sue due correnti o, ancora più inverosimilmente, quello tra due uomini, seppure dello spessore di Marx e Bakunin. Le ragioni della sua fine vanno cercate altrove. A rendere obsoleta l’Internazionale furono, soprattutto, i grandi cambiamenti intervenuti al suo esterno. La crescita e la trasformazione delle organizzazioni del movimento operaio, il rafforzamento degli Stati-nazione causato dall’unificazione nazionale dell’Italia e della Germania, l’espansione dell’Internazionale in paesi quali la Spagna e l’Italia contraddistinti da condizioni economiche e sociali profondamente differenti da quelle d’Inghilterra e Francia dove era nata l’Associazione, la definitiva virata moderata del sindacalismo inglese e la repressione seguita alla caduta della Comune di Parigi, agirono, in modo concomitante, a rendere la configurazione originaria dell’Internazionale inappropriata per le mutate condizioni storiche.

Nella complessità di questo scenario, nel quale prevalsero le tendenze centrifughe, pesarono, ovviamente, anche le vicende interne quanto quelle personali dei suoi protagonisti. La Conferenza di Londra, ad esempio, lungi dal costituire l’impresa salvifica che Marx si era illuso di aver compiuto, aggravò significativamente la crisi dell’organizzazione perché fu condotta in modo rigido, senza valutare adeguatamente gli umori esistenti all’interno dell’organizzazione e senza la lungimiranza necessaria per evitare il rafforzamento del gruppo diretto da Bakunin (Molnár 1963a, 144). Fu, di fatto, una vittoria di Pirro per Marx che, nel porre in atto un tentativo di risolvere i conflitti interni, finì, invece, per accentuarli. Tuttavia, le scelte assunte a Londra produssero solo un’accelerazione di un processo già in atto e inevitabile.

Infine, alle considerazioni di carattere storico, e a quelle relative alla dialettica interna dell’organizzazione, ne vanno aggiunte altre, di non minor peso, circa il suo principale protagonista. In una seduta della Conferenza di Londra del 1871, Marx aveva ricordato ai delegati come “il lavoro del Consiglio era divenuto immenso. Era obbligato a fare fronte a questioni generali e a questioni nazionali” (Marx 1962b, 217). L’Internazionale, inoltre, aveva di molto accresciuto la sua dimensione. Non era più l’organizzazione del 1864 che si reggeva su due gambe, una in Inghilterra e l’altra in Francia. Adesso era presente in tutti i paesi europei, ognuno dei quali aveva propri problemi e specifiche caratteristiche. L’arrivo degli esuli della Comune di Parigi nella capitale britannica aveva accentuato le difficoltà, dal momento che essi avevano portato con sé, insieme a nuove preoccupazioni, anche un bagaglio di idee diverse. La sintesi politica nel Consiglio Generale, in un’organizzazione divisa ovunque e lacerata dagli scontri interni, era diventata un’impresa sempre più ardua da sostenere. Un tremendo ammontare di lavoro, molto di più che al tempo della sua fondazione.

Dopo otto anni intensamente dedicati all’Internazionale, Marx era estremamente provato. Cosciente – prima fra tutte le sue preoccupazioni – della ritirata delle forze operaie che sarebbe seguita alla sconfitta della Comune di Parigi, decise di dedicare i suoi anni futuri al tentativo di completare Il capitale. Quando attraversò la Manica per recarsi in Olanda, sentiva che ad attenderlo c’era l’ultima grande battaglia politica da protagonista diretto.

Da spettatore silenzioso del primo incontro tenuto nel 1864 alla St. Martin’s Hall, nel 1872 Marx era divenuto il leader dell’Internazionale, riconosciuto come tale non solo dai delegati dei vari congressi e dai dirigenti del Consiglio Generale, ma dalla stessa opinione pubblica. Se, dunque, l’Internazionale doveva moltissimo a Marx, anche l’esistenza di quest’ultimo era profondamente mutata grazie a essa. Prima dell’Internazionale, egli era conosciuto solo in ristrette cerchie di militanti, mentre dopo la Comune di Parigi – certo anche grazie alla pubblicazione, nel 1867, del suo magnum opus – la fama del suo nome aveva iniziato a diffondersi tra i rivoluzionari di molti paesi europei, al punto che fu definito dalla stampa il “dottore del terrore rosso”. Inoltre, la responsabilità derivante dalla guida di questa organizzazione, che gli aveva consentito di analizzare più direttamente tante lotte sia economiche che politiche, fu di ulteriore stimolo alle sue riflessioni sul comunismo e, alla fine, la sua teoria anticapitalista risultò profondamente arricchita proprio grazie alle esperienze maturate nell’Internazionale.

Appunti
1. Per una più completa storia dell’Internazionale si rimanda a (Musto 2014)
2. In seguito il termine fu sostituito da quello di Consiglio Generale. Di seguito, nel testo, esso sarà sempre così indicato.
3. Ferdinad Lassalle era un sostenitore della “legge bronzea dei salari” e considerava gli sforzi per incrementare il salario come futili e quali una distrazione rispetto al compito primario dei lavoratori, ovvero quello di conquistare il potere politico nello Stato.
4. Sebbene l’Internazionale adottasse il principio di un delegato ogni 500 iscritti, la partecipazione dei delegati a tutti i suoi congressi fu sempre subordinata alle loro possibilità di prendervi parte.
5. Marx non partecipò a nessun congresso dell’Internazionale con l’eccezione di quello cruciale svoltosi a L’Aia nel 1872.
6. Questa svolta fu possibile grazie al cambio di orientamento politico delle sezioni belghe, le quali, nel congresso federale svoltosi in luglio, avevano abbracciato posizioni collettivistiche.
7. La traduzione fornita in questo volume è, però, errata e fuorviante. Nelle Cosiddette scissioni nell’Internazionale, Engels e Marx citano direttamente dal documento originale di Bakunin (“l’égalisation politique, économique et sociale des classes”) (Marx e Engels 2014a, 241–43)
8. A riguardo, Carr dichiarò: “il cavallo di legno era entrato nella cittadella troiana”.
9. In proposito cfr. anche le considerazioni di Marx contenute nella lettera di Marx a Sigfrid Meyer e August Vogt, del 9 aprile 1870 (Marx 1975c).
10. Al principio degli anni Settanta il movimento operaio era organizzato in partito politico solo in Germania e, pertanto, un uso molto confuso del termine prevalse sia tra i seguaci di Marx che tra quelli di Bakunin. Il termine “partito” fu adoperato in un modo piuttosto vago anche dallo stesso Marx. Per lui, secondo Rubel: “il concetto di partito […] corrisponde al concetto di classe”. È utile sottolineare, infine, che lo scontro consumatosi all’interno dell’Internazionale tra il 1871 e il 1872 non si concentrò sulla costruzione del partito politico (espressione pronunciata solo due volte alla Conferenza di Londra e cinque volte al Congresso di L’Aia), bensì, “[sull’]uso […] dell’aggettivo politico” (Rubel 1974, 183; Haupt 1978, 84).
11. L’opposizione si era già espressa in favore della riduzione del potere del Consiglio Generale al Congresso di Sonvilier, ma Marx dichiarò a L’Aia: “preferiamo piuttosto abolire il Consiglio Generale che vederlo ridotto al ruolo di una cassetta postale”, (Burgelin, Langfeldt, e Molnár 1962, II:354).
12. Per un analisi critica di questa posizione si veda Miklós Molnár (Molnár 1963b, 439).
13. Karl Marx a César De Paepe, 28 Maggio 1872: “attendo con impazienza il prossimo congresso. Sarà la fine della mia schiavitù. Diventerò di nuovo un uomo libero; non accetterò più incarichi amministrativi, né nel Consiglio Generale, né nel Consiglio Federale Britannico” (Marx 1990a, 487-8).

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Un europeo non eurocentrico

1. Gli effetti del colonialismo inglese in India
Negli ultimi decenni, in numerose università è andata sempre più diffondendosi un’interpretazione volta a rappresentare Marx come un autore colpevole di orientalismo, di economicismo e non in grado di decifrare le contraddizioni sociali se non attraverso la sola analisi del conflitto tra capitale e lavoro. In molti, tra teorici della scuola postmoderna, critici dell’eurocentrismo ed esponenti degli studi post-coloniali, hanno sostenuto queste tesi riscuotendo notevole eco e discreto successo. In realtà, una lettura non superficiale dell’opera di Marx – e la necessaria distinzione tra questa e il corpus dogmatico dei manuali di marxismo-leninismo, sui quali alcune di queste tesi sembrano basarsi – mostrano il profilo di un pensatore del tutto diverso dalle raffigurazioni oggi tanto in voga nell’accademia.

Moniti a leggere Marx con maggiore attenzione sono giunti anche dal fondatore della rivista Subaltern Studies. In Dominance without Hegemony: History and Power in Colonial India, Ranajit Guha ha espresso il suo biasimo per una posizione che, paradossalmente, è stata assunta anche da molti dei suoi epigoni: “alcuni degli scritti di Marx – ad esempio certi passaggi dei suoi così tanto conosciuti articoli sull’India – sono stati sicuramente letti senza contestualizzazione e in modo distorto, al punto da ridurre la sua valutazione circa le possibilità storiche del capitale ad adulazioni di un maniaco della tecnologia”. A suo giudizio, quella di Marx fu “una critica che si distingue[va] inequivocabilmente dal liberalismo”, tanto più valida se si considera che essa venne elaborata nell’epoca della “fase ascendente e ottimistica” di quest’ultimo, nel mentre “il capitale cresceva con forza e sembrava che non ci fossero limiti alla sua espansione e capacità di trasformare natura e società”. Insomma, quanto affermato da Partha Chatterjee in The Politics of the Governed: Popular Politics in Most of the World – ovvero che la gran parte dei “marxisti hanno, in generale, creduto che l’influsso del capitale sulla comunità tradizionale fosse il simbolo inevitabile del progresso storico” – è inconfutabile. Tuttavia, sarebbe errato estendere questa posizione anche a Marx e alla sua interpretazione della società.

La convinzione che l’espansione del modo di produzione capitalistico fosse un presupposto fondamentale per la nascita della società comunista attraversa l’intera opera di Marx. Nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx ed Engels riconobbero più di un merito all’epoca borghese. Essa non solo aveva “distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache”, ma aveva anche sostituito allo “sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, (…) lo sfruttamento esplicito, senza pudori, diretto e brutale”. Essi non ebbero dubbi nel dichiarare che “la borghesia [aveva] avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria”. Sfruttando le scoperte geografiche e la nascita del mercato mondiale, aveva “reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi”.

In I risultati futuri della dominazione britannica in India (1853), uno dei tanti articoli giornalistici di Marx apparsi sul New-York Tribune, egli scrisse che “l’Inghilterra deve assolvere una doppia missione in India, una distruggitrice, l’altra rigeneratrice: annientare la vecchia società asiatica e porre le fondamenta materiali della società occidentale in Asia”. Egli non nutrì alcuna illusione sulle caratteristiche di fondo del capitalismo, ben sapendo che la borghesia non aveva “mai dato impulso al progresso senza trascinare gli individui nel sangue e nel fango, nella miseria e nella degradazione”. Tuttavia, fu altresì convinto che lo scambio globale e lo sviluppo delle forze produttive degli esseri umani, mediante la trasformazione della produzione in un “dominio scientifico dei fattori naturali”, avrebbero creato le basi per una società diversa: “l’industria borghese e il commercio [avrebbero] crea[to … le] condizioni materiali per un mondo nuovo”.

Queste asserzioni valsero a Marx le accuse di Edward Said, il quale, in Orientalismo, non solo dichiarò che “le analisi economiche di Marx [erano] del tutto compatibili con la visione d’insieme dell’orientalismo”, ma insinuò anche che esse “dipend[evano] dal vecchio pregiudizio di ineguaglianza tra Est e Ovest”. Il primo a mettere in evidenza gli errori di questa interpretazione, troppo circoscritta e faziosa, fu Sadiq Jalal al-Azm che, nell’articolo Orientalism and Orientalism in Reverse, bollò il “resoconto [di Said] delle vedute e delle analisi di Marx, su processi storici e situazioni altamente complessi, come una farsa”. A suo avviso, non c’era “nulla di specifico, né con l’Asia né con l’Oriente, nell’ampia interpretazione teorica di Marx”. Rispetto a “capacità produttive, organizzazione sociale, ascendente storico, potere militare e sviluppi scientifici e tecnologici, (…) Marx, come chiunque altro, conosceva la superiorità dell’Europa moderna sull’Oriente. Tuttavia, accusarlo di (…) trasformare questo fatto contingente in una realtà necessaria per tutti i tempi era assurdo”. Anche Aijaz Ahmad, in In Theory: Classes, Nations, Literatures, ha ben mostrato come Said avesse “decontestualizz[ato] citazioni, con scarso senso di cosa [rappresentasse] il passaggio citato” nell’opera di Marx, semplicemente per “inserir[le] nel [suo] archivio orientalista”.

L’autore indiano ha correttamente osservato che “la denuncia di Marx della società pre-coloniale in India non è più stridente della sua denuncia del passato feudale dell’Europa”. A suo giudizio, “per Marx l’idea di un certo ruolo progressivo del colonialismo era legato all’idea di un ruolo progressivo del capitale in confronto a ciò che era esistito precedentemente, tanto all’interno dell’Europa quanto al fuori di essa”; “la distruzione della classe contadina europea nel corso dell’accumulazione originaria [venne] descritta in toni analoghi” alle mutazioni intervenute in India.

In ogni caso, gli articoli di Marx sull’India del 1853 offrono una visione ancora molto parziale e semplicistica del colonialismo, se confrontati con le riflessioni che, successivamente, egli elaborò sull’argomento. Le considerazioni sulla presenza britannica in India vennero emendate qualche anno dopo, quando, scrivendo sulla ribellione dei Sepoy del 1857 per lo stesso quotidiano americano, nell’articolo Investigazione sulle torture in India, Marx si schierò, con decisione, dalla parte di quanti tentarono di “espellere i conquistatori stranieri”. Analoghe prese di posizione sono molto frequenti, sia nelle sue opere che nei suoi interventi politici.

2. “Unicamente nell’Europa occidentale”
Una delle esposizioni più analitiche circa gli effetti positivi del processo produttivo capitalistico si trova nel primo libro di Il capitale (1867). Nonostante fosse divenuto molto più consapevole, rispetto al passato, del carattere distruttivo del capitalismo, nel suo magnum opus egli riassunse le sei condizioni generate dal capitale – in particolare dalla sua “centralizzazione” – che costituiscono i presupposti fondamentali per la possibile nascita della società comunista. Esse erano: 1) la cooperazione lavorativa; 2) l’apporto scientifico-tecnologico fornito alla produzione; 3) l’appropriazione delle forze della natura da parte della produzione; 4) la creazione di grandi macchinari adoperabili soltanto in comune dagli operai; 5) il risparmio dei mezzi di produzione; 6) la tendenza a creare il mercato mondiale.

Per Marx, il capitalismo avrebbe creato le condizioni per il superamento dei rapporti economico-sociali da esso stesso originati e, pertanto, il possibile trapasso a una società socialista. Così come nelle sue considerazioni sul profilo economico delle società extra-europee, il punto centrale della sua riflessione consisteva nello sviluppo del capitalismo in vista del suo rovesciamento. Marx riconobbe che questo modo di produzione, nonostante lo spietato sfruttamento degli esseri umani, presentava alcuni elementi potenzialmente progressivi, tali da consentire, molto più che in altre società del passato, la valorizzazione delle potenzialità dei singoli individui. Profondamente avverso al dettame produttivistico del capitalismo, ovvero al primato del valore di scambio e all’imperativo della produzione di pluslavoro, Marx valutò la questione dell’aumento delle capacità produttive in relazione all’incremento delle facoltà individuali. Come scrisse anche nei Grundrisse, egli considerò il capitalismo come “un necessario punto di passaggio”, affinché potessero dispiegarsi le condizioni che avrebbero permesso al proletariato di lottare, con speranze di successo, per l’instaurazione di un modo di produzione socialista.

Se Marx ritenne che il capitalismo fosse una transizione essenziale, affinché si venissero a determinare le condizioni storiche entro le quali il movimento operaio potesse lottare per una trasformazione comunista della società, viceversa, non pensò mai che questa idea andasse applicata in modo rigido e dogmatico. Al contrario, egli negò più volte – sia in testi pubblicati che in manoscritti non dati alle stampe – di avere concepito un’interpretazione unidirezionale della storia, in base alla quale gli esseri umani erano destinati a compiere ovunque il medesimo cammino e, per giunta, attraverso le stesse tappe.

Nel corso degli ultimi anni della sua esistenza, Marx confutò la tesi, a lui erroneamente attribuita, della inesorabilità storica del modo di produzione borghese. La sua totale estraneità a questa posizione si espresse nel dibattito sul possibile sviluppo del capitalismo in Russia. Allo scrittore e sociologo Nikolaj Michajlovskij, che lo aveva accusato di aver considerato il capitalismo quale tappa imprescindibile anche per l’emancipazione della Russia, Marx replicò che nel primo libro di Il capitale egli aveva “prete[so] unicamente di indicare la via mediante la quale, nell’Europa occidentale, l’ordine economico capitalistico [era] usc[ito] dal grembo dell’ordine economico feudale”. Marx rinviò alla lettura di un passaggio dell’edizione francese (1872-75) di Il capitale, nel quale aveva sostenuto che la base dell’intero percorso di separazione dei produttori dai loro mezzi di produzione era stata “l’espropriazione dei coltivatori”. Egli aveva aggiunto che questo processo si era “compiuto in modo radicale solo in Inghilterra, (…) [e che] tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale percorrevano lo stesso movimento”. Dunque, aveva preso in esame soltanto il ‘vecchio continente’, non il mondo intero.

È in questo orizzonte spaziale che va inquadrata l’affermazione presente nella prefazione al primo libro di Il capitale: “il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire”. Marx scrisse per il lettore tedesco, osservando che gli abitanti di quella nazione erano “tormentati, come tutto il resto dell’Europa occidentale continentale, non solo dallo sviluppo della produzione capitalistica, ma anche dalla mancanza di tale sviluppo”. A suo giudizio, accanto alle “miserie moderne” sopravviveva l’oppressione di “tutta una serie di miserie ereditarie che sorg[eva]no dal vegetare di modi di produzione antiquati e sorpassati che ci sono stati trasmessi con il loro seguito di rapporti sociali e politici anacronistici”.

In Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Dipesh Chakrabarty ha, invece, erroneamente interpretato questo passaggio come un tipico esempio di storicismo che segue il principio “prima in Europa e poi altrove”. Le “ambiguità nella prosa di Marx” sono state presentate come un prototipo di quanti considerano la “storia come una stanza d’attesa, un periodo che è necessario per la transizione al capitalismo in qualunque tempo e luogo particolare. Questo è il periodo al quale (…) è spesso consegnato il terzo mondo”. In ogni caso, nel saggio The Fetish of “the West” in Postcolonial Theory, Neil Lazarus ha giustamente osservato che “non tutte le narrative storiche sono teleologiche o storiciste”.

Quanto alla Russia, Marx condivise l’opinione di Michajlovskij secondo la quale essa avrebbe potuto “appropiar[si] di tutti frutti (…) [del] regime capitalistico (…), sviluppando i suoi presupposti storici, (…) senza sperimentare la tortura di questo regime”. Egli contestò a Michajlovskij di aver trasfigurato il suo “schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia universale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino”. Marx fece notare che la corretta interpretazione dei fenomeni storici non poteva essere affidata alla “chiave universale di una teoria storico-filosofica, la cui virtù suprema consiste nell’essere metastorica”.

La problematica sollevata da Michajlovskij – che ignorava la vera posizione di Marx – prefigurò, però, uno dei limiti fondamentali che avrebbe caratterizzato il marxismo novecentesco. Al tempo, inoltre, queste idee già serpeggiavano tra i seguaci di Marx, sia in Russia che altrove. La critica di Marx a tale concezione fu tanto più importante perché, oltre che a essere rivolta al presente, anticipò quanto sarebbe accaduto successivamente.

3. Il dibattito sul comunismo in Russia
Marx espresse gli stessi convincimenti nel 1881, quando la rivoluzionaria Vera Zasulič lo interpellò circa il futuro della comune [Obščina] agricola. La Zasulič gli chiese se quest’ultima avesse potuto svilupparsi in forma socialista, o se era destinata a perire, perché il capitalismo si sarebbe necessariamente imposto anche in Russia. Nella sua risposta, Marx ribadì che nel primo libro di Il capitale egli aveva “espressamente limitato [la] ‘fatalità storica'” dello sviluppo del capitalismo – che introduceva la “separazione radicale dei mezzi di produzione dal produttore” – solamente “ai paesi dell’Europa occidentale”.

Riflessioni ancora più circostanziate al riguardo sono reperibili nelle bozze preparatorie della lettera spedita alla Zasulič. In esse Marx evidenziò la peculiare caratteristica dovuta alla coesistenza tra l’Obščina e le forme economiche più avanzate. Egli osservò che la Russia era “contemporanea a una cultura superiore [ed era] legata al mercato mondiale, in cui predomina la produzione capitalistica. Appropriandosi dei risultati positivi di questo modo di produzione, essa [era …] in grado di sviluppare e trasformare, invece di distruggere, la forma ancora arcaica della sua comune rurale”. I contadini avrebbero potuto “integrare le acquisizioni positive elaborate dal sistema capitalistico, senza dover passare sotto le sue forche caudine”.

A quanti ritenevano che il capitalismo dovesse rappresentare una tappa irrinunciabile anche per la Russia, poiché sostenevano che era impossibile che la storia procedesse per balzi, Marx domandò, in modo ironico, se, conseguentemente, anche la Russia, così “come l’Occidente”, avrebbe dovuto “attraversare un lungo periodo d’incubazione dell’industria meccanica per potere arrivare alle macchine, ai bastimenti a vapore e alle ferrovie”. Egli sollevò, a sua volta, l’interrogativo sul come sarebbe stato possibile “introdurre nel loro paese, in un batter d’occhio, tutto il meccanismo dello scambio (banche, società per azioni, etc.), la cui elaborazione [era] costata secoli all’Occidente”. Era evidente che la storia della Russia, o di qualsiasi altro paese, non doveva per forza ripercorrere tutte le tappe che avevano segnato la storia dell’Inghilterra o di altre nazioni europee. Quindi, anche la trasformazione socialista dell’Obščina avrebbe potuto compiersi senza passare necessariamente attraverso il capitalismo.

Il modello di società comunista che aveva in mente Marx non era affatto un modo “primitivo di produzione cooperativa o collettiva, [che era] il risultato dell’individuo isolato”, bensì quello derivante dalla “socializzazione dei mezzi di produzione”. Negli ultimi anni di vita, egli non aveva mutato il suo giudizio, complessivamente critico, sulle comuni rurali in Russia e, nel procedere della sua analisi, lo sviluppo dell’individuo e della produzione sociale avevano conservato intatta la loro insostituibile centralità.

Nelle riflessioni sul caso russo non si palesa, dunque, alcun drammatico strappo rispetto alle sue precedenti convinzioni. Gli elementi di novità, intervenuti rispetto al passato, riguardano, invece, la maturazione della sua posizione teorico-politica che lo portò a considerare come possibili, per il passaggio al comunismo, altre strade – anche al di fuori dei paesi europei – mai valutate prima di allora o, fino ad allora, ritenute irrealizzabili.

Marx affermò che, “teoricamente parlando”, era possibile che l’Obščina potesse “conservarsi sviluppando la sua base, la proprietà comune della terra (…). Essa può diventare il primo punto di partenza del sistema economico al quale tende la società moderna; può cambiare di pelle senza incontrare il suicidio. Può assicurarsi i frutti con i quali la produzione capitalistica ha arricchito l’umanità, senza passare per il regime capitalistico”. La contemporaneità con la produzione capitalistica offriva alla comune agraria russa “già pronte le condizioni materiali del lavoro cooperativo, organizzato su vasta scala”.

Al di là della sua indisponibilità ad accettare l’idea che uno sviluppo storico predefinito potesse manifestarsi, in egual modo, in scenari economici e politici distinti, i progressi teorici di Marx furono dovuti anche all’evoluzione delle sue elaborazioni sugli effetti prodotti dal capitalismo nei paesi economicamente più arretrati. Egli non riteneva più, come aveva asserito nel 1853 sul New-York Tribune, a proposito dell’India, che “l’industria e il commercio borghesi [avrebbero] crea[to… le] condizioni materiali per un mondo nuovo”. Lustri di nuovi e dettagliati studi e di attenta osservazione dei mutamenti intervenuti nello scenario politico internazionale, avevano concorso a fargli maturare una visione del colonialismo britannico ben diversa da quella espressa quando era un giornalista di appena trentacinque anni. Gli effetti prodotti dal capitalismo nei paesi colonizzati furono valutati in tutt’altro modo. Riferendosi “alle Indie Orientali”, in una delle bozze della lettera alla Zasulič, Marx scrisse che “tutti sa[peva]no che lì la soppressione della proprietà comune del suolo non [era] stata che un atto di vandalismo degli inglesi; non [aveva] spinto il popolo indigeno avanti, ma indietro”. A suo avviso, i britannici erano stati capaci solo di “distruggere l’agricoltura indigena e [di] raddoppiare il numero e l’intensità delle carestie”. Il capitalismo non arrecava progresso ed emancipazione come millantavano i suoi apologeti, ma solo rapina delle risorse naturali, devastazioni ambientali e nuove forme di schiavitù e di dipendenza umana.

Infine, Marx ritornò sulla possibile concomitanza tra capitalismo e forme comunitarie del passato, conservate nei paesi extra-europei, anche nel 1882. Nella Prefazione a una nuova edizione russa del Manifesto del partito comunista, redatta assieme a Engels, il destino dell’Obščina fu accomunato a quello delle lotte proletarie in Europa: “in Russia, accanto all’ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e assieme alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, oltre la metà del suolo si trova sotto forma di proprietà comune dei contadini. Si presenta, quindi, il problema: la comunità rurale russa, questa forma – è vero – in gran parte già dissolta dell’originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera? Oppure essa dovrà attraversare, prima, lo stesso processo di dissoluzione che ha costituito lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un’evoluzione comunista”.

La posizione dialettica raggiunta da Marx gli consentì di abbandonare l’idea secondo la quale il modo di produzione socialista poteva essere costruito solo attraverso determinate tappe. Inoltre, egli negò espressamente la necessità storica dello sviluppo del capitalismo in ogni parte del mondo. Nei suoi ragionamenti non vi è traccia di determinismo economico. Le considerazioni che svolse, con ricchezza di argomentazioni, sul futuro dell’Obščina sono agli antipodi dell’equiparazione fra socialismo e sviluppo delle forze produttive affermatasi, con accenti nazionalistici, tanto in seno ai partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale (presso i quali sorsero finanche simpatie verso il colonialismo), quanto, con richiami a un presunto ‘metodo scientifico’ dell’analisi sociale, nel movimento comunista internazionale del Novecento.

Marx non mutò le sue idee di base sul profilo che avrebbe assunto la società comunista. Guidato dall’ostilità verso gli schematismi del passato, così come verso i nuovi dogmatismi che stavano nascendo in suo nome, ritenne possibile lo scoppio della rivoluzione in luoghi e forme precedentemente poco considerati. Per Marx il futuro restava nelle mani della classe lavoratrice e nella sua capacità di determinare, con le sue lotte e attraverso le proprie organizzazioni di massa, rivolgimenti sociali e la nascita di un sistema economico-politico alternativo.

Bibliografia
Aijaz Ahmad, In Theory: Classes, Nations, Literatures, Verso, London 1992.
Dipesh Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton 2000.
Partha Chatterjee, The Politics of the Governed: Popular Politics in Most of the World, Columbia University Press, New York 2004.
Ranajit Guha, Dominance without Hegemony: History and Power in Colonial India, Harvard University Press, Cambridge 1997.
Sadiq Jalal al-Azm, Orientalism and Orientalism in Reverse, in Khamsin, vol. 8 (1980).
Neil Lazarus, The Fetish of “the West” in Postcolonial Theory, in Crystal Bartolovich and Neil Lazarus (eds.), Marxism, Modernity and Postcolonial Studies, Cambridge University Press, Cambridge 2002.
Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, Roma 2008 [1978].

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La escritura de El capital

De los Grundrisse al análisis crítico de las teorías de la plusvalía
En el período 1857-1859 no hubo señal del tan anticipado movimiento revolucionario, que Marx suponía nacería de la mano de la crisis y, por ello, abandonó el proyecto de escribir un volumen en torno a la crisis de ese momento. Tampoco pudo terminar el trabajo con el que había estado luchando por muchos años, porque era consciente de encontrarse todavía muy lejos de una conceptualización definitiva de los problemas analizados en el manuscrito. Por lo tanto, los Grundrisse se quedaron simplemente como un esbozo, del que (después de haber elaborado con cuidado el ‘Capítulo sobre el dinero’) publicó en 1859 un libro corto sin resonancia pública, la Contribución a la crítica de la economía política. Pensado como la primera entrega de su trabajo planeado, este texto incluía un primer capítulo corto, ‘La mercancía’, distinguiendo entre valor de uso y valor de cambio, así como un segundo capítulo más largo, ‘El dinero o la circulación simple’, que se refiere a teorías del dinero como unidad de medida. Marx informó en el prólogo que estos dos capítulos, junto con un tercero, ‘el capital en general’, constituían la primera sección del primer libro de un plan general de seis: ‘Consideraré el sistema de la economía burguesa en la siguiente secuencia: el capital, la propiedad de la tierra, el trabajo asalariado; el Estado, el comercio exterior, el mercado mundial’ (Marx [1859] 2000: 3).

Tras un intenso período de conflictos políticos, durante el cual Marx escribe Herr Vogt (1860), y después de muchas dificultades económicas y de salud, que volvieron a atormentarlo, en agosto de 1861 Marx se dedicó de nuevo a la crítica de la economía política. Reanudó su trabajo con tal intensidad que para junio de 1863 ya había redactado 23 voluminosos cuadernos de apuntes dedicados a la transformación del dinero en capital, al capital comercial y, sobre todo, a las diferentes teorías con las que los economistas habían tratado de explicar la plusvalía (1). Su objetivo era completar la Contribución a la crítica de la economía política.

Los planes de Marx no habían cambiado dos años después: todavía tenía la intención de escribir seis libros, cada uno dedicado a una de las cuestiones que había enumerado en 1859 (2). Sin embargo, entre el verano de 1861 y marzo de 1862, Marx trabajó en un nuevo capítulo, ‘El capital en general’, que tenía la intención de incluir como un tercer capítulo en su plan de publicación. En el manuscrito preparatorio, que hacía parte de los primeros cinco de los veintitrés cuadernos compilados a finales de 1863, se concentró en el proceso de producción del capital y, más específicamente, en: 1) la transformación del dinero en capital; 2) plusvalía absoluta; y 3) plusvalía relativa (3). Algunas de estas cuestiones, ya tratadas en los Grundrisse, fueron ahora presentadas con una riqueza y precisión analíticas mayores.

Un alivio momentáneo de los enormes problemas económicos que lo acosaron durante años le permitió a Marx dedicar más tiempo y hacer avances teóricos significativos. A finales de octubre de 1861 le escribió a Engels que «las circunstancias se han aclarado finalmente, así que he puesto de nuevo al menos un suelo fijo bajo los pies». Su trabajo con el New-York Tribune le aseguraba «dos libras a la semana» (Marx a Engels, 30 de octubre de 1861, Marx and Engels 1985a: 323). También había finalizado un acuerdo con Die Presse, el diario vienés de tendencias liberales, que con sus 30.000 suscriptores era el más difundido de los diarios austriacos, además de uno de los más populares en alemán. Durante el último año había «empeñado todo lo que no estaba clavado al piso» y lo difícil de la situación había deprimido seriamente a su esposa. Pero, ahora, el doble compromiso prometía ponerle fin a «la agobiante situación que llevaba su familia», permitiéndole «completar su libro».

Sin embargo, en diciembre le contó a Engels que se había visto forzado a dejar pagarés con el carnicero y el tendero, y que su deuda con varios acreedores alcanzaba las 100 libras (Marx a Engels, 9 de diciembre de 1861, Marx and Engels 1985a: 332). Por todas estas preocupaciones, su investigación procedía muy lentamente: «En estas circunstancias era efectivamente imposible completar rápidamente dichos asuntos teóricos». Pero le avisa a Engels que «[la cosa] se hace mucho más popular y el método esta mucho menos oculto en comparación con el primero» (Ibid.: 333).

Con este dramático trasfondo Marx intentó pedir dinero prestado a su madre, así como a otros familiares y al poeta Carl Siebel [1836-1868]. En una carta a Engels a finales de diciembre le explicó que estos eran intentos de evitar estar molestándolo constantemente; en cualquier caso, todos resultaron improductivos. Y el acuerdo con Die Presse tampoco estaba funcionando, pues estos estaban imprimiendo (y pagando por) la mitad de los artículos que Marx les enviaba. Como respuesta a los buenos deseos de año nuevo de su amigo, le confesó que, si el nuevo llegase a ser como el anterior, «preferiría irse al infierno» (Marx a Engels, 27 de diciembre de 1861, Marx and Engels 1985a: 337-338).

Las cosas tomaron un rumbo incluso peor cuando el New-York Tribune, enfrentando limitaciones financieras asociadas con la Guerra Civil, tuvo que reducir el número de sus corresponsales extranjeros. El último artículo de Marx para el periódico se publicó el 10 de marzo de 1862. De ahí en adelante, tuvo que arreglárselas sin lo que había sido su principal fuente de ingreso desde el verano de 1851. Este mismo mes, el propietario de la casa, amenazando con enviar a un oficial judicial, les dio un ultimátum para el pago de la renta atrasada, por lo cual la familia Marx tuvo que recurrir nuevamente a la oficina de préstamos para evitar ser «citados todos a juicio, sin distinción» (Marx a Engels, 3 de marzo de 1862, Marx and Engels 1985a: 344). Él mismo afirmó que «no vale la pena llevar una vida así de asquerosa» y se vio obligado a retrasar sus estudios económicos. Algunos días después añadió: «No puedo avanzar con mi libro ordenadamente, pues el trabajo se ve interrumpido o incluso suspendido, a menudo durante semanas enteras, por las contrariedades domésticas» (Marx a Engels, 15 de marzo de 1862, Marx and Engels 1985a: 352).

Durante este periodo, Marx se abocó a una nueva área de investigación: Teorías de la plusvalía (4). Se había planeado que esta fuera la quinta (5) y última parte del extenso tercer capítulo sobre el ‘Capital en general’. A lo largo de 10 cuadernos, Marx diseccionó minuciosamente la manera en la que los principales economistas habían lidiado con la cuestión de la plusvalía; su idea básica era que: «Todos los economistas incurren en la misma falta: en vez de considerar la plusvalía puramente en cuanto tal, la consideran a través de las formas específicas de la ganancia y la renta de la tierra» (Marx 1980a: 33).

En el cuaderno VI, Marx comienza con una crítica de los fisiócratas. Primero que todo, los reconoce como «los verdaderos padres de la economía moderna» (Marx 1980a: 37), pues fueron ellos los que sentaron «las bases para el análisis de la producción capitalista», (Marx 1980a: 38) y buscaron el origen no en «la esfera de la circulación» (en la productividad del dinero, como pensaban los mercantilistas), si no en «la esfera de la producción». Entendieron «la tesis de que sólo es productivo el trabajo que arroja una plusvalía» (Marx 1980a: 38). Por otra parte, al estar incorrectamente convencidos de que «el trabajo agrícola es el único trabajo productivo» (Marx 1980a: 39) consideraban que «la renta de la tierra [es] la única forma de plusvalía que […] existe» (Marx 1980a: 39). Limitaron su análisis a la idea de que la productividad de la tierra le permitía al hombre producir lo que «alcanzara solamente para permitirle a él subsistir» (Marx 1980a: 41). De acuerdo con esta teoría, entonces, la plusvalía aparece como un «don natural» (Marx 1980a: 41).

En la segunda parte del cuaderno VI, en la mayoría de los cuadernos VII, VIII y IX, Marx se concentró en Adam Smith. Este no compartía la falsa idea de los fisiócratas de que «el creador de plusvalía es solamente un determinado tipo de trabajo real, el trabajo agrícola» (Marx 1980a: 76). De hecho, uno de los méritos más grandes de Smith, a ojos de Marx, es haber entendido que, en el proceso del trabajo específico de la sociedad burguesa, «una parte del trabajo vivo es apropiada gratuitamente, sin retribución alguna» (Marx 1980a: 72) por parte del capitalista; o, de nuevo, que «se cambia (desde el punto de vista del trabajador) más trabajo por menos trabajo y (desde el punto de vista del capitalista) menos trabajo por más» (Marx 1980a: 78). La limitación de Smith, sin embargo, fue su incapacidad de distinguir «la plusvalía en cuanto tal […] de las formas específicas que reviste en la ganancia y en la renta del suelo» (Marx 1980a: 73). Este calculó la plusvalía, no en relación con la parte del capital de la que proviene, sino como «un remanente sobre el valor global del capital desembolsado» (Marx 1980a: 79s.) incluyendo la parte que el capitalista gasta para comprar materia prima.

Marx puso muchas de estas reflexiones por escrito durante una estadía de tres semanas con Engels, en Manchester, en abril de 1862. A su retorno, le contó a Lassalle:

En lo que respecta a mi libro, no estará listo antes de dos meses. Durante los últimos años, para no morir de hambre, he tenido que hacer los más desagradables oficios, y, a menudo durante meses enteros, no he podido escribir línea alguna sobre la ‘cosa’. Y a esto se ha de sumar esa peculiaridad mía de que cuando tengo frente a mí algo que escribí cuatro semanas atrás, lo encuentro insuficiente y debo reescribirlo por completo. (Marx a Lassalle, 28 de abril de 1862, Marx and Engels 1985a: 356)

Marx reanudó el trabajo obstinadamente y extendió su investigación, hasta principios de junio, a otros economistas tales como Germain Garnier [1754-1821] y Charles Ganilh [1758-1836]. Se concentró entonces más profundamente en la pregunta por el trabajo productivo e improductivo, enfatizando de nuevo particularmente en Smith, quien, a pesar de una falta de claridad en algunos respectos, había planteado la distinción entre estos conceptos. Desde el punto de vista del capitalista, el trabajo productivo

Es el trabajo asalariado, que, al ser cambiado por la parte variable del capital (la parte del capital invertido en salarios) no solo reproduce esta parte del capital (o el valor de su propia fuerza de trabajo), sino que produce, además, una plusvalía para el capitalista. Solamente así se convierte la mercancía o el dinero en capital, produce como capital. Solamente es productivo el trabajo asalariado que produce capital. (Marx 1980a: 137)

El trabajo improductivo, por otra parte, es «el trabajo que no se cambia por capital, sino que se cambia directamente por un ingreso, es decir, por el salario o la ganancia» (Marx 1980a: 141). De acuerdo con Smith, la actividad de los soberanos (y de los oficiales legales y militares que los rodeaban) no producía valor, y en este sentido era comparable a los oficios de los sirvientes domésticos. Éste, señaló Marx,

es el lenguaje de una burguesía todavía revolucionaria, que aún no ha sometido [a su férula] a toda la sociedad, al Estado, etc. Estas ocupaciones trascendentales y venerandas, como las de soberano, juez, oficial, sacerdote, etc., y la totalidad de los viejos estamentos ideológicos de los que salen los eruditos, los profesores y los curas, aparecen económicamente equiparados al enjambre de sus propios lacayos y bufones, sostenidos por ellos y la riqueza ociosa, por la nobleza de la tierra y los capitalistas ociosos. (Marx 1980a: 278)

En el cuaderno X, Marx se volcó a un análisis riguroso del Tableau économique de François Quesnay [1694-1774] (Marx a Engels, 18 de junio de 1862, Marx and Engels 1985a: 381), al que alabó enormemente, describiéndolo como «una idea verdaderamente genial, sin disputa la idea más genial que a la economía política se le puede reconocer, hasta ahora» (Marx 1980a: 317).

Mientras tanto, las circunstancias económicas de Marx seguían siendo desesperadas. A mediados de junio le escribió a Engels: «Mi esposa me dice todos los días que desearía estar ya en la tumba con los niños, y en realidad no puedo tomárselo a mal, pues las humillaciones, tormentos y espantos que se sufren en esta situación son en efecto indescriptibles» (Marx a Engels, 18 de junio de 1862, Marx and Engels 1985a: 381). Ya en abril la familia había tenido que empeñar de nuevo todas sus posesiones que apenas poco antes había reclamado de la casa de empeño. La situación era tan extrema que Jenny se decidió a vender algunos de los libros de la biblioteca personal de su esposo, aunque no pudo encontrar a nadie que quisiera comprarlos.

A pesar de todo, Marx consiguió «trabajar duro» y le compartió una nota de satisfacción a Engels a mediados de junio: «extrañamente, mi materia gris anda mejor bajo toda esta miseria que lo que lo ha hecho por muchos años» (Marx a Engels, 18 de junio de 1862, Marx and Engels 1985a: 380). Continuando con su investigación, compiló los cuadernos XI, XII y XIII a lo largo del verano; se concentraban en la teoría de la renta, que había decidido incluir como un «capítulo extra» (Marx a Engels, 2 de agosto de 1862, Marx and Engels 1985a: 394) del texto que estaba preparando para publicación. Marx examinó críticamente las ideas de Rodbertus [1805-1875], y luego se dedicó a un análisis extenso de las doctrinas de David Ricardo [1772-1823] (6).

Negando la existencia de la renta absoluta, Ricardo había abierto un lugar tan solo a la renta diferencial relacionada con la fertilidad y la ubicación de la tierra. En esta teoría, la renta era un exceso: no podía ser nada más. Para Marx, Ricardo no podría haber afirmado lo contrario, pues esto hubiera contradicho su «concepto del valor [como] siendo igual a cierta cantidad de tiempo de trabajo»; hubiera tenido que admitir que no es el tiempo de trabajo, sino algo diferente, lo que determina el valor (Marx 1980b: 111) y que el producto agrícola era vendido constantemente por encima de su precio de costo, que calculaba como la suma del capital adelantado y la ganancia promedio (Marx a Engels, 2 de agosto de 1862, Marx and Engels 1985a: 396). La concepción de Marx de la renta absoluta, por el contrario, estipulaba que «bajo ciertas circunstancias históricas […] los precios de las materias primas se ven encarecidos por la propiedad sobre la tierra» (Marx a Engels, 2 de agosto de 1862, Marx and Engels 1985a: 398).

En la misma carta a Engels Marx escribió que era «un verdadero milagro» que «hubiera sido capaz de avanzar tanto con [su] trabajo teórico» (ibid.: 394). El propietario de la casa había amenazado de nuevo con enviar a los oficiales, mientras que algunos comerciantes a los que les adeudaba hablaban de retenerle las provisiones y tomar acción legal en su contra. Una vez más se había dirigido a Engels por ayuda, confiándole que si no hubiera sido por su esposa e hijos hubiera «preferido mudar[se] a un cuarto en un albergue para indigentes que estar apretando [el bolsillo de Engels] constantemente» (Marx a Engels, 7 de agosto de 1862, Marx and Engels 1985a: 399). En septiembre, Marx le escribió a Engels que era posible que el siguiente año tomara un trabajo en «una empresa ferroviaria inglesa» (Marx a Engels, 10 de septiembre de 1862, Marx and Engels 1985a: 417). En diciembre le repitió a Ludwig Kugelmann [1828-1902] que las cosas se habían puesto tan desesperadas que había «decidido convertirse en un [hombre] ‘práctico’», pero su postulación fue rechazada; le fue comunicado que, debido a su mala letra, no podía ocupar ese puesto. Al recibir la noticia, Marx comentó, con su típico sarcasmo: «¿He de llamarla mala o buena suerte?» (Marx a Kugelmann, 28 de diciembre de 1862, Marx and Engels 1985a: 436).

Mientras tanto, a principios de noviembre le había confiado a Ferdinand Lassalle [1825-1864] que se había visto forzado a suspender el trabajo «alrededor de 6 semanas», y que estaba «avanzando […] con interrupciones». «Sin embargo», añadió, «se llevará a término por completo» (Marx a Lassalle, 7 de noviembre de 1862, Marx and Engels 1985a: 426). Durante este tiempo, Marx llenó otros dos cuadernos, XIV y XV, con un análisis crítico extenso de varios teóricos económicos. Mostró en ellos que Thomas Robert Malthus [1766-1834], para quien la plusvalía provenía de «que el vendedor vende la mercancía en más de lo que vale», representaba un retorno al pasado en la economía teórica, pues derivaba la ganancia del intercambio de mercancías (Marx 1980c: 13). Acusó también a James Mill [1773 -1836] de malinterpretar las categorías de plusvalía y ganancia; señaló la confusión producida por Samuel Bailey [1791-1870] al no distinguir entre la medida inmanente del valor y el valor de la mercancía; y argumentó que John Stuart Mill [1806-1873] no se dio cuenta de que «la tasa de plusvalía y la tasa de ganancia» eran dos cantidades diferentes (Marx 1980c: 172) la última determinada no solo por el nivel de los salarios, sino también por otras causas que no se pueden atribuir directamente a ella.

Marx prestó también atención especial a varios economistas que se oponían a la teoría de Ricardo, como el socialista Thomas Hodgskin [1787-1869]. Finalmente, se dedicó al texto anónimo Revenue and Its sources [El ingreso y sus fuentes] (en su opinión, un ejemplo perfecto de «economía vulgar» que traducía en un lenguaje «doctrinario», pero «apologético», «el punto de vista de la clase dominante, del capitalista») (Marx 1980c: 403). Con el estudio de este libro, Marx concluyó su análisis de las teorías de la plusvalía que llevaron a cabo los principales economistas del pasado, y comenzó a examinar el capital comercial, o el capital que no crea plusvalía, sino que la distribuye (7). Su polémica en contra del «capital a interés» podría «posar como socialismo», pero Marx no tenía tiempo para este «ánimo reformista» que no «enfrentaba la producción capitalista real», sino que «atacaba apenas una de sus consecuencias». Para Marx, por el contrario:

La total cosificación, inversión y el absurdo del capital como capital a interés —en el que, sin embargo, no hace más que manifestarse bajo su forma más tangible la naturaleza interior de la producción capitalista, el absurdo de esta— es el capital que rinde compounded interest [interés compuesto] y que aparece como un Moloch reclamando el mundo entero como víctima sacrificada en sus altares, pero que, impulsado por una misteriosa fatalidad, no logra nunca satisfacer, sino que ve siempre contrarrestadas sus justas aspiraciones, nacidas de su propia naturaleza. (Marx 1980c: 406)

Marx continuó, en la misma línea:

Es, por tanto, el interés, y no la ganancia, lo que aparece, así, en cuanto tal, [y, por lo tanto, se lo toma] como el ingreso creado por el capital e inherente [a él]. Bajo esta forma es, pues, como los economistas vulgares lo conciben también. En esta forma se esfuma toda mediación y se redondea y se culmina la forma fetichista del capital, como la representación del capital-fetiche. Esta forma surge necesariamente cuando se desglosa la propiedad jurídica del capital de su propiedad económica y la propiedad y la apropiación de una parte de la ganancia afluye, bajo el nombre de interés, a un capital en sí o al propietario de [un] capital totalmente desglosado del proceso de producción.

Para el economista vulgar, que pretende prestar el capital como fuente independiente de valor, de creación de valor, esta forma [representa], naturalmente, una [manera de] devorar que se ha descubierto, una forma en que la fuente de la ganancia es irreconocible y el resultado del proceso capitalista cobra existencia independiente, al margen de este proceso. En D-M-D´ aparece todavía [una] mediación. En D-D´ tenemos la forma carente de concepto del capital, la inversión y cosificación de la relación de producción elevada a su máxima potencia. (Marx 1980c: 410)

Después de los estudios sobre el capital comercial, Marx se ocupó de lo que puede considerarse la tercera fase de los manuscritos económicos de 1861-1863. Esto comenzó en diciembre de 1862, con la sección ‘Capital y ganancia’ en el cuaderno XVI que Marx señaló como el «tercer capítulo» (Marx 1980d: 1598-1675). Aquí planteó un esquema de la distinción entre plusvalía y ganancia. En el cuaderno XVII, también compilado en diciembre, volvió a la pregunta por el capital comercial (siguiendo las reflexiones del cuaderno XV (Ibid.:1682-1773) y al flujo de dinero en la reproducción capitalista. A final de año, Marx le envió un reporte del progreso a Kugelmann, informándolo de que la «segunda parte», o la «continuación de la primera entrega», un manuscrito que equivalía a «alrededor de 30 páginas impresas», estaba «finalmente completo». Cuatro años después del primer esquema en la Contribución a la crítica de la economía política, Marx revisaba ahora la estructura de su trabajo proyectado. Le contó a Kugelmann que se había decidido por un nuevo título, usando El capital por primera vez, y que el nombre con el que había trabajado en 1859 iba a ser apenas el «subtítulo» (Marx a Kugelmann, 28 de diciembre de 1862, Marx and Engels 1985a: 435).

Más allá de esto, seguía trabajo de acuerdo con el plan original: lo que se proponía escribir era lo que sería «el tercer capítulo de la primera parte, o sea el capital en general» (8). El volumen, en las etapas finales de su preparación, incluiría «lo que los ingleses llaman ‘los principios de la economía política’». Junto a lo que ya había escrito en la entrega de 1859, habría de constituir la «quintaesencia» de su teoría económica. Sobre la base de los elementos que se preparaba para publicar, le contó a Kugelmann, otros podrían fácilmente desarrollar una continuación «(con la excepción, tal vez, de la relación entre las diferentes formas de Estado y las varias estructuras económicas de la sociedad)». Marx pensó que sería capaz de producir una «copia limpia» (Marx a Kugelmann, 28 de diciembre de 1862, Marx and Engels 1985a: 435) (9) del manuscrito en el año nuevo, tras lo cual planeaba llevarlo a Alemania en persona. Luego, tenía pensado «concluir la presentación del capital, competencia y crédito». En la misma carta a Kugelmann comparó los estilos de escritura del texto publicado en 1859 y del trabajo que estaba preparando entonces: «En el primer cuaderno, en todo caso, el método de presentación era muy poco popular. Esto tenía que ver en parte con la naturaleza abstracta del tema […] Esta parte es más fácil de entender porque se ocupa de relaciones más concretas». Para explicar la diferencia, casi como forma de justificación, añadió:

Los intentos científicos de revolucionar una ciencia nunca pueden ser realmente populares. Pero cuando se ha establecido una base científica, la popularización se vuelve más fácil. Si los tiempos se vuelven más turbulentos, uno sería tal vez capaz de elegir los colores y tintes que ofrecería una presentación popular de estos objetos de estudio. (Marx a Kugelmann, 28 de diciembre de 1862, Marx and Engels 1985a: 436)

Un par de días después, al inicio del nuevo año, Marx enumeró con mayor detalle las partes que habrían constituido su trabajo. En un esquema en el cuaderno XVIII indicó que la ‘primera sección [Abschnitt]’, ‘El proceso de producción del capital’, sería dividida de la siguiente manera:

1) Introducción. La mercancía. El dinero.
2) Conversión del dinero en capital
3) La plusvalía absoluta. […]
4) La plusvalía relativa […]
5) Combinación de plusvalía absoluta y relativa. […]
6) Retroconversión de la plusvalía en capital. […]
7) Resultado del proceso de producción. […]
8) Teorías sobre la plusvalía. […]
9) Teorías sobre el trabajo productivo e improductivo.
(Marx 1980a: 383)

Marx no se limitó a la ‘primera sección’, sino que esbozó un esquema de lo que habría de ser la ‘tercera sección’ de su trabajo: ‘Capital y ganancia’. Esta parte, que ya indicaba algunas cuestiones que habrían de estar en El capital, Libro III, se dividía de la siguiente manera:

1) Conversión de la plusvalía en ganancia. La tasa de ganancia, a diferencia de la tasa de plusvalía.
2) Conversión de la ganancia en ganancia media. […]
3) Teorías de A[dam] Smith y Ricardo sobre la ganancia y los precios de producción.
4) Renta. […]
5) Historia de la llamada ley ricardiana de la renta.
6) Ley del descenso de la tasa de ganancia. […]
7) Teorías sobre la ganancia. […]
8) Desdoblamiento de la ganancia en ganancia industrial e interés. […]
9) El ingreso y sus fuentes […]
10) Movimientos de reflujo del dinero en el proceso total de la producción capitalista.
11) La economía vulgar.
12) Conclusión. Capital y trabajo asalariado.
(Marx 1980a: 383-384) (10)

En el cuaderno XVIII, compuesto en enero de 1863, Marx continuó sus análisis del capital mercantil. Haciendo un sobrevuelo por el pensamiento de George Ramsey [1855-1935], Antoine-Elisée Cherbuliez [1797-1869] y Richard Jones [1790-1855], incluyó algunas adiciones al estudio de cómo habían explicado la plusvalía distintos economistas.

Las dificultades financieras de Marx persistieron durante este periodo y de hecho empeoraron a principios de 1863. Le escribió a Engels que sus «intentos de recaudar dinero en Francia y Alemania han fracasado», que nadie le proveería comida a crédito, y que «los niños no tenían ni ropa ni zapatos para salir» (Marx a Engels, 8 de enero de 1863, Marx and Engels 1985a: 442). Dos semanas después estaba al borde del abismo. En otra carta a Engels le confió que le había propuesto a su compañera de vida lo que ahora se veía como inevitable:

Mis dos hijas mayores van a recibir empleo como institutrices para la familia Cunningham. Lenchen entrará en servicio en otro lugar, y yo, junto a mi esposa y la pequeña Tussy, iremos a vivir en el mismo albergue en donde el rojo Wolff vivió con su familia. (Marx a Engels, 13 de enero de 1863, Marx and Engels 1985a: 445).

Al mismo tiempo habían aparecido nuevos problemas de salud. En las dos primeras semanas de febrero, a Marx se le «prohibió estrictamente leer, escribir y fumar». Sufría de «una especie de inflamación del ojo, combinada con afecciones muy molestas de los nervios de la cabeza». Pudo retornar a sus libros solo a mediados del mes, cuando le confesó a Engels que durante los largos días de inactividad había estado tan alarmado que «se dejó llevar por toda clase de fantasías psicológicas de lo que se sentiría estar ciego o loco» (Marx a Engels, 13 de febrero de 1863, Marx and Engels 1985a: 453). Tan sólo una semana después, habiéndose recuperado de los problemas visuales, desarrolló un nuevo desorden hepático que estaría destinado a molestarlo por mucho tiempo. Dado que el doctor Allen, su médico regular, le hubiera impuesto un «ciclo completo de tratamiento», Marx le pidió a Engels que le pidiera al doctor Eduard Gumpert (11) la recomendación de un «remedio casero» (Marx a Engels, 21 de febrero de 1863, Marx and Engels 1985a: 460) más simple.

En este periodo, aparte de momentos breves en los que estudió maquinarias, Marx tuvo que suspender sus exhaustivos estudios económicos. Sin embargo, en marzo se decidió a «recuperar el tiempo perdido trabajando duro’ (Marx a Engels, 24 de marzo de 1863, Marx and Engels 1985a: 461). Compiló dos cuadernos, XX y XXI, que se ocupaban de la acumulación, la subsunción real y normal del trabajo al capital, y la productividad del capital y el trabajo. Sus argumentos se correlacionaban con el tema fundamental de su investigación en ese tiempo: la plusvalía.

A finales de mayo le escribió a Engels que en las semanas previas había estado estudiando también la cuestión polaca (12) en el Museo Británico: «Lo que hice fue, por un parte, llenar mis vacíos (diplomáticos e históricos) sobre el asunto ruso-prusiano-polaco, y, por otra, leer y sacar extractos de toda clase de literatura en torno a la parte que he trabajado sobre la economía política» (Marx a Engels, 29 de mayo de 1863, Marx and Engels 1985a: 474). Estas notas de trabajo, escritas entre mayo y junio, fueron incluidas en ocho cuadernos adicionales, A a H, que contienen cientos de páginas más resumiendo los estudios económicos de los siglos XVIII y XIX (13). Marx informó también a Engels que, sintiéndose «relativamente capaz de trabajar», estaba determinado a «quitarse el peso de encima» y por tanto tenía la intención de «pasar a limpio la economía política para la imprenta (y darle una retocada final)». Sin embargo, todavía sufría de un «hígado muy inflamado» (Marx a Engels, 29 de mayo de 1863, Marx and Engels 1985a: 474), y a mediados de junio, a pesar de haber «tragado azufre», no estaba «del todo bien» (Marx a Engels, 12 de junio de 1863, Marx and Engels 1985a: 479).

En todo caso, volvió al Museo Británico, y a mediados de junio le reportó a Engels que estaba de nuevo pasando «diez horas al día trabajando en economía». Estos eran precisamente los días en los que, analizando la reconversión de la plusvalía en capital, Marx preparó en el cuaderno XXII una revaloración del Tableau économique de Quesnay (Marx a Engels, 6 de julio de 1863, Marx and Engels 1985a: 485). Luego, compiló el último cuaderno en la serie que había comenzado en 1861 (el número XXIII), que consistía principalmente en notas y anotaciones suplementarias.

Al final de estos dos años de trabajo duro, y siguiendo un reexamen crítico de los principales teóricos de la economía política, Marx estaba más determinado que nunca a completar el trabajo más importante de su vida. Aunque no había solucionado definitivamente muchos de los problemas conceptuales y expositivos, su compleción de la parte histórica lo conminaba ahora a retornar a las preguntas teóricas.

La escritura de los tres volúmenes de El capital
Marx apretó los dientes y se embarcó en una nueva fase de sus labores. A partir del verano de 1963 comenzó la composición real de lo que habría de convertirse en su magnum opus (14). Hasta diciembre de 1865, se dedicó a ampliar las varias partes en las cuales había subdividido su escrito. Durante este período les dio forma, en ese orden: al primer borrador del Libro I; al manuscrito principal del Libro III, en el cual se encuentra la única exposición completa hecha por Marx sobre el proceso de la producción capitalista (Marx 2015); y a la versión inicial del Libro II, la cual contiene la primera representación general del proceso de circulación del capital. En lo que concierne al plan de seis libros que había indicado en 1859 en el prólogo a la Contribución a la crítica de la economía política, incluyó un número de cuestiones relacionadas con la renta y los salarios que iban a ser tratados originariamente en los libros 2 y 3 de ese plan general inicial. A mediados de agosto de 1863, Marx actualizó a Engels acerca de los pasos a seguir:

Con respecto a mi trabajo (el manuscrito para la imprenta), en un sentido va bien. En la última reelaboración, las cosas adoptan una forma llevaderamente popular, me parece […]. Por otra parte, a pesar de que escribo el día entero, no avanza tan rápidamente como lo quisiera, mi propia impaciencia, que ha sido puesta a la prueba de la paciencia por tanto tiempo. En todo caso, se vuelve 100% más fácil de entender que el No. 1 (15). (Marx a Engels, 15 de agosto de 1863, Marx a Engels 1985a: 488).

Marx continuó el ritmo furioso a lo largo del otoño, concentrándose en la escritura del Libro I. Sin embargo, su salud se deterioró rápidamente como resultado, y noviembre vio la aparición de lo que su esposa llamó la «terrible enfermedad» contra la cual él pelearía por muchos años de su vida. Se trataba de un caso de carbuncos (16), una horrible infección que se manifestaba en abscesos y en serios y debilitantes forúnculos en varias partes del cuerpo. Debido a una profunda úlcera que le siguió a un gran carbunco, Marx tuvo que someterse a una operación, y «su vida estuvo en riesgo por un buen tiempo». De acuerdo con la narración posterior de su esposa, la condición crítica duró «cuatro semanas» y le causó a Marx dolores severos y constantes, junto a «preocupaciones atormentadoras y todo tipo de sufrimiento mental», pues la situación financiera de la familia la mantenía «al borde del abismo» (Enzensberger 1999: 227). A principios de diciembre, cuando estaba en camino a la recuperación, Marx le contó a Engels que «había tenido un pie en la tumba’ (Marx a Engels, 2 de diciembre de 1863, Marx and Engels 1985a: 495), y dos días después que su condición física le sonaba como una «buena trama para una novela». De frente, parecía un hombre que «regalaba a su hombre interior con Porto, Bourdeaux, Stout, y cantidades enormes de carne. […]. Pero por detrás en su espalda, el hombre exterior, un maldito carbunco» (Marx a Engels, 4 de diciembre de 1863, Marx and Engels 1985a: 497).

En este contexto, la muerte de la madre de Marx lo obligó a viajar a Alemania para organizar la herencia. Su condición se deterioró de nuevo durante el viaje, y cuando estaba de vuelta tuvo que parar por un par de meses en donde su tío Lion Philips, en Zaltbommel, Holanda. Durante este tiempo, un carbunco más grande que cualquiera antes apareció en su pierna derecha, así como forúnculos enormes en su garganta y espalda. El dolor por causa de estos era tan grande que lo mantenía despierto durante la noche. En la segunda mitad de enero de 1864, le escribió a Engels que se sentía como «un verdadero Lázaro (alias Lassalle), asolado desde todas las esquinas» (Marx a Engels, 20 de enero de 1864, Marx and Engels 1985a: 507). Después de su regreso a Londres, su pésima condición física, debida a múltiples abscesos cutáneos y a la recaída en infecciones, perduró durante el inicio de la primavera y sólo le permitió volver a trabajar a mediados de abril, tras más de cinco meses de interrupción. Durante esta fase, siguió dedicándose al manuscrito del Libro I y es plausible que, justo en ese período, haya redactado el llamado ‘Capítulo VI inédito’, la única parte de la versión inicial que se conserva. Hacia finales de mayo aparecieron en su cuerpo nuevas masas purulentas que le causaron tormentos indescriptibles. Decidido a terminar el libro a toda costa, ignoró de nuevo al Dr. Allen y sus llamados a un «tratamiento de curso regular» que habría perturbado el trabajo que simplemente «tenía que ser llevado a cabo». Marx sentía todo el tiempo que «había algo mal», confesándole sus recelos a su amigo en Manchester: «[…] la enorme resolución que debo adoptar para trabajar en temas complejos pertenece también a este sentimiento de inadecuación. Perdonarás el término spinozista» (Marx a Engels, 26 de mayo de 1864, Marx and Engels 1985a: 530).

La llegada del verano no cambió estas precarias circunstancias. En los primeros días de julio, Marx se contagió de influenza y no pudo escribir (Marx a Engels, 1 de julio de 1864, Marx and Engels 1985a: 545). Y dos semanas después tuvo que guardar cama debido a una grave lesión pustulosa en su pene. Tan sólo después de unas vacaciones familiares en Ramsgate, en la última semana de julio y los primeros diez días de agosto, le fue posible continuar con su trabajo. Comenzó el nuevo periodo de escritura con el Libro III parte dos, ‘La conversión de la ganancia en ganancia promedio’, y luego la parte uno, ‘La conversión de la plusvalía en ganancia’ (que fue completada, muy probablemente, entre finales de octubre e inicios de noviembre de 1864). Durante este periodo participó asiduamente en las reuniones de la Asociación Internacional de Trabajadores, para la que escribió la conferencia inaugural y los estatutos en octubre. También en ese mes le escribió a Carl Klings [1828- ¿?], un trabajador metalúrgico en Sollingen que había sido miembro de la Liga de los Comunistas, contándole de sus varios percances y la razón de su inevitable lentitud, de la siguiente manera:

Estuve enfermo todo el año pasado (afectado por carbuncos y forúnculos). Si no fuera por esto, mi trabajo sobre economía política, El capital, ya habría sido publicado. Espero poder completarlo finalmente en un par de meses, y darle a la burguesía un golpeo teórico del que nunca se recupere. [P]uede usted fiarse de que la clase trabajadora siempre encontrará en mí a un paladín. (Marx a Carl Klings, 4 de octubre de 1864, Marx and Engels 1987: 4).

Habiendo reanudado el trabajo tras una pausa para cumplir con los deberes con la Internacional, Marx escribió la parte tercera del Libro III, titulado ‘La ley de la tendencia decreciente de la tasa de ganancia’. Este trabajo fue acompañado por otro estallido de su enfermedad. «Otro carbunco apareció en noviembre bajo [su] pecho derecho» (Marx a Engels, 4 de noviembre de 1864, Marx and Engels 1987: 12) y lo confinó a la cama por una semana. Pero lo siguió aquejando cuando se «inclinaba hacia delante para escribir» (Marx a Engels, 14 de noviembre de 1864, Marx and Engels 1987: 22). Al mes siguiente, temiendo otro posible carbunco en su lado derecho, Marx decidió tratárselo él mismo. Le confesó a Engels que era reacio a consultar con el Dr. Allen, quien no sabía nada sobre su uso prolongado de un remedio basado en arsénico, y quien «se molestaría terriblemente por haber carbunculado tanto tiempo a sus espaldas» (Marx a Engels, 2 de diciembre de 1864, Marx and Engels 1987: 51).

De enero a mayo de 1865, Marx se dedicó de lleno al Libro II. Los manuscritos estaban divididos en tres capítulos, que se convirtieron eventualmente en las partes de la versión que Engels imprimió en 1885:1) Las metamorfosis del capital; 2) La rotación del capital; 3) Circulación y reproducción. En estas páginas, Marx desarrolló nuevos conceptos y conectó algunas de las teorías de los Libros I y III.

También en el nuevo año, sin embargo, los carbuncos continuaron persiguiendo a Marx, y alrededor de mediados de febrero ocurrió una nueva recaída en la enfermedad. Le contó a Engels que, a diferencia del año anterior, «su cabeza no había sido afectada» y que era «perfectamente capaz de trabajar» (Marx a Engels, 25 de febrero de 1865, Marx and Engels 1987: 107). Estos pronósticos probaron ser demasiado optimistas: ya a principios de marzo el «viejo mal [lo] estaba plagando en distintos lugares sensibles y molestos», haciendo[le] difícil sentarse (Marx a Engels, 4 de marzo de 1865, Marx and Engels 1987: 115). Además de los «forúnculos», que se mantuvieron hasta mediados del mes, la Internacional requirió una «cantidad de tiempo enorme». Sin embargo, Marx no dejó de trabajar en el libro, incluso si esto significaba que a veces «no [se iba] a la cama hasta las cuatro de la mañana» (Marx a Engels, 13 de marzo de 1865, Marx and Engels 1987: 129-130).

Un último incentivo para completar pronto las partes faltantes del libro fue el contrato con la editorial. Gracias a la intervención de Wilhelm Strohn, un viejo camarada de los días de la Liga Comunista, Otto Meißner [1819-1902], en Hamburgo, le había mandado una carta el 21 de marzo que incluía un acuerdo para publicar «el trabajo El capital: una contribución a la crítica de la economía política». El libro habría de tener «aproximadamente 50 signatures (17) de extensión [y] aparecer en dos volúmenes» (Marx and Engels 1985b: 361). El tiempo era corto, y ya a finales de abril Marx le escribió a Engels que se sentía «tan débil como un perro, en parte por trabajar hasta tarde en la noche […] y en parte por la basura del demonio que [había estado] tomando» (Marx a Engels, 22 de abril de 1865, Marx and Engels 1987: 148). A mediados de mayo apareció en su cadera izquierda un «carbunco repugnante, cerca de la parte inexpresable del cuerpo» (Marx a Engels, 13 de mayo de 1865, Marx and Engels 1987: 158). Una semana después los forúnculos estaban «todavía allí», aunque, afortunadamente, sólo «me molestan localmente, y no en la caja del cerebro». Hacía un buen uso del tiempo cuando era «capaz de trabajar», y le contó a Engels que estaba «trabajando como un caballo» (Marx a Engels, 20 de mayo de 1865, Marx and Engels 1987: 159).

Entre la última semana de mayo y el final de junio, Marx compuso un texto corto, Salarios, precio y ganancia (18). En este texto cuestionaba la tesis de John Weston [¿?] de que los incrementos de salario no eran favorables para la clase trabajadora, y que las demandas de los sindicatos por un pago mayor eran en realidad nocivos. Marx mostró que, por el contrario, «un aumento general de los salarios generaría una caída en la tasa general de ganancia, pero no afectaría los precios promedio de las mercancías, o su valor» (Marx and Engels 1985c: 144).

En el mismo periodo, Marx también escribió la parte cuatro del Libro III, llamándola ‘La conversión del capital-mercancía y del capital-dinero en capital comercial y capital monetario (mercantil)’. Al final de julio de 1865 le envió a Engels otro reporte del progreso:

Faltan todavía tres capítulos por escribir para completar la parte teórica (los tres primeros libros). Luego, falta todavía por escribir el Libro IV, el histórico-literario, que en comparación es para mí la parte relativamente más fácil, pues todas las cuestiones han sido resueltas en los tres primeros libros; el último es más bien una repetición en forma histórica. Sin embargo, no puedo decidirme a enviar a imprenta algo antes de tener la totalidad frente a mí. No importa las fallas que tenga, la ventaja de mis escritos es que son una totalidad artística, y esto sólo puede ser alcanzado con mi manera de nunca dejar que se impriman, antes de tenerlos completos frente a mí. (Marx a Engels, 31 de julio de 1865, Marx a Engels 1987: 173).

Un tiempo después, su fascinación por el arte se asomó en El capital. De hecho, Marx le aconsejó a Engels leer La obra maestra desconocida (1831) de Honoré de Balzac, definida por el mismo como «una pequeña obra maestra, llena de deliciosa ironía» (Marx a Engels, 25 de febrero de 1867, Marx and Engels 1987: 348). El protagonista de la obra era el genial pintor Frenhofer el cual, obsesionado por el deseo de pintar un cuadro del modo más preciso posible, sigue retocándolo en busca de la perfección, demorando así su terminación. A quienes le preguntaban qué le hacía falta para completar la obra, les respondía: «nada, pero esa nada es todo» (Balzac 2006: 217-218). A quienes le pedían que mostrara su lienzo, se negaba convencido: «no, no, debo mejorarla todavía. Anoche pensé haberla terminado […] Sin embargo, todavía no estoy satisfecho. Tengo dudas» (Ibid. 222-3). El personaje magistralmente creado por Balzac llega incluso a exclamar: «Ya son diez años de trabajo, pero ¿qué son diez años cuando se trata de luchar contra la naturaleza?» (Ibid. 224). Después añade: «Por un momento pensé que mi obra estaba terminada, pero está claro que me equivoqué en algunos detalles y no me quedaré tranquilo hasta despejar mis dudas» (Ibid. 230).

Con su habitual y sutil ingenio, es probable que Marx se haya identificado con el protagonista de este cuento. En una reconstrucción de este período, su yerno Paul Lafargue (1842-1911) relata que la lectura del cuento de Balzac le había causado «una profunda impresión [a Marx], porque describía en parte sus propios sentimientos» (Enzensberger 1999: 240). También Marx, según Lafargue, «trabajaba siempre con extrema escrupulosidad» (Ibid.) y no «estaba nunca satisfecho con su trabajo. Lo modificaba en forma continua y encontraba que la representación no se encontraba a la par con la imaginación» (Ibid.).

Cuando ciertos retrasos inevitables, así como una serie de eventos negativos, lo forzaron a reconsiderar su método de trabajo, Marx se preguntó si sería más útil producir primero una copia final del Libro I, de tal manera que la pudiera publicar inmediatamente, o si sería mejor terminar de escribir todos los libros que habría de contener el trabajo. En otra carta a Engels le dijo que «el único punto en cuestión» era si debía «dejar en limpio una copia del manuscrito y enviársela al librero, o terminar de escribir primero todo». Se decidió por la última solución, pero le aseguró a su amigo que su trabajo en los otros libros no sería una pérdida de tiempo:

[Dadas las circunstancias,] la cosa ha ido progresado tan rápidamente como hubiera sido posible para cualquiera, incluso sin consideraciones artísticas en lo absoluto. Dado que, además, tengo un límite máximo de 60 Druckbogen (19), es absolutamente necesario tener frente a mí la totalidad para saber cuándo ha de ser condensado y tachado, para que las partes individuales se encuentren de manera similar y proporcional dentro de los límites establecidos. (Marx a Engels, 5 de agosto de 1865, Marx and Engels 1987: 175).

Marx confirmó que no «ahorraría esfuerzo para terminar lo más pronto posible, pues la cosa pesaba como una pesadilla». Le impedía «hacer nada más», y estaba inclinado a sacarla de camino antes de un nuevo desorden político: «Sé que el tiempo no se mantendrá tan tranquilo como ahora para siempre» (Ibid.).

Aunque había decidido anteponer la compleción del Libro I, Marx no quería dejar lo que había hecho del Libro III en el aire. Entre julio y diciembre de 1865 redactó, aunque de manera fragmentaria, la quinta parte (‘Escisión de la ganancia en interés y ganancia empresarial. El capital que devenga interés’, la sexta parte (‘Transformación de la plus ganancia en renta de la tierra’) y parte siete (‘Los réditos y sus fuentes’) (20). La estructura que Marx le dio al Libro III entre el verano de 1864 y el final de 1865 era, por lo tanto, muy similar al esquema de 12 puntos de enero de 1863 incluido en el cuaderno XVIII de los manuscritos sobre las teorías de la plusvalía.

La ausencia de dificultades financieras que le había permitido a Marx continuar con su trabajo no habría de perdurar por mucho tiempo. Estas reaparecieron después de más o menos un año, y su salud empeoró también a lo largo del verano. Además de esto, sus responsabilidades con la Internacional fueron particularmente intensas en septiembre, en conexión con la primera conferencia convocada por la organización en Londres. En octubre, Marx visitó a Engels en Manchester, y al regresar a Londres tuvo que enfrentar más eventos terribles: su hija Laura había caído enferma, y el propietario de la casa estaba amenazando de nuevo con desalojar a su familia, enviando a los agentes judiciales, mientras que comenzaron a llegar «cartas amenazantes» de «toda esa otra chusma». Su esposa, Jenny, estaba «tan desolada» que, tal y como se lo puso a Engels, «no [tuvo] el valor de explicarle el verdadero estado de cosas» y «no [sabía] qué hacer». La única «buena noticia» fue la muerte de una tía de 73 años de Fráncfort, de la cual Marx esperaba recibir una parte -aunque pequeña, de la herencia (Marx a Engels, 8 de noviembre de 1865, Marx and Engels 1987: 193-194).

La compleción del volumen I
A principios de 1866, Marx se zambulló en la escritura de un nuevo borrador de El capital, volumen I. A mediados de enero puso al corriente de la situación a Wilhelm Liebknecht [1826-1900]:

«Indisposición, […] todo tipo de mala suerte, estar preso de las demandas de la ‘Asociación Internacional’, etc., han confiscado todos los momentos libres que tengo para escribir en limpio mi manuscrito». Sin embargo, pensaba que estaba cerca del final, y que sería «capaz de entregar el volumen I al librero para imprenta en marzo». Añadió que los «dos volúmenes [aparecerían] simultáneamente» (Marx a Wilhelm Liebknecht, 15 de enero de 1866, Marx and Engels 1987: 219).

En otra carta, enviada el mismo día a Kugelmann, habló de estar «ocupado con la escritura en limpio del texto doce horas al día» (Marx a Ludwig Kugelmann, 15 de enero de 1866, Marx and Engels 1987: 221), pero que esperaba enviarlo a la editorial en Hamburgo dentro de los próximos dos meses.

En contra de sus predicciones, sin embargo, todo el año se pasaría en una lucha contra los carbuncos, mientras su estado de salud empeoraba. A finales de enero, su esposa, Jenny, le informó al viejo camarada en armas Johann Philipp Becker [1809-1886] que su esposo «se [encontraba] afectado de nuevo por su antiguo, peligroso y excesivamente doloroso mal». Esta vez era, sin embargo, más «molesto» aún para él, porque interrumpió la «transcripción de su libro que apenas había comenzado». Desde su punto de vista, «este nuevo desencadenamiento [provenía] única y exclusivamente del excesivo trabajo y de las constantes desveladas» (Jenny Marx a Johann Philipp Becker, 29 de enero de 1866, Marx and Engels 1987: 570-571). Apenas unos días después, Marx fue golpeado por el ataque más virulento hasta ese entonces, y estuvo en peligro de perder la vida. Cuando se recuperó lo suficiente como para comenzar a escribir de nuevo, le escribió a Engels, confesándole:

Esta vez me salvé por un pelo. Mi familia no sabe cuán serio fue el caso. Si la cosa se repite tres o cuatro veces más en la misma forma, soy hombre muerto. Estoy asombrosamente molido y todavía me siento condenadamente débil, no en la mente, sino en el costado y la pierna. Los doctores tienen toda la razón en que el trabajo excesivo durante las noches es la causa principal de esta recaída. Pero no les puedo comunicar a estos señores las causas que me obligan a esta extravagancia, lo que por demás no tendría ningún sentido. En este momento tengo todavía todo tipo de pequeños nacidos en el cuerpo, que son dolorosos, pero de ninguna manera ya peligrosos. (Marx a Engels, 10 de febrero de 1866, Marx and Engels 1987: 223)

A pesar de una condición similar, seria y dolorosa, los pensamientos de Marx estaban mayormente dirigidos al trabajo enfrente suyo:

Lo que me causó más repugnancia fue la interrupción de mi trabajo, que había andado espléndidamente desde el primero de enero, cuando mis padecimientos del hígado se habían esfumado. Por supuesto, no había ni riesgo de ‘sentarse’. […] Pero sí me podía acostar, aunque fuera tan sólo por cortos intervalos durante el día. No pude avanzar con la parte realmente teórica; el cerebro estaba muy débil para eso. Por ello, amplié históricamente la sección sobre la ‘Jornada laboral’, lo que estaba por fuera de mi plan original. (Ibid.: 223-224)

Marx concluyó la carta con una frase que resumía muy bien este periodo de su vida: «Mi libro requiere todo mi tiempo de escritura» (Ibid.: 224). Cuán cierto fue esto en 1866. La situación, llegada ya al extremo, estaba ahora alarmando seriamente a Engels. Temiendo lo peor, intervino firmemente para persuadir a Marx de que no podía seguir de la misma manera:

Tienes que hacer por fin algo realmente razonable para librarte de esta historia de los carbuncos, incluso si el libro ha de aplazarse otros tres meses. La cosa se está poniendo verdaderamente muy seria, y si tu cerebro, como tú mismo lo dices, no está a la altura de los asuntos teóricos, dale entonces un poco de descanso de la teoría elevada. Deja por un tiempo los trabajos nocturnos y lleva una vida un poco más regular. (Engels a Marx, 10 febrero 1866, Marx and Engels 1987: 225-226)

Engels consultó inmediatamente al Dr. Gumpert (quien recomendó otra ronda de arsénico), pero hizo también sugerencias acerca de la compleción del libro. Quería asegurarse de que Marx hubiera abandonado la idea, nada realista, de escribir todo El capital antes de que alguna parte de éste fuera publicada. «¿No puedes arreglar las cosas», le preguntó, «para que al menos el primer volumen sea enviado primero a impresión y el segundo un par de meses después?» (Ibid.: 226) Tomando todo en cuenta, terminó su carta con una sabia observación: «¿De qué serviría que tal vez lleguen a estar listos un par de capítulos al final de tu libro y que ni siquiera el primer volumen llegue a ser impreso, si los eventos nos toman por sorpresa?».

Marx contestó a cada uno de los puntos de Engels, alternando entre tonos serios y jocosos. Con respecto al arsénico, escribió: «Dile o escríbele a Gumpert que me mande la receta con instrucciones de uso. Dado que tengo confianza en él, le debe a la mejor de las ‘economías políticas’ obviar la etiqueta profesional y tratarme desde Manchester» (Marx a Engels, 13 de febrero de 1866, Marx and Engels 1987: 227). En relación con sus planes de trabajo, escribió:

En lo que respecta a este ‘maldito’ libro, está así: va a estar listo a finales de diciembre. Tan sólo el tratado sobre la renta básica (el penúltimo capítulo), en su forma actual, ajusta casi un libro en sí mismo (21). Durante el día voy al museo, y escribo de noche. Tuve que arar a través de la nueva química agraria en Alemania, en particular en Liebig y Schönbein, que resulta más importante para este asunto que todos los economistas puestos juntos, así como el enorme material que los franceses han producido desde que me ocupé por última vez de este punto. Concluí mi investigación de la renta básica hace dos años, y se ha logrado mucho entre tanto; dicho sea de paso, confirmando mi teoría. La apertura de Japón (en general, de otra manera no leería libros de viajes si no estoy obligado profesionalmente a hacerlo) fue importante aquí. Así que apliqué el ‘shifting system’ contra mí mismo, tal y como los perros de las fábricas inglesas los utilizaron contra las personas mismas entre 1848 y 1850. (Ibid: 227)

Trabajo diurno en la biblioteca, para estar al tanto de los últimos descubrimientos, y trabajo nocturno en su manuscrito: esta fue la rutina de castigo a la que Marx se sometió en un esfuerzo para usar todas sus energías en completar el libro. Acerca del trabajo principal, le escribió a Engels: «Aunque está listo, el manuscrito (enorme en su forma actual) no es editable por nadie diferente a mí, incluso no por ti». Y procedió a darle una idea de las semanas precedentes:

Comencé el proceso de pasarlo a limpio y darle estilo exactamente el primero de enero, y la cosa iba bastante bien, dado que evidentemente me divierte lamer al infante hasta que esté limpio después de los largos dolores de parto. Sin embargo, el carbunco se interpuso de nuevo, de tal manera que no he podido seguir adelante con ello, sino únicamente llenar de datos aquello que estaba ya listo según el plan. (Ibid: 227)

Finalmente, Marx aceptó el consejo de Engels de alargar la agenda de publicación: «por cierto, estoy de acuerdo con tu punto de vista; le voy a llevar a Meißner el primer volumen en cuanto esté listo. Pero», añadió, «para poder terminarlo tengo que ser capaz, al menos, de sentarme» (Ibid).

De hecho, su salud seguía deteriorándose. A finales de febrero, dos nuevos carbuncos aparecieron en su cuerpo, y Marx intentó tratárselos él mismo. Le contó a Engels que usó «una navaja afilada» para deshacerse del que estaba más arriba, cercenando «el perro» por sí mismo. «La sangre infectada […] brotó, más bien saltó por los aires», y de ahí en adelante considero al carbunco como enterrado, aunque con necesidad de «algún cuidado». En lo que respecta al «de más abajo», escribió: «se está tornando tan maligno que está fuera de mi control […] Si esta porquería continúa así, tendré por supuesto que mandar por Allen, pues, dado el locus de este perro, soy incapaz de seguirlo y tratarlo yo mismo» (Marx a Engels, 20 de febrero de 1866, Marx and Engels 1987: 231).

Siguiendo este pavoroso recuento, Engels reprendió a su amigo más severamente que nunca: «Ningún ser humano puede soportar a largo plazo esta historia crónica con los carbuncos, sin mencionar que eventualmente pueda aparecer uno que adquiera tal forma que te mande al demonio. ¿Y qué pasaría entonces con tu libro y tu familia?» (Engels a Marx, 22 de febrero 1866, Marx and Engels 1987: 233)
Para darle a Marx algo de respiro, le dijo que estaba preparado para hacer cualquier sacrificio financiero necesario. Le sugirió un periodo de descanso total, rogándole que fuera «razonable»:

[…] Hazme a mí y a tu familia el único favor de dejarte curar. ¿Qué será de todo el movimiento si algo te pasara? Tal y como te estás comportando, a eso vamos a llegar. Para ser honesto, no voy a tener paz ni de día ni de noche hasta que te haya sacado de esta situación, y cada día que no oiga nada de ti voy a estar inquieto y voy a pensar que te estás poniendo peor. Nota bene: No deberías nunca más dejar que las cosas lleguen hasta el extremo de que un carbunco que ha ser rebanado no sea rebanado. Esto es altamente peligroso. (Ibid.: 233-234)

Finalmente, Marx se dejó persuadir de tomar un receso del trabajo. El 15 de marzo viajó a Margate, un lugar de descanso a orillas del mar en Kent, y a los diez días mandó un reporte acerca de sí mismo. «No leo nada, no escribo nada. El simple hecho de tener que tomar el arsénico tres veces al día lo obliga a uno a organizar su tiempo en función de las comidas y los paseos […]. Con respecto a la compañía aquí, simplemente no existe. Puedo cantar con el molinero del [rio] Dee (22): ‘No cuido de nadie y nadie cuida de mí’» (Marx a Engels, 24 de marzo de 1866, Marx and Engels 1987: 249)

A principios de abril, Marx le dijo a su amigo Kugelmann que estaba «muy recuperado». Pero se quejó de que, por causa de la interrupción, se habían perdido «otros dos meses, y más», y que la compleción de su libro «tendría que posponerse una vez más» (Karl Marx a Ludwig Kugelmann, 6 de abril de1866, Marx and Engels 1987: 262). Después de su regreso a Londres, el trabajo de Marx continuó detenido por otras semanas gracias a un ataque de reumatismo y otros problemas; su cuerpo estaba todavía exhausto y vulnerable. A pesar de que le reportó a Engels, a principios de junio, que «nada carbuncoso [había] aparecido de nuevo», (Marx a Engels, 7 de junio de 1866, Marx and Engels 1987: 281) no estaba contento de que su trabajo hubiera «progresado tan pobremente puramente debido a mi situación corporal». (Marx a Engels, 9 de junio de 1866, Marx and Engels 1987: 282). En julio, Marx tuvo que confrontar lo que se había convertido en tres enemigos habituales: el periculum in mora [peligro por la mora] de Livy, en la forma de deudas por la renta; los carbuncos, con uno que estaba a punto de aparecer; y un hígado enfermo.

En agosto le aseguró a Engels que, aunque su salud «fluctuaba de un día al otro», se sentía en general mejor: después de todo, «la sensación de estar de nuevo en forma para el trabajo hace mucho por un hombre» (Marx a Engels, 7 de agosto de 1866, Marx and Engels 1987: 303). Se veía «amenazado con carbuncos aquí y allá», y aunque «siguen desapareciendo» sin la necesidad de intervenciones urgentes, lo habían obligado a mantener sus «horas de trabajo dentro de los límites» (Karl Marx a Friedrich Engels, 23 de agosto de 1866, Marx and Engels 1987: 311). El mismo día le escribió a Kugelmann: «[…] no creo ser capaz de enviar a Hamburgo el manuscrito del primer volumen (se trata ahora de tres volúmenes) antes de octubre. Apenas puedo trabajar productivamente unas horas por día sin sentir inmediatamente los efectos en mi cuerpo […]» (Marx a Ludwig Kugelmann, 23 de agosto de 1866, Marx and Engels 1987: 312).

También esta vez estaba siendo Marx demasiado optimista. El constate flujo de fenómenos negativos a los que estaba expuesto diariamente en su lucha por sobrevivir lograron ser de nuevo un obstáculo para completar su texto. Más aún, tenía que invertir tiempo preciado en la búsqueda de maneras de extraer pequeñas sumas de dinero de la casa de empeño y en escapar al tortuoso círculo de pagarés en el que se había metido.

En una carta a mediados de octubre, Marx le expresó a Kugelmann el miedo de que, como resultado de su larga enfermedad, y de todos los gastos que esta había generado, no fuera capaz de «mantener a los acreedores a raya», y que la casa estuviera a «punto de caerse sobre su cabeza» (Marx a Ludwig Kugelmann, 13 de octubre de 1866, Marx and Engels 1987: 328). Por lo tanto, ni siquiera en octubre fue posible para él poner los últimos toques al manuscrito. Al describir el estado de cosas a su amigo en Hannover, y explicando las razones de la demora, Marx expuso el plan que tenía en ese entonces en mente:

Mis circunstancias (interrupciones corporales y sociales sin descanso) me exigen publicar primero el volumen I, y no ambos volúmenes, como era mi intención originalmente. Y probablemente se trate ahora de tres volúmenes. La obra entera se divide entonces en las siguientes partes:

Libro I: El proceso de producción del capital
Libro II: El proceso de circulación del capital
Libro III: El proceso global de la producción capitalista
Libro IV: Hacia una historia de la teoría

El volumen I incluye los dos primeros Libros. El Libro III, creo, llenará el volumen II, y el Libro IV, el volumen III. (Ibid.: 328)

Revisando el trabajo que había hecho desde la Contribución a la crítica de la economía política, publicado en 1859, Marx continuó:

Me pareció necesario comenzar de nuevo desde el principio del primer libro, es decir, resumir mi escrito, publicado por Duncker, en un capítulo acerca de la mercancía y el dinero. Me pareció necesario, no sólo en aras de la completitud, sino porque incluso la gente inteligente no captó la cosa del todo correctamente; es decir, algo debía fallar en la primera exposición, en especial con respecto al análisis de la mercancía (Ibid.: 328-329).

También el mes de noviembre estuvo marcado por una pobreza extrema. Refiriéndose a la terrible vida cotidiana, que no le daba un respiro, Marx le escribió a Engels: «Todo esto no sólo ha interrumpido ampliamente mi trabajo, sino que, por cuenta de tratar de recuperar en la noche el tiempo perdido durante el día, me ha salido un lindo carbunco cerca del pene». (Marx a Engels, 8 de noviembre de 1866, Marx and Engels 1987: 331). Pero no tardó en apuntar que «este verano y otoño no fue la teoría, sino motivos de salud y burgueses, lo que causó la demora». Si hubiera gozado de buena salud, hubiera sido capaz de completar el trabajo. Le recordó a Engels que ya habían pasado tres años desde que «el primer carbunco [había sido] rebanado», años en los que solo había tenido «cortos periodos» de respiro de la enfermedad (Marx a Engels, 10 de noviembre de 1866, Marx and Engels 1987: 332). Más aún, habiendo sido obligado a invertir tanto tiempo y energía en la lucha diaria contra la pobreza, en diciembre comentó: «Tan sólo lamento que las personas privadas no puedan enviar sus cuentas a la Corte de Bancarrota con la misma facilidad como los comerciantes» (Ibid.).

La situación no cambió durante todo el verano, y a finales de febrero de 1867 Marx le escribió a su amigo en Manchester (quien nunca había fallado en enviarle todo lo que podía): ‘Un tendero me va a enviar a las autoridades el sábado (pasado mañana), si no le pago al menos 5£ […]. El trabajo estará listo pronto, y lo estaría hoy mismo, si no se me hubiera acosado tanto en estos días» (Marx a Engels, 21 de febrero de 1867, Marx and Engels 1987: 347).

A finales de marzo, Marx fue finalmente capaz de darle a Engels la muy esperada noticia de que «había acabado el libro» (Marx a Engels, 27 de marzo 1867, Marx and Engels 1987: 350) (23). Ahora tendría que enviarlo a Alemania, y una vez más se veía forzado a acudir a su amigo para que reclamara «su ropa y reloj, que se [encontraban] en una casa de empeño»; de lo contrario no sería capaz de irse (Marx a Engels, 2 de abril de 1867, Marx and Engels 1987: 351).

Habiendo llegado a Hamburgo, Marx discutió con Engels el nuevo plan propuesto por Meißner:

Ahora quiere que el libro se publique en tres volúmenes. Es decir, está en contra de que concentre el último Libro (la parte histórico-literaria), como lo había planeado. Dijo que, desde el punto de vista de la publicación […] ésta es la parte que más se vendería. Yo le dije que, en este respecto, estaba a su total disposición. (Marx a Engels, 13 de abril de 1867, Marx and Engels 1987: 357).

Un par de días después le dio un reporte similar a Becker:

El trabajo completo aparecerá en tres volúmenes. El título es El capital. Crítica de la economía política. El volumen I incluye el Libro I: ‘El proceso de producción del capital’. Se trata, sin lugar a duda, del más terrible misil que se ha disparado jamás contra las cabezas de la burguesía (terratenientes incluidos). (Marx a Johann Philip Becker, 17 de abril de 1867, Marx and Engels 1987: 358)

Tras unos días en Hamburgo, Marx viajó a Hannover. Se quedó allí como huésped de Kugelmann, quien lo conoció finalmente después de años de relaciones puramente epistolares. Marx se hizo disponible allí en caso de que Meißner lo requiriera para ayudar con la corrección de pruebas. Le escribió a Engels que su salud se había «mejorado extraordinariamente». No había «rastro de la vieja dolencia» ni de su «problema de hígado», y «lo que, es más, [estaba] de buen humor» (Marx a Engels, 24 de abril de1867, Marx and Engels 1987: 361).

Su amigo le contestó desde Manchester:

Siempre se me hizo que este maldito libro, al que has estado cargando durante tanto tiempo, era el núcleo fundamental de toda tu mala suerte, y que nunca serías capaz de salir de ella hasta que te lo sacudieras de encima. Esta cosa eternamente inacabada te oprimía corporal, espiritual y financieramente hasta el suelo, y me puedo dar cuenta muy bien de que después de haberte sacudido esta pesadilla te sientes como un tipo completamente distinto. (Engels a Marx, 27 de abril de1867, Marx and Engels 1987: 362).

Marx quería informarles a otros acerca de la inminente publicación de su trabajo. Le escribió a Sigfrid Meyer [1840-1872], un socialista alemán, miembro de la Internacional, activo en la organización del movimiento de los trabajadores en Nueva York: «El volumen I está compuesto por el ‘Proceso de producción del capital’. […] El volumen II contiene la continuación y conclusión de la teoría, mientras que el volumen III, la historia de la economía política desde mediados del siglo XVII» (Marx a Sigfrid Meyer, 30 de abril de 1867, Marx and Engels 1987: 367). Su plan se mantuvo inalterado y, por tanto, los Libros II y III deberían haber salido juntos, como parte del volumen II.

Engels se involucró en la corrección del texto para publicación a mediados de junio. Le pareció que, comparado con la Contribución a la crítica de la economía política, «la dialéctica del argumento se había precisado fuertemente» (Engels a Marx, 16 de junio de1867, Marx and Engels 1987: 381). Marx se conmovió por esta aprobación: «Que estés satisfecho hasta este momento es más importante para mí que cualquier cosa que alguien más pueda decir de éste» (Marx a Engels, 22 de junio de 1867, Marx and Engels 1987: 383)

Sin embargo, Engels anotó que su exposición de la forma del valor era excesivamente abstracta y no suficientemente clara para una persona lectora promedio; también lamentó que fuera precisamente esta sección la que tenía «las marcas de los carbuncos algo estampadas» (Engels a Marx, 16 de junio de 1867, Marx and Engels 1987: 380). En respuesta, Marx se fue lanza en ristre contra la causa de sus tormentos físicos («Espero que la burguesía recuerde mis carbuncos hasta el último día de su vida») (Marx a Engels, 22 de junio de 1867, Marx and Engels 1987: 383) y se convenció de la necesidad de un apéndice presentando su concepción de la forma del valor de una manera más popular. Esa adición de veintidós páginas fue terminada a finales de junio.

Marx completó la corrección de pruebas a las 2:00 a.m. del primero de agosto de 1867. Unos minutos después le escribió a su amigo en Manchester: «Querido Fred: acabo de terminar de corregir la última página […]. Así que este volumen está listo. ¡Te debo sólo a ti que esto haya sido posible! […] ¡Te abrazo, lleno de agradecimiento!» (Marx a Engels, 24 de agosto de 1867, Marx and Engels 1987: 405)

Un par de días después, en otra carta a Engels, resumiría lo que consideraba como los dos pilares fundamentales del libro: «1. (en esto se basa toda comprensión de los hechos) el carácter doble, desde el principio del primer capítulo, del trabajo que se manifiesta ya sea en el valor de uso o el valor de cambio; 2. El tratamiento de la plusvalía, independientemente de sus formas particulares como ganancia, interés, renta básica, etc.» (Marx a Engels, 24 de agosto de 1867, Marx and Engels 1987: 407).

El capital fue puesto a la venta el 11 de septiembre de 1967 (ver: Marx [1867] 1983: 674). Siguiendo las modificaciones finales, el índice quedó como sigue:
Prefacio

  1. Mercancía y dinero
  2. Transformación del dinero en capital
  3. Producción de la plusvalía absoluta
  4. La producción de la plusvalía relativa
  5. Desarrollo complementario de la producción de la plusvalía absoluta y relativa
  6. El proceso de acumulación del capital

Apéndice a la Parte 1, 1: La forma del valor
(Marx [1867] 1983: 9-10).

A pesar del largo proceso de corrección y de la adición final, la estructura del trabajo sería expandida considerablemente en el transcurso de los años siguientes, y se le harían más modificaciones al texto. El volumen I, por lo tanto, continuaría absorbiendo una significativa energía por parte de Marx, incluso después de su publicación.

En búsqueda de la versión definitiva
Marx retornó al volumen II en octubre de 1867. Esto, sin embargo, trajo de nuevo dolores de hígado, insomnio, y la erupción de «dos pequeños carbuncos cerca del membrum». Tampoco desaparecieron las «incursiones desde afuera» ni las «complicaciones de la vida doméstica»; había una cierta amargura en su afirmación a Engels de que «mi enfermedad siempre se origina en la mente» (Marx a Engels, 19 de octubre de 1867, Marx and Engels 1987: 453). Como siempre, su amigo le ayudó, enviándole todo el dinero que podía junto con el deseo de que «ahuyentara los carbuncos» (Engels a Marx, 22 de octubre 1867, Marx and Engels 1987: 457). No fue lo que ocurrió, sin embargo, y a finales de noviembre Marx escribió para informar: «Mi estado de salud ha empeorado mucho, así que ni hablar de trabajar» (Marx a Engels, 27 de noviembre de 1867, Marx and Engels 1987: 477).

El nuevo año, 1868, comenzó más o menos como terminó el anterior. Durante las primeras semanas de enero Marx fue incapaz incluso de encargarse de su correspondencia. Su esposa, Jenny, le contó a Becker que su «pobre esposo está de nuevo en cama, encadenado de manos y pies por su grave y dolorosa dolencia, que se [estaba] volviendo peligrosa por su constante recurrencia» (Jenny Marx a Johann Philip Becker, después del 10 de enero de 1868, Marx and Engels 1987: 580). Algunos días después, su hija Jenny le reportó a Engels: «El Moro es de nuevo víctima de sus viejos enemigos, los carbuncos, y, gracias a la aparición del último, se siente muy enfermo, incluso cuando está sentado» (Laura Marx a Friedrich Engels, 13 de enero de 1868, Marx and Engels 1987: 583).

Marx comenzó a escribir de nuevo tan sólo hacia finales del mes, cuando le contó a Engels que «por dos o tres semanas» fue incapaz «de hacer ningún trabajo»; «sería desastroso», añadió, «si un tercer monstruo hubiera de aparecer» (Marx a Engels, 25 de enero de 1868, Marx and Engels 1987: 528).

Sin embargo, como era habitual, apenas podía volvía a sus investigaciones. En este período estaba mucho más interesado en profundizar sobre la historia y la agricultura y, para esto, compiló cuadernos con extractos de las obras de muchos autores. Entre estos, dedicó una enorme atención a la Introducción a la historia del ordenamiento de la marca, del poder, de la villa y la ciudad y del poder público (1854), del estadista e historiador del derecho Georg Ludwig von Maurer (1790-1872). Marx le comentó a Engels que había encontrado sus obras «extraordinariamente importantes» desde el momento que en ellas había sido «configurado en una forma completamente nueva […] no sólo la temprana edad media, sino todo el desarrollo posterior de las ciudades imperiales libres, de los propietarios que gozaban de inmunidad, del poder público, de la lucha entre los campesinos libres y los siervos de la gleba» (Marx a Engels, 25 de marzo de 1868, Marx and Engels 1987: 557).

Marx manifestó su aprobación por Maurer, ya que le había «demostrado, ampliamente, que la propiedad privada de la tierra habría surgido sólo posteriormente» (Marx a Engels, 14 de marzo de 1868, Marx and Engels 1987: 547). Por otra parte, dirigió comentarios irónicos a quienes se «sorprendían de encontrar las cosas más recientes entre las más antiguas- incluso igualitarias a un nivel que horrorizaría a Proudhon» (Marx a Engels, 25 de marzo de 1868, Marx and Engels 1987: 558).

En este mismo período, Marx profundizó también el estudio de las obras Historia de la agricultura, a saber: panorama histórico de los progresos en los conocimientos agícolas de los últimos cien años (1852), La naturaleza de la agricultura. Contribución a una teoría de la misma (1857) y Clima y reino vegetal en el tiempo: una contribución a la historia de ambos (1847), de Karl Fraas (1810-1875). De este último libro, considerado por Marx «muy interesante», apreció, de modo particular, la parte en la cual aparecía una «demostración de que, en una época histórica, el clima y la flora cambian». En cuanto a su autor, lo describe ante Engels como un «darwinista antes de Darwin, [ya que] hace surgir las especies mismas en épocas históricas». Le causaron también una impresión positiva sus consideraciones de tipo ecológico, a partir de las cuales se notaba su preocupación sobre «el cultivo [que,] al proceder de modo natural, en vez de ser dominado conscientemente (como burgués, obviamente, él no llegaba muy lejos), deja tras de sí desiertos». Para Marx, también desde este punto de vista, se manifestaba una «inconsciente tendencia socialista» (Ibid.:559).

El estado de salud de Marx continuó fluctuando. A finales de marzo le contó a Engels que su «estado era tal, que debería renunciar del todo a trabajar y pensar por algún tiempo». Pero añadió que esto sería «difícil» para él, «incluso si tuviera los medios para vagabundear» (Marx a Engels, 25 de marzo de 1868, Marx and Engels 1987: 557). La nueva interrupción llegó justo cuando estaba recomenzando el trabajo en la segunda versión del Libro II (después de una etapa de casi tres años desde la primera mitad de 1865). Completó los dos primeros capítulos en el curso de la primavera (Marx 2008a: 1-339), además de un grupo de manuscritos preparatorios (acerca de la relación entre plusvalía y la tasa de ganancia, la ley de la tasa de ganancia, y las metamorfosis del capital), que lo ocuparon hasta el final de 1868 (24).

Al final de abril de 1868, Marx le envió a Engels un nuevo esquema de su trabajo, con una referencia particular al «método por el que se desarrolla la tasa de ganancia» (Marx a Engels, 30 de abril de 1868, Marx and Engels 1988: 21). Fue esa la última vez que hizo referencia, en su correspondencia, a la ley de la tendencia decreciente de la tasa de ganancia. A pesar de las grandes crisis económicas que se presentaron a partir de 1873, este concepto, en el cual hizo un marcado enfasis en su momento -tanto que le dedica la totalidad de la tercera sección del Libro III de El capital (que fue redactado en 1864-1865)- no vuelve a ser mencionado por Marx, y se considera superado. En la misma carta dejó en claro que el volumen II habría de presentar el «proceso de circulación del capital sobre la base de las premisas desarrolladas» en el volumen I. Tenía la intención de exponer, de la manera más satisfactoria posible, las ‘determinaciones formales’ del capital fijo, del capital circulante y la transferencia del capital (y, por lo tanto, de investigar «la mezcla social de los diferentes capitales, de partes del capital y los ingresos (=m)». El volumen III habría entonces de investigar «la conversión de la plusvalía en sus diferentes formas y diferentes partes constitutivas» (Ibid.).

Sin embargo, los problemas de salud volvieron en mayo, y después de un periodo de silencio Marx le explicó a Engels que «dos carbuncos en el escroto hubieran puesto incluso a Sila [Lucius Cornelius Sila Félix] malhumorado» (Marx a Engels, 16 de mayo 1868, Marx and Engels 1988: 35). En la segunda semana de agosto le contó a Kugelmann de su esperanza de finalizar el trabajo «a finales de septiembre» de 1869 (Marx a Ludwig Kugelmann, 10 de agosto de 1868, Marx and Engels 1988: 82). Pero el otoño trajo una nueva aparición de carbuncos, y en la primavera de 1869, cuando Marx estaba todavía trabajando en el tercer capítulo del volumen II «Las relaciones reales del proceso de circulación y del proceso de reproducción» (Marx 2008b: 340-522). Su plan de finalizarlo a más tardar en 1869 parecía realista, puesto que la segunda versión del texto que había redactado a partir de la primavera de 1868 constituía un avance, tanto desde el punto de vista cualitativo como cuantitativo. Sin embargo, ese mismo año, su enfermedad hepática empeoró y sus achaques reaparecieron con regularidad peligrosa en los años siguientes y le impidieron completar nunca el volumen II.

Había también razones teóricas para la demora. Determinado a estar al tanto de las últimas noticias en el capitalismo, entre el otoño de 1868 y la primavera de 1869 Marx compiló numerosos extractos de textos sobre finanzas y mercados de dinero que aparecieron en The Money Market Review [La revista del mercado monetario], The Economist y publicaciones similares (25). Su interés por lo que ocurría al otro lado del Atlántico seguía creciendo y lo alentaba, constantemente, a la búsqueda de noticias actualizadas. Escribió a su amigo Meyer que para él hubiera sido «sumamente precioso» que le pudiera enviar «algo antiburgués sobre la propiedad de la tierra o sobre la economía agraria en los Estados Unidos». Le explicó que «dado que en el segundo volumen [hubiera] trata[do] la renta hipotecaria o el alquiler de tierras, este material hubiera sido especialmente bienvenido para contrarestar la Armonía de los intereses de H. Carey [1793-1879]» (Marx a S. Meyer, 4 de julio de 1868, Marx and Engels 1988: 61). Más aún, en el otoño de 1869, habiéndose enterado de nueva literatura (en realidad, insignificante) sobre algunos cambios en Rusia, decidió aprender ruso para poder estudiarla por sí mismo. Persiguió este nuevo interés con su rigor habitual, y a principios de 1870 Jenny le contó a Engels que «en vez de cuidarse, [Marx había comenzado] a estudiar ruso con todas sus fuerzas, saliendo poco, comiendo con poca frecuencia, y sólo mostró el carbunco bajo su brazo cuando ya estaba muy inflamado y endurecido» (Jenny Marx a Friedrich Engels, alrededor del 17 enero de 1870, Marx and Engels 1988: 551). Engels se apresuró a escribir a su amigo, tratando de persuadirlo de que, «en el interés del volumen II», necesitaba un «cambio de vida»; de lo contrario, si había «una constante repetición de dichas suspensiones», nunca sería capaz de terminar el libro (Engels a Marx, 19 de enero de 1870, Marx and Engels 1988: 408).

La predicción dio en el blanco. Al comienzo del verano, resumiendo lo que había sucedido en los meses previos, Marx le contó a Kugelmann que su trabajo había sido «retrasado por la enfermedad a lo largo del invierno», y que había «encontrado necesario concentrase en su ruso, porque, al lidiar con la cuestión de la tierra, se había vuelto esencial estudiar las relaciones de propiedad sobre la tierra en Rusia a partir de recursos primarios» (Marx a Ludwig Kugelmann, 27 de junio de 1870, Marx and Engels 1988: 528).

Después de todas las interrupciones y de un periodo de actividad política intensa para la Internacional derivado del surgimiento de la Comuna de París, Marx se volcó al trabajo de una nueva edición del volumen I. Insatisfecho de la manera en la que había explicado la teoría del valor, dedicó diciembre de 1870 y enero de 1872 a reescribir el apéndice de 1867, y esto lo llevó a reescribir también el primer capítulo mismo. El fruto de este trabajo fue el manuscrito conocido con el título Adiciones y cambios al Libro I de El capital (1871-1872) (Marx [1872] 1987: 1-55). Con ocasión de la revisión de la edición de 1867, Marx incorpora complementos y precisiones.

Algunos de ellos se refieren a la diferencia entre capital constante y variable, el plusvalor por el uso de la maquinaria y la tecnología. Además, ajustó la estructura interna del libro. En 1867 había dividido la obra en seis capítulos, mientras que en la nueva edición estos se convirtieron en siete secciones compuestas de 25 capítulos, cada uno de los cuales comprendía subdivisiones en parágrafos mucho más detallados. La reimpresión fue publicada en 1872, con una tirada de 3.000 ejemplares.

El año 1872 fue fundamental para la difusión de El capital puesto que en abril sale la traducción al ruso, la primera de una larga serie (26). Comenzada por German Lopatin (1845-1918) y posteriormente completada por el economista Nikolaj Danielson (1844-1918), fue valorada como «excelente» (Marx a N. Danielson, 28 de mayo de 1872, Marx and Engels 1989: 385) (27) por el mismo Marx. Leßner cuenta que «el acontecimiento [considerado una] importante señal de los tiempos se convirtió en una celebración para él, su familia y sus amigos» (Leßner 1996: 138)

En mayo, en una carta dirigida a Liebknecht, Jenny von Westphalen, que había compartido con las hijas la alegría de este éxito, así como las demás reivindicaciones de Marx, dejó en evidencia, con palabras tremendamente efectivas, cuánto pesaban las diferencias de género, incluso en la batalla común por el socialismo. En ella afirmaba que, en todos los conflictos existentes:

[…] a nosotras las mujeres nos toca la parte más dura, la más mezquina. El hombre se templa en el combate contra el mundo exterior, se templa cara a cara con los enemigos, mientras nosotras -así los enemigos sean una legión- debemos estar encerradas en la casa remendando calcetines. Esto no aleja las preocupaciones y las pequeñas miserias cotidianas consumen, lenta pero inexorablemente, la fuerza y la alegría de vivir. (Jenny Marx a W. Liebknecht, 26 de mayo de 1872, Marx and Engels 1989: 580)

Durante ese año tuvo inicio la publicación de la traducción al francés de El capital. Esta, confiada a Joseph Roy (?), qua había ya traducido algunos textos de Ludwig Feuerbach (1804-1872), debía ser publicada por el editor francés Maurice Lachâtre (1814-1900) en fascículos entre 1872 y 1875. Marx se había puesto de acuerdo con ellos sobre la posibilidad de impresión de una «edición popular económica» (Marx a L. Lafargue, 18 de diciembre de 1871, Marx and Engels 1989: 283) y, en efecto, les escribe: «aplaudo su idea de publicar la traducción en pequeños fascículos periódicos. De esta forma, la obra será fácilmente accesible a la clase obrera y esta valoración es para mí más importante que cualquier otra cosa». Sin embargo, consciente de que esa elección presentaba también «un revés […] de la medalla», Marx anticipó que este método haría «tremendamente difícil la lectura del primer capítulo» y existía el temor de que el público se desanimara «por la dificultad de avanzar». Para eludir este «inconveniente», él no podía «hacer más que advertir y preparar de antemano al lector que anhela la verdad: no existe un camino único en la ciencia y solo aquellos que no huyen al esfuerzo de escalar sus senderos escarpados pueden aspirar a alcanzar sus luminosas cimas» (Marx a L. Lachatre, 18 de marzo de 1872, Marx and Engels 1989: 344).

Iniciada la traducción, Marx tuvo que emplear mucho más tiempo que el previsto en corregir los borradores. De hecho, como informó a Danielson, Roy había «traducido con frecuencia demasiado literalmente», motivo por el cual se había visto obligado a reescribir pasajes enteros para que fueran apetecibles para el público francés» (Marx a N. Danielson, 28 de mayo de 1872, Marx and Engels 1989: 385). En mayo de 1872, su hija Jenny comunicó a la familia Kugelmann que su padre se «había visto obligado a hacer numerosas correciones, reescribiendo no sólo frases enteras sino hasta páginas completas» (Jenny Marx (hija) a L. Kugelmann, 3 de mayo de 1872, Marx and Engels 1989: 578). En una actualización del mes siguiente, agregó que la traducción era «tan insatisfactoria que, lamentablemente, el Moro se había visto obligado a reescribir la mayor parte del primer capítulo» (Jenny Marx (hija) a L. y G. Kugelmann, 27 de junio de 1872, Marx and Engels 1989: 582).

Sucesivamente, también Engels le comunicó a Kugelmann que «la traducción al francés le suponía a Marx un trabajo colosal» y que con frecuencia tenía que «comenzar nuevamente desde cero» (Engels a L. Kugelmann, 1 de julio de 1873, Marx and Engels 1989: 515). Al termino de la labor, Marx comentó que la tarea le había «implicado una tal pérdida de tiempo que personalmente hubiera preferido no participar, de ningún modo, en ninguna traducción» (Marx a F. Sorge, 27 de septiembre de 1877, Marx and Engels 1991: 276)

A pesar de estar tan ocupado en la traducción del texto, durante su revisión Marx decidió agregar algunas modificaciones y rectificaciones. Estas concernían, principalmente, a la sección dedicada al «proceso de acumulación del capital», pero también se relacionaban a algunos temas específicos como la distinción que quería hacer entre los conceptos de «concentración» y «centralización» del capital. En el posdata de la edición francesa, Marx no dudó en atribuirle un «valor científico independiente del original» (Marx 1996: 24) No es fortuito que en 1877, cuando apareció la posibilidad de una versión en inglés, Marx precisó a Sorge que el traductor habría debido «necesariamente […] cotejar la segunda edición alemana con la francesa», en la cual había agregado «algunas cosas nuevas y muchas otras [las había] descrito mejor» (Marx a F. Sorge, 27 de septiembre de 1877, Marx and Engels 1991: 276).

Refiriéndose a ella y resaltando, al mismo tiempo, los aspectos positivos y negativos, en cartas dirigidas a Danielson, en noviembre de 1878, Marx escribió que esta contenía «muchas variaciones e incorporaciones importantes», pero admitía también que se había visto obligado -sobre todo en el primer capítulo- a «aplanar» la exposición (Marx a N. Danielson, 15 de noviembre de 1878, Marx and Engels 1991: 343). Fue por este motivo que sintió la necesidad de aclarar que los capítulos ‘Mercancia y dinero’ y ‘La transformación del dinero en capital’ deberían ser «traducidos siguiendo exclusivamente el texto en alemán» (Marx a N. Danielson, 28 de noviembre de 1878, Marx and Engels 1991: 346) (28).

El borrador del Libro II de El capital fue dejado en un estado lejos de definitivo y presenta numerosos problemas teóricos. Los manuscritos del Libro III son de carácter mucho más fragmentado y Marx no alcanza tampoco a realizar una actualización que fuese coherente con el progreso de sus estudios (29). Hay que tener presente también que no alcanzó a terminar una revisión del Libro I que le permitiera incorporar las modificaciones y las partes complementarias que, en sus intenciones, hubieran mejorado su magnum opus (30). De hecho, ni la traducción al francés, de 1872-75, ni la tercera edición alemana, de 1881, pueden ser consideradas la versión definitiva que hubiera querido llevar a cabo.

De todas formas, el espíritu problemático con el cual Marx escribió y reconsideró su obra, demuestra la enorme distancia que lo separa de la representación de autor dogmático, propuesta ya sea por múltiples adversarios o por muchos de sus presuntos discípulos. Incluso en su estado incompleto, aquellos que quieran valerse de categorías teóricas esenciales para comprender el modo de producción capitalista, no pueden prescindir de leer, incluso hoy, el libro primero de El capital.

La ampliación de los estudios para el Libro II de El capital.
Entre 1877 y el comienzo de 1881, Marx escribió nueve versiones de diversas partes del Libro II de El capital. En marzo de ese año, empezó a redactar un índice bastante extenso de materiales recopilados previamente (Marx 2008c: 525-548). Luego, se concentró casi exclusivamente en la primera sección: ‘Las metamorfosis del capital y su ciclo’ (Marx 2008d: 550-697), realizando una descripción más completa del fenómeno de la circulación del capital. Más tarde, a pesar de que sus precarias condiciones de salud y la necesidad de llevar a cabo numerosos chequeos médicos volviesen el trabajo muy ocasional, Marx siguió ocupándose de varios temas, incluido el último capítulo titulado ‘Acumulación y reproducción ampliada’. A este período se remonta el llamado ‘Manuscrito VIII’ del Libro II (Marx 2008e: 698-828) en donde, además de la recapitulación de textos anteriores, Marx preparó nuevos borradores que consideraba útiles para la continuación de la obra. También entendió que había cometido, y repetido por largo tiempo, un error de interpretación al considerar que las representaciones monetarias fueran apenas un velo del contenido real de las relaciones económicas (Cfr. Otani, Vasina e Vollgraf 2008: 881).

En el verano de 1877, por causa «del insomnio y el consecuente estado caótico de los nervios que había alcanzado […] un nivel inquietante» (Marx a Engels, 18 de julio de 1877, Marx and Engels 1991: 242), Marx se vio obligado a programar, por enésima vez, un período de descanso. Tras varias consideraciones, le dijo a Engels que ese año tenía la intención de ir a Neuenahr, una pequeña localidad en Renania, no muy lejos de Tréveris.

Después de pasar unos días en Neuenahr, que definió como un pequeño pueblo «completamente aislado del mundo» (Marx a M. Barry, 15 de agosto de 1877, Marx and Engels 1991: 266), los doctores confirmaron lo que Marx había sospechado antes de partir: «el […] hígado ya no mostraba ningún indicio de agrandamiento, […] el verdadero mal [era] de tipo nervioso» (Marx a Engels, 17 de agosto de 1877, Marx and Engels 1991: 268). Los médicos le aconsejaron que se trasladara durante dos semanas a la Floresta Negra, «para respirar aire de montaña y bosque a alturas elevadas» (Ibid.) (31).

Una vez de nuevo en casa, y aunque su estado de salud no hubiese mejorado mucho, Marx volvió a sumergirse en sus manuscritos. Se quejó con Sorge por el «maldito insomnio que había sufrido durante el año y que lo había vuelto enormemente perezoso para escribir», a pesar de esforzarse en «dedicar todos los momentos posibles al trabajo» (Marx a F. Sorge, 27 de septiembre de 1877, Marx and Engels 1991: 275-276). En noviembre de 1877, Marx comunicó al joven banquero de Frankfurt Sigmund Schott (1852-1910) que estaba «adelantando simultáneamente varias partes del trabajo». Le dijo que había «comenzado El capital en una secuencia inversa a la que le había presentado al público, empezando por la tercera parte, la histórica (32). La única diferencia era que el primer volumen, escrito al final, había sido inmediatamente revisado para su impresión, mientras que los otros dos habían permanecido en su forma cruda (en estado bruto), necesariamente propia de toda investigación» (Marx a Engels, 3 de noviembre de 1877, Marx and Engels 1991: 287) (33).

En este período, Marx tampoco descuidó sus estudios, centrando su atención en los bancos y el comercio. Escribió extractos de la Historia de los bancos (1874) del economista italiano Pietro Rota (1846-1875), de la Historia del comercio bizantino (1808) y de la Historia del comercio de los griegos (1839), ambos escritos por el primer rector de la Universidad de Bonn Hullmann Karl (1765-1846), y de La historia natural del comercio (1872), escrita por el jurista y estadístico John Yeats (1822-1902) (34). A finales de marzo de 1878, Marx le escribió a Schott que había encontrado «muy útil» la lectura de un libro de A. Saling (?), editor de un anuario bursátil. Marx también leyó y escribió extractos de las obras del economista ruso Illarion Ignatevich Kaufman (1848-1916), en particular de la Teoría y práctica del sistema bancario (1873-1877). De esta obra criticó el «estilo pomposo» y «[su] apología» del capitalismo, a través de la cual su autor, aunque «de forma totalmente inconsciente, llegaba a demostrar […] la correlación entre […] el actual sistema de producción y lo que el filisteo condena como ‘abuso’, ‘ilícito’, etc.» (Marx a S. Schott, 29 de marzo de 1878, Marx and Engels 1991 : 304) (35). Durante el otoño, Marx continuó con el trabajo para ampliar el conocimiento sobre estos temas, examinando, entre otras muchas publicaciones, Papel moneda, la raíz de todos los males (1872), del economista Charles A. Mann (?), y Los principios de la ciencia bancaria (1873) de Rota.

Junto con estas investigaciones, Marx volvió a leer las más recientes publicaciones y a analizar los avances económicos que llegaban de Rusia y los Estados Unidos de América. Gracias a su amigo Danielson, en abril recibió «un montón de publicaciones ‘rusas’ desde San Petersburgo» (Marx a T. Allsop, 28 de abril de 1878, Marx and Engels 1991: 307). Entre los diversos autores estaba el jurista y filósofo Nikolaevič Čičerin (1828-1904), sobre cuya mediocridad Marx escribió: «evidentemente, desconoce los rudimentos de la economía política y se imagina que, si aparecen bajo su nombre, las trivialidades de la escuela de Bastiat se convierten en verdades originales e inmediatamente convincentes» (Marx a N. Danielson, 28 de noviembre de 1878, Marx and Engels 1991: 346). Más tarde, también le encargó a Danielson que redactara para él una síntesis de la política financiera rusa de los últimos quince años y un resumen de la productividad del trabajo agrícola.

En abril de 1876, Marx le había escrito a Sorge que, con el fin de continuar con el Libro II de El capital, necesitaría «ver personalmente lo que [se había impreso], [y fuera] utilizable, sobre la agricultura estadounidense y las relaciones de propiedad de la tierra, así como sobre el crédito (pánico [financiero], dinero y todo lo que [estaba] relacionado con esto)» (Marx a F. Sorge, 4 de abril de 1876, Marx and Engels 1991: 115) Fue también por esta razón que, en agosto, le pidió al librero londinense George Rivers (?) que le enviara «los catálogos de sus libros estadounidenses y antiguos» (Marx a G. Rivers, 24 de agosto de 1878, Marx and Engels 1991: 318). Poco después de recibirlos y consultarlos, Marx observó que «el campo más interesante para los economistas se encuentra, sin duda, en los Estados Unidos […]. Las transformaciones cuya implementación [había] requerido siglos en Inglaterra [se habían] realizado allí en unos pocos años». En este sentido, le aconsejó a su amigo Danielson que examinara con especial atención, no tanto las [transformaciones] que estaban en marcha en los «Estados más antiguos sobre el Atlántico, sino [en aquellos] más recientes» (Marx a N. Danielson, 15 de noviembre de 1878, Marx and Engels 1991: 344), como Ohio y California.

Era lo que él mismo había empezado a hacer. En mayo, de hecho, estudió el Primer informe anual de la Oficina de Estadísticas Laborales del estado de Ohio de 1877. En los meses siguientes, gracias a las publicaciones que Sorge seguía enviándole desde los Estados Unidos, Marx continuó en este campo adicional de investigación, examinando el estado de Pennsylvania y Massachusetts. Es posible que, en los libros de El capital aún por escribir, quisiera exponer las dinámicas del modo de producción capitalista de manera más extensa y en una escala cada vez más global. Si el capitalismo en Inglaterra representó el campo de observación para el Libro I, los Estados Unidos habrían podido representar la continuación que le hubiera permitido ampliar su investigación. Además, es de suponer que también estuviera interesado en verificar atentamente cómo el modo de producción capitalista se desarrollaba en diferentes contextos y períodos (Cfr. Vollgraf 2018: 64-65).

Sin embargo, entre la primavera y el verano de 1878, más que la economía política, estudió geología, mineralogía y química agrícola. Desde finales de marzo hasta principios de junio, Marx compiló resúmenes de varios textos, incluidos la Historia natural de las materias primas del comercio (1872) de Yeats, el Libro de la naturaleza (1848), del químico Friedrich Schoedler (1813-1884), los Elementos de química agraria y geología (1856), del químico y minerólogo James Johnston (1796-1855). Desde junio hasta principios de septiembre, en cambio, se puso a prueba con el Manual estudiantil de geología (1857), del geólogo Joseph Jukes (1811-1869). De ese libro trajo la mayoría de sus extractos que se enfocaron sobre la metodología científica, las fases de desarrollo de la geología como disciplina y su utilidad para la producción industrial y agrícola.

Estas nuevas investigaciones de Marx surgieron de la necesidad de aumentar las nociones sobre la renta, temática que, a mediados de los años sesenta, ya había tratado en la sexta sección del Libro III de El capital, titulada «Transformación de la plusganancia en renta de la tierra». Algunos de los resúmenes de estos textos de ciencias naturales le aclararon las materias estudiadas. Otros se enfocaron en los aspectos teóricos de los temas tratados y en la intención de utilizar las nuevas adquisiciones para finalizar el Libro III. De hecho, incluso Engels, recordó que Marx se ocupó de cuestiones como «prehistoria, agronomía, condiciones de la propiedad de la tierra rusa y estadounidense, geología (…) especialmente para elaborar la sección sobre la renta agrícola del Libro III de El capital en una forma exhaustiva nunca realizada» (Engels 1990: 341).

Mientras tanto, incluso durante el verano de 1878, Marx escribió que su «estado de salud requiere con urgencia» (Marx a S. Schott, 15 de julio de 1878, Marx and Engels 1991: 312) una nueva pausa. La hija Eleanor le dijo al periodista y militante alemán Carl Hirsch (1841-1900) que Marx estaba «sufriendo mucho, [porque] últimamente [había] trabajado demasiado» y, por lo tanto, tenía que «abstenerse absolutamente del trabajo por un tiempo» (E. Marx a C. Hirsch, 8 de junio de 1878, Marx and Engels 1991: 449).

En septiembre, reanudado el trabajo, Marx (también) leyó La reforma del sistema monetario (1869) del economista alemán Adolph Samter (1824-1883). Entre las citaciones de El capital presentes en este texto, estaba la frase «el oro y la plata son por naturaleza dinero», aunque en la página original Marx hubiera escrito que ellos «no son obviamente dinero». Molesto, le comentó a Engels que «en Alemania, el arte de saber leer parece estar cada vez más en peligro de extinción entre las clases ‘cultas’» (Marx a Engels, 18 de septiembre de 1878, Marx and Engels 1991: 329).

Por el contrario, los que conocieron a Marx quedaron profundamente impresionados por su erudición e ilimitada cultura. En diciembre de 1878, un corresponsal anónimo que lo entrevistó para el Chicago Tribune dijo «estar muy sorprendido por el profundo conocimiento que tiene Marx sobre los problemas estadounidenses de los últimos veinte años» (Marx, 1989: 569). En la Entrevista con Karl Marx (1879), los dos discutieron numerosos temas. Mostrando una gran ductilidad política, Marx comenzó aclarando que «varios puntos» del programa de los socialistas alemanes «no [tenían] significado fuera de Alemania». Explicó que en «España, Rusia, Inglaterra y los Estados Unidos» el movimiento obrero «[tenía] programas propios que, según el caso, [venían] adaptados a las dificultades particulares. Su único parecido consistía en el propósito final común» que Marx, más que definir «el poder de los trabajadores», como sugirió su entrevistador, llamó «la liberación del trabajo» (Ibid.: 578). A la pregunta «qué [había] logrado el socialismo hasta entonces», Marx centró su respuesta sobre dos cuestiones principales. Primero:

los [comunistas] han demostrado que la lucha general entre capital y trabajo tiene lugar en todas partes. […] Por lo tanto, han intentado llegar a un acuerdo entre los trabajadores de diferentes países. Esto se hizo aún más necesario a medida que los capitalistas se volvieron más y más cosmopolitas y, tanto en los Estados Unidos, como en Inglaterra, Francia y Alemania, habían contratado mano de obra extranjera y la habían utilizado contra los trabajadores locales. Inmediatamente surgieron conexiones internacionales entre los trabajadores de varios países: se evidenció que el comunismo no era un asunto local sino internacional que debía llevarse a cabo con la acción internacional de los trabajadores (Ibid.: 573).

Además, Marx volvió a afirmar que «las clases trabajadoras [habían] entrado en movimiento de forma espontánea», sin filántropos burgueses o sectas revolucionarias que decidieran en su nombre qué hacer. Asimismo, los comunistas «no [habían] inventado el movimiento», aunque sí les «aclaraban a los trabajadores su carácter y objetivos» (Ibid.).

Por otra parte, el periodista estadounidense le pidió que confirmara las frases que el sacerdote Josephus Cook le atribuía (1838-1901). Para el religioso evangelista, autor de varios libros sobre las ciencias populares y el socialismo, Marx había dicho que, en 1871, época de la Comuna de París, los revolucionarios eran «como mucho tres millones», pero, en los siguientes veinte años llegarían a ser «50 o 100 millones». Entonces, ellos se habrían «levantado contra el odiado capital (y) el pasado [habría] desaparecido como una aterradora pesadilla», borrado por un «incendio popular que [habría] estallado en cien lugares» (Ibid.: 576). Marx respondió que no había pronunciado «ni una palabra» de ese texto publicado en el periódico conservador francés Le Figaro. Declaró que nunca escribía «semejantes estupideces melodramáticas» y que, si hubiera tenido que «responder a todo lo que se [había] dicho y escrito sobre él, [habría] tenido que contratar veinte secretarias». Marx estaba interesado en la crítica del capitalismo, del cual reiteró que «este sistema [era] sólo una fase histórica que desaparecerá y dará paso a un orden social más elevado» (Ibid.: 577). A diferencia de los que asocian sus ideas con la concepción de un colapso inmediato e inevitable del capitalismo, Marx se declaró, «firmemente convencido» de la posible «puesta en práctica de sus teorías», pero – consciente de las características del modo de producción observado cuidadosamente por más de 35 años – agregó: «si no en este, por lo menos en el próximo siglo» (Ibid.: 569).

A principios de 1879, Marx se encontró con el político escocés de ascendencia noble, Mountstuart Elphinstone (1829-1906) a quien le reiteró un concepto análogo. Cuando Elphinstone lo provocó afirmando: «supongamos que su revolución haya tenido lugar y haya formado su gobierno republicano; el camino todavía es largo, muy largo, antes de realizar sus ideas y las de sus amigos», Marx respondió: «sin duda, pero todos los grandes movimientos se mueven lentamente. Sería sólo un paso hacia el mejoramiento de las cosas, así como su revolución de 1688 [la segunda Revolución Inglesa] fue sólo un paso en el curso de nuestro camino» (Enzensberger 1999: 380-381).

En noviembre de 1878, cuando Danielson, traductor ruso del Libro I de El capital, estaba a la espera de novedades sobre la continuación de este, Marx le informó que el «segundo volumen» no iría a imprenta «antes de finales de 1879» (Marx a N. Danielson, 15 de noviembre de 1878, Marx and Engels 1991: 343). En abril de 1879, Marx declaró que había sido informado que, a raíz de la promulgación de las leyes antisocialistas, la continuación de El capital no podría ser publicada «mientras el régimen actual persistiera en su severidad del momento» (Marx a N. Danielson, 10 de abril de 1879, Marx and Engels 1991: 354). Consciente de que aún estaba lejos de completar la obra, Marx comentó esta noticia, de por sí perjudicial, de manera casi positiva. Para su justificación, quiso aclarar las tres razones por las que consideraba útil dedicar aún más tiempo a completar el libro que había quedado suspendido desde 1867.

Primero que todo, dijo que quería esperar hasta que la crisis industrial en Inglaterra alcanzara su punto más alto. Incluso si, como en sus expectativas, hubiera pasado como «todas aquellas que la habían precedido» y hubiera empezado un «nuevo ‘ciclo industrial’, con todas sus diferentes fases de prosperidad», su curso y su «observación detallada [resultaban] de gran importancia para un estudioso de la producción capitalista» (Ibid).

En segundo lugar, Marx declaró que «la cantidad de documentos que [había] recibido de Rusia [y …] los Estados Unidos le daba el pretexto para seguir [sus] análisis, en lugar de terminarlas con la publicación» (Ibid.: 355). Afirmó que, «en cuanto al ritmo del progreso económico, los Estados Unidos [habían] superado en gran medida a Inglaterra, aún si [seguían] todavía rezagados al tamaño de la riqueza adquirida» (Ibid.: 358). Marx estaba muy interesado en seguir el desarrollo de las sociedades anónimas y los efectos económicos de la construcción de líneas ferroviarias (36). En sus evaluaciones, «en algunos de los estados en los que el capitalismo estaba confinado en pocos puntos de la sociedad», las líneas ferroviarias habían «permitido, o incluso obligado a crear, en un corto período de tiempo, una superestructura capitalista, ampliándola en dimensiones del todo desproporcionadas respecto a la parte preponderante de la sociedad» que seguía en sus formas tradicionales de producción. En los estados donde el capitalismo estaba menos desarrollado, el ferrocarril había «acelerado la desintegración social y política». Por el contrario, en los estados más avanzados «había acelerado el desarrollo definitivo de la producción capitalista» (Ibid: 356). Además, el desarrollo de estas grandes infraestructuras no sólo había garantizado «medios de transporte [más] aptos a los medios modernos de producción, sino que [había] sentado las bases para [el surgimiento de] gigantescas sociedades anónimas, [además de] establecer un nuevo comienzo para las […] empresas bancarias» (Ibid.). El transporte ferroviario había ofrecido «un impulso, nunca antes imaginado, para la concentración del capital». Por otra parte, había permitido un «fuerte crecimiento de la actividad cosmopolita del capital variable», que, según Marx, empezaba a «envolver al mundo a través de una red de estafas financieras y mutuo endeudamiento», es decir la «forma capitalista de la hermandad internacional» (Ibid).

Estos nuevos fenómenos requerían de tiempo para ser entendidos. Por eso, en junio de 1880, Marx le reiteró a Ferdinand Nieuwenhuis (1846-1919), el principal exponente de la Liga Socialdemocrática de los Países Bajos, que, en las «circunstancias políticas actuales, la noticia que «la segunda parte de El capital […] no podía [ser] publicada en Alemania […] [le] llegaba de forma grata». De hecho, justo en ese momento, «ciertos fenómenos económicos [habían] entrado en una nueva etapa de desarrollo y exigían un nuevo análisis» (Marx a F. Nieuwenhuis, 27 de junio de 1880, Marx and Engels 1992: 16).

Finalmente, como tercera y última razón a favor de un tiempo más largo para la conclusión del Libro Segundo estaban las disposiciones del médico que le había impuesto «reducir significativamente [su] jornada laboral» (Marx a N. Danielson, 10 de abril de 1879, Marx and Engels 1991: 356).

Ya en abril de 1879, Marx le había confesado a Danielson que, debido en parte al clima político en Alemania y Austria después de la promulgación de las leyes antisocialistas, él «no había podido hacer su viaje [anual] a Karlsbad [y por eso] nunca había estado realmente bien de salud» (Ibid.: 353). Además, las condiciones de su esposa Jenny empeoraban rápidamente e, incluso durante ese verano, fue necesario proporcionarle terapias complejas y atención constante.

Sin embargo, las dos semanas en Ramsgate, cuyo «aire […] le hacía extraordinariamente bien», lo pusieron de nuevo en forma y el 10 de septiembre le dijo a Engels que se había «recuperado mucho» (Marx a Engels, 10 de septiembre de 1879, Marx and Engels 1991: 388). De esa buena noticia también fue informado Danielson a quién Marx le contó que, después de una pausa de «vida rural y [de] suspensión de todo trabajo», durante el cual «ni siquiera [honró] el alimento intelectual» que este le había enviado, se sentía mejor y planeaba «poner[se] a trabajar con energía» (Marx a N. Danielson, 19 de septiembre de 1879, Marx and Engels 1991: 409). No obstante, él era muy consciente de la tarea extraordinariamente difícil que le esperaba. Además de la necesidad de volver a revisar algunas partes de sus manuscritos para perfeccionar su escritura, también existía la necesidad, aún más urgente, de abordar algunos complicados temas teóricos aún por resolver (37).

Engels también le informó de la mejoría de la salud de Marx a Becker, a quien le dijo: «Está más en forma que el año pasado, aunque todavía no está como debería. Hace mucho tiempo la Sra. Marx sufre de trastornos digestivos […] y rara vez se siente bien. El Libro Segundo avanza despacio y no seguirá rápidamente, hasta que un verano mejor del que acaba de transcurrir no le permita a M[arx] recuperarse de verdad» (Engels a J. Becker, 19 de diciembre de 1879, Marx and Engels 1991: 432). En 1885, dos años después de la muerte de Marx, le tocó al mismo a Engels ensamblar los diversos manuscritos sin terminar y mandarlos a imprimir.

«¡La lucha!»
En el transcurso de 1880, Marx se dedicó también al estudio del Tratado de economía política (1876) de Adolph Wagner (1835-1917), profesor de economía política en la Universidad de Berlín y defensor del socialismo de Estado. Durante su lectura, como de costumbre, Marx redactó un compendio de las principales partes de dicho texto, intercalando entre ellas una serie sustanciosa de comentarios críticos. En las Notas marginales al ‘Tratado de economía política’ de Wagner (1880), Marx observó que, incluso en el tipo de sociedad ideada por quienes, con sarcasmo, fueron clasificados como socialistas de la cátedra alemana, las contradicciones fundamentales del capitalismo se mantenían prácticamente inalteradas. Escribió, en efecto, que «donde el Estado es en sí mismo un productor capitalista, como en el caso de la explotación de yacimientos minerales, bosques, etc., su producto es ‘mercancía’ y posee, por lo tanto, el mismo carácter específico que cualquier otra mercancía» (Marx 1975: 200).

En sus anotaciones, Marx fijó su atención también en otras temáticas. Uno de sus intentos fue demostrar que Wagner no había comprendido la distinción entre valor y valor de cambio. Como consecuencia, no fue capaz de distinguir la teoría de Marx de la de David Ricardo (1772-1823) que se había «ocupado exclusivamente del trabajo como medida de la magnitud del valor» (Ibid.: 184). Según Wagner, el valor de uso y el valor de cambio se debían «deducir […] del concepto de valor» (Ibid.: 197); para Marx, por el contrario, debían ser examinados «a partir de un objeto concreto: la mercancía» (Marx 1975: 198).

A Wagner, que había afirmado que la teoría del valor de Marx era «la piedra angular de su sistema socialista» (38), Marx le contestó que en lugar de «adosarle […] demostraciones relacionadas con el futuro», debería haber presentado pruebas de lo que afirmaba sólo como principio teórico. Wagner había escrito erróneamente que «no [había] existido ningún proceso social de producción en las numerosas comunidades que [habían] precedido la aparición del capitalista privado». Marx lo desmintió mencionando los casos de la «antigua comunidad india, [y de] la comunidad familiar de los eslavos del sur» (Marx 1975: 185). También señaló que, «en las comunidades primitivas, donde los medios de subsistencia se producen de manera colectiva y se distribuyen entre los miembros de la comunidad, el producto común responde directamente a las necesidades vitales de cada miembro de la comunidad, de cada productor». En este caso, «el carácter social del producto, del valor de uso, es inherente a su carácter comunitario (común)» (Ibid.:199).

Marx también dirigió su atención a otras tesis de Wagner, quien había afirmado que «el beneficio capitalista [era] […] un elemento constitutivo del valor y no, como en la concepción socialista, sólo un gravamen impuesto al trabajador o un robo contra él». Sin embargo, Marx reiteró que él había demostrado que el capitalista «no se limita[ba] a ‘tomar’ o ‘robar’, sino que, por el contrario, imponía la producción de plusvalor». Era un mecanismo diferente, en el cual, cuando el capitalista «le paga al trabajador el valor real de su fuerza de trabajo, gana plusvalía». No obstante, en «este tipo de producción», esto constituía un «derecho», una no violación del intercambio de bienes y no significaba, como sostenía Wagner, que el «beneficio del capital [fuera] el elemento ‘constituyente’ del valor» (39).

Además, Marx transcribió otra declaración paradójica de Wagner en la que argumentaba que «Aristóteles erró al considerar no transitoria la economía esclavista», pero que Marx proponía una tesis errónea al «considerar transitoria» (Marx 1975: 185) la economía capitalista. Para el economista de Baviera, «la organización económica de hoy, [así como] su base legal […], es decir, la propiedad privada […] de la tierra y el capital», constituían una «institución esencialmente inmutable» (40).

Para Marx, por el contrario, representaba un modo de producción propio de un determinado período histórico y, por lo tanto, hubiera podido ser reemplazado por una forma radicalmente distinta de organización económica y política: una sociedad sin clases. Antes del verano, y después de otro año extremadamente difícil a causa de enfermedades y problemas familiares, Marx fue forzado por los doctores «a abstenerse, con urgencia, de cualquier trabajo». Además, las condiciones de salud de su esposa se habían «agravado repentinamente», hasta el punto de predecir «un desenlace fatal» (Marx a F. Nieuwenhuis, 27 de junio de 1880, Marx and Engels 1992: 30). Lo que Marx le había descrito a Sorge como una «grave enfermedad hepática» (Marx a F. Sorge, 30 de agosto de 1880 Marx and Engels 1992: 24) era, en realidad, un cáncer. Debido a las circunstancias, no era posible pensar en ningún viaje para un tratamiento en el extranjero, así que en agosto de 1880 toda la familia Marx, con excepción de Eleanor, regresó, durante casi mes y medio, a Ramsgate, donde alquilaron una cabaña. Después de dos semanas, Engels se unió a ellos. Marx le dijo a Danielson que, a parte el cuidado que se le debía dar a Jenny von Westphalen, el médico le había ordenado «curar [sus] nervios ‘haciendo nada’» (Marx a N. Danielson, 12 de septiembre de 1880, Marx and Engels 1992: 30).

Durante este período, el periodista liberal estadounidense John Swinton (1829-1901) se encontró personalmente con Marx y escribió un intenso perfil. En la entrevista, publicada el 6 de septiembre de 1880 en la portada de The Sun, Swinton lo presentó a los lectores norteamericanos como «uno de los hombres más extraordinarios de la época, que [había] jugado un papel inescrutable, y sin embargo poderoso, en la política revolucionaria de los últimos cuarenta años». De Marx escribió: «No tiene prisa y no conoce el reposo. Es un hombre con una mente poderosa […] siempre involucrado en proyectos ambiciosos […] y objetivos prácticos. Fue y sigue siendo el inspirador de muchos de los terremotos que han trastornado naciones y derribado tronos» (Swinton 1989: 583). Después de entrevistarlo, el periodista neoyorquino se convenció de que estaba en presencia de un hombre capaz de «analizar el mundo europeo país por país, destacando sus peculiaridades, desarrollos y personalidades, tanto las que actúan en la superficie, como aquellas que operan por debajo de ella» (Swinton 1989: 584).

Después de pasar un día completo con Marx, el periodista fue profundamente sorprendido por la vastedad de su conocimiento. Por la noche, pensando en «las incertidumbres y los tormentos del presente y el pasado», todavía conmocionado por el poder de las palabras escuchadas y «sumergiéndose en su profundidad», Swinton decidió preguntarle al gran hombre que tenía al frente por «la ley suprema del ser». Aprovechando un momento de silencio, «interrumpió al revolucionario y filósofo con esta fatídica pregunta: ‘¿Cuál es?’». Por un momento, tuvo la sensación de que la mente de Marx «estuviera divagando sobre sí misma […], mientras escuchaba el rugido del mar y observaba a la multitud inquieta en la playa. ‘¿Cuál es [la ley]?’ – le había preguntado. [Marx] respondió, con un tono profundo y solemne: ‘¡La lucha!’» (Ibid.: 585).

Referencias
1. Estos cuadernos abarcan un total de 1472 cuartillas. Ver el ‘Prólogo’ a la primera edición alemana del volumen II de El capital de Marx (Engels 2017 [1885]: 8).
2. También previamente, en los Grundrisse.
3. Se publicó en 1973, en un volumen suplementario (vol. 47) de la Marx-Engels Sochinenya [Obras completas]. La edición original alemana apareció solo en 1976 en MEGA2 vol. II/3.1.
4. Entre 1905 y 1910, Kautsky público los manuscritos en cuestión en una forma que se desviaba un poco de los originales.
5. Habría de seguir a: 1) la transformación del dinero en capital; 2) la plusvalía absoluta; 3) la plusvalía relativa; y 4) una sección (que nunca escribió) de cómo estas tres habían de ser consideradas en combinación.
6. Estos cuadernos hacen parte de Teorías de la plusvalía, vol. II.
7. Esto corresponde a los últimos cuadernos que hacen parte de Teorías de la plusvalía, vol. III.
8. Ver el índice de los Grundrisse, escrito en junio de 1858 e incluido en el Cuaderno M (el mismo de la ‘Introducción de 1857’), así como el borrador de índice para el tercer capítulo, escrito en 1860: Marx, ‘Borrador del plan del capítulo sobre el capital’, en Marx (1987: 511-517).
9. Esta afirmación parece indicar que Marx se dio cuenta de lo difícil que sería completar su proyecto original en seis libros. Ver (Heinrich 2009: 80).
10. El primer capítulo ya había sido esbozado en el Cuaderno XVI de los manuscritos económicos de 1861-63. Marx preparó un esquema del segundo en el Cuaderno XVIII.
11. Médico alemán que ejercía la profesión en Manchester. Era el médico personal de Friedrich Engels y también su amigo. [NT]
12. Ver las más de sesenta páginas contenidas en IISH [International Institute of Social History], Marx-Engels Papers, B 98. Sobre la base de esta investigación, Marx inició uno de sus muchos proyectos inacabados. Ver (Marx 1961).
13. IISH, Marx-Engels Papers, B 93, B 100, B 101, B 102, B 103, B 104 incluyen unas 535 páginas de notas. Se les debe añadir a éstas los tres cuadernos RGASPI f.1, d. 1397, d. 1691, d. 5583. Marx usó algo de este material para la compilación de los Cuadernos XXII y XXIII.
14. Ver Michael Heinrich (2011: 176-179), que argumenta que los manuscritos de este periodo deben tomarse, no como la tercera versión del trabajo que comenzó con los Grundrisse, sino como el primer borrador de El capital.
15. ‘No. 1.’: se refiere a la Contribución a la crítica de la economía política de 1859.
16. En años recientes, investigaciones en dermatología han revisado la discusión en torno a las causas de la enfermedad de Marx. Sam Shuster sugirió que sufría de hidradenitis supurativa (‘The nature and consequence of Karl Marx’s skin disease’, en British Journal of Dermatology, vol. 158 (2008), no. 1, pp. 1-3), mientras que Rudolf Happle y Arne Koenig aseguraron, aún menos plausiblemente (‘A lesson to be learned from Karl Marx: smoking triggers hidradenitis suppurativa’, British Journal of Dermatology, vol. 159 (2008) no. 1, pp. 255-6) que el culpable era su fuerte costumbre de fumar cigarros. Para la respuesta de Shuster a esta sugerencia, ver ibid., p. 256.
17. En términos editoriales una signature correspondía a 16 páginas, cincuenta signatures eran equivalentes a 800 páginas impresas.
18. Publicado en 1898 por Eleanor Marx, como Value, Price and Profit. Este título, comúnmente utilizado, fue la base de la traducción alemana que apareció el mismo año en Die Neue Zeit.
19. Druckbogen es el término alemán para signature, 60 es el equivalente a 960 páginas. Más adelante, Meißner indicó su disposición a modificar el contrato con Marx: ver (Marx a Engels, 13 de abril de 1867, Marx and Engels 1987: 357).
20. Engels siguió esta división al publicar El capital, Libro III, en 1894. Ver (Vollgraf, Jungnickel y Naron 2002: 35-78). Ver también los más recientes: (Vollgraf 2012a: 113-133); y (Roth 2012: 168-82). Para un estudio crítico de la edición de Engels, ver (Heinrich 1996-1997: 452-466) Un punto de vista diferente se encuentra en: (Krätke 2017) especialmente el capítulo final: ‘Gibt es ein Marx-Engels-Problem?’[‘¿Hay un problema Marx-Engels?’].
21. Marx incluyó luego la sección sobre la renta del suelo (básica) en la parte seis del Libro III: ‘La transformación de la plusvalía en ganancia’.
22. Canción popular tradicional inglesa Miller of the Dee.
23. Los más recientes estudios filológicos han demostrado que, contrario a lo que siempre se ha creído, el manuscrito original del Libro I -que se remonta al período 1863-64 y sobre el cual se ha sostenido por mucho tiempo que el único fragmento conservado es el ‘Capítulo IV inédito’- fue, de hecho, recortado y trasladado por Marx durante la preparación de la copia que sería mandada a la imprenta. Vease Vollgraf (2012b: 464-467).
24. Estos manuscritos han sido publicados recientemente en 2012 en Karl Marx, Ökonomische Manuskripte 1863-1868, en MEGA2, vol. II/4.3, pp. 78-234, y pp. 285-363. La última parte constituye el Manuscrito IV del volumen II y contiene nuevas versiones de la Parte 1, ‘La circulación del capital’, y la Parte 2, ‘Las metamorfosis del capital’.
25. Todavía sin publicar, estas notas están incluidas en los cuadernos IISH, Marx-Engels Papers, B 108, B 109, B 113 y B 114.
26. Ver en próxima aparición de M. Musto y B. Amini (eds.), The Routledge Handbook of Marx’s ‘Capital’: A Global History of Translation, Dissemination and Reception, London – New York, Routledge, 2019
27. Para más información al respecto véase (Uroeva 1974: 94 ss.).
28. Para un listado de las incorporaciones y modificaciones contenidas en la traducción al francés que no fueron incluídas en la tercera ni en la cuarta edición alemana -a saber, la versión canónica de El capital a partir de la cual fue traducida la versión italiana principal- véase Marx (1991: 732-783). Para una comparación sobre el mérito de esta edición véase Anderson (1985: 71-80) y D’Hondt (1985: 131-137).
29. La labor editorial desarrollada por Engels después de la muerte de su amigo, para mandar a imprenta las partes de El capital que este no alcanzó a completar, fue tremendamente compleja. Los varios manuscritos, borradores y fragmentos de los Libros II y III, escritos entre 1864 y 1881, corresponden, en los volúmenses de la MEGA, a alrededor de 2.350 páginas. Engels tuvo éxito en mandar a la imprenta el Libro II en 1885 y el Libro III en 1894, pero hay que tener presente que estos dos volúmenes fueron reconstruidos sobre la base de textos incompletos, con frecuencia desiguales y, además, al ser escritos en diferentes períodos, las opiniones de Marx resultan deformadas.
30. Ver, por ejemplo, la carta de Marx a N. Danielson del 13 de diciembre de 1881, en la cual afirmó: «Primero tengo que sanar y luego terminar el segundo volumen […]. Acompañaré a mi editor para hacer [en] la tercera edición las menores correcciones y adiciones posibles. […] una vez que estas 1.000 copias de la tercera edición hayan sido vendidas podré revisar el texto como lo hubiera hecho ahora si las circunstancias hubieran sido diferentes» (Marx and Engels 1992: 161)
31. Marx, Jenny y Eleanor se quedaron en este lugar del 4 al 20 de septiembre, pero no se recibieron cartas relativas a este período.
32. Se refiere a la teoría del plusvalor.
33. Con las palabras «tercera parte», Marx se refería a los estudios sobre la historia de las teorías económicas que empezó a principios de los años sesenta. La segunda se refería, por el contrario, a aquellos que Engels publicó luego como el Libros II y III de El capital. Véase la carta de Marx a L. Kugelmann,13 de octubre de 1866 (Marx and Engels 1987: 328). Sin embargo, hay que notar que en su carta a Schott, Marx proporcionó una representación del estado de sus manuscritos que no correspondía a la realidad. Carl-Erich Vollgraf declaró correctamente que partes sustanciales de las Teorías sobre la plusvalía aún no contenían «su interpretación elaborada de forma completa». Además, muchas páginas de este texto eran «no bien pensadas [y] pedantes» (Vollgraf 2018: 62).
34. Estos extractos se encuentran sobretodo en IISG, Marx-Engels Papers, B 129 e B 138.)
35. Cfr. IISG, Marx-Engels Papers, B 140, B 141 e B 146. Sobre los juicios de Marx sobre Kaufman cfr., tambien la carta a N. Danielson (Marx a N. Danielson, 10 de abril de 1879, Marx and Engels 1991: 358).
36. En este sentido, ver Musto (2016: 41-42)
37. Según M. Heinrich Marx entendió que, «con respecto a las teorías del crédito y la crisis, ya no era posible ignorar el rol del Estado, en particular de los bancos nacionales y el crédito público. De la misma manera, no era posible ignorar el rol del comercio internacional, de las tasas de cambio y los flujos de crédito internacional». Además, Marx se convenció de que, dado los enormes progresos registrados en los últimos años, su conocimiento de las «cuestiones tecnológicas» – que habían sido la base del Primer Libro de El capital – ya no era suficiente (Heinrich 2016:132).
38. A. Wagner, Lehrbuch der politischen Ökonomie [Tratado de economía política], Winter, Leipzig 1879, p. 45.
39. A. Wagner, Lehrbuch der politischen Ökonomie cit., pp. 45-6.
40. A. Wagner, Lehrbuch der politischen Ökonomie cit., p. 105.

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Introducción

1858-1953: Cien años de soledad
Habiendo abandonado los Grundrisse en mayo de 1858 para hacerle campo al trabajo en la Contribución a la crítica de la economía política, Marx utilizó partes de ellos en la composición de este último texto; pero luego casi nunca volvió a tomar nada de dichos manuscritos. De hecho, aunque era costumbre suya invocar sus propios estudios previos, e inclusive transcribir pasajes enteros de ellos, ninguno de los manuscritos preparatorios para El capital, con excepción de aquellos de 1861-1863, contiene referencia alguna a los Grundrisse. Permanecieron en medio de todos los demás borradores que él no tenía intención de utilizar por cuanto quedó cada vez más absorto en la resolución de problemas más específicos que aquellos que había tratado en los manuscritos.

No puede existir certeza acerca de este asunto, pero es probable que ni siquiera Friedrich Engels haya leído los Grundrisse. Como es bien sabido, Marx solamente logró completar el primer volumen de El capital para cuando falleció y los manuscritos inconclusos destinados a los volumenes segundo y tercero fueron seleccionados y ensamblados por Engels para su publicación. En el transcurso de aquella actividad, él debe haber examinado docenas de cuadernos que contenían esbozos preliminares de El capital, y es plausible suponer que, cuando estaba colocando algún orden en las montañas de papeles, haya hojeado los Grundrisse y concluído que se trataba de una versión prematura del trabajo de su amigo –anterior inclusive a la Contribución a la economía política de 1859– y que por consiguiente no podía ser utilizada para sus propósitos. Adicionalmente, Engels nunca mencionó los Grundrisse, ni en sus prefacios a los dos volumenes de El capital cuya impresión él supervisó personalmente, ni en ninguna de las cartas de su vasta correspondencia.

Después de la muerte de Engels, una gran parte de los textos originales de Marx fue depositada en el archivo del Partido Socialdemócrata de Alemania (SPD) en Berlín, en donde fueron tratados con la negligencia más absoluta. Los conflictos políticos en el interior del partido obstaculizaron la publicación del abundante material de importancia que Marx había dejado tras de sí; en realidad dichos conflictos condujeron a la disperción de los manuscritos y por largo tiempo hicieron imposible producir una edición completa de sus obras. Tampoco asumió nadie la responsabilidad de efectuar un inventario del legado intelectual de Marx, con el resultado de que los Grundrisse permanecieron enterrados junto con sus demás papeles.

La única parte de ellos que vio la luz durante este período fue la ‘Introducción’, que fue publicada por Karl Kautsky en 1903 en Die Neue Zeit [El nuevo tiempo], junto con una breve nota que la presentaba como un ‘borrador fragmentario’ fechado el 23 de agosto de 1857. Argumentando que se trataba de la introducción a la magna obra de Marx, Kautsky le dio el título Einleitung zu einer Kritik der politischen Ökonomie [Introducción a una crítica de la economía política] y sostuvo que ‘a pesar de su carácter fragmentario’ ella ‘ofrecía un gran número de nuevos puntos de vista’ (Marx 1903: 710 n. 1). En verdad el texto recibió considerable interés: las primeras versiones en otros idiomas fueron en francés (1903) y en inglés (1904), y pronto la obra se hizo aún más ampliamente conocida después de que Kautsky la publicara en 1907 como un apéndice a la Contribución a la crítica de la economía política. Siguieron más y más traducciones –incluyendo hacia el ruso (1922), el japonés (1926), el griego (1927) y el chino (1930) – hasta que se convirtió en una de las obras más comentadas de toda la producción teórica de Marx.

En tanto que la fortuna le sonreía a la ‘Introducción’, sin embargo, los Grundrisse permanecieron desconocidos por largo tiempo. Es difícil creer que Kautsky no hubiese descubierto la totalidad del manuscrito junto con la ‘Introducción’, pero él nunca mencionó nada al respecto. Un poco más tarde, cuando él decidió publicar algunos escritos previamente desconocidos de Marx entre 1905 y 1910, se concentró en una colección de materiales del período 1861-1863, a la cual le dio el título Teorías de la plusvalía.

El descubrimiento de los Grundrisse ocurrió en 1923, gracias a David Ryazanov, director del Instituo Marx-Engels (MEI) de Moscú y organizador de la Marx Engels Gesamtausgabe (MEGA), las obras completas de Marx y Engels. Luego de examinar el Nachlass en Berlín reveló la existencia de los Grundrisse en un informe dirigido a la Academia Socialista de Moscú acerca del legado literario de Marx y Engels:

Entre los papeles de Marx encontré otros ocho cuadernos de estudios económicos.

[…] El manuscrito puede fecharse a mediados de los años 1850 y contiene el primer borrador de la obra de Marx [El capital], cuyo título él aún no había fijado en aquel tiempo; [también] representa la primera versión de su Contribución a la crítica de la economía política (Ryazanov, 1925: 393-4).

‘En uno de aquellos cuadernos’, continúa diciendo Ryazanov, ‘Kaustky encontró la ‘Introducción’ a la Contribución a la crítica de la economía política’ – y considera los manuscritos preparatorios a El capital como elementos de ‘extraordinario interés por aquello que nos dicen acerca de la historia del desarrollo intelectual de Marx y de su método característico de trabajo e investigación’ (Ryazanov 1925: 394).

Bajo los términos de un acuerdo de publicación de la MEGA celebrado entre el MEI, el Instituto para la Investigación Social de Frankfurt y el SPD (el cual aún tenía la custodia del Marx y Engels Nachlass), los Grundrisse fueron fotografiados junto con muchos otros escritos sin publicar y comenzaron a ser estudiados por especialistas en Moscú. Entre 1925 y 1927 Pavel Veller del MEI catalogó todos los materiales preparatorios para El capital, el primero de los cuales fueron los propios Grundrisse. Para 1931 ya habían sido decifrados completamente y transcritos a máquina, y en 1933 una parte de ellos fue publicado en ruso como el ‘Capítulo sobre el dinero’, seguido dos años más tarde por una edición en alemán. Finalmente, en 1936, el Instituto Marx-Engels-Lenin (MELI, sucesor del MEI) adquirió seis de los ocho cuadernos de los Grundrisse, los cuales hicieron posible resolver los problemas editoriales restantes.

Por consiguiente, en 1939, el último manuscrito importante de Marx – un extenso trabajo perteneciente a uno de los períodos más fecundos de su vida – apareció en Moscú bajo el título que le había dado Veller: Grundrisse der Kritik der potilischen Ökonomie (Rohentwurf) 1857-1858. Dos años más tarde siguió un apéndice (Anhang) que incluía los comentarios de Marx de 1850-1851 acerca de los Principles of Political Economy and Taxation de Ricardo, sus notas sobre Bastiat y Carey, su propia tabla de contenidos para los Grundrisse, y el material preparatorio (Urtext) para la versión de 1859 de la Contribución a la crítica de la economía política. El prefacio de MELI a la edición de 1939 enfatizaba su excepcional valor: ‘el manuscrito de 1857-1858, publicado en su integralidad por primera vez en el presente volumen, marcó una etapa decisiva en la obra de Marx acerca de la economía’ (Instituto Marx-Engels-Lenin 1939: VII).

Aunque las directrices editoriales y la forma de publicación fueron similares, los Grundrisse no fueron incluídos en los volumenes de la MEGA sino que aparecieron en una edición separada. Más aún, la proximidad de la Segunda Guerra Mundial condujo a que la obra permaneciera virtualmente desconocida: los tres mil ejemplares se hicieron pronto muy escasos, y tan sólo unos pocos lograron cruzar las fronteras soviéticas. Los Grundrisse no aparecieron en las Sochineniya de 1928-1947, la primera edición rusa de las obras de Marx y Engels, y su primera reimpresión en alemán tuvo que esperar hasta 1953. Aunque es sorprendente que un texto tal como los Grundrisse fuese siquiera publicado durante el período de Stalin, con lo hereje que seguramente era respecto a los entonces indiscutibles cánones de diamat, el ‘materialismo dialéctico’ de estilo soviético, también deberíamos tener presente que se trataba en aquel entonces del más importante de los escritos de Marx que no circulaban en Alemania. Su eventual publicación en Berlín Oriental en treinta mil ejemplares constituyó parte de las celebraciones que marcaron el Karl Marx Jahr, el septuagésimo aniversario de la muerte de su autor y el 150avo de su nacimiento.

Escritos en 1857-1858, los Grundrisse sólo estuvieron disponibles para la lectura en todo el mundo a partir de 1953, luego de cien años de soledad.

500.000 circulando en el mundo
A pesar de la resonancia que tiene este importante nuevo manuscrito anterior a El capital, y a pesar del valor teórico que se le atribuye, las ediciones en otros idiomas aparecieron con lentitud. Otro extracto, después de la ‘Introducción’, fue el primero en generar interés: las ‘Formas que preceden a la producción capitalista’. Fue traducido al ruso en 1939, y luego del ruso al japonés en 1947-1948. Subsecuentemente, la edición separada en alemán de esta sección y una traducción al inglés ayudaron a asegurarle un amplio público lector: la primera, que apareció en 1952 como parte de la Kleine Bücherei des Marxismus-Leninismus [Pequeña Biblioteca del Marxismo-Leninismo], fue la base de las versiones húngara e italiana (1953 y 1954 respectivamente); en tanto que la última, publicada en 1964, ayudó a divulgarlo en los países de habla inglesa y, a través de traducciones en Argentina (1966) y España (1967), en el mundo de habla hispana.

El editor de esta edición inglesa, Eric Hobsbawm, añadió un prefacio que contribuyó a subrayar su importancia: Formaciones económicas pre-capitalistas, escribió, fue el ‘intento más sistemático’ por parte de Marx ‘de acometer el problema de la evolución histórica’, y ‘puede decirse sin vacilación que cualquier discusión histórica marxsista que no [lo] tenga en cuenta…debe ser resconsiderada a su luz’ (Hobsbawm 1964: 10). Más y más estudiosos alrededor del mundo comenzaron en verdad a ocuparse con este texto, el cual apareció en muchos otros países y suscitó por doquier importantes discusiones históricas y teóricas.

Las traducciones de los Grundrisse tomados en su conjunto comenzó a finales de la década de 1950. Su difusión constituyó un proceso lento aunque inexorable, el cual con el tiempo permitió una apreciación más completa de la obra de Marx y, en algunos aspectos, diferente. Los mejores intérpretes de los Grundrisse acometieron su lectura en el original, pero su estudio más amplio – entre estudiosos que no podían leer alemán y, por sobre todo, entre militantes políticos y estudiantes universitarios – sólo tuvo lugar después de su publicación en varios idiomas nacionales.

Los primeros en aparecer lo hicieron en Oriente: en Japón (1958-1965) y en China (1962-1978). Una edición rusa circuló en la Unión Soviética tan sólo en 1968-1969, como suplemento a la segunda edición aumentada de los Sochineniya (1955-1966). Su exclusión previa de ellas resultaba tanto más seria por cuanto había conducido a una ausencia similar de las Marx-Engels Werke (MEW) de 1956-1968, la cual reprodujo la selección de textos soviética. La MEW – la edición más ampliamente utilizada de las obras de Marx y Engels, así como la fuente de traducciones hacia la mayoría de los demás idiomas – se vio así privada de los Grundrisse hasta su eventual publicación bajo la forma de suplemento en 1983.

Los Grundrisse también comenzaron a circular en Europa Occidental a finales de la década de 1960. La primera traducción apareció en Francia (1967-1968), pero era de calidad inferior y tuvo que ser reemplazada por una más fidedigna en 1980. Una versión italiana vino luego entre 1968 y 1970, gracias a una iniciativa que, de manera significativa, provenía al igual que en Francia de una editorial independiente del Partido Comunista.

El texto fue publicado en español en la década de 1970. Si se excluye la versión de 1970-1971 publicada en Cuba, que fue de poco valor por cuanto se elaboró a partir de la versión francesa, y cuya circulación permaneció confinada a los límites de aquel país, la primera traducción española apropiada fue realizada en Argentina entre 1971 y 1976. Luego siguieron otras tres realizadas conjuntamente en España, Argentina y México, convirtiendo al Español en el idioma con el mayor número de traducciones de los Grundrisse.

La traducción inglesa fue precedida en 1971 por una selección de extractos, cuyo editor, David McLellan, aumentó las expectativas de los lectores hacia el texto: ‘los Grundrisse son mucho más que un borrador de El capital’ (McLellan 1971: 2); en verdad, más que cualquier otra obra, ‘contiene una síntesis de los diferentes hilos del pensamiento de Marx. … En cierto sentido, ninguna de las obras de Marx está completa, pero la más completa de ellas son los Grundrisse’ (McLellan 1971: 14-15). La traducción completa llegó finalmente en 1973, veinte años completos después de la edición original en alemán. Su traductor, Martin Nicolaus, escribió en un prefacio:

Aparte de su gran valor biográfico e histórico, ellos [los Grundrisse] añaden abundante material nuevo, y se yerguen como el único esbozo del proyecto completo político y económico de Marx… Los Grundrisse desafían y ponen a prueba toda interpretación seria de Marx concebida hasta el presente.
(Nicolaus, 1973: 7)

La década de 1970 también fue crucial para las traducciones en Europa Oriental. Eso se debió a que, tan pronto se le dio luz verde en la Unión Soviética, no quedó ningún obstáculo para su aparición en los países ‘satélites’: Hungría (1972), Checoeslovaquia (1971-1977 en Checo, 1974-1975 en Eslovaco) y Rumanía (1972-1974), así como en Yugoeslavia (1979). Durante aquel mismo período, dos ediciones danesas contrastantes fueron puestas en venta más o menos simultáneamente: una por parte de la casa editorial vínculada al Partido Comunista (1974-1978), la otra por un editor cercano a la Nueva Izquierda (1975-1977).

En la década de 1980, los Grundrisse también fueron traducidos en Irán (1985-1987), en donde constituyó la primera edición rigurosa de alguna extensión de las obras de Marx en farsi, y en una serie de países europeos adicionales. La edición eslovena data de 1985, y la polaca y la finlandesa de 1986 (esta última realizada con apoyo soviético).

Con la disolución de la Unión Soviética y el final de aquello que fue conocido como ‘socialismo actualemente existente’, el cual en realidad había sido una negación flagrante del pensamiento de Marx, se produjo un adormecimiento en la publicación de los escritos de Marx. No obstante, inclusive en los años en los cuales el silencio que rodeó a su autor tan sólo fue roto por las personas que lo consignaban con certeza absoluta al olvido, los Grundrisse continuaron a ser traducidos a otros idiomas. Las ediciones en Grecia (1989-1992), Turquía (1999-2003), Corea del Sur (2000) y Brasil (programada para 2008) convierten a la obra de Marx en la obra con mayor número de traducciones en las dos últimas décadas.

Con todo, los Grundrisse habían sido traducidos en su integralidad en 22 idiomas entre un total de 32 versiones diferentes. Si no se incluyen ediciones parciales, habrá sido impreso en mas de quinientos mil ejemplares una figura que sorprendería grandemente al hombre que la escribió tan sólo para resumir, en medio del mayor de los apuros, los estudios económicos que el había emprendido hasta la fecha.

Lectores e intérpretes
La historia de la recepción de los Grundrisse, así como de su difusión, está marcada por un punto de partida bastante tardío. A parte de los intríngulis asociados con su redescubrimiento, la razón determinante de esto ciertamente se encuentra en la complejidad del manuscrito mismo por su carácter fragmentario y toscamente esbozado, tan difícil de interpretar y verter a otros idiomas. En relación con esto, el reconocido estudioso Roman Rosdolsky observó:

En 1948, cuando por primera vez tuve la buena fortuna de ver una de las que entonces eran muy escasas copias… Quedó claro desde un principio que esta era una obra de fundamental importancia para la teoría marxsista. Sin embargo, su forma inusual y en alguna medida su oscura manera de expresión la hacía muy poco adecuada para alcanzar un amplio círculo de lectores.
(Rosdolsky 1977: xi)

Estas consideraciones llevaron a Rosdolsky a intentar una clara exposición y examen crítico del texto: el resultado fue su Zur Entstehungsgeschichte des Marxschen ‘Kapital’. Der Rohentwurf des ‘Kapital’ 1857-58 [Génesis y estructura de ‘El capital’ de Marx], que apareció en alemán en 1968 y que es la primera y la principal monografía dedicada a los Grundrisse. Traducida a numerosos idiomas, estimuló la publicación y circulación de la obra de Marx y ha tenido una considerable influencia en todos sus intérpretes subsiguientes.

El año 1968 fue significativo para los Grundrisse. Además del libro de Rosdolsky, el primer ensayo acerca de él en inglés apareció en el número de marzo-abril de la New Left Review: el ‘Marx desconocido’ de Martin Nicolaus, el cual tuvo el mérito de dar a conocer los Grundrisse más ampliamente y de resaltar la necesidad de una traducción completa. Mientras tanto en Alemania e Italia, los Grundrisse ganaron a algunos de los principales actores de la revuelta estudiantil, que se entusiasmaron con el contenido radical y explosivo a medida que avanzaron por sus páginas. La fascinación era irresistible especialmente entre los miembros de la Nueva Izquierda que se habían propuesto destronar la interpretación de Marx suministrada por el marxismo-leninismo.

Por otra parte, los tiempos también cambiaban en el Oriente. Luego de un período inicial en el cual los Grundrisse fueron casi completamente ignorados, o tratados con modestia el estudio introductorio de Vitali Vygodski – Istoriya odnogo velikogo otkrytiya Karla Marksa [La historia de un gran descubrimiento: cómo escribió Marx ‘El capital’], publicada en Rusia en 1965 y en la República Democrática Alemana en 1967 – tomó un enfoque radicalmente diferente. Lo definió como un «trabajo de genio» el cual ‘nos lleva dentro del «laboratorio creativo de Marx» y nos permite seguir paso por paso el proceso mediante el cual Marx elaboró su teoría económica’, y al cual era por lo consiguiente necesario prestarle debida atención (Vygodski 1974: 44).

En un plazo de pocos años, los Grundrisse se convirtieron en un texto clave de muchos marxistas influyentes. A parte de aquellos que ya se mencionaron, los estudiosos que se dedicaron especialmente con él fueron: Walter Tuchscheerer en la República Democrática Alemana, Alfred Schmidt en la República Federal Alemana, miembros de la Escuela Busdapest en Hungría, Lucien Sève en Francia, Kiyoaki Hirata en Japon, Gajo Petrović en Yugoslavia, Antonio Negri en Italia, Adam Schaff en Polonia y Allen Oakley en Australia. En general, se convirtió en una obra con la cual tenía que enfrentarse cualquier estudioso serio de Marx. Con numerosos matices, los intérpretes de los Grundrisse se dividieron entre aquellos que consideraban que se trataba de una obra autónoma conceptualmente completa en sí misma, y quienes veían en ella un manuscrito temprano que simplemente preparaba el terreno para ‘El capital’. El transfondo ideológico de las discusiones acerca de los Grundrisse – el núcleo de la disputa era la legitimidad o ilegitimidad de los caminos de aproximación a Marx, con sus enormes repercusiones políticas – favorecían el desarrollo de interpretaciones inadecuadas y de lo que hoy parecería intepretaciones risibles. Algunos de los más celosos comentaristas de los Grundrisse inclusive argumentaron que eran superiores teoricamente a ‘El capital’ a pesar de los diez años adicionales de intensa investigación que se fueron en la composición de este último. De manera similar, entre los principales detractores de los Grundrisse, hubo algunos que afirmaron que, a pesar de las importantes secciones que ayudaron a nuestra comprensión de la relación de Marx con Hegel y a pesar de los significativos pasajes sobre la alienación, dicha obra no añadía nada a lo que ya se sabía acerca de Marx.

No solamente existían lecturas opuestas de los Grundrisse, sino que también hubo no-lecturas de ellos – el ejemplos más impactante y representativo de ellas fue el de Louis Althusser. Incluso mientras él intentaba hacer hablar a los supuestos silencios de Marx, y leer ‘El capital’ en tal manera que ‘se hicieran visibles cuales quiera superviviencias invisibles que en él hubiesen’ (Althusser y Balibar 1979: 32), él se permitió omitir la conspicua masa de centenares de páginas escritas de los Grundrisse y de efectuar una división (que más tarde acaloradamente debatida) del pensamiento de Marx entre las obras de juventud y las obras de madurez sin haber tomado conocimiento del contenido y de la significancia de los manuscritos de 1857-58 .

Sin embargo, a partir de mediados de la década de 1970, los Grundrisse ganaron un número aún mayor de lectores e intérpretes. Aparecieron dos comentarios extensos de ellos, uno en japonés en 1974 (Morita y Yamada en 1974), los otros en alemán en 1978 (Projekt-gruppe Entwicklung des Marxschen Systems 1978), pero numerosos otros autores también escribieron acerca de ellos. Una cantidad de estudiosos lo consideraron un texto de especial importancia para uno de los debates más amplios relacionados con el pensamiento de Marx: su deuda intelectual con Hegel. Otros quedaron fascinados con las afirmaciones casi proféticas en los fragmentos que tratan de la maquinaria y automatización y también en Japon los Grundrisse fueron leídos como un texto altamente tópico para nuestra comprensión de la modernidad. En la década de 1980, comenzaron a aparecer los primeros estudios detallados en China, en donde el trabajo fue utilizado para iluminar la génesis de ‘El capial’, en tanto que en la Unión Soviética se publicó un volumen colectivo totalmente dedicado a los Grundrisse (Vv. Aa. 1987).

En años recientes, la perdurable capacidad de las obras de Marx para explicar (a la vez que criticar) el modo de producción capitalista ha generado un renovado interés de parte de numerosos estudiosos internacionales (ver Musto 2007). Si dicho resurgimiento perdura y si es acompañado por una nueva demanda por las ideas de Marx en el campo de la política, los Grundrisse resultaran ser una vez más uno de sus escritos capaces de atraer mayor atención.

Mientras tanto, con la esperanza de que ‘la teoría de Marx sea una fuente viva de conocimiento y de la práctica política que dicho conocimiento dirige’ (Rosdolsky 1977: xiv), la historia presentada aquí acerca de la difusión y recepción globales de los Grundrisse es ofrecida como un humilde reconocimiento de su autor y como un intento de reconstruir un capítulo aún no escrito de la historia del marxismo.

Apéndice 1: cuadro cronológico de traducciones de los Grundrisse

1939-41 Primera edición alemana
1953 Segunda edición alemana
1958-65 Traducción japonesa
1962-78 Traducción china
1967-68 Traducción francesa
1968-69 Traducción rusa
1968-70 Traducción italiana
1970-71 Traducción española
1971-77 Traducción checa
1972 Traducción húngara
1972-74 Traducción rumana
1973 Traducción inglesa
1974-75 Traducción eslovaca
1974-78 Traducción danesa
1979 Traducción al serbio/serbo-croata
1985 Traducción eslovena
1985-87 Traducción farsi
1986 Traducción al polonés
1986 Traducción al finés
1989-92 Traducción al griego
1999-2003 Traducción turca
2000 Traducción coreana
2008 Traducción portuguesa

 

Apéndice 2: unas cuantas puntualizaciones acerca del contenido y de la estructura de la parte III

La investigación acerca de los Grundrisse recopilada en las siguientes páginas fue emprendida en todos los países en donde la obra ha recibido una traducción completa. Los países que comparten un idioma común (Alemania, Austria y Suiza para el alemán; Cuba, Argentina, España y México para el español; Estados Unidos, Gran Bretaña y Canadá para el inglés; Brasil y Portugal para el portugués), en donde la difusión de los Grundrisse tuvo lugar más o menos en paralelo, han sido tratados en un único capítulo. De manera similar, los capítulos relacionados con los países en los cuales los Grundrisse fueron traducidos en más de un idioma (Checoslovaquia y Yugoslavia) incluyen la historia de la difusión en todos las lenguas concernidas. Adicionalmente, puesto que aquellos dos países ya no existen como tales, los títulos de los capítulos llevan los nombres que dichos países tenían cuando los Grundrisse fueron publicados allí.

La secuencia de capítulos sigue el orden cronológico de publicación de los Grundrisse. La única excepción es el capítulo sobre ‘Rusia y la Unión Soviética’, el cual viene inmediatamente después de ‘Alemania, Austria y Suiza’ debido a los estrechos vínculos existentes entre ambos y porque la primera publicación de los Grundrisse en alemán tuvo lugar en la Unión Soviética.

Cada capítulo contiene una bibliografía detallada, la cual se subdivide de la manera siguiente:

  1. Las ediciones completas de los Grundrisse
  2. Las principales ediciones parciales de los Grundrisse
  3. La literatura crítica acerca de los Grundrisse
  4. Donde fuese necesario, otras referencias bibliográficas

En la primera de estas divisiones, se añadió a veces información editorial acerca de la traducción y difusión de los diferentes textos. Cuando fueron añadidos por los autores dentro del texto, en gracia de la brevedad no fueron repetidos en la bibliografía. Los mismos criterios fueron adoptados para los nombres de los traductores de los Grundrisse o de sus ediciones parciales (los nombres de los traductores de los libros incluídos en ‘Literatura crítica acerca de los Grundrisse’ y ‘Otras referencias’ no fueron añadidas del todo) y para los nombres de las numerosas reseñas mencionadas.

Puesto que la investigación descubrió varios centenares de libros o de artículos que trataban de los Grundrisse, las consideraciones de espacio hicieron posible incluir en la bibliografía solamente: 1. las ediciones parciales de los Grundrisse que precedieron la edición completa y en raros casos, algunas ediciones de particular interés subsiguientes; 2. la literatura crítica mencionada por cada autor.

Todos los títulos de los libros y artículos no ingleses aparecen primero en el idioma original (transliterado en los casos del japonés, el chino, el farsi, el griego y el coreano) y luego en una traducción inglesa. En general, la traducción de títulos se ha dado en el texto, pero, si el capítulo en cuestión cita un libro o artículo siguiendo el sistema de referencia de Harvard (es decir, únicamente con el apellido del autor y el año de la publicación), la traducción puede ser hallada en la bibliografía. Finalmente, en el caso de libros y artículos ya traducidos al inglés, siempre han sido citados bajo el título de dicha traducción, inclusive si difiere de una literal.

Referencias
1. La versión rusa de este informe fue publicada en 1923.
2. Ver la tabla cronológica de traducciones en el Apéndice 1. A las traducciones completas arriba mencionadas deberían agregarse las selecciones en sueco (Karl Marx, Grunddragen i kitiken av den politiska ekonomin, Stockholm: Zenit/R&S, 1971) y Macedonio (Karl Marx, Osnovi na kitrikata na politickata ekonomija (grub nafrlok): 1857-1858, Skopje: Komunist, 1989), así como las traducciones de la Introducción y Las Formas que preceden la producción capitalista a un gran número de idiomas, desde el vietnamita al noruego, así como en árabe, neerlandés y búlgaro.
3. El total se ha calculado adicionando los tirajes verificados durante investigaciones realizadas en los países en cuestión.
4. Ver Sève (2004), quien recuerda cómo ‘con excepción de textos tales como la Introducción […] Althusser nunca leyó los Grundrisse, en el auténtico sentido de la palabra leer’ (p. 29). Adaptando el término de Gaston Bachelard ‘ruptura epistemológica’ (coupure epistémologique), el cual el propio Althusser tomó prestado y utilizó, Sève habla de una ‘ruptura bibliográfica artificial’ (coupure bibliographique) que condujo a las visiones más equivocadas acerca de su génesis y por consiguiente de su consistencia con el pensamiento maduro de Marx (p. 30).

Bibliography
Althusser, Louis and Balibar, Étienne (1979) Reading Capital, London: Verso.
Hobsbawm, Eric J. (1964) ‘Introduction’, in Karl Marx, Pre-Capitalist Economic Formations, London: Lawrence & Wishart, pp. 9-65.
Marx, Karl (1903) ‘Einleitung zu einer Kritik der politischen Ökonomie’, Die Neue Zeit, Year 21, vol. 1: 710–18, 741–5, and 772–81.
Marx-Engels-Lenin-Institut (1939), ‘Vorwort’ (Foreword), in Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf) 1857–1858, Moscow: Verlag für Fremdsprachige Literatur, pp. VII-XVI.
McLellan, David (1971) Marx’s Grundrisse, London: Macmillan.
Morita, Kiriro and Toshio Yamada, Toshio (1974) Komentaru keizaigakuhihan’yoko (Commentaries on the Grundrisse), Tokyo: Nihonhyoronsha.
Musto, Marcello (2007) ‘The Rediscovery of Karl Marx’, International Review of Social History, 52/3: 477-98.
Nicolaus, Martin (1973) ‘Foreword’, in Marx, Karl Grundrisse, Harmondsworth: Penguin Books, pp. 7-63.
Projektgruppe Entwicklung des Marxschen Systems (1978) Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf). Kommentar (Outlines of the Critique of Political Economy. Rough Draft. Commentary), Hamburg: VSA.
Rosdolsky, Roman (1977) The Making of Marx’s ‘Capital’, vol. 1, London: Pluto Press.
Ryazanov, David (1925) ‘Neueste Mitteilungen über den literarischen Nachlaß von Karl Marx und Friedrich Engels’ (Latest reports on the literary bequest of Karl
Marx and Friedrich Engels), Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung, Year 11: 385-400.
Sève, Lucien (2004) Penser avec Marx aujourd’hui, Paris: La Dispute.
Vv. Aa. (1987) Pervonachal’ny variant ‘Kapitala’. Ekonomicheskie rukopisi K. Marksa 1857–1858 godov (The first version of Capital, K. Marx’s Economic Manuscripts of 1857–1858), Moscow: Politizdat.
Vygodski, Vitali (1974) The Story of a Great Discovery: How Marx Wrote ‘Capital’, Tunbridge Wells: Abacus Press.

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Introduzione

1. Le origini del concetto.
L’alienazione può essere annoverata tra le teorie più rilevanti e dibattute del XX secolo e la concezione che ne elaborò Marx assunse un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema. Tuttavia, diversamente da come si potrebbe immaginare, il percorso della sua affermazione non è stato affatto lineare e le pubblicazioni di alcuni inediti di Marx, contenenti riflessioni sull’alienazione, hanno rappresentato significativi punti di svolta per la trasformazione e la diffusione di questa teoria.

Nel corso dei secoli, il termine alienazione fu utilizzato più volte e con mutevoli significati. Nella riflessione teologica esso designò il distacco dell’uomo da dio; nelle teorie del contratto sociale servì a indicare la perdita della libertà originaria dell’individuo; mentre nell’economia politica inglese venne adoperato per descrivere la cessione della proprietà della terra e delle merci. La prima sistematica esposizione filosofica dell’alienazione avvenne solo all’inizio dell’Ottocento e fu opera di Georg W. F. Hegel (1770-1831). Nella Fenomenologia dello spirito (1807), infatti, egli ne fece la categoria centrale del mondo moderno e adoperò i termini di Entäusserung (rinuncia) ed Entfremdung (estraneità, scissione) per rappresentare il fenomeno mediante il quale lo spirito diviene altro da sé nell’oggettività. Tale problematica ebbe grande importanza anche presso gli autori della Sinistra hegeliana e la concezione di alienazione religiosa elaborata da Ludwig Feuerbach (1804-1872) nell’Essenza del cristianesimo (1841), ovvero la critica del processo mediante il quale l’uomo si convince dell’esistenza di una divinità immaginaria e si sottomette a essa, contribuì in modo significativo allo sviluppo del concetto.

Successivamente, l’alienazione scomparve dalla riflessione filosofica e nessuno tra i maggiori autori della seconda metà dell’Ottocento vi dedicò particolare attenzione. Lo stesso Marx impiegò il termine in rarissime occasioni nelle opere pubblicate nel corso della sua esistenza, e questo tema risultò del tutto assente anche nel marxismo della Seconda Internazionale (1889-1914) .

Tuttavia, a cavallo tra i due secoli, alcuni pensatori elaborarono alcuni concetti che, successivamente, furono associati a quello di alienazione. Nei libri La divisione del lavoro sociale (1893) e Il suicidio (1897), ad esempio, Émile Durkheim (1858-1917) formulò la nozione di «anomia», con la quale intese indicare quell’insieme di fenomeni che si manifestavano nelle società in cui le norme preposte a garantire la coesione sociale entravano in crisi in seguito al forte sviluppo della divisione del lavoro. I mutamenti sociali intervenuti nel XIX secolo, con le enormi trasformazioni del processo produttivo, costituirono anche lo sfondo delle riflessioni dei sociologi tedeschi. Nella Filosofia del denaro (1900), Georg Simmel (1858-1918) dedicò grande attenzione al predominio delle istituzioni sociali sugli individui e all’impersonalità dei rapporti umani, mentre in Economia e società (1922) Max Weber (1864-1920) si soffermò sui concetti di «burocratizzazione» e di «calcolo razionale» nelle relazioni umane, considerati l’essenza del capitalismo. Questi autori, però, reputarono tali fenomeni come eventi inevitabili e le loro considerazioni furono sempre guidate dalla volontà di rendere migliore l’ordine politico e sociale esistente, e non certo da quella di sovvertirlo con un altro.

2. La riscoperta dell’alienazione.
La riscoperta della teoria dell’alienazione avvenne grazie a György Lukács (1885-1971). In Storia e coscienza di classe (1923), riferendosi ad alcuni passaggi del libro I di Il capitale (1867) di Marx, in particolare al paragrafo dedicato al «carattere di feticcio della merce» (Der Fetischcharakter der Ware), egli elaborò il concetto di reificazione (Verdinglichung o Versachlichung), ovvero il fenomeno attraverso il quale l’attività lavorativa si contrappone all’uomo come qualcosa di oggettivo e indipendente e lo domina mediante leggi autonome e a lui estranee. Nei suoi tratti fondamentali, però, la teoria di Lukács era ancora troppo simile a quella hegeliana, poiché anch’egli concepì la reificazione come un «fatto strutturale fondamentale» . Così, quando negli anni sessanta, soprattutto dopo la comparsa della traduzione francese del suo libro , questo testo tornò a esercitare una grande influenza tra gli studiosi e i militanti di sinistra, Lukács decise di ripubblicare il suo scritto in una nuova edizione introdotta da una lunga Prefazione autocritica, nella quale, per chiarire la sua posizione, affermò: «Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui […] l’estraneazione viene posta sullo stesso piano dell’oggettivazione» .

Un altro autore che, nel corso degli anni venti, prestò grande attenzione a queste tematiche fu Isaak Ilijč Rubin (1886-1937). Nel suo scritto Saggi sulla teoria del valore di Marx (1924), egli sostenne che la teoria del feticismo costituiva «la base dell’intero sistema economico di Marx e, in particolare, della sua teoria del valore» . Per l’autore russo, la reificazione dei rapporti sociali rappresentava «un fatto reale del capitalismo» , ovvero consisteva in «una vera e propria “materializzazione” dei rapporti di produzione, e non di una semplice “mistificazione” o di un’illusione ideologica. Si tratta[va] di uno dei caratteri strutturali dell’economia nella società attuale. […] Il feticismo non [era] solo un fenomeno della coscienza sociale, ma dell’essere sociale stesso» . Nonostante queste intuizioni, lungimiranti se si considera il periodo in cui furono scritte, l’opera di Rubin non riuscì a favorire la conoscenza della teoria dell’alienazione, poiché, essendo stata tradotta in inglese soltanto nel 1972, conobbe una tarda ricezione in Occidente.

L’evento decisivo che intervenne a rivoluzionare in maniera definitiva la diffusione del concetto di alienazione fu la pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1844), un inedito appartenente alla produzione giovanile di Marx. Da questo testo emerse il ruolo di primo piano conferito alla teoria dell’alienazione durante un’importante fase dello sviluppo della sua concezione: la scoperta dell’economia politica . Marx, infatti, mediante la categoria di lavoro alienato (entfremdete Arbeit) non solo traghettò la problematica dell’alienazione dalla sfera filosofica, religiosa e politica a quella economica della produzione materiale, ma fece di quest’ultima anche il presupposto per potere comprendere e superare le prime . Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’alienazione venne descritta come il fenomeno attraverso il quale il prodotto del lavoro «sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente» . Per Marx, «l’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esistenza esterna, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica» .

Accanto a questa definizione generale, Marx elencò quattro differenti tipi di alienazione che indicavano come nella società borghese il lavoratore fosse alienato: a) dal prodotto del suo lavoro, che diviene un «oggetto estraneo e avente un dominio su di lui»; b) dall’attività lavorativa, che viene percepita come «rivolta contro lui stesso […] [e] a lui non appartenente»; c) dal genere umano, poiché la «essenza specifica dell’uomo» è trasformata in «un’essenza a lui estranea»; e d) dagli altri esseri umani, ovvero rispetto «al lavoro e all’oggetto del lavoro» realizzati dai suoi simili.

Per Marx, diversamente da Hegel, l’alienazione non coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, ma con una precisa realtà economica e con uno specifico fenomeno: il lavoro salariato e la trasformazione dei prodotti del lavoro in oggetti che si contrappongono ai loro produttori. La diversità politica tra le due interpretazioni è enorme. Contrariamente a Hegel, che aveva rappresentato l’alienazione quale manifestazione ontologica del lavoro, Marx concepì questo fenomeno come la caratteristica di una determinata epoca della produzione, quella capitalistica, ritenendone possibile il superamento mediante «l’emancipazione della società dalla proprietà privata» . Considerazioni analoghe furono sviluppate nei quaderni di appunti contenenti gli estratti dall’opera Elementi di economia politica (1821) di James Mill (1773-1836):

il […] lavoro sarebbe libera manifestazione della vita e dunque godimento della vita. Ma nelle condizioni della proprietà privata esso è alienazione della vita; infatti io lavoro per vivere, per procurarmi mezzi per vivere. Il mio lavoro non è vita. In secondo luogo: nel lavoro sarebbe quindi affermata la peculiarità della mia individualità, poiché vi sarebbe affermata la mia vita individuale. Il lavoro sarebbe dunque vera e attiva proprietà. Ma nelle condizioni della proprietà privata la mia individualità è alienata al punto che questa attività mi è odiosa, è per me un tormento e solo la parvenza di un’attività, ed è pertanto anche soltanto un’attività estorta ed impostami soltanto da un accidentale bisogno esteriore, e non da un bisogno necessario interiore. Dunque, anche in queste frammentarie e, talvolta, esitanti formulazioni giovanili, Marx trattò l’alienazione sempre da un punto di vista storico e mai naturale.

3. Le altre concezioni dell’alienazione.
Ci sarebbe voluto ancora molto tempo, però, prima che una concezione storica, e non ontologica, dell’alienazione potesse affermarsi. La maggior parte degli autori che, nei primi decenni del Novecento, si occupò di questa problematica lo fece sempre considerandola un aspetto universale dell’esistenza umana. In Essere e tempo, Martin Heidegger (1889-1976) affrontò il problema dell’alienazione dal versante meramente filosofico e considerò questa realtà come una dimensione fondamentale della storia. La categoria da lui utilizzata per descrivere la fenomenologia dell’alienazione fu quella di «decadimento» (Verfallen) , cioè la tendenza dell’Esserci (Dasein) – che nella filosofia heideggeriana indica la costituzione ontologica della vita umana – a perdersi nell’inautenticità e nel conformismo del mondo che lo circonda. Per Heidegger, «questo stato presso il “mondo” significa l’immedesimazione nell’essere-assieme dominato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco» . Un territorio, dunque, completamente diverso dalla fabbrica e dalla condizione operaia che furono al centro delle preoccupazioni e dell’elaborazione di Marx. Inoltre, questa condizione di «decadimento» non fu considerata da Heidegger come una condizione «negativa e deplorevole, che il progredire della civiltà umana avrebbe potuto un giorno annullare» , ma come una caratteristica ontologica, «un modo esistenziale dell’essere-nel-mondo» . Heidegger tentò anche di alterare lo stesso significato della concezione marxiana di alienazione. Nella Lettera sull’«umanismo» (1947) egli elogiò Marx, affermando che in lui la «alienazione raggiunge[va] una dimensione essenziale della storia» .

Tuttavia, questa posizione non corrisponde al vero poiché non è presente in nessuno degli scritti di Marx.
Anche Herbert Marcuse (1898-1979), che diversamente da Heidegger conosceva bene l’opera di Marx , identificò l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. Nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica (1932), egli sostenne che il «carattere di peso del lavoro» non poteva essere ricondotto meramente a «determinate condizioni presenti nell’esecuzione del lavoro, alla sua organizzazione tecnico-sociale», ma andava considerato come uno dei suoi tratti fondamentali:

quando è all’opera, il lavoratore è «presso la cosa», sia che stia dietro una macchina, o che progett[i] piani tecnici, o che prenda delle misure organizzative, o che studi problemi scientifici, o che istruisc[a] gli uomini, ecc. Nel suo fare si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando domina il suo oggetto […]. In ogni caso non è «presso di sé» […], è presso «l’altro da sé», anche quando questo fare dà compimento alla propria vita liberamente assunta. Questa alienazione ed estraneazione dell’esistenza […] è, per principio, ineliminabile.

Per Marcuse, quindi, esisteva una «negatività originaria del fare lavorativo», che egli reputava appartenere alla «essenza stessa dell’esistenza umana» . La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. Il superamento dell’alienazione fu ritenuto possibile soltanto attraverso il gioco, momento nel quale l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva: «un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico» .

In Eros e civiltà (1955), Marcuse prese le distanze dalla concezione marxiana in modo netto. Affermò che l’emancipazione dell’uomo poteva realizzarsi solo mediante la liberazione dal lavoro (abolition of labor) e attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali. La possibilità di superare lo sfruttamento, mediante la nascita di una società basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, venne da lui accantonata, poiché il lavoro in generale, non solo quello salariato, venne considerato come

lavoro per un apparato che essi [la grande maggioranza della popolazione] non controllano, che opera come un potere indipendente. A questo potere gli individui, se vogliono vivere, devono sottomettersi, ed esso diventa tanto più estraneo quanto più si specializza la divisione del lavoro. […] Lavorano in uno stato di alienazione […] [in] assenza di soddisfazione [e] negazione del principio del piacere.

La norma cardine contro cui gli esseri umani avrebbero dovuto ribellarsi era il principio di prestazione (performance) imposto dalla società. Secondo Marcuse, infatti,

il conflitto tra sessualità e civiltà si acuisce con lo sviluppo del dominio. Sotto la legge del principio di prestazione, corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel soggetto-oggetto libidico che originalmente l’organismo umano è, e desidera essere. […] L’uomo esiste come strumento di prestazione alienata .

Dunque, egli concluse che la produzione materiale, anche se organizzata in modo equo e razionale, «non potrà mai rappresentare un regno di civiltà e di soddisfazione […]. È la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e la realizzazione» . L’alternativa proposta da Marcuse fu l’abbandono del mito prometeico caro al giovane Marx, per approdare a un orizzonte dionisiaco: la «liberazione dell’eros» . Diversamente da Sigmund Freud (1856-1939), il quale nel Disagio della civiltà (1930) aveva sostenuto che un’organizzazione non repressiva della società avrebbe comportato una pericolosa regressione del livello di civiltà raggiunto nei rapporti umani , Marcuse era convinto che se la liberazione degli istinti fosse avvenuta in una «società libera», altamente tecnologizzata e al servizio dell’uomo, essa avrebbe favorito non solo «uno sviluppo del progresso» , ma anche creato «nuovi e duraturi rapporti di lavoro» .

In questo evolversi del suo pensiero, una significativa influenza fu esercitata dalle idee di Charles Fourier (1772-1837) il quale, nella Teoria dei quattro movimenti (1808), si era opposto ai sostenitori del «sistema commerciale», verso i quali utilizzò in senso dispregiativo l’epiteto di «civilizzati», e aveva sostenuto che la società sarebbe stata libera solo nel momento in cui tutti i suoi componenti fossero ritornati a esprimere le loro passioni. Queste erano per lui ben più importanti della «ragione», in nome della quale erano stati compiuti «tutti i massacri di cui la storia ha trasmesso il ricordo» . Secondo Fourier, il principale errore per un regime politico consisteva, dunque, nella repressione della natura umana. L’«armonia» sarebbe stata possibile solo se gli individui avessero potuto sprigionare, come quando si trovavano allo stato naturale, tutti i loro istinti.

Quanto a Marcuse, giunto a perorare la necessità di opporsi al dominio tecnologico in generale, le indicazioni che egli fornì sul modo in cui una nuova società avrebbe potuto prendere corpo furono più che vaghe. La critica dell’alienazione non rispondeva più allo scopo di contrastare i rapporti di produzione capitalistici e Marcuse approdò, alla fine, a una riflessione così pessimistica sulle possibilità di un cambiamento sociale da includere persino la classe operaia tra i soggetti che operavano in difesa del sistema.

La prefigurazione di un’estraneazione generalizzata, prodotta da un controllo sociale invasivo e dalla manipolazione dei bisogni creata dalla capacità d’influenza dei mass-media , fu teorizzata anche da Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969), altri due esponenti di punta della Scuola di Francoforte. In Dialettica dell’illuminismo (1947), essi affermarono che «la razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. È il carattere coatto […] della società estraniata a sé stessa» . Essi ponevano in evidenza come, nel capitalismo, persino la sfera del divertimento, un tempo libera e alternativa al lavoro, fosse stata assorbita negli ingranaggi della riproduzione del consenso.

Dopo la seconda guerra mondiale, il concetto di alienazione approdò anche alla psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud, per la quale, nella società borghese, gli esseri umani sono posti dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura. Per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione, essi dovevano necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni: «di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza» . Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta a un fenomeno meramente soggettivo.

L’esponente che più si occupò di alienazione, in questa disciplina, fu Erich Fromm (1900-1980). Diversamente dalla maggioranza dei suoi colleghi, egli non separò mai le manifestazioni dell’alienazione dal contesto storico capitalistico e, con i suoi scritti Psicanalisi della società contemporanea (1955) e L’uomo secondo Marx (1961), si servì di questo concetto per tentare di costruire un ponte tra la psicoanalisi e il marxismo. Tuttavia, anche Fromm affrontò questa problematica privilegiando sempre l’analisi soggettiva e la sua concezione di alienazione, che riassunse come «una forma di esperienza per la quale la persona conosce sé stessa come un estraneo» , rimase troppo circoscritta al singolo. Inoltre, la sua interpretazione della concezione dell’alienazione in Marx si basò sui soli Manoscritti economico-filosofici del 1844 e si caratterizzò per una profonda incomprensione della specificità e della centralità del concetto di lavoro alienato nel pensiero di Marx. Questa lacuna impedì a Fromm di conferire il dovuto risalto all’alienazione oggettiva, ovvero quella dell’operaio nell’attività lavorativa e rispetto al prodotto del suo lavoro, e lo portò a sostenere, proprio per aver trascurato l’importanza dei rapporti produttivi, tesi che appaiono persino ingenue:

Marx credeva che la classe operaia fosse la più estraniata […], non previde fino a che punto l’alienazione doveva diventare il destino della grande maggioranza della popolazione […]. L’impiegato, l’addetto alle vendite, il dirigente, sono oggi anche più alienati del lavoratore manuale specializzato. L’attività di quest’ultimo dipende ancora dall’espressione di certe qualità personali quali l’abilità specifica, l’attendibilità, ecc; ed egli non è costretto a vendere la sua «personalità», il suo sorriso, le sue opinioni in un affare.

Anche Jean-Paul Sartre (1905-1980) e gli esistenzialisti francesi si occuparono di alienazione . A partire dagli anni quaranta, in un periodo caratterizzato dagli orrori della guerra, dalla conseguente crisi delle coscienze e, nel panorama francese, dal neohegelismo di Alexandre Kojève (1902-1968) , il fenomeno dell’alienazione fu assunto come riferimento ricorrente sia in filosofia che in narrativa . Tuttavia, anche in questa fase, la nozione di alienazione assunse un profilo molto più generico rispetto a quello esposto da Marx. Essa fu identificata con un indistinto disagio dell’essere umano nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, significativamente, come condition humaine non sopprimibile. I filosofi esistenzialisti non fornirono una specifica origine sociale dell’alienazione, ma, tornando ad assimilarla con ogni fattualità, concepirono l’alienazione come un senso generico di alterità umana (il fallimento del «socialismo reale» in Unione Sovietica favorì certamente l’affermazione di questa posizione).

In una delle opere più significative di questa tendenza filosofica, i Saggi su Marx e Hegel (1955), Jean Hyppolite (1907-1968) espose questa posizione nel modo seguente:

[l’alienazione] non ci pare riducibile immediatamente al solo concetto di alienazione dell’uomo nel capitale, come lo intende Marx. Questo è solo un caso particolare di un problema più universale, che è quello dell’autocoscienza umana che, incapace di pensarsi come un «cogito» separato, si trova solamente nel mondo che edifica, negli altri io che riconosce e che, a volte, misconosce. Ma questo modo di ritrovarsi nell’altro, questa oggettivazione, è sempre più o meno una alienazione, una perdita di sé e nello stesso tempo un ritrovarsi. Così oggettivazione e alienazione sono inseparabili e la loro unità non può essere altro che l’espressione di una tensione dialettica che si vede nel movimento stesso della storia .

Marx aveva contribuito a sviluppare una critica della soggezione umana basata sull’opposizione ai rapporti di produzione capitalistici . Gli esistenzialisti, invece, intrapresero una strada diversa, ovvero tentarono di riassorbire il pensiero di Marx, attraverso quelle parti della sua opera giovanile che potevano risultare più utili alle loro tesi, in una discussione priva di una specifica critica storica e a tratti meramente filosofica.

4. Il dibattito sul concetto di alienazione negli scritti giovanili di Marx.
Nella discussione sull’alienazione che si sviluppò in Francia, il ricorso alle teorie di Marx fu molto frequente. Tuttavia, in questo dibattito, spesso furono esaminati soltanto i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e non vennero prese in considerazione neanche le parti del libro I di Il capitale in base alle quali Lukács aveva costruito la sua teoria della reificazione negli anni venti. Inoltre, alcune frasi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono completamente estrapolate dal contesto e vennero trasformate in citazioni sensazionali aventi lo scopo di dimostrare la presunta esistenza di un «nuovo Marx», radicalmente diverso da quello fino ad allora conosciuto, perché intriso di teoria filosofica e ancora privo del determinismo economico che alcuni suoi commentatori attribuivano a Il capitale – testo, a dire il vero, molto poco letto da quanti sostennero questa tesi. Anche rispetto al solo manoscritto del 1844, gli esistenzialisti francesi privilegiarono di gran lunga la nozione di autoalienazione (Selbstentfremdung), cioè il fenomeno per il quale il lavoratore è alienato dal genere umano e dai suoi simili, che Marx aveva trattato nel suo scritto giovanile, ma sempre in relazione all’alienazione oggettiva.

Lo stesso clamoroso errore fu commesso da un esponente di primo piano del pensiero filosofico-politico del dopoguerra. Nell’opera Vita Activa (1958), infatti, Hannah Arendt (1906-1975) costruì la propria interpretazione del concetto di alienazione in Marx solo in base ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, e per giunta privilegiando, tra le tante tipologie di alienazione indicate da Marx, esclusivamente quella soggettiva:

l’espropriazione e l’alienazione del mondo coincidono; e l’età moderna, contro le stesse intenzioni dei suoi protagonisti, cominciò con l’alienare dal mondo certi strati della popolazione. […] L’alienazione del mondo, quindi, e non l’alienazione di sé, come pensava Marx, è stata la caratteristica distintiva dell’età moderna .

A dimostrazione della sua scarsa attenzione verso le opere della maturità di Marx, dovendo segnalare i passi dai quali si potesse evincere come Marx aveva «una certa consapevolezza delle indicazioni nel senso dell’alienazione mondana nella economia capitalistica», la Arendt rimandò all’articolo giornalistico giovanile Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, e non alle decine di pagine in proposito, certamente ben più significative, contenute nel libro I di Il capitale e nei suoi manoscritti preparatori. La sua sorprendente conclusione fu che: «nell’insieme dell’opera di Marx queste considerazioni occasionali [avevano] un ruolo secondario, mentre una parte di primo piano [era] giocata dall’estremo soggettivismo moderno» . Dove e in che modo, nella sua analisi della società capitalistica, Marx avesse privilegiato «l’alienazione di sé» resta un mistero di cui la Arendt non fornì spiegazione nel suo scritto.

Negli anni sessanta, l’esegesi della teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 divenne il pomo della discordia rispetto all’interpretazione generale di Marx. In questo periodo venne concepita la distinzione tra due presunti Marx: il «giovane Marx» e il «Marx maturo». Questa arbitraria e artificiale contrapposizione fu alimentata sia da quanti preferirono il Marx delle opere giovanili e filosofiche (ad esempio la gran parte degli esistenzialisti), sia da quanti (tra questi Louis Althusser, 1918-1990, e quasi tutti i marxisti sovietici) affermarono che il solo vero Marx fosse quello di Il capitale.

Coloro che sposarono la prima tesi considerarono la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il punto più significativo della critica marxiana della società; mentre quelli che abbracciarono la seconda ipotesi mostrarono, spesso, una vera e propria «fobia dell’alienazione», tentando, in un primo momento, di minimizzarne il rilievo e, quando ciò non fu più possibile, considerando il tema dell’alienazione come «un peccato di gioventù, un residuo di hegelismo» , successivamente abbandonato da Marx. I primi rimossero la circostanza che la concezione dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 era stata scritta da un autore ventiseienne e appena agli albori dei suoi studi principali; i secondi, invece, non vollero riconoscere l’importanza della teoria dell’alienazione in Marx anche quando, con la pubblicazione di nuovi inediti, divenne evidente che egli non aveva mai smesso di occuparsene nel corso della sua esistenza e che essa, anche se mutata, aveva conservato un posto di rilievo nelle tappe principali dell’elaborazione del suo pensiero.

Sostenere, come affermarono in tanti, che la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 fosse il tema centrale del pensiero di Marx è un falso che denota soltanto la scarsa familiarità con la sua opera da parte di coloro che propesero per questa tesi . D’altro canto, quando dopo la seconda guerra mondiale Marx diventò l’autore più discusso e citato nella letteratura filosofica mondiale proprio per le sue pagine inedite relative all’alienazione, il silenzio dell’Unione Sovietica su questa tematica, e sulle controversie a essa legate, fornì un esempio della strumentalizzazione dei suoi scritti in quel paese. L’esistenza dell’alienazione in Unione Sovietica, e nei suoi paesi satelliti, fu semplicemente negata e tutti i testi che trattavano questa problematica vennero ritenuti sospetti. Secondo Henri Lefebvre (1901-1991), «nella società sovietica non poteva, non doveva più essere questione di alienazione. Il concetto doveva sparire, per ordine superiore, per la ragion di Stato» . E, così, fino agli anni settanta, furono pochissimi gli autori che, nel «campo socialista», scrissero delle opere in proposito.

Infine, anche affermati autori europei sottovalutarono la complessità del fenomeno. Lucien Goldmann (1913-1970) si illuse circa il possibile superamento dell’alienazione nelle condizioni economico-sociali del tempo e dichiarò, nel suo libro Ricerche dialettiche (1958), che essa sarebbe scomparsa, o regredita, grazie al mero effetto della pianificazione. Secondo Goldmann, «la reificazione è invero un fenomeno strettamente legato alla assenza di pianificazione e alla produzione per il mercato». Il socialismo sovietico a Est e le politiche keynesiane in Occidente avrebbero portato «al risultato di una soppressione della reificazione nel primo caso, [e] di un affievolimento progressivo nel secondo» . La storia ha dimostrato la fallacia delle sue previsioni.

5. Il fascino irresistibile della teoria dell’alienazione.
A partire dagli anni sessanta esplose una vera e propria moda per la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri e articoli sul tema . Fu il tempo dell’alienazione tout court. Il periodo durante il quale numerosi autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, all’anomia, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifesta nel rapporto con le nuove tecnologie, e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, e all’inquinamento ambientale.

Il concetto di alienazione sembrò riflettere alla perfezione lo spirito del tempo e costituì anche il terreno d’incontro, nell’elaborazione della critica alla società capitalistica, tra il marxismo filosofico e anti-sovietico e il cattolicesimo più democratico e progressista. La popolarità del concetto e la sua applicazione indiscriminata, però, crearono una profonda ambiguità terminologica . Così, nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e lo spropositato ampliamento della sua nozione generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno tanto esteso da apparire immodificabile.

Con il libro La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord (1931-1994), divenuto poco dopo la sua uscita un vero e proprio manifesto di critica sociale per la generazione di studenti in rivolta contro il sistema, la teoria dell’alienazione approdò alla critica della produzione immateriale. Riprendendo le tesi già avanzate da Horkheimer e Adorno, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente, Debord affermò che il non-lavoro non poteva più essere considerato come una sfera differente dall’attività produttiva:

mentre nella fase primitiva dell’accumulazione capitalistica «l’economia politica non vede nel proletario che l’operaio», che deve ricevere il minimo indispensabile per la conservazione della sua forza-lavoro, senza mai considerarlo «nei suoi svaghi, nella sua umanità»; questa posizione delle idee della classe dominante si rovescia non appena il grado di abbondanza raggiunto nella produzione di merci esige un surplus di collaborazione dall’operaio. Questo operaio, improvvisamente lavato dal disprezzo totale che gli è chiaramente espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno al di fuori di essa trattato apparentemente come una persona grande, con una cortesia premurosa, sotto il travestimento del consumatore. Allora l’umanesimo della merce prende a proprio carico «gli svaghi e l’umanità» del lavoratore, semplicemente perché l’economia politica può e deve ora dominare queste sfere .

Per Debord, se il dominio dell’economia sulla vita sociale si era inizialmente manifestato attraverso una «degradazione dell’essere in avere», nella «fase presente» si era verificato uno «slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire» . Tale riflessione lo spinse a porre al centro della sua analisi il mondo dello spettacolo: «nella società lo spettacolo corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione» , il fenomeno mediante il quale «il principio del feticismo della merce […] si compie in grado assoluto» . In queste circostanze, l’alienazione si affermava a tal punto da diventare persino un’esperienza entusiasmante per gli individui. Spinti da questo nuovo oppio del popolo al consumo e a «riconoscersi nelle immagini dominanti» , essi si allontanavano sempre più dai propri desideri ed esistenze reali:

lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. […] La produzione economica moderna allarga la sua dittatura estensivamente e intensivamente. […] A questo punto della «seconda rivoluzione industriale», il consumo alienato diventa per le masse un dovere supplementare che si aggiunge a quello della produzione alienata.

Sulla scia di Debord, anche Jean Baudrillard (1929-2007) utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi (1970), egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna, prendendo così le distanze dalla concezione marxiana ancorata alla centralità della produzione. Secondo Baudrillard «l’era del consumo», in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche «l’era dell’alienazione radicale»:

la logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi non regola solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali, ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane, fino ai fantasmi e alle pulsioni individuali. […] Tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili.

Le sue conclusioni politiche, però, furono piuttosto confuse e pessimistiche. Dinanzi a una grande stagione di fermento sociale, egli accusò «i contestatori del maggio francese» di essere caduti nella trappola di «super-reificare gli oggetti e il consumo dando loro un valore diabolico»; e criticò «i discorsi sull’alienazione, tutta la derisione operata dalla Pop e dall’antiarte», per aver creato una «requisitoria [che] fa parte del gioco: è il miraggio critico, l’antifiaba che corona la favola» . Dunque, lontano dal marxismo, che vedeva nella classe operaia il soggetto sociale di riferimento per cambiare il mondo, Baudrillard chiuse il suo libro con un appello messianico, tanto generico quanto effimero: «attenderemo le irruzioni brutali e le disgregazioni improvvise che, in maniera tanto imprevedibile, ma certa, quanto il maggio del 1968, manderanno in frantumi questa messa bianca» .

6. La teoria dell’alienazione nella sociologia nord-americana.
Negli anni cinquanta, il concetto di alienazione era entrato anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come problematica inerente il singolo essere umano , non le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente, non nelle pratiche collettive volte a mutare la società.

Anche in questa disciplina regnò a lungo una profonda incertezza circa una chiara e condivisa definizione dell’alienazione. Alcuni autori valutarono questo fenomeno come un processo positivo, perché ritenuto un mezzo di espressione della creatività dell’uomo, e inerente la condizione umana in generale . Altra caratteristica diffusa tra i sociologi statunitensi fu quella di considerare l’alienazione come qualcosa che scaturiva dalla scissione tra l’individuo e la società . Seymour Melman (1917-2004), infatti, individuò l’alienazione nella separazione tra la formulazione e l’esecuzione delle decisioni e la considerò un fenomeno che colpiva tanto gli operai quanto i manager . Nell’articolo Una proposta per misurare l’alienazione (1957), che inaugurò un dibattito sul concetto di alienazione nella rivista «American Sociological Review», Gwynn Nettler (1913-2007) adoperò lo strumento dell’inchiesta nell’intento di stabilirne una definizione. Tuttavia, lontanissimo dalla tradizione delle rigorose indagini sulle condizioni lavorative condotte dalle organizzazioni del movimento operaio, il questionario da lui formulato sembrò ispirarsi più ai canoni del maccartismo del tempo che non a quelli della ricerca scientifica .

Nettler, infatti, rappresentando le persone alienate come soggetti guidati da «un coerente mantenimento di atteggiamenti ostili e impopolari nei confronti del familismo, dei mezzi di comunicazione di massa, dei gusti di massa, dell’attualità, dell’istruzione popolare, della religione convenzionale, della visione teleologica della vita, del nazionalismo e del sistema elettorale» , identificò l’alienazione con il rifiuto dei principi conservatori della società statunitense.

La pochezza concettuale presente nel panorama sociologico nord-americano mutò in seguito alla pubblicazione (1959) del saggio Sul significato dell’alienazione, di Melvin Seeman (1918-…). In questo breve articolo, divenuto rapidamente un riferimento obbligato per tutti gli studiosi dell’alienazione, egli catalogò quelle che riteneva fossero le sue cinque forme principali: la mancanza di potere; la mancanza di significato (cioè la difficoltà dell’individuo a comprendere gli eventi in cui è inserito); la mancanza di norme; l’isolamento; l’estraniazione da sé . Questo elenco mostra come anche Seeman considerasse l’alienazione sotto un profilo primariamente soggettivo.

Robert Blauner (1929-2016), nel libro Alienazione e libertà (1964), sposò il medesimo punto di vista. L’autore statunitense definì l’alienazione una «qualità dell’esperienza personale che risulta da specifici tipi di disposizioni sociali» , anche se lo sforzo profuso nella sua ricerca lo portò a rintracciarne le cause nel «processo di lavoro in organismi giganteschi e nelle burocrazie impersonali che saturano tutte le società industriali» .

Nell’ambito della sociologia nord-americana, quindi, l’alienazione venne concepita come una manifestazione relativa al sistema di produzione industriale, a prescindere se esso fosse capitalistico o socialista, e come una problematica inerente soprattutto la coscienza umana . Questo approccio finì col porre ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione di questa nozione. Essa venne assunta anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, non più come una questione sociale, ma quale una patologia individuale la cui cura riguardava i singoli individui.

Ciò determinò un profondo mutamento della concezione dell’alienazione. Se nella tradizione marxista essa rappresentava uno dei concetti critici più incisivi del modo di produzione capitalistico, in sociologia subì un processo di istituzionalizzazione e finì con l’essere considerata come un fenomeno relativo al mancato adattamento degli individui alle norme sociali. Allo stesso modo, smarrì il carattere normativo che aveva in filosofia (anche negli autori che ritenevano l’alienazione come un orizzonte insuperabile) e si trasformò in un concetto a-valutativo, dal quale era stato rimosso l’originario contenuto critico.

Altro effetto di questa metamorfosi della nozione di alienazione fu il suo impoverimento teorico. Da fenomeno complessivo, relativo alla condizione lavorativa, sociale e intellettuale dell’uomo, fu ridotto a una categoria limitata, parcellizzata in funzione delle indagini accademiche . I sociologi americani affermarono che questa scelta metodologica avrebbe consentito di liberare l’indagine sull’alienazione dalle sue connotazioni politiche e di conferire a essa obiettività scientifica. In realtà, questa presunta svolta apolitica ebbe forti ed evidenti implicazioni ideologiche, poiché dietro la bandiera della de-ideologizzazione e della presunta neutralità dei valori si celava il sostegno ai valori e all’ordine dominante.

La differenza tra la concezione marxista dell’alienazione e quella dei sociologi statunitensi non consisteva, quindi, nel fatto che la prima era politica e la seconda scientifica, quanto, invece, che i teorici marxisti erano portatori di valori completamente diversi da quelli egemoni, mentre i sociologi statunitensi sostenevano quelli dell’ordine sociale esistente, abilmente mascherati come i valori eterni del genere umano . In sociologia, dunque, il concetto di alienazione conobbe un vero e proprio stravolgimento e giunse a essere utilizzato proprio dai difensori di quelle classi sociali contro le quali era stato a lungo rivolto.

7. Il concetto di alienazione in Il capitale e nei suoi manoscritti preparatori.
Gli scritti di Marx ebbero, ovviamente, un ruolo fondamentale per coloro che tentarono di opporsi alle tendenze, manifestatesi nell’ambito delle scienze sociali, di mutare il senso del concetto di alienazione. L’attenzione rivolta alla teoria dell’alienazione in Marx, inizialmente incentrata sui Manoscritti economico-filosofici del 1844, si spostò, dopo la pubblicazione di ulteriori inediti, su nuovi testi e con essi fu possibile ricostruire il percorso della sua elaborazione dagli scritti giovanili a Il capitale.

Nella seconda parte degli anni quaranta, Marx non aveva più adoperato frequentemente la parola alienazione. Le uniche eccezioni furono alcuni passaggi polemici, soprattutto nei confronti di esponenti della sinistra hegeliana, contenuti in La sacra famiglia (1845), L’ideologia tedesca (1845-46) e Il manifesto del partito comunista (1848), testi che furono scritti con la collaborazione di Engels.

In Lavoro salariato e capitale (1849), una raccolta di articoli redatti in base agli appunti utilizzati per una serie di conferenze tenute alla Lega operaia tedesca di Bruxelles nel 1847, Marx ripropose la teoria dell’alienazione. Tuttavia, non potendosi rivolgere al movimento operaio con una nozione che sarebbe parsa troppo astratta, evitò di utilizzare questa parola. Scrisse che il lavoro salariato non rientrava nell’«attività vitale» dell’operaio, ma rappresentava, piuttosto, un momento di «sacrificio della sua vita». La forza-lavoro era una merce che il lavoratore era costretto a vendere «per poter vivere» e «il prodotto della sua attività non [era] lo scopo della sua attività»:

l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato.

Sino alla fine degli anni cinquanta, nell’opera di Marx non vi furono altri riferimenti alla teoria dell’alienazione. In seguito alla sconfitta delle rivoluzioni del 1848, egli fu costretto all’esilio a Londra e durante questo periodo, per concentrare tutte le sue energie negli studi di economia politica, con l’eccezione di alcuni brevi lavori di carattere storico, non pubblicò alcun libro. Quando riprese a scrivere di economia, nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58), meglio noti col nome di Grundrisse , tornò a utilizzare il concetto di alienazione ripetutamente. Esso ricordava, per molti versi, quello esposto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, anche se, grazie agli studi condotti nel frattempo, la sua analisi risultò molto più approfondita:

il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra le cose; la capacità personale, in una capacità delle cose.

Nei Grundrisse, dunque, la descrizione dell’alienazione acquisì maggiore spessore rispetto a quella compiuta negli scritti giovanili, perché arricchita dalla comprensione di importanti categorie economiche e da una più rigorosa analisi sociale. Accanto al nesso tra alienazione e valore di scambio, tra i passaggi più brillanti che delinearono le caratteristiche di questo fenomeno della società moderna figurano anche quelli in cui l’alienazione viene messa in relazione con la contrapposizione tra capitale e «forza-lavoro viva»:

le condizioni oggettive del lavoro vivo si presentano come valori separati, autonomizzati di fronte alla forza-lavoro viva quale esistenza soggettiva […], sono presupposte come un’esistenza autonoma di fronte ad essa, come l’oggettività di un soggetto che si distingue dalla forza-lavoro viva e le si contrappone autonomamente; la riproduzione e la valorizzazione, ossia l’allargamento di queste condizioni oggettive è perciò al tempo stesso la riproduzione e la nuova produzione di esse in quanto ricchezza di un soggetto che è estraneo, indifferente e si contrappone autonomamente alla forza-lavoro. Ciò che viene riprodotto e nuovamente prodotto non è soltanto l’esistenza di queste condizioni oggettive del lavoro vivo, ma la loro esistenza di valori autonomi, ossia appartenenti ad un soggetto estraneo, opposto a questa forza-lavoro viva. Le condizioni oggettive del lavoro acquistano un’esistenza soggettiva di fronte alla forza-lavoro viva – dal capitale nasce il capitalista.

I Grundrisse non furono l’unico testo della maturità di Marx in cui la problematica dell’alienazione ricorre con frequenza. Un lustro dopo la loro stesura essa ritornò in Il capitale. Libro I, capitolo VI inedito, manoscritto nel quale l’analisi economica e quella politica dell’alienazione vennero messe in una più stretta relazione: «il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore» . In questa bozza preparatoria del libro I de Il capitale, Marx pose in evidenza che nella società capitalistica, mediante «la trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale» , si realizza una vera e propria «personificazione delle cose e reificazione delle persone», ovvero si crea un’apparenza in forza della quale «non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro, appaiono sottomessi al lavoratore, ma egli ad essi» . In realtà, a suo giudizio,

il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose. Senza salariato, dacché gli individui si fronteggiano come persone libere, niente produzione di plusvalore; senza produzione di plusvalore, niente produzione capitalistica, quindi niente capitale e niente capitalisti! Capitale e lavoro salariato (come noi chiamiamo il lavoro dell’operaio che vende la propria capacità lavorativa) esprimono due fattori dello stesso rapporto. Il denaro non può diventare capitale senza scambiarsi preventivamente contro forza-lavoro che l’operaio vende come merce; d’altra parte, il lavoro può apparire come lavoro salariato solo dal momento in cui le sue proprie condizioni oggettive gli stanno di fronte come potenze autonome, proprietà estranea, valore esistente per sé e arroccato in sé stesso; insomma, capitale.

Nel modo di produzione capitalistico il lavoro umano è diventato uno strumento del processo di valorizzazione del capitale, che «nell’incorporare la forza-lavoro viva alle sue parti componenti oggettive […] diventa […] un mostro animato, e comincia ad agire come se “avesse l’amore in corpo”» . Questo meccanismo si espande su scala sempre maggiore, fino a che la cooperazione nel processo produttivo, le scoperte scientifiche e l’impiego dei macchinari, ossia i progressi sociali generali creati dalla collettività, diventano forze del capitale che appaiono come proprietà da esso possedute per natura e si ergono estranee di fronte ai lavoratori come ordinamento capitalistico:

le forze produttive […] sviluppate [X?] del lavoro sociale […] si rappresentano come forze produttive del capitale. […] l’unità collettiva nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle energie naturali e delle scienze, dei prodotti del lavoro come macchinario – tutto ciò si contrappone agli operai singoli, in modo autonomo, come qualcosa di straniero, di oggettivo, di preesistente, senza e spesso contro il loro contributo attivo, come pure forme di esistenza dei mezzi di lavoro da essi indipendenti e su di essi esercitanti il proprio dominio; e l’intelligenza e la volontà dell’officina collettiva incarnate nel capitalista o nei suoi subalterni, nella misura in cui l’officina collettiva si basa sulla loro combinazione, gli si contrappongono come funzioni del capitale che vive nel capitalista .

È mediante questo processo, dunque, che, secondo Marx, il capitale diventa qualcosa di «terribilmente misterioso». Accade in questo modo che «le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali torreggianti di fronte all’operaio e, in questa forma, vengono capitalizzate» .

La diffusione, a partire dagli anni sessanta, di Il capitale, libro I, capitolo VI inedito e, soprattutto, dei Grundrisse aprì la strada a una concezione dell’alienazione differente rispetto a quella egemone in sociologia e in psicologia, la cui comprensione era finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia. La pubblicazione di quella che, dopo i Manoscritti economico-filosofici del 1844 negli anni trenta, può essere considerata la «seconda generazione» di scritti di Marx sull’alienazione fornì non solo una coerente base teorica per una nuova stagione di studi sull’alienazione, ma soprattutto una piattaforma ideologica anticapitalistica al formidabile movimento politico e sociale esploso nel mondo in quel periodo. Con la diffusione di Il capitale e dei suoi manoscritti preparatori, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e diventare critica sociale.

8. Il feticismo delle merci.
Una delle migliori descrizioni dell’alienazione realizzate da Marx è quella contenuta nel celebre paragrafo del libro I del Capitale intitolato Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano. Al suo interno egli mise in evidenza che, nella società capitalistica, gli uomini sono dominati dai prodotti che hanno creato e vivono in un mondo in cui le relazioni reciproche appaiono «non come rapporti immediatamente sociali tra persone […] [ma come], rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose» . Più precisamente:

l’arcano della forma di merce consiste […] nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, come sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. […] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci .

Da questa definizione emergono delle precise caratteristiche che tracciano un chiaro spartiacque tra la concezione dell’alienazione in Marx e quella della gran parte degli autori che si occuparono di questa tematica. Il feticismo non venne concepito da Marx come una problematica individuale, ma fu sempre considerato un fenomeno sociale. Esso non è una manifestazione dell’anima, ma un potere reale, una dominazione concreta, che si realizza nell’economia di mercato, in seguito alla trasformazione dell’oggetto in soggetto. Per questo motivo, egli non limitò la propria analisi dell’alienazione al disagio del singolo essere umano, ma analizzò i processi sociali che ne stavano alla base, in primo luogo l’attività produttiva. Per Marx, inoltre, il feticismo si manifesta in una precisa realtà storica della produzione, quella del lavoro salariato, e non è legato al rapporto tra la cosa in generale e l’essere umano, ma da quello che si instaura tra questi e un tipo determinato di oggettività: la merce.

In conseguenza di questa peculiarità del capitalismo, gli individui hanno valore solo in quanto produttori e «l’esistenza dell’uomo» è asservita all’atto della «produ[zione] di merci» . Pertanto, è «il processo di produzione [a] padroneggia[re] gli uomini» , non viceversa. Il capitale «non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro» e non ritiene rilevante il miglioramento delle condizioni del proletariato. Quello che gli «interessa è unicamente […] il massimo [sfruttamento] di forza lavoro» .

Nella società borghese le proprietà e le relazioni umane si trasformano in proprietà e relazioni tra cose. La teoria che, dopo la formulazione di Lukács, fu designata col nome di reificazione illustrò questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattò da quello delle merci. Diversamente da quanto sostenuto da coloro che hanno negato la presenza di riflessioni sull’alienazione nell’opera matura di Marx, essa non venne sostituita da quella del feticismo delle merci, perché questa ne rappresenta solo un aspetto particolare.

L’avanzamento teorico compiuto da Marx rispetto alla concezione dell’alienazione dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 a Il capitale non si limitò, però, soltanto a una sua più precisa descrizione. Esso riguardò anche una diversa e più compiuta elaborazione delle misure considerate necessarie per il suo superamento. Se nel 1844 Marx aveva considerato che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, in Il capitale, e nei suoi manoscritti preparatori, il percorso indicato per costruire una società libera dall’alienazione divenne molto più complesso.

Marx riteneva che il capitalismo fosse un sistema nel quale i lavoratori sono soggiogati dal capitale e dalle sue condizioni, ma era anche convinto che esso avesse creato le basi per una società più progredita e che l’umanità potesse proseguire il cammino dello sviluppo sociale generalizzando i benefici prodotti da questo nuovo modo di produzione. Una delle esposizioni più analitiche, nell’opera di Marx, circa gli effetti positivi del processo produttivo capitalistico si trova nel libro I di Il capitale.

Nonostante egli fosse divenuto molto più consapevole, rispetto al passato, del carattere distruttivo del capitalismo, nel suo magnum opus riassunse le sei condizioni generate dal capitale – in particolare dalla sua «centralizzazione» (Koncentration) – che costituiscono i presupposti fondamentali per la possibile nascita della società comunista. Esse sono: 1) la cooperazione lavorativa; 2) l’apporto scientifico-tecnologico fornito alla produzione; 3) l’appropriazione delle forze della natura da parte della produzione; 4) la creazione di grandi macchinari adoperabili soltanto in comune dagli operai; 5) il risparmio dei mezzi di produzione; 6) la tendenza a creare il mercato mondiale. Per Marx,

con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale e combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa, in misura sempre crescente, il carattere internazionale del regime capitalistico .

Marx sapeva bene che, con la concentrazione della produzione nelle mani di pochi padroni, per le classi lavoratrici sarebbero aumentati «la miseria, la vessazione, l’asservimento, la degenerazione, lo sfruttamento» , ma era altresì consapevole che la «cooperazione degli operai salariati [era] un […] effetto del capitale» . Egli era giunto alla convinzione che lo straordinario incremento delle forze produttive generato dal capitalismo, fenomeno che si manifestava in modo maggiore rispetto a tutti i modi di produzione precedentemente esistiti, avrebbe creato le condizioni per il superamento dei rapporti economico-sociali da esso stesso originati e, pertanto, il trapasso a una società socialista.

9. Comunismo, emancipazione e libertà.
Secondo Marx, a un sistema che produce enorme accumulo di ricchezza per pochi e spoliazione e alienazione per la massa dei lavoratori, occorre sostituire «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» . Nel libro I di Il capitale egli chiarì che il «principio fondamentale» di questa «forma superiore di società» sarebbe stato il «pieno e libero sviluppo di ogni individuo» .

Nei Grundrisse scrisse che nella società postcapitalista la produzione sarebbe stata «immediatamente sociale […], il risultato dell’associazione (the offspring of association) che ripartisce il lavoro al proprio interno». Essa sarebbe stata controllata dagli individui come «loro patrimonio comune» . Il «carattere sociale della produzione» («gesellschaftliche Charakter der Produktion») avrebbe fatto sì che l’oggetto del lavoro fosse stato, «fin dal principio, un prodotto sociale e generale». Il carattere associativo «è presupposto» e «il lavoro del singolo si pone, sin dalla sua origine, come lavoro sociale» . Come sottolineò nella Critica del programma di Gotha (1875), nella società postcapitalistica «i lavori individuali non [sarebbero] più diventa[ti] parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto» . In aggiunta, gli operai avrebbero potuto creare le condizioni per una «scomparsa [del]la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro» .

Nel libro I di Il capitale, Marx evidenziò che nel comunismo si sarebbero create le condizioni per una forma di «cooperazione pianificata», in virtù della quale «l’operaio si [sarebbe] spoglia[to] dei suoi limiti individuali e [avrebbe] sviluppa[to] la facoltà della sua specie» . Nel libro II, scrisse che nel comunismo la società sarebbe stata in grado di «calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e di sussistenza adoperare». Sarebbe stato un altro elemento di distinzione capitalismo, sistema nel quale «l’intelletto sociale si fa valere sempre soltanto post festum, [facendo] così intervenire, costantemente, grandi perturbamenti» . La produzione socialista si differenzierebbe da quella basata sul lavoro salariato, poiché porrebbe i suoi fattori determinanti sotto il governo collettivo, assumendo un carattere immediatamente generale e trasformando il lavoro in una vera attività sociale.

È una concezione di società agli antipodi della «guerra di tutti contro tutti» teorizzata da Thomas Hobbes (1588-1679). In riferimento al tema della cosiddetta libera concorrenza, ovvero l’apparente eguaglianza con la quale operai e capitalisti si trovano posti sul mercato nella società borghese, Marx dichiarò che essa era tutt’altro dalla libertà umana tanto esaltata dagli esegeti del capitalismo. Egli ritenne che questo sistema costituiva un grande impedimento per la democrazia e mostrò che i lavoratori non ricevono il corrispettivo di quello che producono. Nei Grundrisse, spiegò che quanto veniva rappresentato come uno «scambio di equivalenti» era, invece, «appropriazione di lavoro altrui senza scambio, ma sotto la parvenza dello scambio» . Le relazioni tra le persone erano «determinate soltanto dai loro interessi egoistici». Questa «collisione di individui» era stata spacciata come la «forma assoluta di esistenza della libera individualità nella sfera della produzione e dello scambio». Per Marx non vi era, in realtà, «niente di più falso», poiché, «nella libera concorrenza, non gli individui, ma il capitale è posto in condizioni di libertà» . Nei Manoscritti economici del 1861-1863 egli denunciò che era «il capitalista a incassare questo pluslavoro – [che era …] tempo libero [e …] la base materiale dello sviluppo e della cultura in generale […] – in nome della società» . Nel libro I di Il capitale, denunciò che la ricchezza della borghesia è possibile solo mediante la «trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse» .

Sempre nei Grundrisse, Marx osservò che nel capitalismo «gli individui sono sussunti dalla produzione sociale» , la quale esiste come qualcosa che è a «loro estraneo» . Essa viene realizzata solamente in funzione dell’attribuzione del valore di scambio conferito ai prodotti. Inoltre, «tutti i fattori sociali della produzione» , comprese le scoperte scientifiche che si palesano come «una scienza altrui, esterna all’operaio» , sono posti dal capitale. Lo stesso associarsi degli operai nei luoghi e nell’atto della produzione è «operato dal capitale» ed è, pertanto, «soltanto formale». L’uso dei beni creati da parte dei lavoratori «non è mediat[o] dallo scambio di lavori o di prodotti di lavoro reciprocamente indipendenti [, bensì …] dalle condizioni sociali della produzione entro le quali agisce l’individuo» . Marx sosteneva che l’attività produttiva nella fabbrica «riguarda solo il prodotto del lavoro, non il lavoro stesso» , dal momento che avviene «in un ambiente comune, sotto vigilanza, irreggimentazione, maggiore disciplina, immobilità e dipendenza» .

Per ribaltare questo stato di cose, contrariamente a quanto credevano molti socialisti contemporanei a Marx, non sarebbe bastato modificare la redistribuzione dei beni di consumo. Occorreva modificare alla radice gli assetti produttivi della società. Fu per questo che, nei Grundrisse, Marx annotò che «lasciare sussistere il lavoro salariato e, allo stesso tempo, sopprimere il capitale [era] una rivendicazione che si autocontraddice[va]» . Occorreva, viceversa, la «dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio» . Nel discorso pubblicato con il titolo Salario, prezzo e profitto (1865), egli ammonì gli operai affinché sulle loro bandiere non apparisse «la parola d’ordine conservatrice “Equo salario per un’equa giornata di lavoro”», ma il «motto rivoluzionario “Soppressione del sistema del lavoro salariato”» .

Per di più, come dichiarato nella Critica del programma di Gotha, nel modo di produzione capitalistico «le condizioni materiali della produzione [erano] a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e di proprietà della terra, mentre la massa [era] soltanto proprietaria della [propria] forza lavoro» . Pertanto, era essenziale rovesciare i rapporti proprietari alla base del modo di produzione borghese. Nei Grundrisse, Marx ricordò che «le leggi della proprietà privata – ovvero la libertà, l’uguaglianza, la proprietà sul lavoro e la sua libera disposizione – si riversano nella mancanza di proprietà dell’operaio, nell’espropriazione del suo lavoro e nel suo riferirsi a esso come proprietà altrui» .

In un intervento pronunciato, nel 1869, al Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Marx affermò che la «proprietà privata dei mezzi di produzione» serviva soltanto ad assicurare alla classe borghese il «potere con il quale essa [avrebbe] costr[etto] altri esseri umani a lavorare» per lei. Egli ribadì lo stesso concetto in un altro breve scritto politico, il Programma elettorale dei lavoratori socialisti (1880), aggiungendo che «i produttori possono essere liberi solo quando sono in possesso dei mezzi di produzione» e che l’obiettivo della lotta del proletariato deve essere la «restituzione alla comunità di tutti i mezzi di produzione» .

Nel libro III di Il capitale, Marx osservò che quando i lavoratori avrebbero instaurato un modo di produzione comunista «la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui [sarebbe] appar[sa] così assurda come la proprietà privata di un essere umano da parte di un altro essere umano». Egli manifestò la sua più radicale critica verso l’idea di possesso distruttivo insita nel capitalismo, ricordando che «anche un’intera società, una nazione, o anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra». Per Marx, gli esseri umani erano «soltanto […] i suoi usufruttuari» e, dunque, avevano «il dovere di tramandare alle generazioni successive [il mondo] migliorato, come boni patres familias» .

Un diverso assetto della proprietà dei mezzi di produzione avrebbe mutato alla radice anche i tempi di vita della società. Nel libro I di Il capitale, Marx disvelò, con inequivocabile chiarezza, le ragioni per le quali, nel capitalismo, «l’economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva del lavoro non ha affatto lo scopo di accorciare la giornata lavorativa». Il tempo che il progredire della tecnica e della scienza renderebbe disponibile per i singoli viene, infatti, immediatamente convertito in pluslavoro. La classe dominante ha come unica ambizione quella di «ridurre il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci» . Il suo unico scopo è quello di sviluppare la forza produttiva con il solo fine di «abbrevia[re] la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per sé stesso, per prolungare […] la parte […] nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista» . Questo sistema differisce dalla schiavitù o dalle corvée dovute al signore feudale, poiché «pluslavoro e lavoro necessario sfumano l’uno nell’altro» e rendono più difficilmente percettibile l’entità dello sfruttamento.

Nei Grundrisse, Marx mise bene in evidenza che è solo grazie a questo surplus del tempo di lavoro di tutti che si rende possibile il «tempo libero per alcuni» . La borghesia consegue l’accrescimento delle sue facoltà materiali e culturali solo grazie alla limitazione imposta a quello del proletariato. Lo stesso accade nelle nazioni capitalisticamente più avanzate, a discapito delle periferie del sistema. Nei Manoscritti del 1861-1863, Marx ribadì che il progresso della classe dominante è speculare alla «mancanza di sviluppo della massa lavoratrice» . Il tempo libero della prima «corrisponde al tempo asservito» dei lavoratori; «lo sviluppo sociale dell’una fa del lavoro di [questi] altr[i] la propria base naturale» . Questo tempo di pluslavoro degli operai non solo è il pilastro sul quale poggia la «esistenza materiale» della borghesia, ma crea la condizione anche per il suo «tempo libero, la sfera del [suo] sviluppo». Come meglio non avrebbe potuto dichiarare: «il tempo libero dell’una corrisponde al […] tempo soggiogato al lavoro […] dell’altra» .

Per Marx, al contrario, la società comunista sarebbe stata caratterizzata da una diminuzione generalizzata dei tempi di lavoro. Nel documento Istruzioni per i delegati del Consiglio Generale provvisorio. Le differenti questioni (1867), da lui predisposto per il primo congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori, enunciò che la riduzione della giornata lavorativa era la «condizione preliminare senza la quale [sarebbero] aborti[ti] tutti gli ulteriori tentativi di miglioramento e di emancipazione». Era necessario non solo «fare recuperare l’energia e la salute alla classe lavoratrice», ma anche «fornire a essa la possibilità di sviluppo intellettuale, di relazioni e attività sociali e politiche» . Nel libro I di Il capitale, Marx argomentò che il «tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per la libera espressione delle energie vitali, fisiche e mentali», considerati dai capitalisti «fronzoli puri e semplici» , sarebbe stato l’elemento fondativo della nuova società. Il decremento delle ore destinate al lavoro – non solo del tempo di lavoro necessario per creare nuovo pluslavoro in favore della classe capitalista – avrebbe favorito, così appuntò Marx nei Grundrisse, «il libero sviluppo delle individualità», ovvero «la formazione e lo sviluppo artistico e scientifico […] degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro» .

Sulla base di queste convinzioni, egli ravvisò nella «economia di tempo, e [nella] ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, la prima legge economica alla base della produzione sociale» . Nelle Teorie sul plusvalore (1862-63) precisò, ancor più, che «la ricchezza non è niente altro che tempo disponibile». Nella società comunista l’autogestione dei lavoratori avrebbe dovuto assicurare una maggiore quantità di tempo che non doveva essere «assorbito dal lavoro immediatamente produttivo[, ma] dar[e] luogo al godimento, all’ozio e, pertanto, alla libera attività e al libero sviluppo» .

In questo testo, così come nei Grundrisse, Marx citò un breve pamphlet intitolato La fonte e il rimedio delle difficoltà nazionali dedotte dai principi di economia politica in una lettera al signor John Russell (1821), del quale condivise pienamente la definizione di benessere formulata dall’anonimo autore: «una nazione si può dire veramente ricca, quando in essa invece di lavorare per 12 ore si lavora soltanto per sei. La ricchezza reale non è l’imposizione del tempo di lavoro supplementare, ma è il tempo [che viene reso] disponibile a ogni individuo e a tutta la società, fuori da quello usato nella produzione immediata» . La medesima idea si trova ribadita in un altro brano dei Grundrisse, nel quale Marx domandò retoricamente: «che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive degli individui? […] Che cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle [loro] doti creative?» . È evidente, dunque, che il modello socialista al quale egli guardava non contemperava uno stato di miseria generalizzata, ma il conseguimento di una maggiore ricchezza collettiva.

Per Marx, vivere in una società non alienata significava costruire un’organizzazione sociale nella quale si conferiva un valore fondamentale alla libertà individuale. Il suo comunismo fu radicalmente diverso tanto dal livellamento delle classi, auspicato da diversi suoi predecessori, quanto dalla grigia uniformità politica ed economica, realizzata da molti suoi seguaci. Nell’Urtext (1858), però, pose l’accento anche sull’«errore di quei socialisti, specialmente francesi», che, considerando «il socialismo [quale] realizzazione delle idee borghesi», avevano cercato di «dimostrare che il valore di scambio [fosse], originariamente […], un sistema di libertà ed eguaglianza per tutti, […] falsificato […] [poi] dal capitale» . Nei Grundrisse Marx etichettò come «insulsaggine [quella] di considerare la libera concorrenza quale ultimo sviluppo della libertà umana».

Difatti, questa tesi «non significa[va] altro se non che il dominio della borghesia [era] il termine ultimo della libertà umana», idea che, ironicamente, Marx definì «allettante per i parvenus». Allo stesso modo, egli contestò l’ideologia liberale secondo la quale «la negazione della libera concorrenza equivale alla negazione della libertà individuale e della produzione sociale basata sulla libertà individuale». Nella società borghese si rendeva possibile soltanto un «libero sviluppo su base limitata, sulla base del dominio del capitale». A suo avviso, «questo genere di libertà individuale [era], al tempo stesso, la più completa soppressione di ogni libertà individuale e il più completo soggiogamento dell’individualità alle condizioni sociali, le quali assumono la forma di poteri oggettivi [… e] oggetti indipendenti […] dagli stessi individui e dalle loro relazioni» . Come scrisse nel libro III di Il capitale (1894):

di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi, per sua natura, oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa .

Questa produzione dal carattere sociale, insieme con i progressi tecnologici e scientifici e la conseguente riduzione della giornata lavorativa, crea le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale, in cui il lavoro coercitivo e alienato, imposto dal capitale e sussunto dalle sue leggi, viene progressivamente sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità; e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale in funzione delle merci e del denaro. Non è più il regno della libertà del capitale, ma quello dell’autentica libertà umana.

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La critica dell’alienazione come strumento di lotta anticapitalista

I. Limiti dei Manoscritti economico filosofici del 1844 e delle loro interpretazioni
L’alienazione è stata una delle teorie più rilevanti e dibattute del XX secolo e la concezione che ne elaborò Marx assunse un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema. A favorire la diffusione di questa complessa tematica fu la pubblicazione, nel 1932, di un inedito appartenente alla produzione giovanile di Marx, i Manoscritti economico filosofici del 1844. In questo testo, che finì con l’assumere un ruolo determinante nell’ambito delle discussioni sviluppatesi sul tema, mediante l’introduzione della categoria di lavoro alienato (entfremdete Arbeit), Marx non solo traghettò la problematica dell’alienazione dalla sfera filosofica, religiosa e politica a quella economica della produzione materiale, ma fece di quest’ultima il presupposto fondamentale per comprendere e poter superare le prime [1].

A differenza di molti dei suoi critici e presunti seguaci, Marx trattò l’alienazione sempre come un fenomeno storico e non naturale. Tuttavia, le riflessioni contenute in questi appunti – scritti da un autore appena ventiseienne – sintetizzano un pensiero frammentario e ancora molto parziale, se rapportato al complesso della sua elaborazione teorica[2]. Ciò nonostante, i Manoscritti economico filosofici del 1844 sono stati considerati, erroneamente, come il principale testo marxiano relativo alla teoria dell’alienazione ed è stato a partire da esso che numerosi autori hanno esteso oltremodo il significato di questo concetto, sino a renderlo generico e privo di quel potenziale critico e anticapitalista che gli era stato conferito da Marx.

Fu così per Herbert Marcuse che finì con identificare l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. Nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, egli sostenne che il «carattere di peso del lavoro» non poteva essere ricondotto meramente a «determinate condizioni presenti nell’esecuzione del lavoro, alla sua organizzazione tecnico-sociale» [3], ma andava considerato come uno dei suoi tratti fondamentali. Per Marcuse esisteva una «negatività originaria del fare lavorativo», che egli reputava appartenere alla «essenza stessa dell’esistenza umana» [4].

La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. Il superamento dell’alienazione fu ritenuto possibile soltanto attraverso il gioco, momento nel quale l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva: «un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico»[5]. In Eros e civiltà, Marcuse prese le distanze dalla concezione marxiana in modo netto. Egli affermò che l’emancipazione dell’uomo poteva realizzarsi solo mediante la liberazione dal lavoro (abolition of labor) [6] e attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il concetto di alienazione approdò anche nell’ambito della psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud, per la quale, nella società borghese, l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione [7], deve necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni. Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta ad un mero fenomeno soggettivo.

Diversamente dalla maggioranza dei suoi colleghi, Erich Fromm non separò mai le manifestazioni dell’alienazione dal contesto storico capitalistico e con i suoi scritti Psicoanalisi della società contemporanea e L’uomo secondo Marx si servì di questo concetto per tentare di costruire un ponte tra la psicoanalisi ed il marxismo. Tuttavia, Fromm affrontò questa problematica privilegiando sempre l’analisi soggettiva e la sua concezione di alienazione, riassunta come «una forma di esperienza per la quale la persona conosce se stessa come un estraneo» [8], risultò troppo circoscritta al singolo. La sua interpretazione della concezione dell’alienazione presente in Marx si basò sui soli Manoscritti economico-filosofici del 1844 e si caratterizzò per una profonda incomprensione della specificità e della centralità del concetto di lavoro alienato nel pensiero di Marx.

A partire dagli anni Quaranta, in un periodo caratterizzato dagli orrori della guerra, dalla conseguente crisi delle coscienze e, nel panorama filosofico francese, dal neohegelismo di Alexandre Kojeve, il fenomeno dell’alienazione fu affrontato anche da Jean-Paul Sartre e dagli esistenzialisti francesi[9]. Tuttavia, anche in questa circostanza, la nozione di alienazione assunse un profilo molto più vago di quello esposto da Marx. Essa fu identificata con un indistinto disagio dell’uomo nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, significativamente, come condition humaine non sopprimibile. I filosofi esistenzialisti non fornirono una specifica origine sociale dell’alienazione, ma, tornando ad assimilarla con ogni fatticità (il fallimento dell’esperienza socialista in Unione sovietica favorì certamente l’affermazione di questa posizione), concepirono l’alienazione come un generico senso di alterità umana.

Se Marx aveva contribuito a sviluppare una critica della soggezione umana basata sull’opposizione ai rapporti di produzione capitalistici [10], gli esistenzialisti, invece, intrapresero una strada diversa, ovvero tentarono di riassorbire il pensiero di Marx, attraverso quelle parti della sua opera giovanile che potevano risultare più utili alle loro tesi, in una discussione priva di una specifica critica storica e, a tratti, meramente filosofica [11]. Inoltre, alcune frasi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono estrapolate dal loro contesto e trasformate in citazioni sensazionali con lo scopo di dimostrare la presunta esistenza di un “nuovo Marx”, radicalmente diverso da quello fino ad allora conosciuto, perché intriso di teoria filosofica e ancora privo del determinismo economico che alcuni suoi commentatori attribuivano ad Il capitale, testo, a dire il vero, molto poco letto da quanti sostennero questa tesi. Anche rispetto al solo manoscritto del 1844, gli esistenzialisti francesi privilegiarono di gran lunga la nozione di autoalienazione (Selbstentfremdung), ovvero, il fenomeno per il quale il lavoratore è alienato dal genere umano e dai suoi simili, che Marx aveva trattato nel suo scritto giovanile, ma sempre in relazione all’alienazione oggettiva.

Negli anni Sessanta, l’esegesi della teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 divenne il pomo della discordia rispetto all’interpretazione generale di Marx. In questo periodo venne concepita la distinzione tra due presunti Marx: il “giovane Marx” e il “Marx maturo”[12]. Questa arbitraria ed artificiale contrapposizione fu alimentata sia da quanti preferirono il Marx delle opere giovanili e filosofiche (ad esempio la gran parte degli esistenzialisti), sia da quanti (tra questi Louis Althusser e quasi tutti i marxisti sovietici) affermarono che il solo vero Marx fosse quello de Il capitale. Coloro che sposarono la prima tesi considerarono la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il punto più significativo della critica marxiana della società; mentre quelli che abbracciarono la seconda ipotesi mostrarono, spesso, una vera e propria «fobia dell’alienazione»; tentando, in un primo momento, di minimizzarne il rilievo e, quando ciò non fu più possibile, considerando il tema dell’alienazione come «un peccato di gioventù, un residuo di hegelismo» [13], successivamente abbandonato da Marx. I primi rimossero la circostanza che la concezione dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 era stata scritta da un autore appena agli albori dei suoi studi principali; i secondi, invece, non vollero riconoscere l’importanza della teoria dell’alienazione in Marx anche quando, con la pubblicazione di nuovi inediti, divenne evidente che egli non aveva mai smesso di occuparsene nel corso della sua esistenza e che essa, anche se mutata, aveva conservato un posto di rilievo nelle tappe principali dell’elaborazione del suo pensiero.

Sostenere, come affermarono in tanti, che la teoria dell’alienazione contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 fosse il tema centrale del pensiero di Marx è un falso che denota soltanto la scarsa familiarità con la sua opera da parte di coloro che propesero per questa tesi. D’altro canto, quando Marx ritornò ad essere l’autore più discusso e citato nella letteratura filosofica mondiale proprio per le sue pagine inedite relative all’alienazione, il silenzio dell’Unione sovietica su questa tematica, e sulle controversie ad essa legate, fornisce uno dei tanti esempi di utilizzo strumentale dei suoi scritti in quel paese. Infatti, l’esistenza del fenomeno dell’alienazione in Unione sovietica, così come nei suoi paesi satelliti, fu semplicemente negata [14] e tutti i testi che trattavano questa problematica vennero ritenuti sospetti. Secondo Henry Lefebvre: «nella società sovietica non poteva, non doveva più essere questione di alienazione. Il concetto doveva sparire, per ordine superiore, per la ragion di Stato»[15] . E, così, fino agli anni Settanta, furono pochissimi gli autori che, nel cosiddetto “campo socialista”, scrissero opere in proposito.

II. L’addomesticamento della teoria dell’alienazione
Nel frattempo, in Europa occidentale, la descrizione di una condizione di estraneazione generalizzata, prodotta da un controllo sociale invasivo e dalla manipolazione dei bisogni creata dalla capacità d’influenza dei mass-media, fu avanzata da Max Horkheimer e Theodor Adorno, i due esponenti di punta della scuola di Francoforte. In Dialettica dell’illuminismo, essi affermarono che «la razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. È il carattere coatto […] della società estraniata a se stessa» [16]. In questo modo, essi avevano posto in evidenza come, nel capitalismo contemporaneo, persino la sfera del divertimento, un tempo libera ed alternativa al lavoro, fosse stata assorbita negli ingranaggi della riproduzione del consenso.

In ambito marxista, la riscoperta della teoria dell’alienazione si accompagnò al successo di Storia e coscienza di classe, il libro nel quale, già nel 1923, György Lukács aveva elaborato il concetto di reificazione (Verdinglichung o Versachlichung), ovvero il fenomeno attraverso il quale l’attività lavorativa si contrappone all’uomo come qualcosa di oggettivo ed indipendente e lo domina mediante leggi autonome ed a lui estranee. Nei tratti fondamentali, però, la teoria di Lukács era ancora troppo simile a quella hegeliana, poiché anche egli aveva concepito la reificazione come un “fatto strutturale fondamentale” [17]. Così, quando dopo la comparsa della traduzione francese, nel 1960, questo testo tornò ad esercitare una grande influenza tra gli studiosi ed i militanti di sinistra, Lukács decise di ripubblicare il suo scritto in una nuova edizione introdotta da una lunga prefazione autocritica, nella quale, per chiarire la sua posizione, egli affermò: “ Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui, anche in questo libro, l’estraneazione viene posta sullo stesso piano dell’oggettivazione”[18].

In questo periodo, il concetto di alienazione entrò anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Infatti, nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come una problematica che riguardava il singolo essere umano anziché le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente, e non nelle pratiche collettive volte a mutare la società.

Nell’opera dei sociologi statunitensi, quindi, l’alienazione venne concepita come una manifestazione relativa al sistema di produzione industriale, a prescindere se esso fosse capitalistico o socialista, e come una problematica inerente soprattutto la coscienza umana. Questo approccio finì col mettere ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione dell’analisi di questa nozione, la quale, anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, fu assunta non più come una questione sociale, ma quale patologia individuale, e la cui cura riguardava i singoli individui[19]. Ciò determinò un profondo mutamento della concezione dell’alienazione. Se nella tradizione marxista essa rappresentava uno dei concetti critici più incisivi del modo di produzione capitalistico, in sociologia subì un processo di istituzionalizzazione e finì con l’essere considerata come un fenomeno relativo al mancato adattamento degli individui alle norme sociali.

A partire dagli anni Sessanta, esplose una vera e propria moda per la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri e articoli sul tema. Fu il tempo dell’alienazione tout-court. Il periodo nel quale autori, diversi tra loro per formazione politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, all’anomia, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifesta nel rapporto con le nuove tecnologie; e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, e all’inquinamento ambientale.

Il concetto di alienazione sembrò riflettere alla perfezione lo spirito del tempo. La popolarità del termine e la sua applicazione indiscriminata diedero origine, però, ad una profonda ambiguità teorica [20]. Così, nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e lo spropositato ampliamento della sua nozione generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno così tanto diffuso da apparire immodificabile [21].

Successivamente, la teoria dell’alienazione approdò anche alla critica della produzione immateriale. Con il libro La società dello spettacolo, divenuto dopo la sua uscita nel 1967 un vero e proprio manifesto di critica sociale per la generazione di studenti in rivolta contro il sistema, Guy Debord riprese alcune delle tesi già avanzate da Horkheimer e Adorno, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente. Debord affermò che, nelle circostanze date, il non-lavoro non poteva più essere considerato come una sfera differente dall’attività produttiva [22].

Anche Jean Baudrillard utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi (1970), egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna, prendendo così le distanze dalla concezione marxiana ancorata alla centralità della produzione. Secondo Baudrillard «l’era del consumo», in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche «l’era dell’alienazione radicale» [23]. Le conclusioni politiche di questi autori furono, però, confuse e pessimistiche e, di certo, lontane da Marx e dalla sua individuazione della classe lavoratrice quale soggetto rivoluzionario di riferimento.

III. Critica dell’alienazione e conflitto sociale
Gli scritti di Marx ebbero un ruolo fondamentale per coloro che tentarono di opporsi alle tendenze, manifestatesi nell’ambito delle scienze sociali, di mutare il senso del concetto di alienazione. L’attenzione rivolta alla teoria dell’alienazione in Marx, inizialmente incentrata sui Manoscritti economico-filosofici del 1844, si spostò, dopo la pubblicazione di ulteriori inediti, su nuovi testi e con essi fu possibile ricostruire il percorso della sua elaborazione dagli scritti giovanili ad Il capitale. Quando nel 1857, dopo una lunga pausa, Marx riprese a scrivere di economia nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (i cosiddetti Grundrisse), egli tornò ad utilizzare il concetto di alienazione ripetutamente. La sua esposizione ricordava, per molti versi, quella dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, anche se, grazie agli studi condotti nel frattempo, la sua analisi risultò essere molto più approfondita:

il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte dagli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto tra le cose; la capacità personale in una capacità delle cose[24].

Nei Grundrisse, la descrizione dell’alienazione acquisì maggiore spessore rispetto a quella compiuta negli scritti giovanili, essendo stata arricchita, nel tempo, dalla comprensione di importanti categorie economiche e da una più rigorosa analisi sociale. Accanto al nesso tra alienazione e valore di scambio, tra i passaggi più brillanti che delinearono le caratteristiche di questo fenomeno della società moderna figurano anche quelli in cui l’alienazione venne messa in relazione con la contrapposizione tra capitale e «forza-lavoro viva»:

le condizioni oggettive del lavoro vivo si presentano come valori separati, autonomizzati di fronte alla forza-lavoro viva quale esistenza soggettiva […], sono presupposte come un’esistenza autonoma di fronte ad essa, come l’oggettività di un soggetto che si distingue dalla forza-lavoro vivo e le si contrappone autonomamente; la riproduzione e la valorizzazione, ossia l’allargamento di queste condizioni oggettive è perciò al tempo stesso la riproduzione e la nuova produzione di esse in quanto ricchezza di un soggetto che è estraneo, indifferente e si contrappone autonomamente alla forza-lavoro. Ciò che viene riprodotto e nuovamente prodotto non è soltanto l’esistenza di queste condizioni oggettive del lavoro vivo, ma la loro esistenza di valori autonomi, ossia appartenenti ad un soggetto estraneo, opposto a questa forza-lavoro viva. Le condizioni oggettive del lavoro acquistano un’esistenza soggettiva di fronte alla forza-lavoro viva – dal capitale nasce il capitalista [25].

I Grundrisse non furono l’unico testo della maturità di Marx in cui ricorre, con frequenza, la problematica dell’alienazione. Un lustro dopo la loro stesura, infatti, essa riapparve in Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, manoscritto nel quale l’analisi economica e quella politica dell’alienazione vennero messe in maggiore relazione tra loro: «il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore»[26]. In queste bozze preparatorie de Il capitale, Marx pose in evidenza che nella società capitalistica, mediante «la trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale» [27], si realizza una vera e propria «personificazione delle cose e reificazione delle persone», ovvero si crea un’apparenza in forza della quale «non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro, appaiono sottomessi al lavoratore, ma egli ad essi» [28]. In realtà, a suo giudizio:

il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose. Senza salariato, dacché gli individui si fronteggiano come persone libere, niente produzione di plusvalore; senza produzione di plusvalore, niente produzione capitalistica, quindi niente capitale e niente capitalisti! Capitale e lavoro salariato (come noi chiamiamo il lavoro dell’operaio che vende la propria capacità lavorativa) esprimono due fattori dello stesso rapporto. Il denaro non può diventare capitale senza scambiarsi preventivamente contro forza-lavoro che l’operaio vende come merce; d’altra parte, il lavoro può apparire come lavoro salariato solo dal momento in cui le sue proprie condizioni oggettive gli stanno di fronte come potenze autonome, proprietà estranea, valore esistente per sé e arroccato in se stesso; insomma, capitale[29].

Nel modo di produzione capitalistico il lavoro umano è diventato uno strumento del processo di valorizzazione del capitale, che «nell’incorporare la forza-lavoro viva alle sue parti componenti oggettive […] diventa un mostro animato, e comincia ad agire come se avesse l’amore in corpo»[30]. Questo meccanismo si espande su scala sempre maggiore, fino a che la cooperazione nel processo produttivo, le scoperte scientifiche e l’impiego dei macchinari, ossia i progressi sociali generali creati dalla collettività, diventano forze del capitale che appaiono come proprietà da esso possedute per natura e si ergono estranee di fronte ai lavoratori come ordinamento capitalistico:

le forze produttive […] sviluppate del lavoro sociale […] si rappresentano come forze produttive del capitale. […] L’unità collettiva nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle energie naturali e delle scienze, dei prodotti del lavoro come macchinario – tutto ciò si contrappone agli operai singoli, in modo autonomo, come qualcosa di straniero, di oggettivo, di preesistente, senza e spesso contro il loro contributo attivo, come pure forme di esistenza dei mezzi di lavoro da essi indipendenti e su di essi esercitanti il proprio dominio; e l’intelligenza e la volontà dell’officina collettiva incarnate nel capitalista o nei suoi subalterni, nella misura in cui l’officina collettiva si basa sulla loro combinazione, gli si contrappongono come funzioni del capitale che vive nel capitalista [31].
È mediante questo processo, dunque, che, secondo Marx, il capitale diventa qualcosa di «terribilmente misterioso». Accade in questo modo che «le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali torreggianti di fronte all’operaio e, in questa forma, vengono capitalizzate» [32].

La diffusione, a partire dagli anni Sessanta, deIl Capitale: Libro I, capitolo VI inedito e, soprattutto, dei Grundrisse aprì la strada ad una concezione dell’alienazione differente rispetto a quella egemone in sociologia e in psicologia, la cui comprensione era finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita della classe operaia. La pubblicazione di quella che, dopo i Manoscritti economico-filosofici del 1844 negli anni Trenta, può essere considerata la “seconda generazione” di scritti di Marx sull’alienazione fornì non solo una coerente base teorica per una nuova stagione di studi, ma soprattutto una piattaforma ideologica anticapitalista allo straordinario movimento politico e sociale esploso nel mondo in quel periodo.

IV. Modo di produzione associato versus feticismo della merce
La più efficace descrizione dell’alienazione realizzata da Marx resta, comunque, quella contenuta nel celebre paragrafoIl carattere di feticcio della merce e il suo arcano in Il capitale. Al suo interno egli mise in evidenza che, nella società capitalistica, gli uomini sono dominati dai prodotti che hanno creato e vivono in un mondo in cui le relazioni reciproche appaiono «non come rapporti immediatamente sociali tra persone [… ma come], rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose» [33]. Più precisamente:
l’arcano della forma di merce consiste […] nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, come sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. […] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci [34].

Il feticismo, infatti, non venne concepito da Marx come una problematica individuale, ma fu sempre considerato un fenomeno sociale. Non una manifestazione dell’anima, ma un potere reale, una dominazione concreta, che si realizza, nell’economia di mercato, in seguito alla trasformazione dell’oggetto in soggetto. Per questo motivo, egli non limitò la propria analisi dell’alienazione al disagio del singolo essere umano, ma analizzò i processi sociali che ne stavano alla base, in primo luogo l’attività produttiva. Per Marx, inoltre, il feticismo si manifesta in una precisa realtà storica della produzione, quella del lavoro salariato, e non è legato al rapporto tra la cosa in generale e l’uomo, ma da quello che si verifica tra questo e un tipo determinato di oggettività: la merce.

Nella società borghese le proprietà e le relazioni umane si trasformano in proprietà e relazioni tra cose. La teoria che, dopo la formulazione di Lukács, fu designata col nome di reificazione illustrava questo fenomeno dal punto di vista delle relazioni umane, mentre il concetto di feticismo lo trattava da quello delle merci. Diversamente da quanto sostenuto da coloro che hanno negato la presenza di riflessioni sull’alienazione nell’opera matura di Marx, essa non venne sostituta da quella del feticismo delle merci, perché questa ne rappresenta solo un suo aspetto particolare [35].

L’avanzamento teorico compiuto da Marx rispetto alla concezione dell’alienazione dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 a Il capitale non consiste, però, soltanto in una sua più precisa descrizione, ma anche in una diversa e più compiuta elaborazione delle misure ritenute necessarie per il suo superamento. Se, nel 1844, Marx aveva considerato che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, ne Il capitale, e nei suoi manoscritti preparatori, il percorso indicato per costruire una società libera dall’alienazione divenne molto più complesso. Marx riteneva che il capitalismo fosse un sistema nel quale i lavoratori sono soggiogati dal capitale e dalle sue condizioni, ma egli era anche convinto del fatto che esso avesse creato le basi per una società più progredita e che l’umanità potesse proseguire il cammino dello sviluppo sociale generalizzando i benefici prodotti da questo nuovo modo di produzione. Secondo Marx, a un sistema che produce enorme accumulo di ricchezza per pochi e spoliazione e sfruttamento per la massa dei lavoratori, occorre sostituire «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» [36]. Questo diverso tipo di produzione si differenzierebbe da quello basato sul lavoro salariato, poiché porrebbe i suoi fattori determinanti sotto il governo collettivo, assumendo un carattere immediatamente generale e trasformando il lavoro in una vera attività sociale. La sua creazione non è un processo meramente politico, ma investe necessariamente la trasformazione radicale della sfera della produzione. Come Marx scrisse in Il capitale. Libro III:

di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi, per sua natura, oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa[37].

Questa produzione dal carattere sociale, insieme con i progressi tecnologici e scientifici e la conseguente riduzione della giornata lavorativa, crea le possibilità per la nascita di una nuova formazione sociale. In essa, il lavoro coercitivo e alienato, imposto dal capitale e sussunto dalle sue leggi, viene progressivamente sostituito da un’attività creativa e consapevole, non imposta dalla necessità e nella quale compiute relazioni sociali prendono il posto dello scambio indifferente e accidentale in funzione delle merci e del denaro. Non è più il regno della libertà del capitale, ma quello dell’autentica libertà umana dell’individuo sociale, descritto da Marx in alcune delle sue pagine più brillanti e, paradossalmente, più distanti dal cosiddetto “socialismo reale” eretto, arbitrariamente, in suo nome.

Con la diffusione de Il capitale e dei suoi manoscritti preparatori, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per divenire critica sociale e irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze. Il drammatico aumento di povertà, diseguaglianze e sfruttamento, prodotto su scala globale dal capitalismo degli ultimi decenni, impone che lì vi ritorni, il prima possibile, per non essere nuovamente confinata alle sole pagine dei libri.

Riferimenti
1. Per una trattazione estesa di questo testo cfr. Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi, Carocci, Roma 2011, pp. 308-12 e 51-4.
2. Per un’antologia completa dei testi marxiani sull’alienazione si rimanda a Marcello Musto (a cura di), Karl Marx. L’alienazione, Donzelli, Roma 2010.
3. Herbert Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica , in Id., Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 170.
4. Ivi, p. 171.
5. Ivi, p. 155.
6. Con questa espressione Marcuse si riferiva al lavoro fisico e al travaglio, non al lavoro tout court.
7. Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1971, p. 250.
8. Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Edizioni di comunità, Milano 1981, p. 121.
9. Sebbene i filosofi esistenzialisti si servirono spesso di questo concetto, nei loro testi esso non appare così diffusamente come, invece, generalmente si ritiene.
10. Cfr. George Lichtheim, Alienation, in David Sills (ed.), International Encyclopedia of the Social Sciences, vol. I, , Crowell – Macmillan Inc, New York 1968, pp. 264-8, che scrisse: «[la] alienazione (che i pensatori romantici avevano attribuito all’aumentata razionalizzazione e specializzazione dell’esistenza) fu attribuita da Marx alla società e specificamente allo sfruttamento del lavoratore da parte del non-lavoratore, ovvero il capitalista. […] Diversamente dai pensatori romantici e dai loro predecessori illuministi del XVIII secolo, Marx attribuì questa disumanizzazione non alla divisione del lavoro per sé, ma alla forma storica che aveva preso sotto il capitalismo», p. 266.
11. Cfr. Ornella Pompeo Faracovi, Il marxismo francese contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1972, p. 28; e István Mészáros, La teoria dell’alienazione in Marx, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 301-2.
12. Cfr. Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi, op. cit., pp. 223-267.
13. Adam Schaff, L’alienazione come fenomeno sociale, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 27 e 53.
14. Eccezione di rilievo a questo atteggiamento fu lo studioso polacco Adam Schaff, che nel libro Il marxismo e la persona umana, Feltrinelli, Milano 1965, mise in evidenza come l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non comportava la scomparsa automatica dell’alienazione, poiché anche nelle società “socialiste” il lavoro conservava il carattere di merce.
15. Henry Lefebvre, Critica della vita quotidiana, vol. I, Dedalo, Bari 1977, p. 62.
16. Max Horkheimer – Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 127.
17. György Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1971, p. 112
18. Ivi, p. XXV.
19. Per una critica delle conseguenze politiche di questa impostazione cfr. David Schweitzer – Felix Geyer, Introduction, in Id. (eds.), Alienation: Problems of Meaning, Theory and Method , Routledge, London 1981, che affermò «riallocando il problema dell’alienazione nell’individuo, anche la soluzione al problema tende a essere posto sull’individuo; ovvero, ci devono essere adattamenti e aggiustamenti individuali in conformità degli assetti e dei valori dominanti», p. 12. Eguale matrice culturale hanno tutte le presunte strategie di disalienazione, promosse dalle amministrazioni aziendali, che vanno sotto il nome di “relazioni umane”. Nel volume James W. Rinehart, The Tiranny of Work: Alienation and the Labour Process, Harcourt Brace Jovanovich, Toronto 1987, si ricorda come queste strategie, lungi dall’umanizzare l’attività lavorativa, sono funzionali alle esigenze padronali e mirano esclusivamente a intensificare il lavoro ed a ridurre i suoi costi per l’impresa.
20. Cfr. Richard Schacht, Alienation, Doubleday, Graden City 1970, il quale notò che «non c’era quasi alcuno aspetto della vita contemporanea che non sia stato discusso nei termini di “alienazione”», p. lix.
21. Cfr. David Schweitzer, Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in philosophy and the social sciences , in Giora Shoham (ed.), Alienation and Anomie Revisited, Ramot, Tel Aviv 1982, secondo cui «il vero significato di alienazione è spesso diluito fino al punto di un’assenza virtuale di significato», p. 57.
22. Cfr. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 70-1.
23. Jean Baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 2010, p. 234.
24. Karl Marx, Grundrisse, La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I, pp. 97-8. Per un’analisi completa di questo testo si rimanda al recente Marcello Musto (a cura di), I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo , ETS, Pisa 2015.
25. Karl Marx, Grundrisse, op. cit., vol. II, pp. 22-3.
26. Karl Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 20.
27. Ivi, p. 94.
28. Ivi, p. 90.
29. Karl Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, op. cit., p. 37.
30. Ivi, p. 39.
31. Ivi, p. 90.
32. Ivi, p. 96.
33. Karl Marx, Il capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 105.
34. Ivi, pp. 104-5.
35. Cfr. Adam Schaff, op. cit., pp. 149-50.
36. Karl Marx, Il capitale, op. cit., p. 110.
37. Karl Marx, Il capitale, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 933.

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Revisitando la concepción de la alienación en Marx

I. Introducción
La alienación puede situarse entre las teorías más relevantes y discutidas del siglo XX, y la concepción de la misma elaborada por Marx asume un rol determinante en el ámbito de las discusiones desarrolladas sobre el tema. Sin embargo, a diferencia de lo que se podría imaginar, el curso de su afirmación no fue en absoluto lineal, y la publicación de algunos textos inéditos de Marx conteniendo reflexiones sobre la alienación, han representado hitos significativos en la transformación y propagación de esta teoría.

A lo largo de los siglos, el término alienación fue utilizado muchas veces y con diferentes significados. En el discurso teológico, designaba la distancia entre el hombre y Dios; en las teorías del contrato social, servía para indicar la pérdida de la libertad originaria del individuo; mientras que en la economía política inglesa, fue utilizado para describir a la cesión de la propiedad privada de la tierra o de la mercancía. Sin embargo, la primera exposición filosófica sistemática de la alienación sólo apareció a comienzos del siglo XIX y fue obra de G. W. F. Hegel. En La fenomenología del espíritu (1807), Hegel hizo de la misma la categoría central del mundo moderno y adoptó los términos Entäusserung (literalmente, auto-exteriorización o renunciamiento) y Entfremdung (extrañamiento, escisión) para representar el fenómeno por el cual el espíritu deviene el otro de sí mismo en la objetividad. Esta problemática fue muy importante también para los autores de la izquierda hegeliana, y para la concepción de la alienación religiosa expuesta por Feuerbach en La esencia del cristianismo (1841) – o sea, la crítica del proceso por el cual el ser humano se convence de la existencia de una divinidad imaginaria y se somete a ella – contribuyendo en forma significativa al desarrollo del concepto. Posteriormente la alienación desapareció de la reflexión filosófica, y ninguno de los principales pensadores de la segunda mitad del siglo XIX le prestó una particular atención. Hasta el mismo Marx usó raramente el término en las obras publicadas durante su vida, y el término también estuvo totalmente ausente en el marxismo de la Segunda Internacional (1889-1914).

Sin embargo, durante este período, varios autores desarrollaron conceptos que luego serían asociados con la alienación. Émile Durkheim, por ejemplo, en sus obras La división del trabajo (1893) y El suicidio (1897), utilizó el término “anomia” para indicar un conjunto de fenómenos que se manifestaban en la sociedad, en los que las normas que garantizaban la cohesión social entraban en crisis a raíz del alto desarrollo de la división del trabajo. Las tendencias sociales que han tenido lugar luego de los inmensos cambios en el proceso productivo también constituyeron el fundamento de las reflexiones de sociólogos alemanes. George Simmel, en La filosofía del dinero (1900), dedicó mucha atención al predominio de las instituciones sociales sobre los individuos y la creciente despersonalización de las relaciones humanas, mientras Max Weber, en su Economía y sociedad (1922), explicó largamente los conceptos de la “burocratización” y el “cálculo racional” en las relaciones humanas, considerándolos como la esencia del capitalismo. Pero estos autores consideraban a estos fenómenos como hechos inevitables, y sus reflexiones reflejaban el deseo de mejorar el orden social y político existente, y por cierto, no el de reemplazarlo por otro diferente.

II. El redescubrimiento de la alienación
Fue gracias a György Lukács que se redescubrió la teoría de la alienación, cuando en Historia y conciencia de clase (1923) se refirió a ciertos pasajes de El capital de Marx (1867), en particular en el párrafo dedicado al “fetichismo de la mercancía” (Der Fetsichcharakter der Ware ) e elaboró el concepto de reificación (Verdinglichung, Versachlichung) para describir el fenómeno por el que la actividad laboral se contrapone al hombre como algo objetivo e independiente, y lo domina mediante leyes autónomas y ajenas a él. Pero en los tramos fundamentales, la teoría de Lukács era todavía similar a la hegeliana, pues concebía la reificación como “un hecho estructural fundamental”. Posteriormente, luego de que la aparición de una traducción francesa [1] le diera a esta obra una gran influencia entre los estudiosos y los militantes de izquierda, Lukács decidió republicar su texto en una nueva edición con un largo prólogo autocrítico (1967), en el cual, para aclarar su posición, afirmó que “Historia y conciencia de clase sigue a Hegel en la medida que, también en este libro, identifica a la extrañación con la objetificación”. [2]

Otro autor que en la década de 1920 prestó gran atención a esta temática fue Isaak Rubin, en cuyo libro Ensayos sobre la teoría marxista del valor (1928) afirmaba que la teoría del fetichismo de la mercancía constituía “la base de todo el sistema económico de Marx, y en particular de su teoría del valor”. [3] Para este autor ruso, la reificación de las relaciones sociales de producción representaba “un fenómeno real de la economía mercantil-capitalista”, [4] y consistía en la “materialización” de las relaciones de producción, y no una simple “mistificación” o ilusión ideológica: Esa es una de las características de la estructura económica de la sociedad contemporánea (…) El fetichismo no sólo es un fenómeno de la conciencia social, sino del ser social.” [5]

A pesar de estas lúcidas ideas, proféticas sin consideramos la época en que fueron escritas, la obra de Rubin no logró contribuir a estimular el conocimiento de la teoría de la alienación, dado que sólo fue conocida en Occidente cuando se la tradujo al inglés en 1972 (y del inglés a otros idiomas). El hecho decisivo que revolucionó finalmente la difusión del concepto de alienación fue la aparición en 1932 de los Escritos económico-filosóficos de 1844, un texto inédito, perteneciente a la producción juvenil de Marx. De este texto emerge el rol principal o de primer plano que había conferido Marx a la teoría de la alienación durante una importante fase de la formación de su concepción: la del descubrimiento de la economía política. [6] En efecto, Marx, mediante la categoría del trabajo alienado (entfremdete Arbeit), [7] no sólo desplazó la problemática de la alienación desde la esfera filosófica, religiosa y política a la económica de la producción material; sino también hizo de esta última la premisa para poder comprender y superar las primeras. En los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, se describe a la alienación como el fenómeno mediante el cual el producto del trabajador surge frente a este último “como un ser ajeno, como una fuerza independiente del productor”. Para Marx:

… la enajenación [Entäusserung] del trabajador en su producto significa no solo que el trabajo de aquel se convierte en un objeto, en una existencia externa, sino que también el trabajo existe fuera de él, como algo independiente, ajeno a él; se convierte en una fuerza autónoma de él: significa que aquella vida que el trabajador ha concedido al objeto se le enfrenta como algo hostil y ajeno. [8]

Junto a esta definición general, Marx enumeró cuatro diferentes tipos de alienaciones que indicaban como era alienado el trabajador en la sociedad burguesa: a) del producto de su trabajo, que deviene “un objeto ajeno que tiene poder sobre él”; b) en su actividad laboral, que él percibe como “dirigida contra sí mismo”, como si “no le perteneciera a él” [9] ; c) del “ser genérico del hombre”, que se transforma en “un ser ajeno a él”; y d) de otros seres humanos , y en relación con su trabajo y el objeto de su trabajo. [10]

Para Marx, a diferencia de Hegel, la alienación no coincidía con la objetivación como tal, sino con una precisa realidad económica y con un fenómeno específico: el trabajo asalariado y la transformación de los productos del trabajo en objetos que se contraponen a sus productores. La diferencia política entre estas dos posiciones es enorme. Contrariamente a Hegel, que había representado la alienación como una manifestación ontológica del trabajo, Marx concebía este fenómeno como la característica de una determinada época de la producción, la capitalista, considerando que era posible superarla, mediante “la emancipación de la sociedad respecto de la propiedad privada”. [11] Consideraciones análogas fueron desarrolladas en los cuadernos que contenían extractos de Elementos de economía política, de de James Mill:

El trabajo sería la manifestación libre de la vida y por consiguiente, el disfrute de la vida. Pero en el marco de la propiedad privada, eso es la alienación de la vida, pues trabajo para vivir, para procurarme los medios de vida. Mi trabajo no es vida. Más aún, en mi trabajo se afirmaría el carácter específico de mi individualidad porque sería mi vida individual. El trabajo sería pues mi auténtica y activa propiedad. Pero en las condiciones de la propiedad privada mi individualidad es alienada hasta el punto en que esta actividad me es odiosa, para mí es una tortura y sólo la apariencia de una actividad y por lo tanto solo es una actividad forzada que se me impone, no por una necesidad interna, sino por una necesidad exterior arbitraria. [12]

De este modo, aún en estos fragmentarios y a veces vacilantes textos juveniles, Marx trató a la alienación siempre desde un punto de vista histórico, nunca desde un punto de vista natural.

III. Las concepciones no marxistas de la alienación
Sin embargo, pasaría mucho tiempo antes de que se pudiera afirmar una concepción histórica, no ontológica, de la alienación. En efecto, la mayor parte de los autores que, en las primeras décadas del siglo XX, se ocupó de esta problemática, lo hacía siempre considerándola un aspecto universal de la existencia humana. Por ejemplo, en Ser y Tiempo, Martín Heidegger (1927), abordó el problema de la alienación desde un punto de vista meramente filosófico y consideró a esta realidad como una dimensión fundamental de la historia. La categoría que usó para describir la fenomenología de la alienación fue la de la “caída” (Verfallen): es decir, la tendencia a estar-ahí (Dasein), – que en la filosofía heideggeriana indica la constitución ontológica de la vida humana – a perderse en la inautenticidad y el conformismo hacia el mundo que lo circunda. Para él, “el estado de caída en el ‘mundo’ designa el absorberse en la convivencia regida por la habladuría, la curiosidad y la ambigüedad”; un territorio, por consiguiente, completamente diferente de la fábrica y de la condición obrera fabril, que se hallaba en el centro de las preocupaciones y de las elaboraciones teóricas de Marx. Además, esta condición de la “caída” no era considerada por Heidegger como una condición “mala y deplorable que, en una etapa más desarrollada de la cultura humana, pudiera quizás ser eliminada”, sino más bien como una característica ontológico-existencial, “un modo existencial de estar-en-el-mundo.” [13]

También Herbert Marcuse, que a diferencia de Heidegger conocía bien la obra de Marx, identificó la alienación con la objetivación en general, no con su manifestación en las relaciones capitalistas de producción. En un ensayo publicado en 1933, sostiene que “el carácter de ‘carga’ del trabajo” [14] no podía ser atribuido simplemente a “ciertas condiciones en la ejecución del trabajo, o sobre su condicionamiento técnico-social” [15] , sino que se debía considerar como uno de sus rasgos fundamentales:

Al trabajar, el trabajador está “en la cosa” tanto si está frente a una máquina, como desarrollando un plan técnico, tomando medidas de organización, investigando problemas científicos, o impartiendo enseñanzas, etc. En su hacer, él se deja guiar por la cosa, subordinándose y atándose a su normatividad, incluso cuando domina su objeto (…) En todo caso, el trabajador no está “consigo mismo”, (…) más bien se pone a disposición de lo-otro-que-él, está en ello, en eso-otro; incluso cuando ese hacer llena su propia vida, libremente aceptada. Esta enajenación y alienación de la existencia, (…) es por principio imposible de suprimir. [16]

Para Marcuse, por consiguiente, había una “negatividad esencial del trabajo” que él consideraba que pertenecía a “la negatividad enraizada en la entidad de la existencia humana misma.” [17] La crítica de la alienación deviene, así, una crítica de la tecnología y el trabajo en general. La superación de la alienación sólo se la consideraba posible en el momento del juego, momento en el cual el hombre podía alcanzar la libertad que se le negaba en la actividad productiva: “En un solo lanzamiento de una pelota del jugador, reside un triunfo infinitamente mayor de la libertad del ser humano sobre la objetividad que en la más grande realización de un trabajo técnico.” [18]

En Eros y civilización (1955), Marcuse tomó distancia de la concepción marxiana, de manera similar. Allí afirmó que la emancipación humana sólo podría realizarse mediante la liberación del trabajo y a través de la afirmación de la libido y el juego de las relaciones sociales. Descartaba definitivamente la posibilidad de superar la explotación mediante el nacimiento de una sociedad basada en la propiedad común de los medios de producción, puesto que el trabajo en general, no sólo el trabajo asalariado, era considerado como:

… trabajo que está al servicio de un aparato que ellos [la vasta mayoría de la población] no controlan, que opera como un poder independiente al que los individuos deben someterse si quieren vivir. Y este poder se hace más ajeno conforme la división del trabajo llega a ser más especializada. (…) Trabajan (…) enajenados (…). Porque el trabajo enajenado es la ausencia de gratificación, la negación del principio del placer.” [19]

La norma cardinal contra la que los seres humanos deberían rebelarse sería el “principio de actuación” impuesto por la sociedad. Pues, para Marcuse,

el conflicto entre la sexualidad y la civilización se despliega con este desarrollo de la dominación. Bajo el dominio del principio de actuación, el cuerpo y la mente son convertidos en instrumentos del trabajo enajenado; sólo pueden funcionar como tales instrumentos si renuncian a la libertad del sujeto-objeto libidinal que el organismo humano es y desea ser (…) El hombre existe (…) como un instrumento de la actuación enajenada. [20]

Por consiguiente, él sostiene que la producción material, aunque fuera organizada en forma justa y racional, “nunca podrá ser el campo de la libertad y la gratificación. (…) La esfera ajena al trabajo es la que define la libertad y su realización.” [21] La alternativa propuesta por Marcuse era abandonar el mito prometeico tan caro a Marx para llegar a un horizonte dionisíaco: la “liberación de Eros”. [22] A diferencia de Freud, quien había sostenido en La civilización y sus descontentos (1929) que una organización no represiva de la sociedad implicaría una regresión peligrosa del nivel de civilización alcanzado en las relaciones humanas, Marcuse estaba convencido de que, si la liberación de los instintos tuviera lugar en una “sociedad libre” tecnológicamente avanzada [23] al servicio del hombre, no sólo habría favorecido “un desarrollo del progreso” sino también creado “nuevas y durables relaciones de trabajo.” [24]
Pero sus indicaciones sobre cómo debería tomar cuerpo esta nueva sociedad fueron más bien vagas y utópicas. Marcuse terminó promoviendo la oposición al dominio tecnológico en general, por lo cual su crítica de la alienación ya no era más utilizada contra las relaciones capitalistas de producción, y comenzó a desarrollar reflexiones sobre el cambio social tan pesimistas como la de incluir a la clase obrera entre los sujetos que operaban en defensa del sistema.

La descripción de una alienación generalizada, producto de un control social invasivo y de la manipulación de las necesidades, creada por la capacidad de influencia de los medios de comunicación de masas, fue teorizada también por otros dos principales exponentes de la Escuela de Frankfurt, Max Horkheimer y Theodor Adorno. En Dialéctica del iluminismo (1944) afirmaron que “la racionalidad técnica es hoy la racionalidad del dominio. Y el carácter forzado (…) de la sociedad alienada de sí misma.” [25] De este modo, habían puesto en evidencia que, en el capitalismo contemporáneo, incluso la esfera del tiempo del ocio, libre y alternativa al trabajo, había sido absorbida en los engranajes de la reproducción del consenso.

Después de la Segunda Guerra Mundial, el concepto de la alienación también llegó al psicoanálisis. Quienes se ocuparon partieron de la teoría de Freud, por la cual, en la sociedad burguesa, el hombre está puesto ante la necesidad de elegir entre la naturaleza y la cultura, y para poder disfrutar la seguridad garantizada por la civilización debe necesariamente renunciar a sus propias pulsiones. [26] Algunos psicólogos relacionaron a la alienación con las psicosis que se manifestaban, en algunos individuos como resultado de esta conflictiva elección. Por consiguiente, toda la vasta problemática de la alienación quedaba reducida a un mero fenómeno subjetivo. El autor que más se ocupó de la alienación desde el psicoanálisis fue Erich Fromm. A diferencia de la mayoría de sus colegas, jamás separó sus manifestaciones del contexto histórico capitalista; en verdad, con sus libros La sociedad sana (1955) y El concepto del hombre en Marx (1961) se sirvió de este concepto para tratar de construir un puente entre el psicoanálisis y el marxismo. Pero asimismo, Fromm afrontó esta problemática privilegiando siempre el análisis subjetivo, y su concepción de la alienación, a la que resumió como “un modo de experiencia en el que el individuo se percibe a sí mismo como un extraño” [27] , siguió estando muy circunscripta al individuo. Además, su interpretación del concepto en Marx sólo se basó en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 y se caracterizó por una profunda incomprensión de la especificidad y la centralidad del concepto del trabajo alienado en el pensamiento de Marx. Esta laguna le impidió dar la debida importancia a la alienación objetiva (la del trabajador en el proceso laboral y respecto al producto de su trabajo) y lo llevó a sostener, precisamente por haber pasado por alto la importancia de las relaciones productivas, posiciones que parecen hasta ingenuas:

Marx creía que la clase trabajadora era la clase más enajenada (…) No previó la medida en la que la enajenación había de convertirse en la suerte de la gran mayoría de la gente (…) El empleado, el vendedor, el ejecutivo, están actualmente todavía más enajenados que el trabajador manual calificado. El funcionamiento de este último todavía depende de la expresión de ciertas cualidades personales, como la destreza, el desempeño de un trabajo digno de confianza, etc., y no se ve obligado a vender en el contrato su “personalidad”, su sonrisa, sus opiniones. [28]

Entre las principales teorías no marxistas de la alienación hay que mencionar, por último, la asociada con Jean-Paul Sartre y los existencialistas franceses. En la década de 1940, en un período caracterizado por los horrores de la guerra, de la consiguiente crisis de la conciencia y, en el panorama francés, del neohegelianismo de Alexandre Kojève [29] , el fenómeno de la alienación fue considerado como una referencia frecuente, tanto en la filosofía como en la literatura narrativa [30] . Sin embargo, también en estas circunstancias, la concepción de la alienación asume un perfil mucho más genérico que el que expuso Marx. Esa concepción se identificaba con un descontento confuso del hombre en la sociedad, con una separación entre la personalidad humana y el mundo de la experiencia, y, significativamente, como una condition humaine no eliminable. Los filósofos existencialistas no proporcionaban un origen social específico para la alienación, sino que la asimilaban con toda “facticidad” (sin duda, el fracaso de la experiencia soviética favoreció la afirmación de esta posición), concebían la alienación como un sentido genérico de la alteridad humana. En 1955, Jean Hippolyte expuso esta posición en una de las obras más significativas de esta tendencia filosófica: Ensayos sobre Marx y Hegel, del siguiente modo:

[la alienación] no parece ser reducible solamente al concepto de la alienación del hombre bajo el capitalismo, tal como la comprende Marx. Esta última sólo es un caso particular de un problema más universal de la autoconciencia humana que, no pudiendo autoconcebirse como un cogito aislado, sólo puede auto-reconocerse en un mundo que construye, en los otros yoes que reconoce y por quienes es ocasionalmente enajenado. Pero esta forma de autodescubrimiento a través del Otro, esta objetivación, siempre es más o menos una alienación, una pérdida del yo y simultáneamente un autodescubrimiento. De esta manera la objetivación y la alienación son inseparables, y su unión es simplemente la expresión de una tensión dialéctica observada en el mismo movimiento de la historia. [31]

Marx había contribuido a desarrollar una crítica del sometimiento humano, basada en el antagonismo con las relaciones capitalistas de producción. Los existencialistas, en cambio, siguieron una trayectoria opuesta, tratando de reabsorber el pensamiento de Marx, a través de aquellas partes de su obra juvenil que podían resultar más útiles para sus propias tesis, en una discusión sin una crítica histórica específica [32] y a veces meramente filosófica.

IV. El debate sobre el concepto de alienación en los escritos juveniles de Marx
En la discusión sobre la alienación que se desarrolló en Francia, se recurrió frecuentemente a la teoría de Marx. Sin embargo, en este debate, a menudo sólo se examinaban a los Manuscritos económico-filosóficos de 1844. Ni siquiera se ponían en consideración los fragmentos de El capital sobre los que Lukács había construido su teoría de la reificación en los años veinte. Más aún, a algunas frases de los Manuscritos de 1844 se las separaba completamente de su contexto y eran transformadas en citas sensacionalistas que supuestamente se destinaban a demostrar la existencia de un “nuevo Marx” radicalmente diferente de lo que hasta entonces se conocía, saturado de filosofía y exento del determinismo económico que atribuían algunos críticos a El capital (a menudo, sin haberlo leído). Aunque también respetaban al manuscrito de 1844, los existencialistas franceses privilegiaron exageradamente al concepto de la autoalienación (Selbstentfremdung), o sea el fenómeno de la alienación del trabajador respecto del género humano y de otros como él – un fenómeno que Marx había tratado en sus escritos juveniles, pero siempre en relación con la alienación objetiva.

El mismo error, pero más flagrante, lo cometió una exponente del primer plano del pensamiento filosófico-político de posguerra, Hannah Arendt. En La condición humana (1958), construyó su interpretación del concepto de la alienación en Marx sólo en base a los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, y además, privilegiando, entre las tantas tipologías de la alienación que indicaba Marx, exclusivamente la subjetiva. Esto le permitía afirmar:

(…) la expropiación y la alienación del mundo coinciden, y la época moderna, en contra de las intenciones de los personajes de la obra, comenzó a alienar del mundo a ciertos estratos de la población. (…) La alienación del mundo, y no la propia alienación, como creía Marx, ha sido la marca de contraste de la edad moderna. [33]

Una demostración de su escasa familiaridad con las obras de la madurez de Marx es el hecho de que al señalar que Marx “no desconocía por completo las implicancias de la alienación del mundo en la economía capitalista”, se refería sólo a unas pocas líneas en su muy temprano artículo, “Los debates sobre la Ley acerca del robo de leña” (1842), y no a las decenas de páginas, mucho más importantes, contenidas en El capital y en los manuscritos preparatorios que precedieron a este libro. Y su sorprendente conclusión fue que “esas ocasionales consideraciones desempeñan un papel menor en su obra, que permaneció firmemente enraizada en el extremo subjetivismo de la época moderna” [34] ¿Dónde y de qué modo Marx había privilegiado la “autoalienación” en sus análisis de la sociedad capitalista? Esta cuestión sigue siendo un misterio que Arendt jamás dilucidó en sus textos.

En la década de 1960, la exégesis de la teoría de la alienación en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 se convirtió en una de las principales manzanas de la discordia en la interpretación general de la obra de Marx. Es en este período que se concibe la distinción entre dos presuntos Marx: el “joven Marx” y el “Marx maduro”. Esta oposición arbitraria y artificial era alentada por quienes preferían al Marx de las primeras obras filosóficas y por quienes opinaban que el único Marx verdadero era el Marx de El capital (entre ellos Louis Althusser y los académicos rusos). Mientras que los primeros consideraban a la teoría de la alienación en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 como la parte más importante de la crítica social de Marx, los últimos exhibían una verdadera “fobia a la alienación” y al principio trataron de minimizar su relevancia; [35] o, cuando esta estrategia no fue más posible, descartaron todo el tema de la alienación como “un pecado de juventud, un residuo de hegelianismo” [36] posteriormente abandonado por Marx. Los primeros omitieron el hecho de que la concepción de la alienación contenida en los Manuscritos de 1844 había sido escrita por un autor de 26 años, que recién emprendía sus estudios principales; los segundos en cambio se negaron a reconocer la importancia de la teoría de la alienación en Marx, aún cuando la publicación de nuevos textos inéditos evidenció que él jamás había dejado de ocuparse de ella en el curso de su vida y que esta teoría, aun con modificaciones, había conservado un lugar relevante en las principales etapas de la elaboración de su pensamiento.

Sostener, como decían muchos, que la teoría de la alienación contenida en los Manuscritos de 1844 fuese el tema central del pensamiento de Marx es una falsedad que indica solamente la escasa familiaridad con su obra por parte de los que defienden esta tesis. [37] Por el otro lado, cuando Marx volvió a ser el autor más discutido y citado en la literatura filosófica mundial, precisamente por sus páginas inéditas relativas a la alienación, el silencio de la Unión Soviética sobre esta temática, y sobre las controversias asociadas con él, ofrece un ejemplo de la utilización instrumental que se hizo de sus escritos en ese país. Pues la existencia de la alienación en la Unión Soviética y sus satélites fue simplemente negada, y a todos los textos que trataban esta problemática se los consideraba sospechosos. Según Henri Lefebvre, “en la sociedad soviética, ya no debía, ya no podía haber una cuestión de alienación. El concepto debía desaparecer, por orden superior, por razones de estado”. [38] En consecuencia, hasta los años setenta, fueron muy pocos los autores que, en el llamado “campo socialista” escribieron sobre las obras en cuestión. En fin, también algunos escritores occidentales consagrados subestimaron la complejidad del fenómeno. Es el caso de Lucien Goldmann, que se ilusiona sobre la posible superación de la alienación en las condiciones económico-sociales de la época, y en sus Recherches dialectiques (1959) sostuvo que podría desaparecer, o revertirse, gracias al mero efecto de la planificación. “La reificación es en realidad un fenómeno estrechamente ligado a la ausencia de planificación y con la producción para el mercado”; el socialismo soviético en el Este y las políticas keynesianas en Occidente traerían “el resultado de una supresión de la reificación en el primer caso, y un debilitamiento progresivo en el segundo.” [39] La historia ha mostrado la falacia de sus pronósticos.

V. El irresistible encanto de la teoría de la alienación
A partir de los años sesenta estalló una verdadera moda relativa a la teoría de la alienación y, en todo el mundo aparecieron cientos de libros y artículos sobre el tema. Fue la época de la alienación tout court. Autores diversos entre sí por su formación política y competencia disciplinaria atribuyeron la causa de este fenómeno a la mercantilización, a la excesiva especialización del trabajo, a la anomia, a la burocratización, al conformismo, al consumismo, a la pérdida de un sentido del yo, que se manifiestan en la relación con las nuevas tecnologías, e incluso al aislamiento del individuo, a la apatía, la marginalización social o étnica, y a la contaminación ambiental.

El concepto de la alienación parecía reflejar a la perfección el espíritu de la época, y constituir también el terreno del encuentro, en la elaboración de la crítica a la sociedad capitalista, entre el marxismo filosófico y antisoviético y el catolicismo más democrático y progresista. Sin embargo, la popularidad del concepto, y su aplicación indiscriminada, crearon una profunda ambigüedad terminológica. [40] De este modo, en el curso de pocos años, la alienación se convirtió en una fórmula vacía que englobaba todas las manifestaciones de la infelicidad humana, y la enorme ampliación de sus nociones generó la convicción de la existencia de un fenómeno tan extendido que parecería ser inmodificable. [41] Con el libro de Guy Debord, La sociedad del espectáculo, que luego de su aparición en 1967, pronto se convirtió en un verdadero manifiesto de crítica social para la generación de estudiantes que se rebelaban contra el sistema, la teoría de la alienación se enlazó con la crítica a la producción inmaterial. Recuperando las tesis de Horkheimer y Adorno, según las cuales en la sociedad contemporánea hasta el entretenimiento estaba siendo subsumido en la esfera de la producción del consenso con el orden social existente. Debord afirmó que en las presentes circunstancias el no-trabajo ya no podía ser considerado como una esfera diferente de la actividad productiva:

Mientras que en la fase primitiva de la acumulación capitalista “la economía política no ve en el proletariado sino al obrero” que debe recibir el mínimo indispensable para la conservación de su fuerza de trabajo, sin considerarlo jamás “en su ocio, en su humanidad”, esta posición de las ideas de la clase dominante se invierte tan pronto como el grado de abundancia alcanzado en la producción de mercancías exige una colaboración adicional del obrero.

Este obrero redimido de repente del total desprecio que le notifican claramente todas las modalidades de organización y vigilancia de la producción, fuera de ésta se encuentra cada día tratado aparentemente como una persona importante, con solícita cortesía, bajo el disfraz de consumidor. Entonces el humanismo de la mercancía tiene en cuenta “el ocio y la humanidad” del trabajador, simplemente porque ahora la economía política ahora puede y debe dominar esas esferas. [42]

Para Debord, si el dominio de la economía sobre la vida social inicialmente se había manifestado mediante una “degradación del ser en el tener”, en la “fase presente” se verificaba un “deslizamiento generalizado del tener hacia el parecer.” [43] Tales reflexiones lo impulsaron a cuestionar en el centro de su análisis al mundo del espectáculo: “En la sociedad el espectáculo corresponde a una fabricación concreta de la alienación,” [44] el fenómeno mediante el cual “el principio del fetichismo de la mercancía (…) se cumple de un modo absoluto.” [45] En estas circunstancias, la alienación se afirmaba a tal punto de convertirse incluso en una experiencia entusiasmante para los individuos, los cuales, dispuestos por este nuevo opio del pueblo al consumo y a “reconocerse en las imágenes dominantes,” [46] se alejaban siempre más, al mismo tiempo, de sus propios deseos y existencia real:

El espectáculo señala el momento en que la mercancía ha alcanzado la ocupación total de la vida social (…) la producción económica moderna extiende su dictadura extensiva e intensamente (…) En este punto de la “segunda revolución industrial”, el consumo alienado se convierte para las masas, en un deber añadido a la producción alienada. [47]
Siguiendo a Debord, Jean Baudrillard también utilizó el concepto de alienación para interpretar críticamente las mutaciones sociales que intervinieron con el capitalismo maduro. En La sociedad de consumo (1970), identificó en el consumo al factor primario de la sociedad moderna, tomando así distancia de la concepción marxiana, anclada en la centralidad de la producción. Según Baudrillard, la “era del consumo”, en la que la publicidad y las encuestas de opinión creaban necesidades ficticias y consensos masivos, se convertía también en “la era de la alienación radical”.

La lógica de la mercancía se ha generalizado y hoy gobierna, no sólo al proceso del trabajo y los productos materiales, sino también la cultura en su conjunto, la sexualidad, las relaciones humanas, hasta las fantasías y las pulsiones individuales (…) Todo se vuelve espectáculo, es decir, todo se presenta, se evoca, se orquesta en imágenes, en signos, en modelos consumibles. [48]

Sin embargo, sus conclusiones políticas eran más bien confusas y pesimistas. Frente a una gran etapa de fermento social, él acusó a “los contestatarios del mayo francés” de haber caído en la trampa de “súper-reificar los objetos y el consumo dándoles un valor diabólico”; y criticó a “todos los discursos sobre la ‘alienación’, todo el escarnio del pop y el anti-arte”, por haber creado una “acusación que es parte del mito, de un mito que completan entonando el contracanto en la liturgia formal del Objeto.” [49] Así pues, alejado del marxismo, que veía en la clase obrera el sujeto social de referencia para cambiar el mundo, finalizó su libro con una apelación mesiánica, tan genérica cuanto efímera: “Habrá que esperar las irrupciones brutales y las disgregaciones súbitas que, de manera tan imprevisible pero segura, como las de mayo de 1968, terminen por desbaratar esta misa blanca.” [50]

VI. La teoría de la alienación en la sociología norteamericana
En la década de 1950, el concepto de la alienación también ingresó en el vocabulario de la sociología norteamericana. Pero el enfoque sobre el tema fue completamente diferente respecto al prevaleciente en Europa. De hecho, en la sociología convencional se volvió a tratar la alienación como una problemática inherente al ser humano individual, no a las relaciones sociales, [51] y se dirigió la búsqueda de soluciones para su superación hacia la capacidad de adaptación de los individuos al orden existente, y no hacia las prácticas colectivas para cambiar la sociedad. [52]

También en esta disciplina reinó por largo tiempo una profunda incertidumbre acerca de una definición clara y compartida. Algunos autores evaluaron este fenómeno como un proceso positivo, porque era un medio de expresión de la creatividad del hombre e inherente a la condición humana en general. [53] Otra característica difundida entre los sociólogos estadounidenses fue la de considerar a la alienación como algo que surgía de la escisión entre el individuo y la sociedad. [54] Por ejemplo, Seymour Melman identificó la alienación en la separación entre la formulación y la ejecución de las decisiones, y la consideró como un fenómeno que afectaba tanto a los obreros como a los gerentes. [55] En el artículo “Una medida de la alienación” (1957), que inauguró un debate sobre el concepto en la American Sociological Review, Gwynn Nettler empleó el instrumento de la encuesta en el intento de establecer una definición. Pero en una forma muy distante de la tradición de la rigurosa investigación sobre las condiciones laborales realizadas en el movimiento obrero, su formulación del cuestionario pareció inspirarse más en los cánones macartistas de esa época que en los cánones de la investigación científica. [56]

Nettler, de hecho, representando a las personas alienadas como sujetos guiados por “un coherente mantenimiento de una actitud hostil e impopular contra la familia, los medios de comunicación de masas, los gustos masivos, la actualidad, la educación popular, la religión tradicional y la visión teleológica de la vida, el nacionalismo y el sistema electoral” [57] , identificó la alienación con el rechazo de los principios conservadores de la sociedad estadounidense.

La pobreza conceptual presente en el panorama sociológico norteamericano cambió luego de la publicación del ensayo de Melvin Seeman “Sobre el significado de la alienación” (1959). En este breve artículo, que pronto se convirtió en una referencia obligada para todos los estudiosos de la alienación, catalogó aquellos que él consideraba que eran sus cinco formas principales: la falta de poder, la falta de significado (o sea, la dificultad del individuo para comprender los acontecimientos en los que está insertado), la carencia de normas, el aislamiento y el extrañamiento de sí mismo [58] . Este listado muestra cómo también Seeman consideraba la alienación bajo un perfil principalmente subjetivo.

Robert Blauner, en su libro Alienation and Freedom (1964), expuso el mismo punto de vista. El autor definió la alienación como “una cualidad de la experiencia personal que resulta de tipos específicos de configuraciones sociales”, [59] y también hizo pródigos esfuerzos en su investigación, que lo condujo a rastrear las causas en “el proceso del trabajo en las organizaciones gigantescas y burocracias impersonales que saturan a todas las sociedades industriales.” [60]

En el ámbito de la sociología norteamericana, por consiguiente, la alienación fue concebida como una manifestación relativa al sistema de producción industrial, prescindiendo de si éste era capitalista o socialista, y como una problemática inherente sobre todo a la conciencia humana. [61] Este enfoque finalizó colocando en los márgenes, o incluso excluyendo, al análisis de los factores histórico-sociales que determinan la alienación, produciendo una especie de hiper-psicologización del análisis de este concepto, que fue asumida también en esta disciplina, además de en la psicología. Es decir, ya no consideraba más que la alienación era una cuestión social, sino que era una patología individual cuya solución sólo incumbía a cada individuo. [62] Mientras que en la tradición marxista el concepto de la alienación representaba uno de los conceptos más incisivos del modo capitalista de producción, en la sociología sufrió un proceso de institucionalización y terminó siendo considerado como un fenómeno relativo a la falta de adaptación de los individuos a las normas sociales. De igual modo, el concepto de alienación perdió el carácter normativo que había tenido en la filosofía (aún para autores que pensaban a la alienación como un horizonte insuperable) y se transformó en un concepto no evaluativo, al cual se le había despojado el contenido crítico originario. [63]

Otro efecto de esta metamorfosis de la alienación fue su empobrecimiento teórico. De un fenómeno global, relativo a la condición laboral, social e intelectual del hombre, fue reducido a una categoría limitada, parcializada en función de las investigaciones académicas. [64] Los sociólogos estadounidenses afirmaron que esta elección metodológica permitiría liberar la investigación de la alienación de sus connotaciones políticas y conferirle una objetividad científica. En realidad, este presunto giro apolítico tenía fuertes y evidentes implicancias ideológicas, pues tras la bandera de la des-ideologización y la presunta neutralidad de los valores se ocultaba el apoyo a los valores y al orden social dominante.

La diferencia entre la concepción marxista de la alienación y la de los sociólogos estadounidenses no consistía, por consiguiente, en el hecho de que la primera era política y la segunda era científica, sino al contrario, que los teóricos marxistas sostenían valores completamente diferentes a los valores hegemónicos, mientras que los sociólogos estadounidenses sostenían los valores del orden social existente, hábilmente disfrazados como valores eternos del género humano. [65] En la sociología, por lo tanto, el concepto de alienación sufrió una verdadera distorsión y ha llegado a ser utilizado por los defensores de aquellas mismas clases sociales contra las que dicho concepto había sido dirigido durante tanto tiempo. [66]

VII. La alienación en El capital y en sus manuscritos preparatorios
Los escritos de Marx tuvieron, obviamente, un rol fundamental para quienes intentaban oponerse a la tendencia, manifestada en el ámbito de las ciencias sociales, de cambiar el sentido del concepto de la alienación. La atención puesta en la teoría de la alienación en Marx, inicialmente centrada en sus Manuscritos económico-filosóficos de 1844, se desplazó, luego de la publicación de inéditos ulteriores, sobre los nuevos textos y con eso fue posible reconstruir desarrollo de sus elaboraciones, de los escritos juveniles a El capital.

En la segunda mitad de la década de 1840, Marx no utilizó tan frecuentemente la palabra “alienación”. Con excepción de La sagrada familia (1845), escrito con la colaboración de Engels, donde el término fue utilizado en algunos pasajes polémicos sobre algunos exponentes de la izquierda hegeliana, referencias a este concepto se encuentran solamente en un largo fragmento de La ideología alemana (1845-6), también escrito en conjunto con Engels:

La división del trabajo nos brinda ya el primer ejemplo de cómo (…) los actos propios del hombre se erigen ante él en un poder ajeno y hostil, que lo sojuzga, en vez de ser él quien los domine. (…) Esta plasmación de las actividades sociales, esta consolidación de nuestros propios productos en un poder material erigido sobre nosotros, sustraído a nuestro control, que levanta una barrera ante nuestra expectativa y destruye nuestros cálculos, es uno de los momentos fundamentales que se destacan en todo el desarrollo histórico anterior. (…) El poder social, es decir, la fuerza de producción multiplicada, que nace por obra de la cooperación de los diferentes individuos bajo la acción de la división del trabajo, se les aparece a estos individuos, por no tratarse de una cooperación voluntaria, sino natural, no como un poder propio, asociado, sino como un poder ajeno, situado al margen de ellos, que no saben de dónde procede ni a dónde se dirige y que, por tanto, no pueden ya dominar, sino que recorre, por el contrario, una serie de fases y etapas de desarrollo peculiar e independiente de la voluntad y los actos de los hombres y que incluso dirige esta voluntad y estos actos. Con esta “enajenación”, para expresarnos en términos comprensibles para los filósofos, sólo puede acabarse partiendo de dos premisas prácticas. Para que se convierta en un poder “insoportable”, es decir en un poder contra el que hay que sublevarse, es necesario que engendre a una masa de la humanidad como absolutamente “desposeída” y, a la par con ello, en contradicción con un mundo existente de riquezas y de cultura, lo que presupone, en ambos casos, un incremento de la fuerza productiva, un alto grado de su desarrollo [67].

Abandonado por sus autores el proyecto de publicar este último libro, posteriormente, en Trabajo asalariado y capital, que era una colección de artículos redactados en base a los apuntes utilizados para una serie de conferencias que dio a la Liga de Trabajadores Alemanes en Bruselas en 1847, y fue enviado a la imprenta en 1849, Marx vuelve a exponer la teoría de la alienación, pero al no poder dirigirse al movimiento obrero con un concepto que habría parecido demasiado abstracto, decidió no utilizar esta palabra. Escribió que el trabajo asalariado no entraba en la “actividad vital” del obrero, sino que representaba, más bien, un momento de “sacrificio de su vida”. La fuerza de trabajo es una mercancía que el obrero está forzado a vender “para poder vivir”, y “el producto de su actividad no [era] el propósito de su actividad”: [68]

… para el obrero que teje, hila, taladra, tornea, construye, cava, machaca piedras, carga, etc., por espacio de doce horas al día, ¿son estas doce horas de tejer, hilar, taladrar, tornear, construir, cavar y machacar piedras la manifestación de su vida, su vida misma? Al contrario, para él la vida comienza allí donde terminan estas actividades, en la mesa de su casa, en el banco de la taberna, en la cama. Las doce horas de trabajo no tienen para él sentido alguno en cuanto a tejer, hilar, taladrar, etc., sino solamente como medio para ganar el dinero que le permite sentarse a la mesa o en el banco de la taberna y meterse en la cama. Si el gusano de seda hilase para ganarse el sustento como oruga, sería el auténtico obrero asalariado. [69]

En la obra de Marx no hubo más referencias a la teoría de la alienación hasta fines de la década de 1850. Luego de la derrota de las revoluciones de 1848, fue forzado a exiliarse en Londres y durante este período, para concentrar todas sus energías en el estudio de la economía política, con la excepción de algunos trabajos breves de carácter histórico, [70] no publicó ningún libro. Cuando comenzó a escribir nuevamente sobre economía, sin embargo, en los Elementos fundamentales para la crítica de la economía política (mejor conocidos como los Grundrisse), Marx volvió a utilizar repetidamente el concepto de alienación. Este texto recordaba, de muchas maneras, lo que se había expuesto en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, aunque, gracias a los estudios realizados mientras tanto, su análisis resultó ser mucho más profundo:

El carácter social de la actividad, así como la forma social del producto y la participación del individuo en la producción, se presentan aquí como algo ajeno y con carácter de cosa frente a los individuos; no como su estar recíprocamente relacionados, sino como su estar subordinados a relaciones que subsisten independientemente de ellos y nacen del choque de los individuos recíprocamente indiferentes. El intercambio general de las actividades y de los productos, que se ha convertido en condición de vida para cada individuo particular y es su conexión recíproca [con los otros], se presenta ante ellos mismos como algo ajeno, independiente, como una cosa. En el valor de cambio el vínculo social entre las personas se transforma en relación social entre cosas; la capacidad personal, en una capacidad de las cosas. [71]

En los Grundrisse, por consiguiente, la descripción de la alienación, adquiere un mayor espesor respecto de la realizada en los escritos juveniles, porque se enriquece con la comprensión de importantes categorías económicas y por un análisis social más riguroso. Junto al vínculo entre la alienación y el valor de cambio, entre los pasajes más brillantes que delinearon la característica de este fenómeno de la sociedad moderna figuran aquellos en los que la alienación fue puesta en relación con la contraposición entre el capital y la “fuerza viva del trabajo”:

Las condiciones objetivas del trabajo vivo se presentan como valores disociados, autónomos, frente a la capacidad viva de trabajo como existencia subjetiva; (…) las condiciones objetivas de la capacidad viva de trabajo están presupuestas como existencia autónoma frente a ella, como la objetividad de un sujeto diferenciado de la capacidad viva de trabajo y contrapuesto autónomamente a ella; la reproducción y valorización, esto es, la ampliación de estas condiciones objetivas, es al mismo tiempo, pues, la reproducción y producción nueva de esas condiciones como sujeto de la riqueza, extraño, indiferente, ante la capacidad de trabajo y contrapuesto a ella de manera autónoma. Lo que se reproduce y se produce de manera nueva no es sólo la existencia de estas condiciones objetivas del trabajo vivo, sino su existencia como valores autónomos, esto es, pertenecientes a un sujeto extraño, contrapuestos a esa capacidad viva de trabajo. Las condiciones objetivas del trabajo adquieren una existencia subjetiva frente a la capacidad viva de trabajo: del capital nace el capitalista. [72]

Los Grundrisse no fueron el único texto de la madurez de Marx en el cual la descripción de la problemática de la alienación se repite con frecuencia. Cinco años después de su redacción, de hecho, ella retornó en El capital, Libro 1, Capítulo VI, inédito (1863-4) (también conocido como los “Resultados del proceso inmediato de producción”), manuscrito en el cual el análisis económico y el análisis político de la alienación fueron puestos en una mayor relación entre ellos: “La dominación del capitalista sobre el obrero es por consiguiente la de la cosa sobre el hombre, la del trabajo muerto sobre el trabajo vivo, la del producto sobre el productor”. [73] En estos proyectos preparatorios de El capital, Marx pone en evidencia que en la sociedad capitalista, mediante “la trasposición de las fuerzas productivas sociales del trabajo en las propiedades objetivas del capital,” [74] se realiza una auténtica “personificación de las cosas y reificación de las personas,” o se crea la apariencia vigente de que “los medios de producción, las condiciones objetivas de trabajo, no aparecen subsumidos en el obrero, sino éste en ellas.” [75] En realidad, en su opinión:

El capital no es una cosa, al igual que el dinero no lo es. En el capital, como en el dinero, determinadas relaciones de producción entre personas se presentan como relaciones entre cosas y personas o determinadas relaciones sociales aparecen como cualidades sociales que ciertas cosas tienen por naturaleza. Sin trabajo asalariado, ninguna producción de plusvalía, ya que los individuos se enfrentan como personas libres; sin producción de plusvalía, ninguna producción capitalista, ¡y por ende ningún capital y ningún capitalista! Capital y trabajo asalariado (así denominamos el trabajo del obrero que vende su propia capacidad laboral) no expresan otra cosa que dos factores de la misma relación. El dinero no puede transmutarse en capital si no se intercambia por capacidad de trabajo, en cuanto mercancía vendida por el propio obrero. Por lo demás, el trabajo sólo puede aparecer como trabajo asalariado cuando sus propias condiciones objetivas se le enfrentan como poderes egoístas, propiedad ajena, valor que es para sí y aferrado a sí mismo, en suma: como capital. Por lo tanto, si el capital, conforme a su aspecto material, o al valor de uso en el que existe, sólo puede consistir en las condiciones objetivas del trabajo mismo, con arreglo a su aspecto formal estas condiciones objetivas deben contraponerse como poderes ajenos, autónomos, al trabajo, esto es, deben contraponérsele como valor –trabajo objetivado – que se vincula con el trabajo vivo en cuanto simple medio de su propia conservación y acrecimiento. [76]

En el modo capitalista de producción, el trabajo humano se convierte en un instrumento del proceso de valorización del capital, el que, al “incorporarse la capacidad viva de trabajo a los componentes objetivos del capital, éste se transforma en un monstruo animado y se pone en acción ‘cual si tuviera dentro del cuerpo el amor’.” [77] Este mecanismo se expande en una escala siempre mayor, hasta que la cooperación en el proceso de producción, los descubrimientos científicos y el empleo de maquinaria – o sea los progresos sociales generales de la colectividad – se convierten en fuerzas del capital que aparecen como propiedades de eso poseído por naturaleza y se yerguen extraños frente a los trabajadores como ordenamiento capitalista:

Las fuerzas productivas del trabajo social, así desarrolladas, [aparecen] como fuerzas productivas del capital. (…) La unidad colectiva en la cooperación, la combinación en la división del trabajo, el uso de las fuerzas de la naturaleza y las ciencias, de los productos del trabajo, como la maquinaria; todos estos confrontan a los trabajadores individuales autónomamente, como un ente ajeno, objetivo, preexistente a ellos, sin y a menudo contra su concurso, como meras formas de existencia de los medios de trabajo que los dominan a ellos y de ellos son independientes, en la medida en que esas formas [son] objetivas. Y la inteligencia y voluntad del taller colectivo encarnadas en el capitalista o sus representantes (understrappers), en la medida en que ese taller colectivo está formado por la propia combinación de aquellos, [se les contraponen] como funciones del capital que vive en el capitalista. [78]

Es mediante este proceso, por consiguiente, que, según Marx, el capital se convierte en un ser “extremadamente misterioso”. Y sucede, de este modo, que “las condiciones de trabajo se acumulan ante el obrero como poderes sociales, y de esta suerte están capitalizadas.” [79] La difusión, a comienzos de la década de 1960, de El capital, Libro 1, Capítulo VI, inédito y sobre todo, de los Grundrisse [80] abrió el camino para una nueva concepción de la alienación, diferente respecto a la que hasta entonces había sido hegemónica en la sociología y la psicología, cuya comprensión se dirigía a su superación práctica, o sea a la acción política de los movimientos sociales, partidos y sindicatos para cambiar las condiciones de trabajo y de vida de la clase obrera. La publicación de lo que (luego de la aparición en la década de 1930 de los Manuscritos económico-filosóficos de 1844) podría ser considerada como la “segunda generación” de los escritos de Marx sobre la alienación, proporcionaba no sólo una base teórica coherente para una nueva época de estudios sobre la alienación, sino sobre todo una plataforma ideológica anticapitalista para el extraordinario movimiento político y social que comenzaba a estallar en el mundo en ese período. Con la difusión de El capital y de sus manuscritos preparatorios, la teoría de la alienación salió de los papeles de los filósofos y las aulas universitarias, para irrumpir, a través de las luchas obreras, en las plazas y convertirse en una crítica social.

VIII. El fetichismo de la mercancía y la desalienación
Una de las mejores descripciones de la alienación realizada por Marx es la que se encuentra contenida en la célebre sección de El capital titulada “el carácter fetichista de la mercancía y su secreto”. En su interior pone en evidencia que, en la sociedad capitalista, los seres humanos son dominados por los productos que han creado y viven en un mundo en el cual las relaciones recíprocas aparecen, “no como relaciones directamente sociales entre las personas mismas, (…) sino por el contrario como relaciones propias de cosas y relaciones sociales entre las cosas”: [81]

Lo misterioso de la forma mercantil consiste (…) en que la misma refleja ante los hombres el carácter social de su propio trabajo como caracteres objetivos inherentes a los productos del trabajo, como propiedades sociales naturales de dichas cosas, y, por ende, en que también refleja la relación social que media entre los productores y el trabajo global, como una relación social entre los objetos, existente al margen de los productores. Es por medio de este quid pro quo como los productos del trabajo se convierten en mercancías, en cosas sensorialmente suprasensibles o sociales. (…) Lo que aquí adopta, para los hombres, la forma fantasmagórica de una relación entre cosas, es sólo la relación social determinada existente entre aquellos. De ahí que para hallar una analogía pertinente debamos buscar amparo en las neblinosas comarcas del mundo religioso. En éste los productos de la mente humana parecen figuras autónomas, dotadas de vida propia, en relación unas con otras y con los hombres. Otro tanto ocurre en el mundo de las mercancías con los productos de la mano humana. A esto llamo el fetichismo que se adhiere a los productos de trabajo no bien se los produce como mercancías, y que es inseparable de la producción mercantil. [82]

De esta definición emergen las características particulares que trazan una clara línea divisoria entre la concepción de la alienación en Marx y la de la mayoría de los autores que hemos estado examinando en este ensayo. El fetichismo, en realidad, no fue concebido por Marx como una problemática individual; siempre fue considerado un fenómeno social. No como una manifestación del alma, sino como un poder real, una dominación concreta, que se realiza en la economía de mercado, a continuación de la transformación del objeto en sujeto. Por este motivo, Marx no limitó el análisis de la alienación al malestar de los seres humanos individuales, sino que analizó los procesos sociales que estaban en su base, y en primer lugar, la actividad productiva. Además, el fetichismo en Marx se manifiesta en una realidad histórica específica de la producción, la del trabajo asalariado; no está ligado a la relación entre la cosa en general y el ser humano, sino a la relación entre éste y un tipo determinado de objetividad: la mercancía.

En la sociedad burguesa, la propiedad y las relaciones humanas se transforman en propiedad y relaciones entre las cosas. Esta teoría de lo que, después de la formulación de Lukács se lo designó como reificación, ilustraba este fenómeno desde el punto de vista de las relaciones humanas, mientras que el concepto de fetichismo lo trataba en relación a las mercancías. A diferencia de los reclamos de quienes han negado la presencia de reflexiones sobre la alienación en la obra madura de Marx, la misma no fue sustituida por el fetichismo de la mercancía, porque éste representa sólo un aspecto particular de ella. [83]

El progreso teórico que realizó Marx respecto a la concepción de la alienación desde los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 hasta El capital no consiste, sin embargo, solamente en su descripción más precisa, sino también en una diferente y más acabada elaboración de las medidas consideradas necesarias para su superación. Si en 1844 había considerado que los seres humanos eliminarían la alienación mediante la abolición de la producción privada y la división del trabajo, en El capital y en sus manuscritos preparatorios, el camino indicado para construir una sociedad libre de la alienación se convirtió en algo mucho más complicado. Marx consideraba que el capitalismo era un sistema en el que los trabajadores estaban subyugados por el capital y sus condiciones, pero también estaba convencido del hecho que eso había creado las bases para una sociedad más avanzada, y que la humanidad podría proseguir el camino del desarrollo social generalizando los beneficios producidos por este nuevo modo de producción. Según Marx, un sistema que producía una enorme acumulación de riqueza para pocos y expoliaciones y explotación para la masa general de los trabajadores debía ser reemplazado por “una asociación de hombres libres, que trabajen con medios de producción colectivos y empleen, conscientemente, sus muchas fuerzas de trabajo individuales como una fuerza de trabajo social.” [84] Este distinto tipo de producción se diferenciaría del que está basado en el trabajo asalariado porque pondría sus factores determinantes bajo el dominio colectivo, asumiendo un carácter inmediatamente general y transformando el trabajo en una verdadera actividad social. Es una concepción de la sociedad en las antípodas de la bellum omnium contra omnes de Thomas Hobbes. Y su creación no es un proceso meramente político, sino que implicaría necesariamente la transformación radical de la esfera de la producción. Como Marx escribió en los manuscritos que luego se convertirían en El capital. Crítica de la economía política. Tomo III:

La libertad, en este terreno, sólo puede consistir en que el hombre socializado, los productores asociados, regulen racionalmente ese metabolismo suyo con la naturaleza poniéndolo bajo su control colectivo, en vez de ser dominados por él como por un poder ciego; que lo lleven a cabo con el mínimo empleo de fuerzas y bajo las condiciones más dignas y adecuadas a su naturaleza humana. [85]

Esta producción de carácter social, junto con los progresos científico tecnológicos y científicos y la consiguiente reducción de la jornada laboral, crea la posibilidad para el nacimiento de una nueva formación social, en la que el trabajo coercitivo y alienado, impuesto por el capital y sometido a sus leyes es progresivamente reemplazado por una actividad consciente y creativa no impuesta por la necesidad, y en la que las relaciones sociales plenas toman el lugar del intercambio indiferente y accidental en función de la mercancía y el dinero. [86] Ya no será más el reino de la libertad para el capital, sino el reino de la auténtica libertad humana.

Traducción: Francisco T. Sobrino

Referencias
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3. Isaak Illich Rubin, Ensayos sobre la teoría del valor de Marx, Buenos Aires: Pasado y Presente, 1974, 53.
4. Ibíd., 76.
5. Ibíd., 108.
6. En realidad, Marx ya había usado el concepto de alienación antes de haber escrito dichos Manuscritos. En un texto publicado en el Deutsch-Französische Jahrbücher (febrero de 1844) escribió: “Una vez desenmascarada la forma sagrada que representaba la autoalienación del hombre, la primera tarea de la filosofía que se ponga al servicio de la historia, es desenmascarar esa autoalienación bajo sus formas profanas. La crítica del cielo se transforma así en crítica de la tierra, la crítica de la religión en crítica del derecho, la crítica de la teología en crítica de la política.” Karl Marx, “Contribución a la crítica de la filosofía del derecho de Hegel. Introducción”, en Karl Marx, Crítica de la filosofía del derecho de Hegel, Buenos Aires: Ediciones Nuevas, 1965, 11.
7. En los escritos de Marx se halla el término Entfremdung tanto como Entäusserung. En Hegel estos términos tenían diferentes significados, pero Marx los utiliza como si fueran sinónimos. Ver Marcella D’Abbiero, Alienazione in Hegel. Usi e significati de Entäusserung, Entfremdung, Verüsserung, Roma: Edizioni Dell’Ateneo, 1970, 25-7.
8. Karl Marx, Manuscritos económico-filosóficos de 1844, 106-7.
9. Ibíd., 110.
10. Ibíd., 114. Para una explicación de la cuádruple tipología de la alienación en Marx, ver Bertell Ollman, Alienation, Nueva York: Cambridge University Press, 1971, 136-52.
11. Karl Marx, ibíd., 118-9.
12. Karl Marx, “Excerpts From James Mill’s Elements of Political Economy, en Early Writings, 278.
13. Martín Heidegger, Ser y tiempo, www.philosophia.cl/ Escuela de Filosofía Universidad ARCIS. En el prólogo de 1967 a su reeditado libro Historia y conciencia de clase, Lukács observó que en Heidegger la alienación se convertía en un concepto políticamente inocuo, que “sublimaba una crítica de la sociedad en un problema puramente filosófico” (Lukács, xxiv). Heidegger también trató de distorsionar el significado del concepto de la alienación de Marx. En su Carta sobre el humanismo (1946), elogió a Marx porque en él la “alienación alcanza una dimensión esencial de la historia” (Martín Heidegger, “Letter on Humanism”, en Basic Writings, Londres: Routledge, 1993, 243), lo cual es una afirmación falsa porque no está presente en ninguno de los escritos de Marx.
14. Herbert Marcuse, “Acerca de los fundamentos filosóficos del concepto científico-económico del trabajo”, en Ética de la revolución, Madrid: Taurus, 1970, 35.
15. Ibíd., 22.
16. Ibíd., 35.
17. Ibíd.
18. Ibíd., 18-19.
19. Herbert Marcuse, Eros y civilización, Buenos Aires: Ariel, 1985, 54.
20. Ibíd., 55. Georges Friedmann opinaba igual, y sostenía en The Anatomy of Work (New York: Glencoe Press, 1964) que la superación de la alienación sólo era posible luego de la liberación del trabajo.
21. Marcuse, Eros y civilización, 151.
22. Ibíd., 149.
23. Ibíd., 190.
24. Ibíd., 149. Cf. la evocación de “una ‘razón libidinal’ que no sólo sea compatible sino que inclusive promueva el progreso hacia formas más altas de libertad civilizada” (186). Sobre este tema cfr. El magistral libro de Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolístico, Einaudi, Torino 1978, en el cual el autor sigue los principios de “la visión marxista que no combate a la ciencia y la tecnología en cuanto tales, sino solo al modo en el cual son reducidas a instrumentos de dominio, con la creación, el mantenimiento y la profundización de un abismo entre las clases sociales” (ivi, pág. 6).
25. Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialéctica del iluminismo, Buenos Aires: Sudamericana, 1944, 147.
26. Ver Sigmund Freud, Civilisation and its Discontents, Nueva York: Norton, 1962, 62 (La civilización y sus descontentos).
27. Erich Fromm, The Sane Society, Nueva York: Fawcett, 1965, 111.
28. Erich Fromm, El concepto del hombre en Marx, México DF: F.C.E., 1978, 67. Esta incomprensión del carácter específico del trabajo alienado aparece en sus textos sobre la alienación en la década de 1960. En un ensayo publicado en 1965 dijo: “Para entender plenamente el fenómeno de la alienación (…) hay que examinar su relación con el narcisismo, la depresión, el fanatismo y la idolatría.” “La aplicación del psicoanálisis humanista a la teoría de Marx”, en Erich Fromm, ed., Humanismo socialista, Buenos Aires: Paidós, 1966, 266.
29. Ver Alexandre Kojève, Lectures on the Phenomenology of Spirit, Ithaca: Cornell University Press, 1980.
30. Cfr. Jean-Paul Sartre, La náusea, México DF: Ed.Época, s/f; y Albert Camus, El extranjero, http://www.ciudadseva.com/textos/novela/fra/camus/el_extranjero.htm .
31. Jean Hyppolite, Studies on Marx and Hegel, Nueva York/Londres: Basic Books, 1969, 88.
32. Cf. István Mészáros, Marx’s Theory of Alienation, Londres: Merlin Press, 1970, 241 ff.
33. Hannah Arendt, La condición humana, Buenos Aires: Paidós, 2009, 282-3.
34. Ibíd., 350.
35. Los directores del Instituto de Marxismo-Leninismo en Berlín hasta se las ingeniaron para excluir a los Manuscritos de 1844 de los tomos numerados de los canónicos Marx-Engels Werke, relegándolos a un tomo complementario con un tiraje más pequeño.
36. Adam Schaff, Alienation as a Social Phenomenon, Oxford: Pergamon Press, 1980, 21.
37. Cf. Daniel Bell, “The Rediscovery of Alienation: Some notes along the quest for the historical Marx”, Journal of Philosophy, vol. LVI, 24 (noviembre 1959), 933-52, que concluye: “leer este concepto como el tema central de Marx sólo es aumentar más el mito.” (935).
38. Henri Lefebvre, Obras, T. I. Crítica de la vida cotidiana, Buenos Aires: Peña Lillo, 1967, 236
39. Lucien Goldmann, Recherches dialectiques, Paris: Gallimard, 1959, 101.
40. De este modo, Richard Schacht (Alienation, Garden City: Doubleday, 1970) señaló que “casi no hay ni un aspecto de la vida contemporánea que no haya sido discutido en relación con la ‘alienación’ (lix), mientras Peter C. Ludz (“Alienation as a Concept in the Social Sciences”, reimpreso en Félix Geyer y David Schweitzer, eds., Theories of Alienation, Leiden: Martinus Nijhoff, 1976), comentaban que la “popularidad del concepto sirve para incrementar la ambigüedad terminológica existente.”(3).
41. Cf. David Schweitzer, “Alienation, De-alienation, and Change: A critical overview of current perspectives in Philosophy and the social sciences”, en Giora Shoham, ed., Alienation and Anomie Revisited, Tel Aviv: Ramot, 1982, para quien “el significado mismo de alienación frecuentemente está diluido hasta el punto de una virtual falta de sentido.” (57).
42. Guy Debord, La sociedad del espectáculo, Rosario: Kolectivo Editorial “Último Recurso”, 2007, 43.
43. Ibíd., 28.
44. Ibíd., 34.
45. Ibíd., 37.
46. Ibíd., 33.
47. Ibíd., 39.
48. Jean Baudrillard, La sociedad de consumo, Madrid: Siglo XXI, 2009, 244-5.
49. Ibíd., 250-1.
50. Ibíd., 251.
51. Ver por ejemplo John Clark, “Measuring alienation within a social system”, American Sociological Review, vol. 24, N° 6 (diciembre 1959), 849-52.
52. Ver Schweitzer, “Alienation, De-alientation, and Change” (nota 40), 36-7.
53. Un buen ejemplo de esta posición es “The Inevitability of Alienation”, de Walter Kaufman, que era su introducción al libro citado previamente, Alienation de Schacht. Para Kaufman, “la vida sin alienación casi no merece ser vivida; lo que importa es incrementar la capacidad de los hombres para hacer frente a la alienación (lvi).
54. Schacht, Alienation, 155.
55. Seymour Melman, Decision-making and Productivity, Oxford: Basil Blackwell, 1958, 18, 165-6.
56. Entre las preguntas formuladas por el autor a una muestra de sujetos considerados como inclinados a la “orientación alienada”, aparecían las siguientes preguntas: “¿le gusta ver la televisión? ¿Qué piensa del nuevo modelo de los automóviles americanos? ¿Lee Reader’s Digest? (…) ¿Participa de buen grado en actividades religiosas? ¿Le interesan los deportes nacionales (fútbol, béisbol)? (“A Measure of Alienación”, American Sociological Review, vol. 22, N° 6 (diciembre 1957), (675). Nettler está convencido de que una respuesta negativa a tales preguntas constituye una prueba de alienación; y en otra parte agregaba: “que debe haber pocas dudas sobre el hecho de que esta encuesta [y sus preguntas] mide una dimensión de la alienación de nuestra sociedad.”
57. Ibíd., 674. Para demostrar su opinión, Nettler señaló que “a la pregunta, ‘¿le gustaría vivir bajo una forma de gobierno diferente a la actual?’, todos han respondido en una forma posibilista y ninguno con rechazo abierto” (674). También llegó a afirmar en la conclusión de su ensayo “que la alienación [era] correlativa con la creatividad. Se formula como hipótesis que los científicos y los artistas (…) son individuos alienados (…) que la alienación está relacionada con el altruismo [y] que su enajenación conduce al comportamiento criminal” (676-7).
58. Melvin Seeman, “On the Meaning of Alienation”, American Sociological Review, vol. 24 N° 6 (diciembre 1959), 783-91. En 1972 agregó a la lista un sexto tipo: “la alienación cultural”. (Ver Melvin Seeman, “Alienation and Engagement” en Angus Campbell y Philip E. Converse, eds., The Human Meaning of Social Change, Nueva York: Russell Sage, 1972, 467-527).
59. Robert Blauner, Alienation and Freedom, Chicago: University of Chicago Press, 1964, 15.
60. Ibíd., 3.
61. Cf. Walter R. Heinz, eds., “Changes in the Methodology of Alienation Research”, en Felix Geyer y Walter R. Heinz, eds., Alienation, Society and the Individual, New Brunswick/Londres: Transaction, 1992, 217.
62. Ver Felix Geyer y David Schweitzer, “Introduction”, en idem, eds., Theories of Alienation (nota 39), xxi-xxii, y Felix Geyer, “A General Systems Approach to Psychiatric and Sociological De-alienation”, en Giora Shoham, ed. (nota 40), 141.
63. Ver Geyer y Schweitzer, “Introduction”, xx-xxi.
64. David Schweitzer, “Fetishization of Alienation: Unpacking a Problem of Science, Knowledge, and Reified Practices in the Workplace”, in Felix Geyer, ed., Alienation, Ethnicity, and Postmodernism, Westport/Londres: Greenwood Press, 1996, 23.
65. Cf. John Horton, “The Dehumanization of Anomie and Alienation: a problem in the ideology of sociology”, The British Journal of Sociology, vol. XV, N° 4 (1964), 283-300, y David Schweitzer, “Fetishization of Alienation”, 23.
66. Ver Horton, “Dehumanization”. Esta tesis la defiende orgullosamente Irving Louis Horowitz en “The Strange Career of Alienation: how a concept is transformed without permission of its founders”, en Felix Geyer, ed. (note 63), 17-19. Según Horowitz, “la alienación ahora es parte de la tradición en las ciencias sociales, en vez de una protesta social. Este cambio surgió cuando tuvimos una mayor comprensión de que los términos como estar alienado están tan cargados de valor como estar integrado. El concepto de alienación entonces “fue envuelto con conceptos de la condición humana; (…) una fuerza positiva más que una fuerza negativa. Más que considerar a la alienación como estructurada por la “enajenación” de la naturaleza esencial de un ser humano, como resultado de un cruel conjunto de exigencias industrial-capitalistas la alienación se convierte en un derecho inalienable, una fuente de energía creativa para algunos y una expresión excentricidad personal para otros” (18).
67. Marx y Engels, La ideología alemana, (Montevideo: Pueblos Unidos, 1959, págs. 33-35.
68. Karl Marx, Trabajo asalariado y capital, Buenos Aires: Anteo, 1987, 26.
69. Ibíd., 26-7.
70. El dieciocho brumario de Luis Bonaparte, Revelaciones concernientes al Juicio Comunista de Colonia, y Revelaciones sobre la historia diplomática secreta del siglo XVIII.
71. Karl Marx, Elementos fundamentales para la crítica de la economía política (borrador) 1857-1858, Buenos Aires: Siglo XXI, 1973, 84-5.
72. Ibíd., 423.
73. Karl Marx, Libro I, Capítulo VI inédito – Resultados del proceso inmediato de producción del capital, México: Siglo XXI, 1990, 20.
74. Ibíd., 101.
75. Ibíd., 96.
76. Ibíd., 38 (subrayado en el original).
77. Ibíd., 40.
78. Ibíd., 96 (subrayado en el original).
79. Ibíd., 98.
80. Ver Marcello Musto, ed., Karl Marx’s Grundrisse: Foundations of the Critique of Political Economy 150 years Later, Londres/Nueva York: Routledge, 2008, 177-280.
81. Karl Marx, El capital Tomo I, 89.
82. Ibíd., 88-9.
83. Cf. Schaff, Alienation as a Social Phenomenon, 81.
84. El capital , Tomo I, 96.
85. Karl Marx, El capital, Tomo III, 1044.
86. Por razones de espacio, se dejará para un futuro estudio la consideración de la naturaleza incompleta y parcialmente contradictoria del esbozo de Marx de una sociedad no alienada.

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Introducción

Los marxismos dominantes del siglo XIX y XX
Pocos hombres han conmovido al mundo como lo hizo Karl Marx. A su muerte, casi desapercibida en la gran prensa, siguieron los ecos de la fama en un período tan corto que casi no se lo puede comparar en la historia. Su nombre apareció prontamente en los labios de los obreros de Detroit y Chicago, y en los de los primeros socialistas indios en Calcuta. Su imagen formó parte del escenario del primer congreso bolchevique en Moscú, luego de la revolución. Su pensamiento inspiró los programas y estatutos de todas las organizaciones políticas y sindicales del movimiento obrero, desde la Europa continental hasta Shanghai. Sus ideas cambiaron a la filosofía, la historia y la economía en forma irreversible.

Pero no tardó mucho en que surgieron los intentos para convertir sus teorías en una ideología rígida. Su pensamiento, indiscutiblemente crítico y abierto, aunque a veces tentado por el determinismo, cedió a la presión del clima cultural de la Europa de fines del siglo XIX. Era una cultura impregnada por concepciones sistemáticas, sobre todo la del darwinismo. Para responder a esta presión, el “marxismo ortodoxo”, recién nacido en las páginas de la revista Die neue Zeit, de Karl Kautsky, tomó rápidamente las formas de este modelo. Un factor decisivo que ayudó a consolidar esta transformación de la obra de Marx fueron las formas en que este pensamiento llegó al público lector. Se priorizaron las abreviaciones, los sumarios, los resúmenes y compendios truncados, como podemos ver en la reducida impresión de sus principales obras. Algunas llevaban las marcas de una instrumentalización ideológica, y algunos textos fueron reformados por quienes en cuyo cuidado se los había confiado. A esta práctica, alentada por el estado incompleto de muchos manuscritos cuando falleció Marx, se la agravó por una especie de censura. Al dárseles una forma de manual, aunque ciertamente era una manera eficaz de difundirlas mundialmente, llevó a considerables distorsiones de su pensamiento complejo; en particular, la influencia del positivismo, tradujo a este pensamiento en una versión teóricamente empobrecida del original. [1]

Estos procesos dieron lugar a una doctrina esquemática, una interpretación evolucionista elemental empapada en un determinismo económico: el marxismo de la II Internacional (1889-1914). Guiado por una creencia firme aunque ingenua en el progreso automático de la historia, y en consecuencia en el inevitable reemplazo del capitalismo por el socialismo, resultó incapaz de comprender los acontecimientos reales, y al romper el necesario vínculo con una praxis revolucionaria, produjo una suerte de pasividad fatalista que contribuyó a la estabilización del orden existente. [2]

La teoría del colapso inminente de la sociedad capitalista burguesa [Zusammenbruchstheorie], que halló un suelo fértil en la gran depresión de veinte años luego de 1873, fue proclamada como la esencia fundamental del “socialismo científico”. Los análisis de Marx, que buscaban delinear los principios dinámicos del capitalismo y describir sus tendencias generales del desarrollo, [3] se transformaron en leyes históricas universalmente válidas, a partir de las cuales era posible deducir el curso de los acontecimientos, hasta en sus detalles específicos.

La idea de un capitalismo en su agonía mortal, condenado a fracasar por sus propias contradicciones, también estaba presente en el marco teórico de la primera plataforma totalmente marxista de un partido político, el Erfurt Programme de 1891 de la socialdemocracia alemana. De acuerdo al comentario de Kautsky en su presentación del mismo, “el inexorable desarrollo económico conduce a la bancarrota del modo capitalista de producción con la necesidad de una ley de la naturaleza. La creación de una nueva forma de sociedad en lugar de la actual ya no es algo meramente deseable, sin que se ha hecho inevitable” [4] Esto demostraba claramente los límites de las concepciones que prevalecían, así como su enorme distancia respecto del hombre que las había inspirado.

El marxismo ruso, que en el curso del siglo XX jugó un papel fundamental en la popularización del pensamiento de Marx, siguió esta forma de sistematizar y vulgarizar aún con mayor rigidez. En verdad, para su pionero más importante, George Plejanov, “el marxismo es una visión mundial integral”, [5] imbuido de un monismo simplista, de acuerdo al cual las transformaciones superestructurales de la sociedad se dan simultáneamente con las modificaciones económicas. A pesar de los duros conflictos ideológicos de esos años, muchos de los elementos teóricos característicos de la II Internacional se transmitieron a los que marcarían la matriz cultural de la III Internacional. Esta continuidad estuvo claramente manifiesta en la Teoría del materialismo histórico, publicado en 1921 por Nicolás Bujarin, según la cual “en la naturaleza y en la sociedad existe una regularidad “definida”, una ley natural “fija”. La determinación de esta ley natural es la primera tarea de la ciencia.” [6] Como consecuencia de este determinismo social, completamente centrado en el desarrollo de las fuerzas productivas, se generó una doctrina en la que “la diversidad de las causas que operan en la sociedad no contradice la existencia de una sola ley causal unificada en la evolución social”. [7]

La degradación del pensamiento de Marx alcanzó su clímax en la interpretación del marxismo-leninismo, que tomó forma definitiva en el “Diamat” al estilo soviético (dialekticheskii materializm) “la perspectiva mundial del partido marxista-leninista”. [8] Al ser despojada de su función como una guía para la acción, la teoría pasó a ser su justificación a posteriori. El folleto de J. V. Stalin, publicado en 1938, Sobre el materialismo dialéctico y el materialismo histórico, que fue distribuido ampliamente, fijó los elementos esenciales de esta doctrina: los fenómenos de la vida colectiva son regulados por las “leyes necesarias del desarrollo social” que son “perfectamente reconocibles”, y “la historia de la sociedad aparece como un desarrollo necesario de ella, y el estudio de la historia de la sociedad se convierte en una ciencia”. Esto “significa que la ciencia de la historia de la sociedad, a pesar de toda la complejidad de los fenómenos de la vida social, puede convertirse en una ciencia tan exacta como por ejemplo, la biología, capaz de utilizar las leyes del desarrollo de la sociedad para usarlas en la práctica”; [9] por consiguiente, la tarea del partido del proletariado es basar su actividad en estas leyes. Los conceptos de “científico” y “ciencia” implican aquí un equívoco evidente. Al carácter científico del método de Marx, fundamentado en criterios teóricos escrupulosos y coherentes, lo reemplaza una metodología en la que no hay margen para la contradicción y se supone que las leyes históricas objetivas operan como leyes de la naturaleza, independientemente de la voluntad humana.

En este catecismo ideológico, pudo hallar un amplio espacio el dogmatismo más rígido y estricto. La ortodoxia marxista-leninista impuso un monismo inflexible que también produjo efectos perversos en la interpretación de los textos de Marx. Indudablemente, con la revolución soviética el marxismo disfrutó de un momento significativo de expansión y circulación en zonas geográficas y clases sociales de las que hasta entonces había sido excluido. No obstante, este proceso de difusión consistió mucho más en manuales, guías y antologías específicas partidarias que en los textos del propio Marx.

La cristalización de un corpus dogmático precedió a una identificación de los textos que hubieran sido necesarios leer para comprender la formación y la evolución del pensamiento de Marx. [10] Los escritos tempranos, de hecho fueron publicados en los MEGA sólo en 1927 (Crítica de la filosofía del derecho de Hegel) y en 1932 ( Manuscritos económico-filosóficos de 1844 y La ideología alemana), en ediciones que – como ya había sucedido en el caso de los tomos II y III de El capital – las hacían aparecer como obras completadas; esta decisión sería luego la fuente de muchos rumbos interpretativos falsos. [11] Más adelante, algunos de los trabajos preparatorios importantes para El capital (en 1933 el borrador del capítulo 6 de El capital sobre los “resultados del proceso inmediato de producción”, y entre 1939 y 1941 los Fundamentos de la crítica de la economía política, más conocidos como los Grundrisse) se publicaron en tiradas de impresión que sólo les asegurarían una circulación muy limitada. [12] Más aún, cuando no eran ocultados por temor a que pudieran erosionar al canon ideológico dominante, estos y otros textos previamente inéditos fueron sometidos a una exégesis políticamente motivada, con orientaciones mayormente establecidas de antemano; y jamás daban por resultado una comprensión seria de la obra de Marx.

Aunque la exclusión selectiva de textos pasó a ser una práctica común, a otros se los desmembraba y manipulaba: por ejemplo, a través de la inserción en recopilaciones de citas para un propósito determinado. A menudo estas eran tratadas de la misma forma en que el bandido Procusto trataba a sus víctimas: si eran demasiado largas, las amputaban, y si eran demasiado cortas, las alargaban.
Al ser distorsionado para servir a las necesidades políticas contingentes, ante los ojos de muchas personas Marx pasó a ser identificado con esas maniobras, y como resultado, a menudo fue denostado. Su teoría pasó a ser un conjunto de versos al estilo de la biblia que daban lugar a las paradojas más impensables. Lejos de atender su advertencia contra las “recetas de cocina para el bodegón del porvenir”, [13] los responsables de esas manipulaciones lo transformaron en el progenitor de un nuevo sistema social. A pesar de haber sido un riguroso crítico que jamás había estado autocomplaciente con sus conclusiones, se convirtió en la fuente del doctrinarismo más obstinado. A él, un firme defensor de la concepción materialista de la historia, se lo eliminó más que a ningún otro autor de su contexto histórico. A pesar de estar convencido de que “la emancipación de las clase obrera debe ser obra de los obreros mismos”, [14] quedó atrapado en una ideología que daba primacía a las vanguardias y partidos políticos en su rol de paladines de la conciencia de clase y dirigentes de la revolución. Fue un defensor de la idea de que para el florecimiento de las capacidades humanas era esencial una jornada de trabajo más corta, pero fue asimilado al credo productivista del stajanovismo. Estaba convencido de la necesidad de que el estado desapareciera, pero se lo identificó con él y fue usado para apoyarlo. Estaba interesado como muy pocos pensadores en el libre desarrollo de la individualidad humana, argumentando contra el derecho burgués (que oculta la disparidad social detrás de la igualdad meramente legal) que “el derecho tendría que ser, no igual, sino desigual”, [15]  y sin embargo se lo incluyó en una concepción que neutralizaba la riqueza de la dimensión colectiva de la vida social en la homogenización indiferenciada.

Los regresos a Marx
Ya sea por las disputas teóricas o por los eventos políticos, el interés en la obra de Marx ha fluctuado con el tiempo y ha pasado por períodos indiscutibles de declinación. Desde la “crisis del marxismo” a comienzos del siglo XX hasta la disolución de la II Internacional, y desde los debates sobre las contradicciones de la teoría económica de Marx hasta la tragedia del “socialismo realmente existente”, la crítica de las ideas de Marx parecieron persistentemente apuntar más allá del horizonte conceptual del marxismo. Pero siempre ha habido un “regreso a Marx”. Se desarrolla una nueva necesidad de tomar como referencia su obra – ya sea la crítica de la economía política, las formulaciones sobre la alienación, o las páginas brillantes de las polémicas políticas – y ese pensamiento ha continuado ejerciendo una fascinación irresistible para seguidores y opositores.

Declarado muerto luego de la caída del muro de Berlín, Marx nuevamente se convierte en el centro de un interés generalizado. Su “renaissance” se basa en su permanente capacidad para explicar el presente; es más, su pensamiento sigue siendo un instrumento indispensable con el cual entenderlo y transformarlo. Frente a la crisis de la sociedad capitalista y las profundas contradicciones que la atraviesan, este autor al que se desechó precipitadamente luego de 1989, se lo está considerando nuevamente y se lo vuelve a interrogar. Así es que la afirmación de Jacques Derrida, que “siempre será un error no leer y releer y discutir a Marx” [16] , que hace unos pocos años parecía una provocación aislada, ha recibido una creciente aprobación. [17]

Por otra parte, la literatura secundaria sobre Marx, que casi se había agotado hace veinte años, está mostrando señales de resurgimiento en muchos países, en la forma de nuevos estudios y en folletos en distintos lenguajes con títulos como ¿Porqué leer a Marx hoy? [18] Las revistas están cada vez más abiertas a colaboraciones sobre Marx y los marxismos, así como hay ahora muchas conferencias internacionales, cursos universitarios y seminarios sobre el tema. En particular, desde el comienzo de la crisis económica internacional en 2008, académicos y teóricos de economía de diversos antecedentes políticos y culturales se están basando en los análisis de Marx sobre la inestabilidad intrínseca del capitalismo, cuyas crisis cíclicas autogeneradas tienen graves efectos sobre la vida política y social. Finalmente, aunque en forma tímida y confusa, se está haciendo sentir en la política una nueva demanda por Marx; desde Latinoamérica hasta el movimiento de la globalización alternativa.

Marx y la primera crisis financiera mundial
Luego de la derrota del movimiento revolucionario que surgió por toda Europa en 1848, Marx se convenció de que sólo a partir del estallido de una nueva crisis surgiría una nueva revolución. Instalado en Londres en marzo de 1850, pues había recibido órdenes de expulsión de Bélgica, Prusia y Francia, dirigió la Neue Rheinische Zeitung. Politischökonosmische Revue, una publicación mensual que planeaba como el lugar para “la investigación integral y científica de las condiciones económicas que forman el fundamento de todo el movimiento político”. [19] En Las luchas de clases en Francia, que apareció como una serie de artículos en esa revista, afirmaba que “una verdadera revolución (…) no es posible más que en los períodos en que (…) las fuerzas productivas modernas y las formas de producción burguesas, entran en conflicto las unas con las otras (…) Una nueva revolución solamente será posible como consecuencia de una nueva crisis.” [20]

Durante ese mismo verano de 1850, Marx profundizó el análisis económico que había comenzado antes de 1848, y en el número de mayo-octubre de 1850 de la Neue Rheinische Zeitung. Politischökonosmische Revue llegó a la importante conclusión de que “la crisis comercial contribuyó infinitamente más a las revoluciones de 1848 que la revolución a la crisis comercial”. [21] Desde ahora en adelante la crisis económica sería fundamental para su pensamiento, no solo económicamente sino también sociológicamente y políticamente. Más aún, al analizar los procesos de especulación y sobreproducción desenfrenados, se arriesgó a predecir que “si el nuevo ciclo de desarrollo industrial que comenzó en1848 sigue el mismo curso como el de 1843-47, la crisis estallará en 1852”. La futura crisis, subrayó, también estallaría en el campo, y “por primera vez la crisis industrial y comercial coincidiría con una crisis en la agricultura”. [22]

Los pronósticos de Marx sobre este período de más de un año resultaron ser equivocados. Sin embargo, aún en los momentos en que estaba más convencido de que era inminente una nueva ola revolucionaria, sus ideas eran muy diferentes de las de otros líderes políticos europeos exiliados en Londres. Aunque se equivocó sobre cómo se desarrollaría la situación económica, consideraba que a los efectos de la actividad política era indispensable estudiar el estado en que se hallaban las relaciones económicas y políticas. Por el contrario, la mayoría de los líderes democráticos y comunistas de esa época, a quienes los caracterizaba como “alquimistas de la revolución”, pensaban que el único prerrequisito para una revolución victoriosa era “la adecuada preparación de su conspiración”. [23]

Durante este período, Marx también profundizó sus estudios de la economía política y se concentró, en particular, en la historia y las teorías de las crisis económicas, prestando mucha atención a la forma dineraria y el crédito intentando comprender sus orígenes. A diferencia de otros socialistas de la época, como Proudhon, que estaban convencidos de que a las crisis económicas se las podía evitar mediante una reforma del sistema monetario y crediticio, Marx llegó a la conclusión de que, dado que el sistema crediticio era una de las condiciones subyacentes, las crisis como máximo podían agravarse o mitigarse por el uso correcto o incorrecto de la circulación monetaria; las verdaderas causas de las crisis debían buscarse, en cambio, en las contradicciones de la producción. [24]

A pesar de la prosperidad económica, Marx no perdió su optimismo en lo concerniente a la inminencia de una crisis económica, y a fines de 1851 escribió al famoso poeta Ferdinand Freiligrath, un viejo amigo suyo: “La crisis, controlada por todo tipo de factores (…), debe estallar cuanto más en el otoño próximo. Y luego de los acontecimientos más recientes, estoy más convencido que nunca de que sin una crisis comercial no será una revolución seria.” [25] Marx no reservaba esas afirmaciones sólo para su correspondencia, sino también las mencionaba en el New-York Tribune. Entre 1852 y 1858, la crisis económica era un tema constante en sus artículos para el periódico estadounidense. Marx no concebía al proceso revolucionario de una manera determinista, pero estaba seguro de que la crisis era un prerrequisito indispensable para que se cumpliera. En un artículo de junio de 1853 sobre “La revolución en China y en Europa”, escribió: “Desde el comienzo del siglo XVIII no ha habido en Europa ninguna revolución seria que no haya sido precedida por una crisis comercial y financiera. Esto se aplica tanto a la revolución de 1789, como a la de 1848.” [26] El mismo tema se subrayó a fines de septiembre de 1853, en el artículo “Movimientos políticos: escasez del pan en Europa”:

Ni la declamación de los demagogos, ni las trivialidades de los diplomáticos conducirán a una crisis, pero (…) hay desastres económicos y convulsiones sociales que se aproximan que deben ser los seguros precursores de la revolución europea. Desde 1849 la prosperidad comercial e industrial ha estirado el período en el que la contrarrevolución ha dormido tranquilamente. [27]

En la correspondencia con Engels también se pueden hallar rastros del optimismo con el que Marx aguardaba los sucesos. Por ejemplo, en una carta de septiembre de 1853, escribió: “Las cosas están saliendo maravillosamente. En Francia se desatará un jaleo tremendo cuando estalle la burbuja financiera.” [28] Pero la crisis todavía no llegaba.

Sin perder sus esperanzas, Marx escribió otra vez sobre la crisis para el New-York Tribune en 1855 y 1856. En marzo 1855, en el artículo “La crisis en Inglaterra”, afirmaba:

Unos pocos meses más y la crisis llegará a una altura que no se había alcanzado en Inglaterra desde 1846, quizás desde 1842. Cuando sus efectos comiencen a sentirse plenamente entre las clases trabajadoras, entonces comenzará de nuevo ese movimiento político, que ha estado latente durante seis años (…) Entonces se encontrarán cara a cara los dos verdaderos partidos contendientes en ese país: la clase media y las clases trabajadoras, la burguesía y el proletariado. [29]

Y en “La crisis en Europa”, que apareció en noviembre de 1856, en una época en que todos los columnistas predecían confiadamente que lo peor ya había pasado, sostenía:

Las indicaciones que llegan de Europa (…) parecen posponer sin duda hacia un día futuro al colapso final de la especulación y actividad bursátil, que los hombres a ambos lados del mar anticipan instintivamente como una previsión temerosa de algún destino inevitable. No obstante este aplazamiento, ese colapso es seguro; de hecho, el carácter crónico que asumió la crisis financiera existente solo presagia para ella un fin más violente y destructivo. Cuando más dure la crisis, peor será el juicio final. [30]

Durante los primeros meses de 1857, los bancos neoyorquinos aumentaron el volumen de sus préstamos, a pesar de la declinación en los depósitos. El crecimiento resultante en la actividad especulativa empeoró las condiciones económicas generales, y luego de que la sucursal en Nueva York de la Ohio Life Insurance and Trust Company se declaró insolvente, el pánico prevaleciente condujo a numerosas bancarrotas. La pérdida de confianza en el sistema bancario produjo entonces una contracción del crédito, una disminución de los depósitos y la suspensión de los pagos. Desde Nueva York, la crisis se propagó rápidamente al resto de los Estados Unidos y, en pocas semanas, a todos los centros del mercado mundial en Europa, Sudamérica y el Oriente, convirtiéndose en la primera crisis financiera internacional en la historia.

Luego de la derrota de 1848, Marx había enfrentado toda una década de reveses políticos y un profundo aislamiento personal. Pero con el estallido de la crisis, percibió la posibilidad de tomar parte en una nueva ronda de revueltas sociales y consideró que su tarea más urgente era analizar los fenómenos económicos que serían tan importantes para el comienzo de una revolución. En ese período, el trabajo de Marx fue notable y de gran amplitud. Desde agosto de 1857 a mayo de 1858 llenó los ocho cuadernos conocidos como los Grundrisse, mientras que como corresponsal del New-York Tribune, escribió muchos artículos sobre el desarrollo de la crisis en Europa. Por último, desde octubre de 1857 hasta febrero de 1858, compiló tres libros de extractos, llamados los Libros de la crisis [31] .

Sin embargo, en realidad no había señales del movimiento revolucionario tan esperado que se suponía que surgiría junto a la crisis; y esta vez, también otra razón para el fracaso de Marx en completar el manuscrito fue su conciencia de que todavía estaba lejos de un pleno dominio crítico del material. Por consiguiente, los Grundrisse quedaron solamente como un borrador preliminar. En 1859 publicó un libro pequeño que no tuvo resonancia pública: Una contribución a la crítica de la economía política. Pasarían otros ocho años de un estudio febril y enormes esfuerzos intelectuales, antes de la publicación de El capital – Tomo I.

El capitalismo como un modo de producción histórico
Los escritos que compuso Marx hace un siglo y medio no contienen, por supuesto, una descripción precisa del mundo de hoy. Sin embargo, deberíamos hacer hincapié en que el centro de El capital tampoco estaba puesto en el capitalismo del siglo XIX, sino – como Marx lo dijo en el tercer tomo de su magnum opus – en la “organización interna del modo capitalista de producción, por así decirlo, en su término promedio ideal” [32] y por consiguiente en su forma más completa y más general.

Cuando estaba escribiendo El capital, la produccion industrial se había desarrollado solamente en Inglaterra y en unos pocos centros industriales europeos. Sin embargo, él previó que el capitalismo se expandiría en una escala global, y formuló sus teorías sobre esa base. Es por esto que El capital no solo es un gran clásico del pensamiento económico y político, sino que todavía nos ofrece, a pesar de todas las profundas transformaciones que han intervenido desde la época en que fue escrito, una rica variedad de herramientas con las cuales comprender la naturaleza del desarrollo capitalista. Esto se ha hecho más evidente desde el colapso de la Unión Soviética y la propagación del modo capitalista de producción a nuevas áreas del planeta, como China. El capitalismo se ha convertido en un sistema verdaderamente universal, y algunas de las ideas de Marx han revelado su importancia aún más claramente que en su propia época. Él demostró la lógica del sistema con más profundidad que cualquier otro pensador moderno, y su obra, si se la actualiza y aplica a los acontecimientos más recientes, puede ayudar a explicar muchos problemas que no se manifestaban plenamente cuando aún vivía. Por último, el análisis del capitalismo por Marx no era meramente una investigación económica sino que era también relevante para la comprensión de las estructuras del poder y las relaciones sociales. Con la extensión del capitalismo en la mayoría de los aspectos de la vida humana, su pensamiento resulta haber sido extraordinariamente profético en muchos terrenos no abordados por el marxismo ortodoxo del siglo XX. Uno de estos terrenos es por cierto las transformaciones causadas por la denominada globalización.

En su crítica del modo capitalista de producción, uno de los blancos polémicos permanentes de Marx era “las robinsonadas del siglo XVIII”, o sea, el mito de Robinson Crusoe como el paradigma del homo oeconomicus, o la proyección de los fenómenos típicos de la era burguesa en cualquier otra sociedad que ha existido desde las épocas más remotas. Esa concepción presentaba al carácter social de la producción como una constante en todo proceso de trabajo, no como una peculiaridad de las relaciones capitalistas. Del mismo modo, la sociedad civil [bürgerliche Gesselschaft], cuyo surgimiento en el siglo XVIII había creado las condiciones a través de las cuales “cada individuo aparece como desprendido de los lazos naturales, etc., que en las épocas históricos precedentes hacen de él una parte integrante de un conglomerado humano determinado y circunscrito”, era retratado como si siempre hubiera existido. [33] En El capital, Tomo I, al hablar de “la tenebrosa Edad Media europea”, Marx afirma que “en lugar del hombre independiente nos encontramos con que aquí todos están ligados por lazos de dependencia: siervos de la gleba y terratenientes, vasallos y grandes señores, seglares y clérigos. La dependencia personal caracteriza tanto las relaciones sociales en que tiene lugar la producción material como las otras esferas de la vida estructurada sobre dicha producción”. [34] Y cuando él examinaba la génesis del intercambio de productos, recordaba que el mismo comenzó con los contactos entre diferentes familias, tribus o comunidades, “puesto que en los albores de la civilización no son personas particulares, sino las familias, tribus, etc., las que se enfrentan, de manera autónoma.” [35]

Los economistas clásicos habían invertido esta realidad, sobre la base de lo que Marx consideraba como fantasías inspiradas en la ley natural. En particular, Adam Smith había descrito una condición primaria donde los individuos no sólo existían, sino que eran capaces de producir por fuera de la sociedad. Una división del trabajo dentro de las tribus de cazadores y pastores supuestamente había logrado la especialización de los oficios: la mayor destreza de una persona en fabricar arcos y flechas, por ejemplo, o en construir chozas de madera, lo había hecho una especie de armero o carpintero, y la seguridad de poder intercambiar la parte no consumida del producto del trabajo de uno por el excedente de otros “alentó a todos a consagrarse a una ocupación específica”. [36] David Ricardo cometió un anacronismo similar cuando concibió a la relación entre cazadores y pescadores primitivos en las primeras etapas de la sociedad como un intercambio entre poseedores de mercancías sobre la base del tiempo de trabajo materializado en ellas. [37]

De esta manera, Smith y Ricardo describieron un producto altamente desarrollado de la sociedad en la que vivían – el individuo burgués aislado – como si fuera una manifestación espontánea de la naturaleza. Lo que surgió de las páginas de sus obras era un individuo mitológico, atemporal, “conforme a la naturaleza”, [38] cuyas relaciones sociales eran siempre las mismas y cuya conducta económica tenía un carácter antropológico ahistórico. De acuerdo a Marx, los intérpretes de cada nueva época histórica regularmente se han auto-engañado planteando que los rasgos más distintivos de su propia época han estado presentes desde tiempos inmemoriales.

Contra quienes retrataron al individuo aislado del siglo XVIII como el arquetipo de la naturaleza humana, “no como un resultado histórico sino como el punto de partida de la historia”, Marx sostuvo que ese individuo solamente emergió con las relaciones sociales más desarrolladas. Así, dado que la sociedad civil ha surgido solo con el mundo moderno, el trabajador asalariado libre de la época capitalista había aparecido solo luego de un largo proceso histórico. De hecho, era “el producto, por un lado, de la disolución de las formas feudales de la sociedad, y por el otro lado, de las nuevas fuerzas productivas desarrolladas desde el Siglo XVI. [39]

La mistificación que practicaban los economistas consideraba también el concepto de la producción en general. En la “Introducción” de 1857, Marx argumentaba que, aunque la definición de los elementos generales de la producción está “segmentada muchas veces y dividida en diferentes determinaciones”, algunas de las cuales “pertenecen a todas las épocas, y otras, a sólo unas pocas”, [40] seguramente hay, entre sus componentes universales, trabajo humano y material proporcionado por la naturaleza. Pues sin un sujeto productor y un objeto trabajado, no podría haber ninguna producción. Pero los economistas introdujeron un tercer prerrequisito general de la producción: “un stock, previamente acumulado, de los productos del antiguo trabajo”, o sea, el capital. [41] La crítica de este último elemento era esencial para Marx, para revelar lo que él consideraba que era una limitación fundamental de los economistas. También le pareció evidente que ninguna producción sería posible sin un instrumento de trabajo, aunque fuera la mano humana, o sin trabajo pasado acumulado, aunque sólo fuera en la forma de los ejercicios repetidos del hombre primitivo. Sin embargo, aunque aceptaba que el capital era trabajo pasado y un instrumento de producción, no llegó a la conclusión, como Smith, Ricardo y John Stuart Mill, de que había existido siempre.

En una sección de los Grundrisse se ha discutido este tema más en detalle, donde a la concepción del capital como algo eterno, se lo ve como una forma de tratarlo solamente como materia, sin consideración alguna para su “determinación formal” esencial (Formbestimmung), de acuerdo a esto:

… el capital habría existido en todas las formas de la sociedad, lo que es cabalmente ahistórico. (…) el brazo, sobre todo la mano, serían capital, pues el capital sería un nuevo nombre para una cosa tan vieja como el género humano, ya que todo tipo de trabajo, incluso el menos desarrollado, la caza, la pesca, etc., presupone que se utilice el producto del trabajo precedente como medio para el trabajo vivo e inmediato.(…) Si de este modo se hace abstracción de la forma determinada del capital y sólo se pone el énfasis en el contenido, (…) nada más fácil, naturalmente que demostrar que el capital es una condición necesaria de toda producción humana. Se aporta la prueba correspondiente mediante la abstracción de las determinaciones específicas que hacen del capital el elemento de una etapa histórica, particularmente desarrollada de la producción humana. [42]

Si se comete el error de concebir al “capital [atendiendo] únicamente a su aspecto material, a su calidad de instrumento de producción, prescindiendo totalmente de la forma económica que convierte al instrumento de producción en capital”, [43] se cae en la “burda incapacidad de captar las diferencias reales” y se llega a creer que existe una sola relación económica, la cual adopta diversos nombres” [44] . Ignorar las diferencias expresadas en la relación social significa abstraer la differentia specifica, que es el punto nodal de todo. [45] Por eso, en la “Introducción” de 1857, Marx escribe que “el capital sería una relación natural, universal [allgemeines] y eterna”, “pero lo es si dejo de lado lo específico, lo que hace de un ‘instrumento de producción’, del ‘trabajo acumulado’, un capital”. [46]

De hecho Marx ya había criticado a la falta de sentido histórico de los economistas en La miseria de la filosofía:

Los economistas razonan de singular manera. Para ellos no hay más que dos clases de instituciones: las unas, artificiales, y las otras, naturales. Las instituciones del feudalismo son artificiales, y las de la burguesía son naturales. En esto los economistas se parecen a los teólogos, que a su vez establecen dos clases de religiones. Toda religión extraña es pura invención humana, mientras que su propia religión es una emanación de Dios. Al decir que las actuales relaciones – las de la producción burguesa – son naturales, los economistas dan a entender que se trata precisamente de unas relaciones bajo las cuales se crea la riqueza y se desarrollan las fuerzas productivas de acuerdo con las leyes de la naturaleza. Por consiguiente, estas relaciones son en sí leyes naturales, independientes de la influencia del tiempo. Son leyes eternas que deben regir siempre la sociedad. De modo que hasta ahora ha habido historia, pero ahora ya no la hay. [47]

Para que esto sea plausible, los economistas describieron las circunstancias históricas previas al nacimiento del modo capitalista de producción como “resultados de su existencia” [48] con sus propios rasgos. Como Marx sostiene en los Grundrisse:

Los economistas burgueses, que consideran al capital como una forma productiva eterna y conforme a la naturaleza (no a la historia) tratan siempre de justificarlo tomando las condiciones de su devenir por las condiciones de su realización actual. Esto es, tratan de hacer pasar los momentos en los que el capitalista practica la apropiación como no-capitalista – porque tan solo deviene tal -, por las condiciones mismas en las cuales practica la apropiación como capitalista. [49]

Desde un punto de vista histórico, la profunda diferencia entre Marx y los economistas clásicos es que en su opinión, “el capital no empezó el mundo desde un principio, sino que encontró, preexistentes, producción y productos, antes de someterlos a su proceso”. [50] En forma similar, la circunstancia en la cual los sujetos productores son separados de los medios de producción – lo que permite al capitalista hallar a trabajadores desposeídos y capaces de realizar el trabajo abstracto (el requisito necesario para el intercambio entre el capital y el trabajo vivo) – es el resultado de un proceso que los economistas cubren con el silencio, que “constituye la historia de la génesis del capital y del trabajo asalariado” [51] .

No pocos fragmentos de los Grundrisse critican la forma en la que los economistas presentan a las realidades históricas como realidades naturales. Para Marx es evidente, por ejemplo, que el dinero es un producto de la historia: “entre las propiedades naturales del oro y de la plata no se cuenta la de ser dinero”, [52] sino solo una determinación que adquieren primero en un momento preciso del desarrollo social. Lo mismo es cierto con el crédito. De acuerdo a Marx, dar y tomar en préstamo era un fenómeno común a muchas civilizaciones, como también lo era la usura, pero “en modo alguno son sinónimo de crédito, del mismo modo que trabajar no lo es de trabajo industrial o de trabajo asalariado libre. Como relación de producción desarrollada, esencial, el crédito se presenta históricamente sólo en la circulación basada sobre el capital” [53] .

Los precios y el intercambio también existían en la sociedad antigua, “pero tanto la determinación progresiva de los unos a través de los costos de producción, como el predominio del otro sobre todas las relaciones de producción se desarrollan plenamente por primera vez, y se siguen desarrollando cada vez más plenamente, sólo en la sociedad burguesa, en la sociedad de la libre competencia. Lo que Adam Smith, a la manera tan propia del siglo XVIII, sitúa en el período prehistórico y hace preceder a la historia, es sobre todo el producto de ésta.” [54] Más aún, así como criticaba a los economistas por su falta de sentido histórico, Marx se burlaba de Proudhon y todos los socialistas que pensaban que el trabajo que producía valor de cambio podría existir sin convertirse en trabajo asalariado, que el valor de cambio podría existir sin convertirse en capital, o que podría haber capital sin capitalistas. [55] Por consiguiente, Marx aspiraba a sostener la especificidad histórica del modo capitalista de producción: demostrar, como nuevamente lo afirmaría en El capital, Tomo III, que “no es un modo de producción absoluto” sino “solamente histórico y transitorio”. [56]

Este punto de vista implica una forma diferente de ver muchas cuestiones, incluyendo al proceso de trabajo en sus diversas características. En los Grundrisse, Marx escribió que “los economistas burgueses están tan enclaustrados en las representaciones de determinada etapa histórica de desarrollo de la sociedad, que la necesidad de que se objetiven los poderes sociales del trabajo se les aparece como inseparable de la necesidad de que los mismos se enajenen con respecto al trabajo vivo.” [57] Marx discrepó repetidamente con esta presentación de las formas específicas del modo capitalista de producción como si fueran constantes del proceso como tal. Representar al trabajo asalariado, no como una relación característica de una forma histórica específica de producción, sino como una realidad universal de la existencia económica del hombre era implicar que la explotación era dar a entender que la explotación y la alienación siempre habían existido y siempre seguirían existiendo.

Por consiguiente, cuando se evadía a la especificidad de la producción capitalista se obtenían consecuencias epistemológicas y políticas. Por un lado, eso impedía entender los niveles históricos concretos de producción; por el otro, al definirse las condiciones presentes como constantes e invariables, esto presentaba a la producción capitalista como la producción en general y a las relaciones sociales burguesas como relaciones humanas naturales. En consecuencia, la crítica de Marx a las teorías de los economistas tenía un doble valor. Así como se subrayaba que era indispensable una caracterización histórica para comprender la realidad, tenía el propósito político preciso de refutar al dogma de la inmutabilidad del modo capitalista de producción. Una demostración de la historicidad del orden capitalista también sería una prueba del su carácter transitorio y de la posibilidad de su eliminación. El capitalismo no es la única etapa en la historia humana, ni tampoco la final. Marx prevé que lo sucederá “una asociación de hombres libres, que trabajen con medios de producción colectivos y empleen, conscientemente sus muchas fuerzas de trabajo individuales como una fuerza de trabajo social”. [58]

¿Porqué otra vez Marx?
Liberado de la aberrante función de instrumentum regni, a la que había sido asignado en el pasado, y de las cadenas del marxismo-leninismo del que está ciertamente separado, la obra de Marx ha sido reasignada para nuevos terrenos del saber y se la está leyendo otra vez en todo el mundo. Una vez más, se ha abierto la posibilidad del pleno desarrollo de este precioso legado teórico, arrancado a presuntuosos propietarios y a las estrechas formas de utilización. Sin embargo, si Marx ya no se presenta más como una esfinge tallada en piedra que protege al grisáceo “socialismo realmente existente” del siglo XX, sería igualmente equivocado creer que se pueda confinar a su legado teórico y político a un pasado que ya no tiene nada que ofrecer a los conflictos actuales. El redescubrimiento de Marx se basa en su persistente capacidad de explicar el presente: sigue siendo un instrumento indispensable para comprenderlo y transformarlo.

Luego de años de manifiestos postmodernos, del solemne discurso del “fin de la historia” y de la infatuación con las vacías ideas “biopolíticas”, ahora se reconoce otra vez cada vez más extensamente el valor de las teorías de Marx. ¿Qué queda hoy de Marx? ¿Cuál es la utilidad de su pensamiento para la lucha obrera por la libertad? ¿Cuál es la parte de su obra más fértil para estimular la crítica de nuestra época? Estas son algunas de las preguntas para las que hay una gama muy amplia de respuestas. Si hay algo que es cierto sobre el resurgimiento contemporáneo de Marx, es un rechazo a las ortodoxias que han dominado y profundamente condicionado a la interpretación de su pensamiento. Aunque caracterizada por límites evidentes y por el riesgo del sincretismo, este nuevo período se diferencia por la multiplicidad de enfoques teóricos. [59] Luego de la era de los dogmatismos, quizás no podía ser de otra manera. La tarea de responder al desafío, mediante investigaciones teóricas y prácticas, le corresponde a una generación emergente de estudios y activistas políticos.

Entre los “Marxes” que siguen siendo indispensables, podemos mencionar al menos a dos. Uno es el crítico del modo capitalista de producción: el incansable investigador que estudió su desarrollo a escala mundial y dejó una descripción incomparable de la sociedad burguesa; el pensador que, rehusándose a concebir al capitalismo y al régimen de la propiedad privada como escenarios inmutables, e inherentes a la naturaleza humana, aún ofrece propuestas cruciales para quienes buscan y procuran alternativas. El otro es el teórico del socialismo: el autor que repudiaba la idea del socialismo de estado, que ya se había propagado en su época por Lassalle y Rodbertus, y concebía la posibilidad de una completa transformación de las relaciones productivas y sociales, no solo un paquete de anodinos paliativos para los problemas de la sociedad capitalista. Sin Marx, estaríamos condenados a la afasia crítica. Por consiguiente, la causa de la emancipación humana seguirá necesitándolo. Su “espectro” está destinado a inquietar al mundo y conmover a la humanidad durante un buen tiempo.

Apéndice: Tabla cronológica de los textos de Marx
Dado el tamaño de la producción intelectual de Marx, la siguiente cronología solo puede incluir a sus escritos más importantes; su propósito es destacar el carácter incompleto de muchos de los textos de Marx y la historia accidentada de su publicación. En relación al primer punto, los títulos de los manuscritos que él no envió a la imprenta se hallan puestos entre corchetes, para diferenciarlos de los libros y artículos completados. De inmediato se nota el mayor peso de los primeros en comparación con los segundos. La columna relativa al segundo punto contiene el año de la primera publicación, la referencia bibliográfica y, donde sea relevante, el nombre del editor o editores. También se indican cualquier cambio que se haya hecho a los originales. Cuando un libro o manuscrito publicado no fue escrito en alemán, se especifica el idioma original. Finalmente, en la tabla se han usado las siguientes abreviaturas: MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe, 1927-1935); SOC (K. Marks i F. Engel’s Sochineniia, 1928-1946); MEW (Marx-Engels-Werke, 1956-1968); MECW (Marx-Engels Collected Works, 1975-2005); MEGA2 (Marx-Engels-Gesamtausgabe, 1975- ); IISG ( International Institute of Social History).

AÑO TÍTULO DE LA OBRA INFORMACIÓN SOBRE LAS EDICIONES
1841 [Diferencia entre la filosofía de la naturaleza de Demócrito y la de Epicuro] 1902: en Aus dem literarischen Nachlass von Karl Marx, Friedrich Engels und Ferdinand Lassalle, compilada por Mehring (version parcial).
1927: en MEGA I/1.1, compilada por Riazanov.
1842-43 Artículos para la Gaceta Renana Periódico que se imprimía en Colonia
1844 [Sobre la crítica de la filosofía hegeliana del derecho público] 1927: en MEGA I/1.1, a cargo de Riazanov.
1844 Ensayos para los Anales Franco-Alemanes Incluidos en Sobre la cuestión judía y Para la crítica de la filosofía del derecho de Hegel. Introducción. Número único publicado en París. La mayor parte de los ejemplares fue confiscada por la policía.
1845 [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] 1932: en Der historische Materialismus, a cargo de Landshut y Mayer y en MEGA I/3, a cargo de Adoratsky (las ediciones difieren en su contenido y en el orden de las partes). El texto fue excluido de los volúmenes numerados de la MEW y publicado por separado.
1845 La Sagrada Familia (con Engels) Publicado en Frankfort sobre el Mein.
1845 [Tesis sobre Feuerbach] 1888: en apéndice a la reimpresión de Ludwig Fuerbach y el fin de la filosofía clásica alemana de Engels.
1845-46 [La ideología alemana] (con Engels) 1903-1904: en Dokumente des Sozialismus, a cargo de Bernstein (versión parcial y manipulada).
1932: en Der historische Materialismus, a cargo de Landshut y Mayer, y en MEGA I/3, a cargo de Adoratsky (las ediciones difieren en su contenido y en el orden de las partes).
1847 Miseria de la filosofía Impreso en Bruselas y París. Texto en francés.
1848 Discurso sobre la cuestión del libre cambio Publicado en Bruselas. Texto en francés.
1848 Manifiesto del partido comunista (con Engels) Impreso en Londres. Conquistó cierta difusión a partir de los años setenta.
1848-49 Artículos para la Nueva Gaceta Renana Periódico de Colonia. Entre ellos figura Trabajo asalariado y capital.
1850 Artículos para la Nueva Gaceta Renana. Revista político-económica Fascículos mensuales impresos en Hamburgo y de exiguo tiraje. Comprenden Las luchas de clase en Francia desde 1848 a 1850.
1851-62 Artículos para el New-York Tribune Muchos artículos fueron redactados por Engels.
1852 El dieciocho Brumario de Luis Bonaparte Publicado en Nueva York en el primer fascículo de Die Revolution. La mayor parte de los ejemplares no pudo ser retirada de la imprenta por dificultades financieras. A Europa llegó solamente un número insignificante de copias. La segunda edición –reelaborada por Marx – apareció sólo en 1869.

1852

 

[Los grandes hombres del exilio] (con Engels) 1930: en “Archiv Marksa i Engel’sa” (edición rusa). El manuscrito había sido ocultado precedentemente por Bernstein.
1853 Revelaciones sobre el proceso contra los comunistas de Colonia Impreso como anónimo en Basilea (casi todos los dos mil ejemplares fueron secuestrados por la policía) y en Boston. En 1874 fue reimpreso en el Volksstaat y Marx aparece como autor; en 1875 versión en libro.
1853-54 Lord Palmerston Texto en inglés. Publicado como artículos en el New-York Tribune y The People’s Paper, y posteriormente como folleto.
1854 El caballero de la noble conciencia Publicado en Nueva York como folleto.
1856-57 Revelaciones sobre la historia diplomática del siglo dieciocho Aunque había sido ya publicado por Marx, después fue omitido y sólo fue publicado en Europa oriental en 1986 en la MECW. Texto en inglés.
1857-58 [Introducción a los Lineamientos fundamentales de la crítica de la economía política] 1903: en Die Neue Zeit, a cargo de Kautsky, con notables discordancias con el original.
1859 Para la crítica de la economía política Impreso en Berlín en mil ejemplares.
1860 Herr Vogt Impreso en Londres con escasa resonancia.
1861-63 [Para la crítica de la economía política (Manuscrito 1861-1863)] 1905-1910: Teorías sobre la plusvalía; a cargo de Kautsky (versión manipulada). El texto fiel al original recién apareció en 1954 (edición rusa) y en 1956 (edición alemana).
1976-1982: publicación integral de todo el manuscrito en MEGA2 II/3.1-3.6.
1863-64 [Sobre la cuestión polaca] 1961: Manuskripte über die polnische Frag, a cargo del IISG.

1863-67

 

[Manuscritos económicos 1863-67] 1894: El capital. Libro tercero. El proceso global de la producción capitalista, a cargo de Engels (basado también sobre manuscritos sucesivos, editados en MEGA2 II/14 y en preparación en MEGA2 II/4.3).
1933: Libro primero. Capítulo VI inédito, en “Archiv Marksa i Engel’sa” (edición rusa).
1988: publicación de manuscritos del Libro primero y del Libro segundo,en MEGA2 II/4.1.
1992: publicación de manuscritos del Libro tercero, en MEGA2 II/4.2.
1864-72 Discursos, resoluciones, circulares, manifiestos, programas, estatutos para la Asociación Internacional de los Trabajadores Incluyen el Mensaje inaugural de la Asociación internacional de los trabajadores, La guerra civil en Francia y Las llamadas escisiones en la Internacional (con Engels). Por lo general, textos en inglés.
1865 [Salario, precio y ganancia] 1898: a cargo de Eleanor Marx. Texto en inglés.
1867 El capital. Libro primero. El proceso de producción del capital Editado en mil ejemplares en Hamburgo. Segunda edición en 1873 de tres mil copias. Traducción rusa en 1872.
1870 [Manuscrito para el libro segundo de El capital] 1885: El capital. Libro segundo. El proceso de circulación del capital, a cargo de Engels (basado también sobre el manuscrito de 1880-1881 y sobre los otros más breves de 1867-1868 y de 1877-1878, en preparación en MEGA2 II/11).
1871 La guerra civil en Francia En inglés. Tuvo numerosas ediciones y traducciones en un corto espacio de tiempo.
1872-75 El capital. Libro primero: El proceso de producción del capital (edición francesa) Texto reelaborado para la traducción francesa publicada en fascículos. Según Marx tiene “un valor científico independiente del original”.
1874-75 [Notas sobre “Estado y Anarquía” de Bakunin] 1928: en Letopisi marxisma, prefacio de Riazanov (edición rusa). Manuscritos con extractos en ruso y comentarios en alemán.
1875 [Crítica al Programa de Gotha] 1891: en Die Neue Zeit, a cargo de Engels, que modificó algunos trechos del original.
1875 [La relación entre la cuota de plusvalía y la cuota de ganancia desarrollada matemáticamente] 2003: en MEGA2 II/14.
1877 Sobre la “Historia crítica” (capítulo del Anti-Dühring de Engels) Publicado parcialmente en el Vorwärts y después íntegramente en la edición como libro.
1879-80 [Anotaciones sobre “La propiedad común rural” de Kovalevsky] 1977: en Karl Marx über Formen vorkapitalischer Produktion, a cargo del IISG.
1880-81 [Extractos de “La sociedad antigua” de Morgan] 1972: en The Ethnological Notebooks of Karl Marx, a cargo del IISG. Manuscritos con extractos en inglés.
1881 [Glosas marginales al “Manual de economía política” de Wagner] 1932: en El Capital (versión parcial).
1933: en SOČ XV (edición rusa).
1881-82 [Extractos cronológicos desde el 90 a.C hasta el 1648 ca.] 1938-1939: en “Archiv Marksa i Engel’sa” (versión parcial, edición rusa).
1953: en Marx,Engels, Lenin, Stalin, Zur deutschen Geschichte (versión parcial).

Traducción: Francisco T. Sobrino

Referencias
1. Cf. Franco Andreucci, La diffusione e la volgarizzazione del marxismo, en Eric J. Hobsbawm et al, (eds.) Storia del marxismo, Vol. 2, (Turín: Enaudi, 1979), pág. 15.
2. Cf. Erich Matthias, “Kautsky und der Kautskyanismus”, Marxismsstudien, Vol. II (1957), pág. 197.
3. Cf. Paul Sweezy, The Theory of Capitalist Development, (Nueva York/Londres: Monthly Review, 1942), págs. 19 y 191.
4. Karl Kautsky, Das Erfurter Programm, in seinem grundsätzlichen Teil erläutert, (Hannover: J. H. W. Dietz, 1964, págs 131 y sigs.)
5. George Plejanov, Fundamental Problems of Marxism (Londres: Lawrence & Wishart, 1969, pág. 21).
6. Nicolai I. Bujarin, Teoría del materialismo histórico. Ensayo popular de Sociología marxista (Madrid: Siglo XXI, 1974, pág. 117).
7. Ibíd., pág. 309. Antonio Gramsci se oponía a esta concepción. Para él, “el planteo del problema como una investigación en las leyes, de líneas constantes, regulares y uniformes, está relacionado con una necesidad, concebida de manera pueril e ingenua, de resolver perentoriamente el problema práctico de la predictibilidad de los eventos históricos.” Su evidente rechazo a reducir la filosofía de la praxis en Marx a una sociología vulgar, a “una fórmula mecánica que da la impresión de contener el todo de la historia en la palma de su mano” (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, valentino Gerratana (ed.), (Turín: Einaudi, 1975, págs. 1403 y 1428) apuntaba, hacia más allá del texto de Bujarin, a la orientación general que posteriormente predominó en la Unión Soviética.
8. Josef V. Stalin, Dialectical and Historical Materialism, (Londres: Lawrence & Wishart, 1941, pág. 5).
9. Ibíd., págs. 13-15.
10. Cf. Maximilien Rubel, Marx critique du marxisme, (París: Payot, 1974, pág. 81).
11. Cf., por ejemplo, Marcello Musto, “Marx in Paris. Manuscripts and notebooks of 1844”, Science & Society, Vol. 73., 386-402; y Terrell Carver, “The German Ideology never Took Place”, History of Political Thought, Vol. 31, N° 1, págs. 107-127.
12. Ver Marcello Musto (ed.), Karl Marx’s Grundrisse. Foundations of the Critique of Political Economy 150 years Later, (Londres/Nueva York: Routledge, 2008, págs. 179-212).
13. Karl Marx, “Epílogo a la segunda edición”, en El capital, T. I, (México DF: Siglo XXI, 1983, pág. 17).
14. Karl Marx, “Estatutos generales de la Asociación Internacional de los trabajadores”, https://www.marxists.org/espanol/m-e/1860s/1864-est.htm. Cf. Marcello Musto (coord.), Workers Unite! The International 150 Years Later, London–New York: Bloomsbury, 2014.
15. Karl Marx, Crítica del programa de Gotha, (Buenos Aires: Anteo, 1973, pág. 32).
16. Jacques Derrida, Spectres of Marx, (Londres: Routledge, 1994, pág. 13).
17. En los últimos años, diarios, revistas, y programas de televisión o radio, han discutido repetidamente la relevancia actual de Marx. En 2003, el semanario Nouvel Observateur dedicó todo un número al tema Karl Marx – le penseur du troisiéme millénaire? Poco después, pagó su tributo al hombre que una vez había forzado a un exilio de cuarenta años: en 2004, más de 500.000 espectadores de la estación de televisión nacional ZDF votó a Marx como la tercera personalidad alemana más importante de todos los tiempos (fue el primero en la categoría de “relevancia contemporánea”), y durante las elecciones nacionales de 2005 la revista de circulación masiva Der Spiegel llevaba su imagen en la tapa, haciendo la señal de la victoria, bajo el título Ein Gespenst kehrt zurück. Ese mismo año, una encuesta dirigida por la Radio Cuatro de la BBC le otorgó a Marx el premio del filósofo más admirado por sus oyentes. Y luego del estallido de la reciente crisis económica, en todas partes del mundo importantes diarios y revistas han estado discutiendo sobre la relevancia contemporánea del pensamiento de Marx.
18. Para una encuesta completa, ver la Parte II de este libro: “La recepción global de Marx hoy”. Uno de los ejemplos académicamente significativos de este nuevo interés es la continuación de los Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), la edición histórico-crítica de las obras completas, que se reanudó en 1998, luego de la interrupción que siguió al colapso de los países socialistas. Ver Marcello Musto, “The Rediscovery of Karl Marx”, International Review of Social History, Vol. 52, N° 3 (2007), págs. 477-98. Sobre la edición MEGA2 en lengua española cf. Marcello Musto (coord.), Tras las huellas de un fantasma, México: Siglo XXI, 2011.
19. Karl Marx y Friedrich Engels, “Announcement of the Neue Rheinische Zeitung. Politischökonosmische Revue”, MECW 10, pág. 5.
20. Karl Marx, Las luchas de clases en Francia, (Buenos Aires: Claridad, 1968, pág. 168).
21. Karl Marx y Friedrich Engels, “Review: May-October 1850”, MECW 10, pág. 497.
22. Ibíd., pág. 503.
23. Karl Marx, “Reviews From theNeue Rheinische Zeitung Revue No. 4”, MECW 10, pág. 318. Un ejemplo de esto era el manifiesto “A las naciones”, emitido por el “Comité Central Democrático Europeo” que habían fundado en Londres en 1850 Giuseppe Mazzini, Alexandre Ledru-Rollin y Arnold Ruge. De acuerdo a Marx, este grupo insinuaba “que la revolución fracasó debido a la ambición y los celos de los líderes individuales y las opiniones mutuamente hostiles de los diversos educadores populares”. También era “pasmosa” la forma en que estos líderes concebían a la “organización social”: “una reunión multitudinaria en las calles, una revuelta, un acuerdo, y se terminó todo. Es más, la idea que tienen es que la revolución simplemente consiste en el derrocamiento del gobierno existente; logrado este objetivo, se ha alcanzado ‘la victoria’” (Karl Marx y Friedrich Engels, “Review: May-October 1850”, MECW 10, págs. 529-530).
24. Ver Karl Marx a Friedrich Engels, 3 February 1851, MECW 38, pág. 275.
25. Karl Marx to Ferdinand Freiligrath, 27 December 1851, MECW 38, pág. 520.
26. Karl Marx, “Revolution in China and Europe”, MECW 12, pág. 99.
27. Karl Marx, “Political Movements – Scarcity of Bread in Europe”, MECW 12, pág. 308
28. Karl Marx to Friedrich Engels, 28 September 1853, MECW 39, pág. 372.
29. Karl Marx, “The Crisis in England”, MECW 14, pág. 61.
30. Karl Marx, “The European Crisis”, MECW 15, pág. 136.
31. Estos cuadernos todavía no han sido publicados. Cf. Michael Krätke, “Marx’s ‘Book of Crisis’ of 1857-58”, en Marcello Musto (ed.), Karl Marx’s Grundrisse. Foundations of the Critique of Political Economy 150 Years Later, cit., págs. 169-175.
32. Karl Marx, El capital, Tomo III, (México DF: Siglo XXI, 1983, pág. 1057)
33. Karl Marx, Elementos fundamentales para la crítica de la economía política (borrador) 1857-1858, (Buenos Aires: Siglo XXI, pág. 3).
34. Karl Marx, El capital, T. I, (México DF: S.XXI, 1983: pág. 94).
35. Ibíd., pág. 428. A esta dependencia mutua no deberíamos confundirla con la que se establece entre individuos en el modo capitalista de producción: la primera es el producto de la naturaleza, la segunda, de la historia. En el capitalismo, la independencia individual se combina con una dependencia social expresada en la división del trabajo (ver Karl Marx, “Original Text of the Second and the Beginning of the Third Chapter of A Contribution to the Critique of Political Economy”, MECW 29, Moscú: Progress Publishers, 1987, pág. 465). En esta etapa de la producción el carácter social de la actividad no se presenta como una simple relación de individuos entre sí “sino como su estar subordinados a relaciones que subsisten independientemente de ellos y nacen del choque de los individuos recíprocamente indiferentes. El intercambio general de actividades y de los productos, que se ha convertido en condición de vida para cada individuo particular y es su conexión recíproca, se presenta ellos mismos como algo ajeno, independiente, como una cosa” (Karl Marx, Grundrisse, cit., 84-85).
36. Adam Smith, The Wealth of Nations, Vol. 1 (Londres: J.M.Dent & Sons, 1973, pág. 19).
37. Ver David Ricardo, The Principles of Political Economy and Taxation, (Londres: J.M.Dent & Son, 1973, pág.15; ver Karl Marx, Contribución a la crítica de la economía política, (Buenos Aires, Ed. Futuro, 1970, pág. 52).
38. Karl Marx, Grundrisse, cit., pág. 4).
39. Ibíd.
40. Ibíd., pág. 6).
41. John Stuart Mill, Principles of Political Economy, Vol. 1, (Londres: Routledge & Keegan Paul, 1965, págs. 55f.
42. Karl Marx, Grundrisse, cit., pág. 197.
43. Ibíd. (T. II), pág. 93.
44. Ibíd., pág. 188.
45. Ibíd., pág. 204.
46. Ibíd., págs. 5-6.
47. Karl Marx, Miseria de la filosofía, (Moscú: Ed. en Lenguas Extranjeras, s/f, pág. 116).
48. Karl Marx, Grundrisse, cit., pág. 421.
49. Ibíd.
50. Ibíd., T. II, pág 197.
51. Ibíd., pág. 449.
52. Ibíd., pág. 177.
53. Ibíd., T. II, pág. 26.
54. Ibíd., pág. 83.
55. Ver íbid., pág. 187.
56. Karl Marx, El capital, T. III, cit., pág. 310.
57. Karl Marx, Grundrisse, T. II, pág. 395.
58. Karl Marx, El capital, T. I, pág. 96.
59. Cf. André Tosel, Le marxisme du 20e. siècle, (París: Syllepse, 2009, págs. 79f).

Bibliography
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Krätke, Michael. 2008. “Marx’s ‘Books of Crisis’ of 1857-8”, en Marcello Musto (ed.), Karl Marx’s Grundrisse. Foundations of the Critique of Political Economy 150 Years Later. Londres/Nueva York: Routledge.
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El Mito Del “Joven Marx” En Las Interpretaciones De Los Manuscritos Económico-Filosóficos de 1844

1. Introducción
Los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] son uno de los escritos de Marx más célebres y difundidos en todo mundo. Sin embargo, este texto, que tanto ha incidido en el debate sobre una posible interpretación exhaustiva de la concepción del autor, quedó por largo tiempo desconocido, pues fue entregado a la imprenta casi un siglo después de su elaboración.

Sin embargo, con la publicación del texto en 1932 no se agotaron sus vicisitudes . Con ella, de hecho, tuvo inicio una larga controversia respecto a la naturaleza del escrito, considerado por algunos, un texto inmaduro en comparación a la crítica de la economía política que más tarde emprendió Marx; y por otros, por el contrario, el precioso sostén filosófico de su pensamiento, el cual se había atenuado cada vez más durante el largo camino de la escritura de El Capital. En consecuencia, el campo de investigación volcado a establecer la relación existente entre las teorías “juveniles” de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y aquellas de la “madurez” contenidas en El Capital, giró en torno a las siguientes preguntas: ¿es posible considerar los escritos del “joven Marx” como parte integrante del “marxismo”? ¿su autor había mantenido, en la inspiración y en la realización de toda su obra, una organicidad unitaria? ¿o habría que distinguir entre dos diferentes Marx? Este conflicto interpretativo tenía también un significado político.

Los estudiosos soviéticos de Marx y la mayoría de los intérpretes que tuvieron un fuerte lazo con los partidos comunistas vinculados con el llamado “bloque socialista”, o que fueron parte de él, interpretaron de una manera limitada los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844]. Por el contrario, los defensores de lo que se conoció como el “marxismo crítico” le atribuyeron a este texto un gran valor por haber encontrado en él las más eficaces argumentaciones –en particular aquellas ligadas al concepto de alienación– para romper el monopolio que la Unión Soviética había logrado establecer sobre la obra de Marx. Las lecturas instrumentales que ambas partes hicieron con los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] constituyen un claro ejemplo de cómo la obra de Marx ha sido permanentemente objeto de conflictos teórico-políticos y, en función de los cuales, con frecuencia fue llevada a interpretaciones distorsionadas.

2. ¿Uno o dos Marx? La disputa sobre la “continuidad” del pensamiento de Marx
Las dos ediciones de 1932, y las diferentes interpretaciones que las acompañaron, impulsaron numerosas controversias de carácter hermenéutico y político, de tal manera que el texto marxiano resultó a menudo atrapado entre dos extremismos opuestos. Por un lado, hubo la interpretación de aquellos que entendieron el escrito como la expresión de un pensamiento meramente juvenil, impregnado negativamente de nociones y términos filosóficos. Por otro, aquella interpretación de quienes consideraron esta elaboración como la expresión más elevada del humanismo de Marx y la esencia de toda su teoría crítica. Con el paso del tiempo, quienes sostuvieron ambas tesis cuestionaron y debatieron vigorosamente en torno a la cuestión de la llamada “continuidad” del pensamiento de Marx; a saber: ¿hubo dos Marx uno distinto del otro, el joven y el maduro? ¿o hubo un único Marx que, con el paso de los años, había conservado sustancialmente sus convicciones?

La oposición entre estas dos interpretaciones terminó radicalizándose. En torno a la primera se reunió la ortodoxia marxista-leninista y todos los que en Europa, compartieron sus posiciones teóricas y políticas. Los defensores de este punto de vista minimizaron o rechazaron del todo la importancia de los escritos juveniles, considerados plenamente superficiales en comparación a las obras posteriores, convirtiéndose en defensores de una interpretación del pensamiento de Marx decididamente anti-humanista. En favor de la segunda tesis se expresó una realidad más variada y heterogénea de autores, cuyo común denominador fue el rechazo al dogmatismo del “comunismo oficial” y la ambición por romper la relación directa, de sus exponentes, entre la política de la Unión Soviética y el pensamiento de Marx.

Las afirmaciones de dos protagonistas del debate marxista de los años sesenta restituyen los términos de la cuestión más que cualquier otro posible comentario. Según Louis Althusser:

El debate sobre las obras de juventud de Marx es, en primer lugar, un debate político. ¿Es necesario volver a decir que las obras de juventud de Marx […] han sido desenterradas por los socialdemócratas y explotadas por ellos contra las posiciones teóricas del marxismo-leninismo? […] He aquí el lugar del debate: el joven Marx. Lo que se arriesga verdaderamente en el debate: el marxismo. Los términos del debate: si el joven Marx es ya todo Marx.

Al contrario, Iring Fetscher afirmó que:

[…] en los escritos juveniles de Marx la liberación del hombre de toda forma de explotación, dominio y alienación es de una importancia central, que durante la época del dominio stalinista, un lector soviético habría percibido estas argumentaciones exactamente como una crítica de su situación. Esta es también la razón por la cual los escritos juveniles de Marx nunca fueron publicados en ruso en ediciones económicas y de amplio tiraje. Los mismos eran considerados como trabajos relativamente poco significativos de aquel joven hegeliano, el cual todavía no había llegado al marxismo, que sería el Marx de este entonces.

Ambas partes de la contienda trabajaron los contenidos del texto de Marx. Los “ortodoxos” negaron la importancia de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], indispensables, por otro lado, para poder comprender mejor la evolución y las distintas etapas del pensamiento marxiano, hasta llegar a excluirlos de las ediciones rusa y alemana de las obras completas de Marx y Engels. Numerosos representantes del llamado “marxismo occidental” y algunos filósofos existencialistas, en cambio, confirieron a este esbozo incompleto de un joven e inexperto estudioso de economía política un valor superior al de la obra resultado del trabajo de más de veinte años de estudio e investigaciones: El Capital.

No pudiendo en esta ocasión tener una visión general de la vasta literatura crítica existente sobre los [Manuscritos económicos-filosóficos de 1844], procederemos a la exclusiva ponderación de los textos principales, con el fin de mostrar las grandes limitaciones interpretativas que caracterizaron el debate sobre este texto de Marx y, en general, acerca de toda su obra.

3. El nacimiento del mito del “joven Marx” en las primeras interpretaciones de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] en Alemania
Sucesivamente a su publicación en 1932, los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] se convirtieron en uno de los principales objetos de disputa entre el “marxismo soviético” y el “marxismo occidental”. Las introducciones que acompañaron la publicación del escrito evidenciaron la nítida distancia entre las dos posiciones. Víctor Adoratsky, el director de la MEGA sucesor de Riazanov en 1931, después que las purgas estalinistas cayeron también sobre el Instituto Marx-Engels (IME), convertido posteriormente en el Instituto Marx-Engels-Lenin (IMEL), presentó los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] como un texto cuyo tema era el “análisis del dinero, el salario, el interés del capital y la renta de la tierra”, en el cual Marx había elaborado una “representación y caracterización general del capitalismo” (término, en realidad, por él ahora no utilizado), que habría después vuelto a aparecer en La miseria de la filosofía y El manifiesto del partido comunista.

Al contrario, Landshut y Mayer escribieron de una obra que “en la esencia, ya anticipaba El Capital” , dado que, después de ella, en la elaboración de Marx “no apareció ninguna idea fundamentalmente nueva” . Anclados de esta convicción, los curadores de la edición entregada a las imprentas en Alemania consideraron los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] como “[…] la obra central de Marx. Ellos constituían el punto crucial del desarrollo de su pensamiento, en el cual los principios del análisis económico derivaban directamente de la idea de la verdadera realidad del hombre” . Además, a juicio de los dos autores alemanes, este texto era importantísimo porque había dado a conocer la terminología filosófica de Marx y había permitido reconducir las teorías económicas desarrolladas en El Capital a los conceptos elaborados en el periodo juvenil. Ellos llegaron a afirmar que el objetivo de Marx no era “la socialización de los medios de producción, la superación de la explotación a través de la expropiación de los expropiadores, sino la realización del hombre (Verwirklichung des Menschen), […] sin la cual todo el resto no tiene sentido” . No obstante el evidente forzamiento interpretativo, basado en la convicción que el esbozo parisino de 1844 constituía nada menos que el “punto crucial del desarrollo del […] pensamiento” marxiano, esta orientación obtuvo rápidamente un gran éxito y el nacimiento del mito del “joven Marx” puede ser atribuido exactamente a este texto.

Los primeros dos autores que reseñaron la publicación de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], y que intervinieron en el debate acerca de la relevancia de los inéditos juveniles de Marx, fueron Henri de Man y Herbert Marcuse, ambos llegaron a conclusiones por diversos aspectos similares a aquellas de Landshut y Mayer. En el artículo El descubrimiento del nuevo Marx, De Man señaló el valor de

[…] una obra de Marx hasta ahora desconocida, y de la máxima importancia, para la justa evaluación del proceso de desarrollo y del significado de la doctrina marxiana. […] Ella, de hecho, revelaba mucho más claramente de cualquier otra obra de Marx los motivos ético-humanistas que marcaban la dirección socialista y juicios de valor expresados en la actividad científica de toda una vida.

Según el autor belga la cuestión determinante, a la cual los intérpretes de Marx eran llamados a responder era “si aquella fase humanista debía considerarse como una posición posteriormente superada o, por el contrario, como parte integral y duradera de la doctrina de Marx” . Él expresó su opinión con claridad y afirmó que el escrito parisino ya contenía todos los conceptos sobre los cuales Marx había construido posteriormente su obra: “en los Manuscritos y, de forma más amplia, en las obras escritas entre 1843 y 1846, Marx formuló posiciones y juicios que luego quedaron como base de todos sus trabajos posteriores”. Partiendo de esta valoración, declaró no sólo que “el Marx de 1844 pertenecía al marxismo tanto como el Marx de 1867, o […] el Engels de 1890” , sino que en Marx estaban presentes dos marxismos: aquel humanista de la juventud y aquel de la madurez y que el primero, que había logrado conseguir las máximas conquistas teóricas, hubiese sido superior al segundo, caracterizado, al contrario, por “un mínimo de las capacidades creativas” .

También Marcuse sostuvo que los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] evidenciaban los fundamentos filosóficos de la crítica de la economía política de Marx y, en el ensayo Nuevas fuentes para la fundación del materialismo histórico, divulgado en la revista Die Gesellschaft [La sociedad], sostuvo que: “la publicación de los Manuscritos económico-filosóficos de Marx de 1844 [estaba] destinada a constituir un acontecimiento decisivo en la historia de la investigación marxista”, dado que “desplazaba a un nuevo terreno la discusión sobre el sentido originario del materialismo histórico” . Para Marcuse, a partir de la publicación de este inédito, era posible afirmar que “la economía y la política se habían convertido en el fundamento económico-político de la teoría de la revolución sobre la base de una determinada interpretación filosófica de la esencia humana y de su realización histórica”. Por lo tanto, desde el momento en que los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] habían demostrado cuan equivocado era considerar que en Marx habían sido “simplemente un pasaje de la fundación filosófica a la económica, de modo que en la forma sucesiva (económica) la filosofía es superada, es más “liquidada” de una vez por todas”, al contrario de lo enunciado por numerosos representantes de la Segunda Internacional y del comunismo soviético, después de su publicación ya no era posible considerar el marxismo como una doctrina esencialmente económica.

Algunos años más tarde, el interés por el “joven Marx” se acompañó del estudio de su relación con Hegel. Esta línea de investigaciones fue favorecida por la publicación, un poco antes de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], de los escritos de Hegel del período de Jena . György Lukács se encuentra entre los principales teóricos marxistas que relacionaron los estudios juveniles de los dos autores –los filosóficos de Marx y los económicos de Hegel– y delineó, en el libro de 1938 El joven Hegel y los problemas de la sociedad capitalista, aquellas que consideró sus analogías. A su juicio, las referencias de Marx a Hegel presentes en los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] iban mucho más allá de las citas textuales y el análisis económico de Marx había sido impulsado por la crítica de la concepción filosófica hegeliana:

[…] la conexión entre economía y filosofía es […] en estos manuscritos de Marx, una profunda necesidad metodológica, la premisa de una consistente superación de la dialéctica idealista de Hegel. Por lo tanto sería superficial y extrínseco creer que la polémica de Marx con Hegel empiece sólo en la última parte del manuscrito, la que contiene la crítica de la Fenomenología. Las secciones anteriores, estrictamente económicas, en las cuales Hegel no es directamente mencionado, contienen la fundación más importante de ésta polémica y de ésta crítica: la aclaración económica de los hechos principales de la enajenación.

En las lecciones sobre la Fenomenología del espíritu, realizadas de 1933 a 1939, en la Escuela Práctica de Altos Estudios de París, y después compiladas por Raymond Queneau en el libro Introducción a la lectura de Hegel , Alexandre Kojève –otro autor que ejerció gran influencia en el debate sobre la relación entre Hegel y Marx– profundizó la unión entre los dos autores, si bien en este caso fue la obra de Hegel la que se releyó a la luz de la interpretación marxiana. En el mismo periodo, finalmente, la cercanía entre Marx y el filósofo de Stuttgart fue también tratada por Karl Löwith en el libro De Hegel a Nietzsche , sin duda una de las principales investigaciones de la época acerca de la filosofía hegeliana y post-hegeliana.

Con el fin de la Segunda Guerra Mundial, en Alemania se retoma el debate sobre Marx y al inicio de los años cincuenta, en la República Federal de Alemania fueron publicados La antropología del joven Marx en los “Manuscritos económico-filosóficos de París” de Erich Thier, El hombre alienado de Heinrich Popitz y El eros de la técnica de Jacob Hommes. Estos libros, aún con distintos matices, contribuyeron a consolidar la opinión de que los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] constituían el texto fundamental de la obra completa marxiana. En poco tiempo, tal lectura conquistó numerosos autores de distintos países y disciplinas y la interpretación de los textos del “joven Marx” devino en uno de los temas cruciales sobre los cuales cada estudioso serio de Marx no podía negarse a expresar su opinión.

4. La moda del “joven Marx” en Francia después de la Segunda guerra mundial
Después del fin de la Segunda Guerra Mundial, cuya conclusión se caracterizó por un sentimiento de profunda inquietud generada por la barbarie producto del nazi-fascismo, la temática relativa a la condición y el destino del individuo en la sociedad contemporánea adquirió una gran importancia . En este contexto, surgió un relevante interés filosófico por Marx en toda Europa, que se manifestó, de modo particular, en Francia, donde el estudio de sus obras juveniles tuvo la mayor proliferación y difusión . Como afirmó Henri Lefebvre, en este país el estudio de los escritos juveniles de Marx representó “el acontecimiento filosófico decisivo [… del] período” . Se trató de un proceso variado, que duró hasta los años sesenta, periodo en el cual muchos autores de distintas procedencias culturales y tendencias políticas, se comprometieron con el intento de realizar una síntesis filosófica entre el marxismo, el hegelianismo, el existencialismo y la doctrina cristiana. Este debate dio origen a una gran cantidad de literatura pobre y cambio drásticamente, en más de una ocasión, el texto de Marx en función de las convicciones ideológicas de los participantes.

En el volumen de 1948 Sentido y sinsentido, Maurice Merleau-Ponty declaró que aquello del “joven Marx” había sido un pensamiento existencialista . Después de haber leído los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y bajo la influencia de Kojève, Merleau-Ponty se convenció que el marxismo auténtico era un humanismo radical, totalmente distinto del economicismo dogmático soviético, cuyos fundamentos podían ser reconstruidos y repensados sobre el valor de los escritos del Marx de los primeros años cuarenta del siglo XIX. Numerosos filósofos existencialistas realizaron una lectura muy similar a la de Merleau-Ponty y, por lo tanto, se limitaron a leer aquella parte menor, y nunca terminada, de la producción intelectual de Marx, excluyendo a menudo el estudio de El Capital.

Los textos utilizados por algunos intérpretes para crear la imagen confusa de un “Marx filósofo” sirvieron a otros para confeccionar la todavía más torpe visión de un “Marx teólogo”. En las obras de los autores jesuitas Pierre Bigo y Jean Yves Calvez, el pensamiento de Marx adquirió las facciones de una ética muy similar al mensaje de justicia social del catolicismo más democrático y progresista. Algunas de las afirmaciones contenidas en sus libros maravillaron por su superficialidad y confusión. En Marxismo y humanismo , publicado en 1953, Bigo sostuvo: “Marx no es un economista, no brindó alguna contribución en economía política […]. Cuando, por casualidad, es indirectamente inducido hacia consideraciones sobre estos temas, es insólitamente ambiguo y entra en contradicción.” Calvez, por su cuenta, escribió en el texto El pensamiento de Karl Marx , publicado en 1956, que aun cuando Marx “no publicó el escrito hoy conocido como los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, […] lo que a esta altura sabemos de la misma permite sostener que [con ella] Marx ya había alcanzados los principios fundamentales que desarrollará en sus obras posteriores” . En este contexto, también Roger Garaudy fue propenso a creer en la tesis que había reconocido la importancia decisiva de las influencias humanistas contenidas en los primeros escritos de Marx y se expresó en favor de un diálogo entre el marxismo y las otras culturas, en particular la cristiana.

Raymond Aron desarrolló una aguda crítica de estas posiciones y en el libro Los marxismos imaginarios de 1969, se mofó de aquellos “padres jesuitas” y de algunos “paramarxistas parisinos” que, simultáneamente al éxito de la filosofía fenomenológica-existencial, “interpretaron las obras de la madurez [de Marx] bajo la luz [… de la] utopía filosófica” de los inacabados escritos juveniles, o, llegando hasta el ridículo, “subordinaron El Capital a los escritos juveniles, antes de todos a los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, cuyo carácter oscuro, incompleto, y en varias partes, contradictorio fascinaban al lector, informados por A. Kojève y Padre Fessard” . Lo que, a su parecer, estos autores no habían comprendido era que “si Marx no hubiera tenido la ambición y la esperanza de fundar con rigor científico el advenimiento del comunismo, no habría tenido la necesidad de trabajar por treinta años sobre El Capital (sin lograr terminarlo). Pocas semanas y páginas habrían sido suficientes.”
En comparación con los pensadores existencialistas y cristianos, la posición asumida por Pierre Naville fue totalmente distinta. En su opinión, Marx había cambiado sus ideas de manera substancial en el transcurso de su elaboración, pasando “de la filosofía a la ciencia.” En el texto De la alienación al disfrute, publicada en 1954, Naville expresó su desacuerdo tanto con aquellos que silenciaban los “orígenes hegelianos del pensamiento de Marx”, así como con los que no lograban comprender la medida en la cual “tuvo que alejarse [de estos orígenes] para llegar a los análisis de El Capital” ; y en el Prefacio de 1967, redactada en ocasión de la reedición de su volumen, ratificó que Marx había “sabido abandonar algunas nociones, tan seductoras y fascinantes, como aquella de alienación. […] Este término […] Marx lo había arrinconado en el museo filosófico para substituirlo con un análisis, mucho más riguroso, de las relaciones de expropiación y explotación.”

Esta lectura había sido compartida también por Auguste Cornu, el cual en 1934, con la publicación de su tesis de licenciatura, Karl Marx el hombre y la obra. Desde el hegelianismo hasta el materialismo histórico , primer embrión de su futura obra de cuatro volúmenes titulada Marx y Engels , había situado los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] en la huella de la interpretación soviética abierta por Adoratskij. Sin embargo, en el tercer volumen de su libro, titulado Marx en París, en la opinión de muchos la biografía intelectual más completa del pensamiento juvenil de Marx, Cornu evitó comparar los escritos juveniles y las obras posteriores centradas en la crítica de la economía política, realizando así una evaluación más reducida del texto de 1844.

En 1955, en los Ensayos sobre Marx y Hegel, uno de los libros principales entre los que se publicaron en este contexto, Jean Hyppolite subrayó la importancia de Hegel al fin de un riguroso análisis del vínculo existente entre los trabajos juveniles de Marx y El Capital. Su autor evidenció la “necesidad, para la comprensión de El Capital, de referirse a las obras filosóficas anteriores”, dado que “la obra de Marx presupone un sustrato filosófico cuyos distintos componentes no son siempre de fácil reconstrucción”. Según Hyppolite, no había que descuidar la “profunda influencia de Hegel [… y] no era posible entender la obra esencial de Marx, ignorando las principales obras de Hegel, como la Fenomenología del espíritu, la Lógica, la Filosofía del derecho, que habían contribuido a la formación y al desarrollo de su pensamiento.”

La tesis de la continuidad teórica entre los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y las obras posteriores fue compartida también por Maximilien Rubel, el cual en el libro del 1957 Karl Marx. Ensayo de una biografía intelectual, refiriéndose a la categoría de trabajo alienado elaborada en los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], la juzgó como “la llave de toda la obra posterior del economista y sociólogo [Marx]” por medio de la cual “la tesis central de El Capital [había sido…] anticipada.” También uno de los principales marxistas del siglo XX, expresó su convencimiento de que “[era] evidente la fundamental identidad de las opiniones expresadas por Marx en esta primera crítica de la propiedad privada y en el posterior análisis de la economía capitalista” . Kostas Axelos fue más lejos, sosteniendo en su texto Marx pensador de la técnica de 1963, que “el manuscrito de 1844 es y sigue siendo el texto más denso del pensamiento de todas las obras marxianas y marxistas.”

Henri Lefebvre fue uno de los pocos autores que asumió una actitud más equilibrada respecto a los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y que supo utilizar su contenido, a la luz de su carácter inconcluso. En Crítica de la vida cotidiana de 1958, Lefebvre, sostiene que:

[…] en las obras juveniles de Marx, y para precisar, en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, el pensamiento de Marx se encuentra todavía en germina, en camino, en devenir. […] A nuestro parecer, el materialismo histórico y dialéctico se ha consolidado. No aparece, vale decir, en la obra de Marx (y en la historia de la humanidad) de golpe, a través de una absoluta discontinuidad, después de una ruptura, en el instante X. Se presentan, por lo tanto, dos falsos problemas. Y, de esta manera, el marxismo es dibujado como sistema, como un dogma. […] Una radical novedad tiene que nacer, crecer, tomar forma, justamente porque se trata de una realidad nueva. […] La tesis que atribuye una fecha al marxismo o que intenta fecharlo, corre el alto riesgo de aridecerlo, de interpretarlo unilateralmente. El error, la falsa opción que hay que evitar es lo de sobrestimar o subestimar las obras juveniles de Marx. Ellas ya contienen el marxismo, sin embargo, de forma virtual y, en absoluto, todo el marxismo.” .

Quien que más insistió en la “discontinuidad absoluta” y en la existencia de una “ruptura” en la obra de Marx fue Louis Althusser. La antología de sus ensayos, publicada en 1965 bajo el titulo Por Marx, la cual llegó a ser objeto de numerosas reacciones y polémicas, constituyó el texto más discutido respecto a las obras juveniles de Marx. Althusser sostuvo que en las [Tesis sobre Feuerbach] y en la [Ideología alemana] estaba claramente presente una “ruptura epistemológica” (coupure èpistémologique) “que constituye la crítica de la […] antigua conciencia filosófica” de Marx y, sobre la base de esta supuesta ruptura, subdividió su pensamiento “en dos grandes periodos esenciales: el período todavía “ideológico”, anterior a la ruptura del 1845, y el periodo “científico”, posterior a la ruptura de 1845. La relación entre Hegel y Marx tenía un gran alivio para este autor. Según Althusser, Hegel había sido la inspiración para un solo texto de Marx –los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] – y por lo tanto, también para su período “ideológico filosófico”:

[…] el joven Marx nunca ha sido hegeliano, sino en un primer momento kantiano-fichtiano, sucesivamente feuerbachiano. La tesis en gran boga del hegelienalismo del joven Marx es por lo tanto un mito. Por otra parte, en la víspera de la ruptura con la “anterior consciencia filosófica” es exactamente como si Marx, recurriendo a Hegel por la primera y única vez en su juventud, hubiera producido una extraordinaria “abreazione” teórica indispensable para la liquidación de su conciencia “delirante” .

En consecuencia, los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] fueron considerados por Althusser “el texto más lejano, en sentido teórico, del amanecer que estaba por levantarse” :

[…] el Marx más lejano de Marx es exactamente este Marx, vale decir, el Marx más acerca, el Marx de la víspera, el Marx del umbral: como si antes de la ruptura, y al fin de agotarla, hubiera sentido la necesidad de proporcionar a la filosofía todas sus posibilidades, la última posibilidad, este imperio absoluto construido sobre la base de su contrario y este desmedido triunfo teórico: es decir, su derrota” .

La extravagante conclusión de Althusser fue la imposibilidad absoluta de sostener que la “juventud de Marx pertenezca al marxismo” . La escuela althusseriana hizo de ésta convicción uno de los puntos cardinales de su interpretación de Marx, representado por varios de sus integrantes, bajo la capa de dos autores distintos: aquel anterior a 1845, todavía ligado a la antropología filosófica de Feuerbach, y aquel posterior a [La ideología alemana], científico y fundador de una nueva teoría de la historia. El ensayo Crítica y crítica de la economía política. Desde los “Manuscritos de 1844” hasta el “Capital”, publicado por Jacques Rancière en el 1965, en el volumen colectivo Leer El Capital, fue una de las primeras y más significativas contribuciones en tal sentido. En este ensayo, con respecto de las dificultades relativas a la interpretación de la obra de Marx, el discípulo de Althusser sostuvo que uno de los principales obstáculos para su comprensión había sido determinado por la circunstancia que Marx no “había procedido hacia una crítica de su propio vocabulario”. Según Rancière “si en la práctica teórica de Marx podemos determinar la ruptura que el mismo Marx siempre sostuvo […], el nunca captó y conceptualizó realmente tal diferencia.” A veces, como en el caso de los conceptos de alienación y fetichismo, son las “mismas palabras las que sirven para expresar los conceptos antropológicos y los conceptos de El Capital […; y] dado que Marx no satisface esta exigencia de forma rigurosa, la primera figuración siempre corre el riesgo de introducirse también allí donde ya no tiene colocación.”

Althusser estuvo siempre convencido de la existencia de “dos Marx”. En el artículo Respuesta a John Lewis, publicado en 1972 en la revista inglesa Marxism Today, en réplica al escrito El caso Althusser del filósofo inglés John Lewis, retomó en forma autocrítica algunas de las aserciones contenidas en Pour Marx:

[…] en mis primeros ensayos, he efectivamente dejado entender que después de la “ruptura epistemológica” de 1845 (después del descubrimiento por medio del cual Marx funda la ciencia de la historia) algunas categorías filosóficas como la de alienación y negación de la negación desaparecen. J. Lewis me contesta que esto no es verdad. Y tiene razón. Estos conceptos se reencuentran (de forma directa o indirecta) en La ideología alemana, en los Grundrisse (dos textos no publicados por Marx) y también, aún más raramente, (la alienación) y aún más (la negación de la negación: una vez de forma explícita) en El Capital.

Sin embargo, a pesar de admitir estas erróneas evaluaciones, Althusser rectificó la idea según la cual la elaboración teórica de Marx había sido atravesada por un parteaguas:

[…] si tomamos en cuenta el conjunto de la obra de Marx, no hay alguna duda respecto de la “ruptura” o un “corte” a partir de 1845. El mismo Marx lo dice. […] Toda la obra de Marx lo demuestra. […] La “ruptura epistemológica” es un punto de no regreso. […] Es verdad que Marx varias veces utiliza el término alienación. Sin embargo, todo esto desaparece de forma completa en los últimos textos de Marx y en Lenin completamente. Podríamos quedarnos satisfechos con decir: lo que importa es la tendencia. Tendencialmente, el trabajo científico de Marx se deshace de las categorías filosóficas en cuestión. […] Sin embargo, esto no es suficiente. Aquí mi autocrítica. […] he identificado la “ruptura epistemológica” (=científica) y la revolución filosófica de Marx. De forma más precisa, he pensado la revolución filosófica de Marx como algo idéntico a la “ruptura epistemológica”. […] Es un error. […] Sucesivamente empecé a rectificar las cosas. […] 1. Es imposible reducir la filosofía a ciencia, la revolución científica de Marx a la “ruptura epistemológica”. 2. La revolución filosófica de Marx necesitó de la “ruptura epistemológica” como de una de sus condiciones de posibilidad.

Al momento de revisar sus tesis, Althusser añade que, sucesivamente en 1845 había tenido lugar una especie de:

[…] sobrevivencia esporádica de categorías como aquella de alienación […]. Dado que además de su tendencial desaparición en la obra de Marx considerada en su conjunto, había también que rendir cuentas de un extraño fenómeno: su eliminación en determinadas obras y su ulterior reaparición. Por ejemplo […] en los Grundrisse, cuaderno de notas de Marx durante los años 1857-58 (no publicadas por Marx), se habla frecuentemente de alienación.

Según Althusser, Marx había sido inducido a volver a utilizar esta categoría solamente porque “había por casualidad releído la Gran lógica, quedando muy impactado.” Una explicación poco convincente dado que, probablemente, en aquel mismo manuscrito Marx se valió del concepto de alienación también en las partes redactadas antes de la relectura de la Lógica de Hegel. De cualquier forma, la alienación elaborada por Marx es algo muy distinto de aquella concebida por Hegel. Considerada por Althusser como la “categorí[a] filosófic[a]” de la cual, “tendencialmente, se libra el trabajo científico de Marx” , la alienación constituyó, al contrario, ya en los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y aún más en los [Grundrisse], en El Capital y en sus manuscritos preparatorios, un importante concepto teórico para describir críticamente las características del trabajo y las relaciones sociales en una determinada realidad económico-productiva: la capitalista.

Además, a diferencia de lo afirmado por Althusser, Marx nunca escribió ni dejó entender la presencia, de alguna “ruptura” al interior de su obra. Mucho menos es pensable establecer una suerte de continuidad teórica y política entre el pensamiento de Marx y el de Lenin, al contrario de lo sostenido por el filósofo francés, y mostrar como prueba de la supuesta “ruptura epistemológica” de Marx la frustrada elaboración de la temática de la alienación por parte de Lenin.

En fin, las más consistentes objeciones a la interpretación althusseriana surgen del análisis filológico del texto de Marx. De hecho, si es verdad que los [Grundrisse] “son un cuaderno de notas […] de los años 1857-58 (no publicadas por Marx)” , también debemos recordar que [La ideología alemana] fue un manuscrito igualmente incompleto y que, más bien, el así llamado “Capítulo I” sobre Feuerbach, sobre el cual Althusser apoyó muchas argumentaciones de la teoría de la “ruptura epistemológica”, adquirió tal forma de capítulo por obra de los editores de la MEGA, que lo dieron a la imprenta, en 1932, bajo la apariencia de un texto casi terminado. El nudo de la cuestión no es el negar los enormes cambios que tuvieron lugar en el pensamiento de Marx (el mismo discurso vendría hecho para muchos otros autores) en el curso de su maduración y después de su llegada a la economía política, sino el haber teorizado la existencia de una rígida ruptura a causa de la cual los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y los otros escritos precedentes [La ideología alemana] fueron considerados extraños al marxismo y no parte integrante de su desarrollo.

Althusser no modificó esta posición ni en el último de los escritos que dedicó a este tema: Elementos de autocrítica. Si él recordó, que, en los manuscritos de [La ideología alemana] aparecieron los “conceptos teóricos de base que inútilmente se buscarían en los textos anteriores de Marx” (entre estos él recordó la tríada “modo de producción, relaciones de producción, fuerzas de producción” ), cometió también el error de excluir el concepto de “trabajo alienado” de este proceso de desarrollo, etiquetándolo como una noción puramente filosófica. Para Althusser el Marx de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] “no afecta los […] conceptos” de la economía política “y sí los critica, lo hace filosóficamente, es decir, desde afuera”. El Marx de [La ideología alemana], al contrario, es considerado el fundador de “un acontecimiento sin precedentes y que no tendrá retorno […] la apertura del Continente-Historia” , como si este evento hubiera sucedido en el transcurso de pocas semanas y pudiera haber sido concebido como algo muy rígido.

Crítico de esta interpretación fue Ernest Mandel, que en su escrito de 1967, La formación del pensamiento económico de Karl Marx, rastreó el origen del error de Althusser en su “esfuerzo inútil de presentar los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 como el fruto de una ideología completa creadora de un todo”. A su parecer, Althusser

[…] tiene razón en oponerse a todo método analítico-teleológico que concibe la obra juvenil de un determinado autor con la sola intención de saber hasta qué punto se haya acercado al “fin” representado por la obra de la madurez . Sin embargo, se equivoca en contraponerle un método que fracciona arbitrariamente en formaciones ideológicas coherentes las sucesivas fases evolutivas de un mismo autor, con el pretexto de considerar “cada ideología como un todo” .

A la pregunta si en los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] Marx habría ya “eliminado todas las escorias filosóficas de un pensamiento que será de ahora en adelante rigurosamente socioeconómico”, él responde negativamente. Según Mandel, los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] testificaban plenamente, en la contradictoria coexistencia de preexistencias del pasado e intuiciones del futuro, la fase de transición de Marx:

[…] se trata justamente de una transición del joven Marx de la filosofía hegeliana y feuerbachiana a la elaboración del materialismo histórico. En esta transición, elementos del pasado se combinan necesariamente con elementos del futuro. Marx combina a su manera, modificándolos profundamente, la dialéctica de Hegel, el materialismo de Feuerbach y las determinaciones sociales de la economía política. Esta combinación no es coherente. No crea un nuevo “sistema”, una nueva “ideología”. Presenta fragmentos esparcidos que encierran numerosas contradicciones.

Considerado por diversos filósofos existencialistas como un texto muy estimulante; o exhibido como bandera del humanismo por los autores jesuitas; despreciado como mera reliquia filosófica de la elaboración juvenil, por otros tachados, incluso de dudosa pertenencia al “marxismo”; o bien elogiados como el principal escrito en el cual estaba contenida la concepción filosófica que fue la base también de las sucesivas obras económicas; en Francia los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] catalizaron una enorme atención, no sólo en ámbito marxista, y fueron uno de los libros de filosofía más vendidos por más de dos décadas. En el periodo posterior a la Segunda Guerra Mundial, el debate teórico francés se caracterizó por la discusión sobre su interpretación, y debido a su difusión, Marx asumió un nuevo aspecto. Seguramente adquirió un perfil más ambiguo y de tonos moralizantes, sin embargo fue también percibido como un autor más atento al malestar del individuo generado por el contexto social y todo esto le permitió poder llegar a un público más vasto.

5. Los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] en el campo socialista y en el marxismo anglosajón
Los más acreditados marxistas de la Unión Soviética, de los países de Europa del Este y de los partidos comunistas más ortodoxos ignoraron por muchos años los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] o les concedieron una interpretación restrictiva y poco profunda. La ideología estalinista, que había hecho del estajanovismo una de sus banderas, provocó una profunda hostilidad al concepto de alienación, sin duda la principal novedad teórica contendida en los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844]; en consecuencia, los escritos juveniles de Marx, y las categorías en ellos contenidas, que habían conquistado desde los años treinta, un lugar privilegiado en el así llamado “marxismo occidental”, empezaron a difundirse en territorio soviético con enorme retraso.

El libro de Georg Mende El desarrollo de Karl Marx de democrático revolucionario a comunista representa un claro ejemplo de dicha actitud. El autor de la República Democrática Alemana no hizo referencia alguna a los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] ni en la primera edición del libro, publicada en 1954, ni en la reimpresión del año siguiente, y los declaró “trabajos preparatorios […] para una obra mayor” , los cuales no se podrían tener en cuenta sino hasta 1960, cuando Mende decidió revisar algunas partes del texto en ocasión de la tercera edición de su libro.

Igual actitud de sobrevaloración ya versión mostraron todos aquellos que, en los años cuarenta y cincuenta, se dedicaron a comentar sobre este escrito. La situación sin embargo, cambió lentamente a partir del fin de la década de los cincuenta. De este momento en adelante, también en los países socialistas empezó el estudio de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y se dio cuenta del texto marxiano apareciendo también en trabajos de buen nivel, por ejemplo, aquellos de 1958 de D. I. Rosenberg, El desarrollo de la doctrina económica de Marx y Engels en los años cuarenta del siglo XIX. .

En 1961, apareció un número especial de la revista francesa Recherches Internationales à la lumière du marxisme [Investigaciones internacionales a la luz del marxismo] titulado Sobre el joven Marx. Éste representó la primera publicación, traducida en una lengua europeo, que contenía diversos ensayos sobre los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] redactados por estudiosos soviéticos. En el volumen, junto a los artículos de los autores rusos O. Bakouradze, Nikolai Lapin, Vladimir Brouchlinski, Leonide Pajitnov y A. Ouibo, fueron también incluidos los trabajos del estudioso polaco Adam Schaff, de los alemanes Wolfgang Jahn y Joachim Hoeppner, además del secretario del Partido Comunista Italiano Palmiro Togliatti. Si bien caracterizados por el enfoque ideológico de entonces, estas contribuciones constituyeron el primer intento del “lado comunista” de medirse con las problemáticas relacionadas al “joven Marx” y disputar el monopolio interpretativo a los “marxistas occidentales”. Algunos ensayos también ofrecieron interesantes ocasiones para reflexionar acerca de una posible lectura no sistemática del texto marxiano. En el artículo Los Manuscritos económico-filosóficos de 1844, por ejemplo, Pajitnov sostuvo que en el escrito de 1844:

[…] las ideas fundamentales de Marx se encuentran todavía en devenir y, de manera conjunta a notables formulaciones donde se encuentra en germen la nueva concepción del mundo, también se encuentran muy a menudo pensamientos todavía inmaduros, que llevan el sello de influencia de las fuentes teóricas que sirvieron de base material para la reflexión de Marx, y de las cuales partió para la elaboración de su doctrina .

Sin embargo, el marco teórico de base sostenido por la gran mayoría de los autores incluidos en la antología fue un tanto problemática. Al contrario de las interpretaciones en ese momento de moda en Francia, las cuales buscaban repensar los conceptos de El Capital a través de las categorías de los trabajos juveniles, los estudiosos soviéticos cometieron el error opuesto: investigaron los escritos juveniles a partir de los desarrollos posteriores de la teoría de Marx. Como escribió Althusser en la reseña de este libro, también titulada Sobre el joven Marx, y más tarde convertida en uno de los capítulos del libro Pour Marx, aquellos leyeron “los textos juveniles a través del filtro de los textos de la madurez” . Esta suerte de anticipación del pensamiento de Marx les impidió comprender plenamente el significado de la elaboración de aquel periodo:

[…] ciertamente nosotros sabemos que el joven Marx llegará a ser Marx, pero no queremos vivir más de prisa que él, no queremos vivir en su lugar, romper por él o descubrir por él. No lo esperaremos anticipadamente al fin de la carrera, para echarle encima, como sobre un corredor, el manto del descanso, porqué de hecho está terminada, por fin llegó .

De toda otra naturaleza fue el trabajo de Walter Tuchscheerer. El libro Antes de El Capital, entregado a la imprenta en 1968 después de la muerte de su autor, constituyó el mejor entre los estudios realizados en el Este sobre el pensamiento económico del joven Marx, y tuvo el mérito de examinar críticamente, por primera vez, junto a los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], también el contenido de los cuadernos de extractos parisinos.

Si los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] lograron penetrar los cánones del Diamat (Materialismo dialéctico) muy lentamente y sólo después haber afrontado muchas resistencias ideológicas y políticas, su recepción en el mundo anglosajón empezó con igual retardo. De hecho, la primera traducción de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] que captó un discreto interés fue dado a la imprenta en 1961, en los Estados Unidos. El clima cultural y político del tiempo, marcado por las persecuciones del macartismo influyó, probablemente, sobre la elección de la editorial, la cual decidió publicar el libro indicando a Erich Fromm como autor y colocando el texto de Marx después de su introducción . En ésta, él presentó los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] como “el principal trabajo filosófico de Marx” , y afirmó: “el concepto de alienación ha estado siempre y permanecido como punto central del pensamiento del “joven” Marx que ha escrito los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y del “viejo” Marx que escribió El Capital” . En poco tiempo, en los Estados Unidos fueron publicados numerosos estudios en los cuales se sostenía la misma tesis y en los cuales la indagación acerca de la deuda intelectual de Marx respecto a Hegel retomó primera importancia . No faltaron las opiniones inconformes que, también para contrastar, el excesivo valor conferido al esbozo de 1844, exageraron en sentido contario. Así Daniel Bell, sostuvo que el insistente acercamiento de Marx a Hegel no era otra cosa que la “creación de un nuevo falso mito”, dado que “encontrada con la economía política la respuesta a los misterios de Hegel, Marx olvidó todo de la filosofía” .

Uno de los principales textos publicado en este contexto fue Filosofía y mito en Karl Marx, publicado, en 1961, por Robert Tucker. Según este autor una correcta interpretación de Marx debía basarse sobre la tesis de la “continuidad de [su] pensamiento, desde los escritos juveniles al El Capital, y [sobre aquella] de la centralidad del tema de la alienación” . Seguro de la “esencial unidad el marxismo, de los manuscritos de 1844 hasta El Capital” , llegó a afirmar que la “filosofía de la alienación presentada en los escritos juveniles fue el aporte final de Marx sobre el tema”, sosteniendo que “el desarrollo del pensamiento [… de Marx] estaba prefigurado en los manuscritos de 1844. El Capital constituía la realización de todo su pensamiento desde el inicio” .

En los años sesenta y setenta, gran parte de los intérpretes anglosajones de Marx se inclinó hacia ésta tesis. No obstante no hubiera alguna relación entre las primeras notas de apuntes redactadas en París por un joven estudioso de apenas veintiséis años y el magnum opus publicado un cuarto de siglo después, en el libro Marx antes del marxismo, de 1970, David McLellan declaró que: “en el verano de 1844 Marx empezó a trabajar en una crítica de la economía política; se trataba, en realidad, de la primera de una serie de hipótesis de trabajo que precedieron la redacción de El Capital” . Consecuente con esta configuración, el autor inglés sostuvo que “los escritos juveniles contenían ya todos los temas sucesivos del pensamiento marxiano y los mostraban en el momento de su formulación” .

El libro de Bertell Ollman, Alienación, publicado en el año sucesivo y destinado a convertirse en uno de los textos más leídos e influyentes entre los escritos sobre el debate en torno al “joven Marx”, contenía también una posición favorable sobre los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844]. Decidió “no enfatizar las alteraciones en el pensamiento de Marx” porque convencido de la “unidad esencial en el marxismo desde 1844 en adelante” y que, “también en la versión publicada de El Capital, hay mucho más de las ideas y de los conceptos juveniles de Marx de cuanto es reconocido generalmente” .

Esta tesis, con la excepción representada por los integrantes de la escuela althusseriana, se volvió hegemónica en todas partes. En la República Federal Alemana, el estudioso alemán Fetscher publicó en 1967, el libro Marx y el marxismo, entre cuyos propósitos se encontraban propiamente demostrar como:

[…] las categorías críticas que Marx había elaborado en sus Manuscritos económico-filosóficos de 1844 y en los cuadernos de extractos de París constituyeron también la base de la teoría de la economía política en El Capital y no fueron de alguna manera desconocidos por el Marx “maduro”. Con eso debería ser probado que las obras juveniles no sólo permiten comprender cuáles fueron las razones que impulsaron Marx a escribir la crítica de la economía política (El Capital), sino que la crítica de la economía política contiene todavía de forma implícita y, en parte también explicita, aquella crítica a la alienación y a la reificación, que constituye el tema central de las obras juveniles.”

El año siguiente, el estudioso israelí Shlomo Avineri dio a la imprenta el texto El pensamiento político y social de Marx, en la cual se opuso “a la actitud del todo inaceptable, asumida por aquellos que, según las preferencias, excluyen el Marx “joven” o aquel “maduro” como del todo irrelevante” .

En 1970, Mészáros, discípulo de György Lukács que había dejado Hungría y se había ido a Inglaterra para ejercer la docencia, tomó también posición sosteniendo la tesis de la coherencia unitaria presente en el pensamiento de Marx. Mészáros tuvo el mérito de aclarar que “el rechazo de la dicotomía Marx joven contra del Marx maduro no significa el rechazo del desarrollo intelectual de Marx. Lo que es rechazado es la idea exagerada de un giro radical de su posición después de los Manuscritos de 1844” . Sin embargo, Mészáros cae en un doble error. En primer lugar, el de considerar los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] un “coherente sistema de ideas”, como “el primer sistema completo de Marx” . La fragmentariedad del esbozo parisino no le fue suficiente para entender el carácter preliminar y ampliamente incompleto del texto de Marx, pero le pareció, al contrario, como la característica de “una de las obras más complejas y difíciles de la literatura filosófica” . Esta incapacidad de comprender lo incompleto del texto lo indujo a sostener que “mientras Marx procede en su investigación crítica en los Manuscritos de 1844, paulatinamente la profundidad de su concepción y la inigualada coherencia de sus ideas se vuelven siempre más evidentes.” Además, también Mészáros permaneció capturado por los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] al afirmar que estos habían adecuadamente anticipado el Marx sucesivo y que el “concepto de superación (Aufhebung) de la auto-alienación del trabajo proporciona el vínculo esencial con toda la obra completa de Marx, incluidos los últimos escritos del así llamado Marx maduro.” Para Mészáros:

[…] con la elaboración de los […] conceptos [de los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 – MM], el sistema de Marx in statu nascendi es virtualmente llevado a su cumplimiento. Sus ideas radicales respecto al mundo de la alienación y las condiciones de la superación de ésta son ahora coherentemente sintetizadas dentro de las líneas generales de una monumental, compresiva concepción. […] Todas las ulteriores concretizaciones y modificaciones de las concepciones de Marx –incluidos algunos importantes descubrimientos del Marx más maduro– son realizadas sobre la base conceptual de los grandes resultados filosóficos claramente evidenciados en los Manuscritos económico-filosóficos de 1844.

En el mismo error cayó Adam Schaff, uno de los más influyentes marxistas entre los que en el “campo socialista” vieron con gran interés y sin prejuicios, los escritos juveniles de Marx. En el libro de 1977, La alienación como fenómeno social, él se opuso justamente a “los varios intentos de construir una teoría de los dos Marx” , pero, aun subrayando como solamente con los [Grundrisse] Marx fuera capaz de comprender la “distinción entre objetivación y alienación […] en su condicionamiento histórico” avanzó ilusoriamente, diciendo que “ya en los Manuscritos había señas de la concepción del fetichismo de las mercancías […].”

La difusión de los [Grundrisse], que tuvo inicio en 1953 en Alemania , y a partir del fin de los años sesenta en Europa y en Estados Unidos, captó la atención de los comentaristas del texto marxiano y los militantes políticos de las obras juveniles sobre este “nuevo” inédito. En los años ochenta y noventa, en el transcurso de los cuales la investigación sobre Marx conoció una fuerte dispersión, aparecieron algunos estudios sobre la relación Hegel-Marx, que confirieron importancia a la comprensión de los manuscritos parisinos. Por último, también recientemente, lo que refleja el encanto persistente de las páginas escritas en 1844, que, incluso hoy, brillan desde el punto de vista teórico e interpretativo, nuevos estudios han regresado a ocuparse de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] .

6. Superioridad, ruptura, continuidad
Los intérpretes de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], aún desde sus distintas posiciones políticas y disciplinarias, pueden ser subdivididos en tres grupos. Al primero son reconducidos todos aquellos que contrapusieron el manuscrito parisino y El Capital y que teorizaron la preeminencia teórica del primero sobre el segundo. Al segundo son incluidos los autores que atribuyeron escaso significado a los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844]. Mientras que al tercero pueden ser asociados los estudiosos que se inclinaron por la tesis de la continuidad teórica entre los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] y El Capital .

Aquellos que partieron de la suposición de la escisión entre el “joven” Marx y el “maduro”, presumiendo la tesis de la mayor riqueza teórica del primero sobre el segundo, presentaron los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] como el texto de mayor valor de Marx y crearon una forzada contraposición entre éste escrito y las obras posteriores. A los márgenes de la investigación interpretativa fue confinado, en particular, El Capital, libro sin duda más laborioso que las veinte páginas dedicadas al trabajo alienado en los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], sobre las cuales casi todos pudieron ejercer sus elucubraciones filosóficas, y tampoco suficientemente estudiado por muchos de los autores que adhirieron a esta tesis. Los fundadores de esta línea interpretativa fueron Landshut y Mayer, seguidos, poco después, por De Man. Al presentar el pensamiento de Marx como una doctrina ético-humanista, estos autores persiguieron el objetivo político de contrastar la rígida ortodoxia del marxismo soviético de los años treinta, al cual intentaron disputar la hegemonía sobre el movimiento obrero. Esta ofensiva teórica surtió efectos de toda naturaleza y tuvo como resultado el incremento de la reserva potencial del marxismo. Si bien divulgado a través de formulaciones difusas y genéricas, desde este momento en adelante, esto no fue considerado más como una mera teoría economicista y ejerció mayor atracción sobre una multitud de intelectuales y jóvenes.

Esta hipótesis interpretativa se consolidó inmediatamente después de la publicación de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] en 1932 y continuó ganando seguidores hasta finales de los años cincuenta, gracias también al efecto detonado por un inédito muy distinto de los cánones del marxismo dominante. Esta interpretación fue sostenida esencialmente por una minoría heterogénea de marxistas heterodoxos, pensadores cristianos progresistas y filósofos existencialistas , que interpretaron los escritos económicos de Marx como un paso atrás respecto a las teorías juveniles, fundamentadas a su juicio, en la centralidad de la persona humana. Después de la Segunda Guerra Mundial, a su favor, se inclinaron Thier, Popitz y Hommes en Alemania y, si bien no se expresaron con claridad acerca de la presunta superioridad de los [Manuscritos económicos-filosóficos de 1844] respecto de las obras posteriores, también Merleau-Ponty, Bigo, Calvez y Axelos en Francia, y Fromm en Estados Unidos, hicieron de este texto el centro de gravedad de su concepción del marxismo. Aron, que en su libro de 1968 se opuso con firmeza a los que apoyaron esta tesis, fotografió perfectamente su más llamativa paradoja: “veinte años atrás, los Manuscritos económico-filosóficos de 1844 representaban, según la ortodoxia del Barrio Latino, la última palabra de la filosofía marxista, aunque ateniéndose a los textos, Marx hubiera ridiculizado el lenguaje y los métodos de análisis por él adoptados en sus primeros trabajos.”

Interpretación del todo distinta de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] aglutinó a cuantos vieron en este texto una etapa transitoria, carente de algún significado especial de la elaboración del pensamiento de Marx. Desde el prefacio a la edición MEGA de 1932, escrita por Adoratskij, esta fue la lectura más seguida en la Unión Soviética y en sus países satélites. De hecho, la ausencia de referencia a la “dictadura del proletariado” y la presencia, al contrario, de temas como la alienación del hombre y la explotación del trabajo, que acertaban en algunas de las contradicciones más estridentes de los países del “socialismo real”, generaron el ostracismo de los vértices de partidos hacia los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], que no por casualidad, fueron excluidos de las ediciones de las obras de Marx y Engels en distintos Estados del “bloque socialista”. Además, muchos de los autores partidarios de esta orientación consideraron que las etapas de la evolución de la concepción de Marx fueran aquellas indicadas por Vladimir Lenin, canonizadas después por la doctrina marxista-leninista, convicción que además de ser en muchos aspectos teóricamente y políticamente discutible, no les permitió tomar en consideración los importantes inéditos aparecidos ocho años después de la muerte del dirigente bolchevique.

Con la expansión de la influencia de la escuela althusseriana, en los años sesenta esta lectura se volvió popular también en Europa occidental. Se difundió sobretodo en Francia y sus fundamentos, en general atribuidos solamente a Althusser, pero en realidad ya abordados por Naville, fueron erigidos sobre la convicción de que el marxismo fuera una ciencia y que las obras juveniles de Marx, todavía cargadas de lenguaje y de la implantación filosófica de la Izquierda Hegeliana, hubieran sido etapas preparatorias (para Althusser los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] representaron incluso el Marx más lejano del marxismo) precedentes al nacimiento de una “ciencia nueva” contenida en El Capital .

Las tentativas, filológicamente infundadas, de dividir y contraponer el Marx de los escritos juveniles con el de la crítica de la economía política, actuados tanto por marxistas disidentes o “revisionistas” al fin de privilegiar el primer Marx, así como por los marxistas vinculados al comunismo ortodoxo que tomaron partido por el “Marx maduro” de la crítica de la economía política contribuyeron, espectacularmente, a la creación de uno de los principales malentendidos de la historia del marxismo: el mito del “joven Marx”.
Un último grupo de intérpretes de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] comprende aquellos que consideraron las diferentes obras de Marx vinculadas por una substancial continuidad. Uniendo autores de distintas matrices políticas y teóricas, desde Marcuse a Lukács en lengua alemana, pasando por Hyppolite y Rubel en Francia, esta tesis se volvió hegemónica en el mundo anglosajón, estudiadas por Tucker, McLellan y Ollman, imponiéndose después, desde el fin de los años sesenta en todo el mundo, como demuestran los trabajos de Fetscher, Avineri, Mészáros y Schaff.

La idea de un esencial continuum de la concepción de Marx, y del rechazo de concebir un determinado punto de ruptura teórica en su obra, después del cual lo que haya sido precedido era rechazado y puesto totalmente de lado, originó el desarrollo de algunas de las mejores interpretaciones de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], como aquellas no dogmáticas y capaces de valorar el texto parisino a la luz de sus contradicciones y su carácter incompleto, de Lefebvre y Mandel. No obstante, también en esta escuela de pensamiento, no faltaron errores interpretativos, en particular la subvaloración, en algunos autores, de los enormes progresos realizados por Marx especialmente en economía política durante los años cincuenta y sesenta. En consecuencia, se consolidó, de manera difundida, la práctica de reconstruir el pensamiento de Marx a través de un montaje de citas, sin prestar atención alguna a los distintos períodos en los cuales habían sido redactados los escritos desde los cuales eran extraídas. Lo que emergió, frecuentemente, fue un autor construido literalmente a partir de los fragmentos que mejor respondían a las intenciones de sus intérpretes, los cuales, nada preocupados por el contexto que los había inspirado, pasaron de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] a El Capital, o en ocasiones desde este último a los textos juveniles, como si la obra de Marx fuera un único escrito indistinto y atemporal.

Subrayar la indudable importancia de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] para mejor comprensión de la elaboración del pensamiento de Marx, no implica el silenciar los enormes límites de este esbozo juvenil, en el cual había apenas empezado a asimilar los conceptos básicos de economía política y en el cual su concepción de comunismo no era otra cosa que una confusa síntesis de los estudios filosóficos hasta entonces realizados. Aun extremadamente fascinantes, en particular debido a la forma en la cual Marx combinó las concepciones filosóficas de Hegel y Feuerbach con la crítica del pensamiento económico clásico y con la denuncia de la alienación obrera, los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] constituyen, un primer aterrizaje de su concepción, como resulta evidente en la vaguedad y el eclecticismo de sus páginas. Estos son un indicio relevante del origen del camino de Marx, sin embargo una enorme distancia los separa de los temas y de la elaboración no sólo de la edición final de El Capital de 1867, sino también de sus manuscritos preparatorios, redactados, y en algunos casos publicados, a partir del fin de los años cincuenta.

A diferencia de las interpretaciones que propusieron la existencia y especificidad de Marx “joven”, y de las que forzosamente quisieron ubicar una ruptura teórica en su obra, las lecturas más incisivas de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] han sido aquellas que han tenido la capacidad de considerar este texto como una interesante, pero solamente inicial, pieza del recorrido critico de Marx. Si él no hubiera proseguido en sus investigaciones, y si su concepción hubiera quedado parada en los conceptos de los manuscritos parisinos, habría sido probablemente relegado, al lado de Bauer y Feuerbach, en los párrafos dedicados a la Izquierda Hegeliana de los manuales de la historia de la filosofía . Décadas de militancia política, estudios ininterrumpidos y continuas reelaboraciones criticas de centenares de volúmenes de economía política, historia y de numerosas otras disciplinas, hicieron, al contrario, del joven estudioso de 1844 una de la mentes más brillantes de la historia de la humanidad y transformaron también las primeras etapas de su progresión teórica, entre las cuales se distinguen los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844], tan importantes por estimular a generaciones enteras de lectores y estudiosos.

Traducción del italiano Jazmín Carbajal y Aldo A. Guevara

References
1. Con el fin de evidenciar el carácter inacabado de numerosos escritos de Marx, y para distinguirlos de los textos y artículos acabados, los títulos de los manuscritos y cuadernos incompletos se muestran en el texto entre corchetes.
2. Los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] fueron entregados a la imprenta en el mismo año, en dos diferentes versiones, circunstancia que contribuyó para alimentar la confusión alrededor del texto. Los estudiosos socialdemócratas Siegfried Landshut y Jacob Peter Mayer los publicaron, con el título de Economía nacional y filosofía en un compendio de los escritos juveniles de Marx: Nationalökonomie und Philosophie. Über den Zusammenhang der Nationalökonomie mit Staat, Recht, Moral, und bürgerlichem Leben (1844), en Karl Marx, Der historische Materialismus. Die Frühschriften (Hrsg. Siegfried Landshut – Jacob Peter Mayer), Kröner, Leipzig 1932, pp. 283-375. Mientras la segunda versión apareció en el tercer volumen de la Marx-Engels Gesamtausgabe (MEGA), a cargo del Instituto Marx-Engels de Moscú con el título, que más tarde sería célebre, de [Manuscritos económico-filosóficos de 1844]: Karl Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, MEGA I/3, Marx-Engels-Verlag, Berlín 1932, pp. 29-172.
3. Cfr. David McLellan, Karl Marx: Su vida y sus ideas, Crítica, Barcelona, 1977.
4. Louis Althusser, La Revolución Teórica de Marx, Siglo XXI Editores, México, 2004, pp. 40 y 41. Algunos años más tarde, empeñado en defender la importancia del concepto de “corte epistemológico” que él utilizó, Althusser subrayó como la discusión alrededor del “joven Marx” fue el “último resorte de un debate […] un enfrentamiento político. […]¡No, no era debate de filólogos! La conservación o la desaparición de estas palabras, su defensa o su aniquilamiento, son la clave de auténticas luchas de carácter manifiestamente político e ideológico. No es excesivo decir que lo que hoy está en cuestión tras esta querella de palabras es el leninismo sin más. No sólo el reconocimiento de la existencia y del papel de la teoría y de la ciencia marxista, sino las formas concretas de fusión del movimiento obrero y de la teoría marxista, y la concepción del materialismo y de la dialéctica.” en Louis Althusser, Elementi di autocritica, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 14-15. Existe versión en castellano: Louis Althusser, Elementos de autocrítica, Laia, Barcelona, 1975, pp. 22-23.
5. Iring Fetscher, Marx il marxismo. Dalla filosofia del proletariato alla Weltanschauung proletaria, Sansoni, Firenze 1969, p. 312.
6. Víctor Adoratsky, Einleitung, en MEGA I/3, Op. cit., p. XIII.
7. En realidad la introducción firmada por los dos curadores fue obra solamente de Landshut, la publicó el mismo año también como folleto separado. Cfr. Siegfried Landshut, Karl Marx, Charles Coleman, Lübeck 1932.
8. Siegfried Landshut y Jacob Peter Mayer, Op. cit., p. VI.
9. Siegfried Landshut, Op. cit., p. 6. Para una crítica de esta posición ver György Lukács, Il giovane Marx, Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 12-13. [Existe versión en castellano titulada En torno al desarrollo filosófico del joven Marx (1840-1844).]
10. Siegfried Landshut y Jacob Peter Mayer, Op. cit., p. XIII.
11. Ibíd., p. XXXVIII.
12. Ibíd., p. XIII.
13. Henri de Man, “Der neu entdeckte Marx”, en Der Kampf, vol. XXV (1932), n. 5-6, p. 224.
14. Ibíd.
15. Ibíd., p. 276.
16. Ibíd., p. 277.
17. Cfr. Herbert Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932, Einaudi, Torino 1975, p. 100. Entre las numerosas afirmaciones del mismo tipo se ve también la siguiente: “en los Manuscritos económico-filosóficos parece evidente (más de cuanto lo hubiera sido antes) el sentido originario de las categorías fundamentales, y podría ser necesario revisar la interpretación corriente de la sucesiva elaboración de la crítica a la luz de sus orígenes”, pp. 63-4.
18. Cfr. Georg W. F. Hegel (Hrsg. Georg Lasson), Jenenser Logik, Metaphysik und Naturphilosophie, Felix Meiner, Leipzig 1923, y Georg W. F. Hegel (Hrsg. Johannes Hoffmeister), Jenenser Realphilosophie, Felix Meiner, Leipzig 1931.
19. György Lukács, Il giovane Hegel e i problema della società capitalistica, Einaudi, Torino 1950, p. 760. [Existe versión en castellano Georg Lukács, El joven Hegel y los problemas de la sociedad capitalista, Grijalbo, Barcelona, 1970.] Significativo para entender la revolución provocada por los [Manuscritos económicos y filosóficos de 1844] es también el testimonio biográfico de Lukács relatado en entrevista a la New Left Review: “leyendo estos manuscritos cambié completamente mi relación con el marxismo y transformé mi perspectiva filosófica”, en György Lukács, “Lukács on his life and work”, en New Left Review, n. 68 (July-August 1971), p. 57. Cfr. György Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, 2 voll., Editori Riuniti, Roma 1981.
20. Cfr. Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996.
21. Cfr. Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi, Torino 1949. Existe versión en castellano Karl Löwith, De Hegel a Nietzsche. La quiebra revolucionaria del pensamiento en el siglo XIX, Katz.
22. Este ensayo fue publicado bajo la forma de una sólida introducción (Einleitung) al texto Karl Marx, Nationalökonomie und Philosophie (Hrsg. Erich Thier), Op. Cit., pp. 3-127 y salió, sucesivamente, como volumen individual bajo el título de Erich Thier, Das Menschenbild des jungen Marx, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1957.
23. Heinrich Popitz, Der entfremdete Mensch. Zeitkritik und Geschichtsphilosophie des jungen Marx, Verlag fur Recht und Gesellschaft, Basel 1953.
24. Jacob Hommes, L’eros della tecnica, Abete, Roma 1970.
25. Cfr. Adam Schaff: Il marxismo e la persona umana, Feltrinelli, Milano 1965, p. 13.
26. Cfr. Ornella Pompeo Faracovi, Il marxismo francese contemporáneo fra dialettica e struttura (1945-1968), Feltrinelli, Milano 1972, en particular las pp. 12-18, donde se recuerda que “la cultura filosófica francesa de la posguerra se ha interesado por largo tiempo en Marx, de manera casi exclusiva en su pensamiento juvenil”, p. 9.
27. Henri Lefebvre, Le marxisme et la pensée française, en “Les Temps Modernes”, n. 137-138 (1957), p. 114.
28. Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Sentido y sinsentido, Península, Barcelona, 1977, en particular el capítulo Marxismo y filosofía. Al respecto ver también Lars Roar Langset, Young Marx and Alienation in Western Debate, en “Inquiry”, vol. 6 (1963), n. 1, p. 11.
29. Raymond Aron se burló de esta posición afirmando que los existencialistas “encontraron en las especulaciones del joven Marx el secreto de un marxismo “insuperable” que Marx consideraba haber “superado” desde hace su trigésimo año” de vida, en Raymond Aron, Marxismi immaginari. Da una sacra famiglia all’altra, Franco Angeli, Torino 1972, p. 115. [Existe versión en castellano Raymond Aron, Los marxismos imaginarios: De Sartre a Althusser, Monte Ávila, Caracas, 1969.]
30. Pierre Bigo, Marxismo y humanismo, ZYX, 1966.
31. Ibíd., p. 248.
32. Jean Yves Calvez, Il pensiero di Karl Marx, Borla, Torino 1966.
33. Ibíd., p. 25.
34. Cfr. Roger Garaudy, Del anatema al diálogo, Ariel, Barcelona, 1968. Sobre temas análogos ver Stefan Vagovic, Marxismo a una dimensione, Città nuova editrice, Roma 1972.
35. Raymond Aron, Op. cit., p. 128. El texto de Aron está lleno de referencias polémicas a través de las cuales el autor ridiculizó tanto las paradojas de algunos estudiosos franceses de Marx: “nuestros filósofos parisinos prefirieron los esbozos a las obras, aman las malas copias por ser oscuras”, p. 178, así como el éxito que aquellos lograron alcanzar: “Júpiter, se dice, volvías locos a aquellos que querías perder. En París, Marx, Júpiter amistoso, diste un éxito de moda a los que desviaron el camino”, p. 234. Sobre el rol de Gaston Fessard en el debate francés de aquél tiempo remitimos al lector a su libro Le dialogie cattolique-communiste est-il possibile?, Grasset, París 1937.
36. Raymond Aron, Op. Cit., p. 151.
37. Pierre Naville, Dall’alienazione al godimento. Genesi della sociología del lavoro in Marx ed Engels, Jaca Book, Milano, 1978, p. 23.
38. Ibíd., p. 22.
39. Ibíd., pp. 12-13.
40. Auguste Cornu, Karl Marx – L’homme et l’oeuvre. De l’hégélianisme au matérialisme historique, Félix Alcan, París 1934.
41. Auguste Cornu, Marx e Engels, Feltrinelli, Milano 1962. Los volumenes III, Karl Marx et Friedrich Engels. Marx a París, y IV, La formation du matérialisme historique (1845-1846), no fueron traducidos al italiano y, por lo tanto, no fueron incluidos en esta edición, aparecieron en París en la Presses Universitaires de France en 1962 y en 1970. [Existe versión en castellano Auguste Cornu, Karl Marx Federico Engels, Editorial de Ciencias Sociales de la Habana, La Habana, 1975.]
42. Auguste Cornu, Karl Marx et Friedrich Engels. Marx a París, Op. Cit., Al respecto ver las páginas 172-7.
43. Jean Hyppolite, Saggi su Marx e Hegel, Bompiani, Milano 1963, pp. 153 e 155.
44. Maximilien Rubel, Karl Marx. Saggio di biografia intellettuale. Prolegomeni per una sociologia etica, Colibrí, Milano 2001, p. 130. [Existe versión en castellano Maximilien Rubel, Karl Marx. Ensayo de biografía intelectual, Paidós, Buenos Aires.]
45. Ibíd., p.116. El autor expresó una posición similar en el libro: Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, Bologna, 1981: “el primer libro de Marx, La sagrada familia, ya se anuncia como el secreto del último, El Capital”, p. 34.
46. Kostas Axelos, Marx pensatore della tecnica, Sugar, Milano 1963, pp. 56-7. [Existe versión en castellano Kostas Axelos, Marx pensador de la técnica, Fontanella, Barcelona, 1969.]
47. Henri Lefebvre, Critica della vita quotidiana, Dedalo, Bari 1977, pp. 92-3.
48. Ibíd., p. 92.
49. Louis Althusser, Pour Marx, Op. cit., p. 16. En el escrito Elementos de autocrítica, Op. Cit., Althusser recordó que reelaboró la noción de “ruptura (rupture) epistemológica” acuñado por Gastón Bachelard, tal que esta pudiera mostrar “todo su aspecto más rico”, p. 14. Desde aquí, la creación del concepto de “corte (coupure) epistemológico”.
50. Louis Althusser, Pour Marx, Op. cit., p. 16.
51. Ibíd., p. 17. Althusser clasificó el pensamiento de Marx en cuatro fases: las obras juveniles (1840-44); las obras de la ruptura (1845); las obras de la maduración (1845-57) las obras de la madurez (1857-83), cfr. Louis Althusser, Pour Marx, Op. cit., p. 18.
52. Ibíd.
53. Ibíd., p. 19.
54. Ibíd., p. 137.
55. Ibíd., p. 65.
56. Jacques Rancière, Op. cit., p. 140.
57. Ibíd., p. 139.
58. Cfr. John Lewis, The Althusser Case, en “Marxism Today”, vol. 16 (1972), pp. 23-7.
59. Louis Althusser, Risposta a John Lewis, en Umanesimo e estalinismo, De Donato, Bari 1973, p. 65.
60. Ibíd., p. 66, 68-72. Se aventuran más allá sus afirmaciones contenidas en el escrito Elementi di autocrítica, Op. cit., que inicialmente tenía que aparecer en la Risposta a John Lewis, y que, sin embargo, fue publicado dos años después. Althusser declaró haber sido culpable de una “desviación teoricista”, pues en el intento de mostrar la “novedad revolucionaria” del marxismo “en lugar de dar a este hecho histórico toda su dimensión social, política, ideológica y teórica”, había reducido todo “al ámbito de un hecho teórico limitado: la “ruptura epistemológica” observable en las obras de Marx a partir de 1845”, p. 7.
61. Louis Althusser, Risposta a John Lewis, Op. cit., p. 75.
62. Ibíd.
63. Marx recibió el libro de Hegel al final de octubre de 1857, cfr. Ferdinand Freiligrath a Karl Marx, 22 octubre 1857, en MEGA², III/8, Dietz, Berlin 1990, p. 497, y empezó a releerlo durante la redacción de los [Grundrisse], empezada hacia la mitad de octubre. La primera referencia al tema de la alienación en las páginas de los Grundrisse aparece en la p. 15 del Cuaderno I, redactada entre la mitad de octubre y la de noviembre, cfr. MEGA², II/1.1, p. 32. De todas maneras, en la carta del 14 enero de 1858, dirigida a Engels, Marx se refirió a la importancia del libro de Hegel para su propio trabajo sólo en lo relativo al método: “respecto al método de trabajo me ha rendido un enorme servicio el hecho que por pura casualidad […] había revisado la Lógica de Hegel”, en Obras, vol. LX, Op. Cit., p. 273.
64. Ibíd., p. 70.
65. Cfr. Herbert Marcuse, Razón y revolución. Hegel y el surgimiento de la teoría social, Altaya, Barcelona, 1994, según el cual “todos los conceptos filosóficos de la teoría marxiana son categorías sociales y económicas […]. Tampoco los primeros escritos de Marx son filosóficos. Constituyen la negación de la filosofía, aunque expresen todavía tal negación en un lenguaje filosófico”, p. 290.
66. Louis Althusser, Risposta a John Lewis, Op. cit., p. 75. En realidad, los [Grundrisse] se componen de ocho cuadernos, parte de los cuales fueron ignorados por Althusser. Cfr. Lucien Sève, Penser avec Marx aujourd’hui, La Dispute, París 2004, donde se muestra que “a excepción de algunos textos como la Introducción […] Althusser nunca leyó los Grundrisse, en el verdadero sentido de la palabra leer”, p. 29.
67. Cfr. Marcello Musto, “Vicissitudini e nuovi studi de L’ideologia tedesca”, en Critica Marxista, vol. 2004, n. 6, pp. 45-9. Terrell Carver, “The German Ideology never took place”, en History of Political Thought, vol. XXXI (2010), n. 1, pp. 107-27.
Louis Althusser, Elementi di autocrítica, Op. Cit., p. 9.
68. Ibíd., p. 8.
69. Cuando no era completamente absorto a defender su tesis de la “ruptura epistemológica”, como en el caso de la polémica con Lewis, y por lo tanto, se encontraba un poco más alejado de sus esquemas preestablecidos, Althusser fue capaz de interesantes consideraciones sobre los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844]. En el ensayo, redactado en 1970, Sull’evoluzione del giovane Marx, en Elementos di autocrítica, Op. cit., por ejemplo, intentó resumir el “drama teórico” vivido por Marx durante la redacción del escrito de 1844 a través de la descripción de la “insostenible contradicción entre la posición política y la posición filosófica […]. Políticamente, Marx escribe los Manuscritos como comunista […]. Teóricamente, los escribe desde posiciones filosóficas pequeño-burguesas […]. Los Manuscritos son un protocolo en movimiento pero implacable de una crisis insostenible: la crisis que se compara con un objeto encerrado en sus propios límites ideológicos, posiciones políticas y posiciones teóricas de clase incompatibles”, Op. cit., p. 51.
70. Ernest Mandel, La formazione del pensiero economico di Karl Marx, Laterza, Bari 1969, p. 175. [Existe la versión en castellano Ernest Mandel, La formación del pensamiento económico de Marx de 1843 a la redacción de El Capital, Siglo XXI, Madrid, 1974.]
71. Mandel se refiere a la crítica a la “pseudoteoría de la historia de la filosofía al futuro anterior”, cfr. Louis Althusser, Pour Marx, 72. Op. cit., p. 38.
73. Ernest Mandel, Op. cit., pp. 175-6.
74. Georg Mende, Karl Marx’ Entwicklung von revolutionären Demokraten zum Kommunisten, Dietz, Berlin 1960, p. 132.
75. D. I. Rosenberg, Die entwicklung der ökonomischen Lehre von Marx und Engels in den vierziger Jahren des 19. Jahrhunderts, Dietz, Berlin 1958.
76. Léonide Pajitnov, Les «Manuscrits èconomico-philosophiques de 1844», en Aa. Vv., Sur le jeune Marx, Op. cit., p. 98.
77. Loius Althusser, Pour Marx, Op. cit., p. 41.
78. Ibíd., p. 53.
79. Walter Tuchscheerer, Prima del ‘Capitale’. La formazione del pensiero economico di Marx (1843/1858), La Nuova Italia, Firenze 1980.
80. Erich Fromm, Marx y su concepto del hombre, FCE, México, 1966.
81. Ibíd., p. iv.
82. Ibíd., p. 50. De este escrito, que tenía la ambición de sintetizar la totalidad del pensamiento de Marx y no sólo el juvenil, impresiona que las referencias al Capital fueron muy limitadas (solamente seis), en comparación al uso desproporcionado de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] (citados 35 veces). Durante este período no fueron pocos los autores que aun teniendo la pretensión de sintetizar el total del pensamiento de Marx, citaron raramente El Capital. Para comprender lo difundida esta tendencia, ver también la afirmación equivocada de un riguroso estudioso como István Meszaros: “examinando la teoría de la alienación de Marx, el centro del análisis tienen que ser, no hay necesidad de decirlo, los Manuscritos económico-filosóficos de 1844”, en István Meszaros, La teoria dell’alienazione in Marx, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 25. [Existe versión en castellano István Meszaros, La teoría de la enajenación en Marx, ERA, México, 1978.]
83. Precursor de esta tendencia había sido Sidney Hook con su trabajo de 1933, Towards an understanding of Karl Marx, Gollanz, London 1933.
84. Daniel Bell, La «riscoperta» dell’alienazione, en Alberto Izzo (curador), Alienazione e sociologia, Franco Angeli, Torino 1973, pp. 89 e 97.
85. Robert C. Tucker, Philosophy & Myth in Karl Marx, Transaction, New Brunswick/London 2001, p. 7.
86. Ibíd., p. 169.
87. David McLellan, Marx prima del marxismo, Op. Cit., p. 188.
88. Ibíd., p. 256.
89. Bertell Ollman, Alienation: Marx’s conception of man in capitalist society, Cambridge University Press, New York 1971, p. xiv.
90. Ibíd., p. xv.
91. Iring Fetscher, Marx e il marxismo. Dalla filosofia del proletariato alla Weltanschaaung proletaria, Op. cit., p. 30.
92. Shlomo Avineri, Il pensiero politico e sociale di Marx, Il Mulino, Bologna 1997, p. 13.
93. István Meszaros, Op. cit., p. 288.
94. Ibíd., p. 17.
95. Ibíd., p. 11.
96. Ibíd., p. 20.
97. Ibíd., p. 23
98. Ibíd., 112-3.
99. Adam Schaff, L’alienazione come fenomeno sociale, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 99. [Existe versión en castellano Adam Schaff, La alienación como fenómeno social, Crítica, Barcelona, 1979.]
100. Ibíd., p. 102.
101. La primera edición, publicada en 1939-41 quedó prácticamente desconocida: cfr. Marcello Musto (ed.), Karl Marx’s Grundrisse. Foundations of the critique of political economy 150 years later, Routledge, London/New York 2008.
102. Entre los libros de este período dignos de tomar en cuenta son los de Solange Mercier-Josa, Pour lire Hegel et Marx, Editions sociales, París 1980 y Retour sur le jeune Marx. Deux études sur le rapport de Marx à Hegel, Meridiens Klincksieck, París 1986; el texto de Christopher J. Arthur, Dialectics of Labour. Marx and his relation to Hegel, Basil Blackwell, Oxford 1986.
103. Cfr. Takahisa Oishi, The unknown Marx, Pluto, London 2001; y Jean-Louis Lacascade, Les métamorphoses du jeune Marx, Presses Universitaires de France, París 2002.
104. Otras reseñas de las interpretaciones de los [Manuscritos económico-filosóficos de 1844] han sido compendiadas en Ernest Mandel, Op. cit., pp. 171-202; y en Jürgen Rojahn, El caso de los así llamados “Manuscritos económico-filosóficos del año 1844”, en “Pasado y presente”, n. 3 (1983), pp. 39-46. En español ver el libro de Adolfo Sánchez Vázquez, El joven Marx: los manuscritos de 1844, UNAM, Mexico, 2003, en el cual el autor sostiene: “los Manuscritos, en suma, no son la obra definitiva de Marx como sostiene la interpretación humanista, ni tampoco son una obra premarxista como se establece en la interpretación althusseriana”, p. 320.
105. Adam Schaff, Il marxismo e la persona umana, Feltrinelli, Milano 1977, p. 11. [Existe versión en castellano Adam Schaff, Marxismo e individuo humano, Grijalbo, México, 1967.]
106. Robert Tucker, Op. cit., p. 168.
107. Raymond Aron, Op. cit., p. 234. En particular, Aron se mofó de los filósofos existencialistas que habían “encontrado en las especulaciones del joven Marx el secreto de un marxismo insuperable que Marx consideraba haber superado desde su trigésimo año de edad”, p. 115.
108. Cfr. Henry Lefebvre, Marx, Tindalo, Roma 1970, pp. 34 e 36. [Existe versión en castellano Henri Lefebvre, Marx, Guadarrama, Madrid, 1974.]
109. Al respecto ver las afirmaciones críticas de Adam Schaff, Il marxismo e la persona umana, Op. cit.,que recordó que “no se puede tirar indiscriminadamente citas de Marx que se remontan a los años cuarenta y citas de los años setenta, como si no tuvieran el mismo derecho de ciudadanía y la misma importancia para el conocimiento del marxismo”, p. 36; y de Raymond Aron, Op. cit., que escribió: “[…] el día siguiente a la guerra, durante el período existencialista los padres jesuitas Fessard, Bigo y Calvez, y los existencialistas, trataban el todo del pensamiento marxiano como un todo atemporal, utilizando textos, los primeros de 1845, los segundos de 1867, como si este pensamiento no hubiera evolucionado, como si la minuta de 1844, que el autor ni siquiera había terminado y aún menos publicado, contuviera lo mejor del marxismo”, p. 204.
110. Cfr. Marcello Musto, “Marx en París: los Manuscritos económico-filosóficos del 1844”, en Musto (ed.), Tras las huellas de un fantasma. La actualidad de Karl Marx, México, Siglo XXI, 2011, pp. 116-132.
111. Cfr. Adam Schaff, Il marxismo e la persona umana, Op. cit., p. 36.

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Prima dei Grundrisse

1. L’incontro con l’economia politica
L’economia politica non fu la prima passione intellettuale di Karl Marx. L’incontro con questa materia, che ai tempi della sua giovinezza era appena agli albori in Germania, avvenne, infatti, solo dopo quello con diverse altre discipline. Nato a Treviri nel 1818, in una famiglia di origini ebraiche, dal 1835 Marx studiò, dapprima, diritto alle università di Bonn e Berlino, per volgere, poi, il suo interesse alla filosofia, in particolare a quella hegeliana al tempo dominante, e laurearsi all’università di Jena, nel 1841, con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Completati gli studi, Marx avrebbe voluto intraprendere la carriera universitaria, ma, poiché dopo la salita al trono di Federico Guglielmo IV, la filosofia hegeliana non godeva più del favore del governo prussiano, egli, avendo aderito al movimento dei Giovani Hegeliani, dovette cambiare i propri progetti. Tra il 1842 e il 1843, si diede all’attività pubblicistica e collaborò con il quotidiano di Colonia, la «Rheinische Zeitung [Gazzetta renana]», del quale divenne rapidamente giovanissimo redattore capo. Tuttavia, poco tempo dopo l’inizio della sua direzione e la pubblicazione di alcuni suoi articoli, nei quali, seppure soltanto dal punto di vista giuridico e politico, aveva iniziato a occuparsi di questioni economiche , la censura colpì il giornale e Marx decise di interrompere questa esperienza «per ritirarsi dalla scena pubblica alla stanza da studio» . Si dedicò, così, agli studi sullo Stato e sulle relazioni giuridiche, dei quali Hegel era un’autorità, e in un manoscritto del 1843, pubblicato postumo con il titolo Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, avendo maturato la convinzione che la società civile fosse la base reale dello Stato politico, sviluppò le primissime formulazioni circa la rilevanza del fattore economico nell’insieme dei rapporti sociali.

Tuttavia, soltanto a Parigi, spinto dalla convinzione dell’incapacità del diritto e della politica di dare soluzione ai problemi sociali, e colpito in maniera decisiva dalle considerazioni contenute nei Lineamenti di una critica dell’economia politica, uno dei due articoli di Friedrich Engels pubblicati nel primo e unico volume dei «Deutsch-französische Jahrbücher [Annali franco-tedeschi]» (rivista da Marx stesso fondata e co-diretta), diede inizio a uno «scrupoloso studio critico dell’economia politica» . Da quel momento in poi, le sue indagini, fino ad allora di carattere preminentemente filosofico, politico e storico, si indirizzarono verso questa nuova disciplina che divenne il fulcro delle sue ricerche e preoccupazioni scientifiche, delimitando un nuovo orizzonte che non fu mai più abbandonato.

A Parigi, Marx avviò una grande mole di letture e da esse ricavò nove quaderni di estratti e appunti . Fin dal periodo universitario, infatti, egli aveva assunto l’abitudine, mantenuta poi per tutta la vita, di compilare riassunti dalle opere che leggeva, intervallandoli, spesso, con le riflessioni che essi gli suggerivano . I cosiddetti Quaderni di Parigi sono particolarmente interessanti perché tra i libri maggiormente compendiati figuravano il Trattato di economia politica di Jean-Baptiste Say e La ricchezza delle nazioni di Adam Smith , testi dai quali Marx assimilò le nozioni basilari di economia, così come i Principi di economia politica di David Ricardo e gli Elementi di economia politica di James Mill , che gli diedero, invece, la possibilità di sviluppare le prime valutazioni rispetto ai concetti di valore e prezzo e alla critica del denaro quale dominio della cosa estraniata sull’uomo.

Parallelamente a questi studi, Marx redasse altri tre quaderni, pubblicati postumi con il titolo di Manoscritti economico-filosofici del 1844, nei quali dedicò particolare attenzione al concetto di lavoro alienato [entäusserten Arbeit]. Differentemente dai principali economisti e da Georg W. F. Hegel, il fenomeno per il quale l’oggetto prodotto dall’operaio si contrappone a lui stesso «come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che la produce» , venne considerato da Marx, non come una condizione naturale e, dunque, immutabile, ma quale caratteristica di una determinata struttura di rapporti produttivi e sociali: la moderna società borghese e il lavoro salariato.

L’intenso lavoro condotto da Marx durante questo periodo è comprovato anche dalle testimonianze di quanti lo frequentarono in quegli anni. Riferendosi all’attività da lui svolta verso la fine del 1844, il giornalista radicale Heinrich Bürgers sostenne che «Marx aveva avviato sin da allora approfondite ricerche nel campo dell’economia politica e accarezzava il progetto di scrivere un’opera critica in grado di formare una nuova costituzione della scienza economica» . Anche Engels, che aveva conosciuto Marx nell’estate del 1844 e stretto con lui un’amicizia e un sodalizio teorico e politico destinati a durare per il resto delle loro esistenze, nella speranza che una stagione di rivolgimenti sociali fosse alle porte, esortò Marx, sin dalla prima lettera del loro carteggio, a dare alla luce in fretta la sua opera: «fa ora in modo che il materiale che hai raccolto venga lanciato presto per il mondo. Il tempo stringe maledettamente» . Tuttavia, la consapevolezza dell’insufficienza delle sue conoscenze impedì a Marx di completare e pubblicare i suoi manoscritti. Inoltre, nell’autunno del 1844 egli si dedicò, proprio assieme a Engels , alla stesura di La sacra famiglia. Critica della critica critica contro Bruno Bauer e soci, uno scritto polemico, pubblicato nel 1845, nei confronti di Bauer e di altri esponenti della sinistra hegeliana, movimento dal quale Marx aveva preso le distanze già nel 1842, ritenendo che i suoi membri fossero dediti esclusivamente a sterili battaglie di concetti e rinchiusi nell’isolamento speculativo.

Concluso questo lavoro, all’inizio del 1845, Engels si rivolse nuovamente all’amico invitandolo a ultimare lo scritto in preparazione:

guarda di portare a termine il tuo libro di economia politica; anche se tu dovessi rimanere scontento di molte cose, non fa niente, gli animi sono maturi, e dobbiamo battere il ferro finché è caldo. […] Ora non c’è tempo da perdere. Fa perciò in modo di essere pronto prima dell’aprile; fa come faccio io, stabilisci un termine di tempo entro il quale sei effettivamente deciso a finire, e pensa a stampar presto.

Queste sollecitazioni servirono però a ben poco. L’ancora stentata conoscenza dell’economia politica indusse Marx a proseguire gli studi, anziché tentare di dare forma compiuta ai suoi abbozzi. Ad ogni modo, sorretto dalla convinzione di poter dare alla luce il suo scritto in breve tempo, il 1 febbraio del 1845, dopo che gli era stato intimato di lasciare la Francia a causa della sua collaborazione con il bisettimanale operaio di lingua tedesca «Vorwärts!», egli firmò un contratto con l’editore di Darmstadt Karl Wilhelm Leske, per la pubblicazione di un’opera in due volumi da intitolarsi Critica della politica e dell’economia politica.

2. Il proseguimento degli studi di economia
Nel febbraio del 1845 Marx lasciò Parigi per trasferirsi a Bruxelles, città nella quale gli fu consentito di risiedere a patto di non pubblicare «nessuno scritto sulla politica del giorno» e dove rimase, assieme alla moglie Jenny von Westphalen e alla prima figlia, Jenny, nata a Parigi nel 1844, fino al marzo del 1848. Durante questi tre anni, e in particolar modo nel 1845, egli proseguì produttivamente gli studi di economia politica.

Nel marzo di quell’anno lavorò, senza riuscire però a completarla, a una critica dell’opera Il sistema nazionale dell’economia politica dell’economista tedesco Friedrich List . Inoltre, dal febbraio al luglio redasse sei quaderni di estratti, i cosiddetti Quaderni di Bruxelles, riguardanti soprattutto lo studio dei concetti basilari dell’economia politica, all’interno dei quali riservò particolare spazio agli Studi sull’economia politica di Sismonde de Sismondi, al Corso di economia politica di Henri Storch e al Corso di economia politica di Pellegrino Rossi. Contemporaneamente, Marx si dedicò anche alle questioni legate ai macchinari e alla grande industria e ricopiò diverse pagine dell’opera Sull’economia delle macchine e delle manifatture di Charles Babbage . In questo periodo, egli progettò, insieme con Engels, di organizzare anche la traduzione in lingua tedesca di una «Biblioteca dei più eccellenti scrittori socialisti stranieri» . Tuttavia, non avendo trovato il sostegno finanziario di nessun editore e non disponendo di molto tempo libero, essendo entrambi impegnati innanzitutto con i propri lavori, Marx ed Engels dovettero abbandonare questo proposito.

Nei mesi di luglio e agosto, Marx soggiornò a Manchester, al fine di prendere in esame la vasta letteratura economica inglese, la cui consultazione riteneva indispensabile per scrivere l’opera che aveva in cantiere. Redasse così altri nove quaderni di estratti, i Quaderni di Manchester, e, di nuovo, tra i testi maggiormente compendiati vi furono manuali di economia politica e libri di storia economica, tra i quali le Lezioni sugli elementi di economia politica di Thomas Cooper, Una storia dei prezzi di Thomas Tooke, la Letteratura di economia politica di John Ramsay McCulloch e i Saggi su alcuni problemi insoluti di economia politica di John Stuart Mill . Marx s’interessò molto anche alle questioni sociali e compilò estratti da alcuni dei principali volumi della letteratura socialista anglosassone, in particolare da I mali del lavoro e il rimedio del lavoro di John Francis Bray e dal Saggio sulla formazione del carattere umano e Il libro del nuovo mondo morale di Robert Owen . Dello stesso argomento trattava, inoltre, La situazione della classe operaia in Inghilterra, la prima opera di Engels, apparsa proprio nel giugno del 1845.

Nella capitale belga, oltre a proseguire gli studi economici, Marx lavorò anche a un altro progetto, che ritenne necessario realizzare a causa delle circostanze politiche che erano nel frattempo maturate. Nel novembre del 1845, infatti, pensò di scrivere con Engels, Joseph Weydemeyer e Moses Hess, una “critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti” . Il testo, che fu dato alle stampe postumo col titolo di L’ideologia tedesca, si prefiggeva, per una parte, di combattere le ultime forme di neohegelismo comparse in Germania (il libro L’unico e la sua proprietà di Max Stirner era stato dato alle stampe nell’ottobre del 1844) e, per un’altra, come Marx scrisse all’editore Leske, di «preparare il pubblico al punto di vista della [sua] Economia [Oekonomie], la quale si contrappone[va] risolutamente a tutta la scienza tedesca sviluppatasi sinora» . Questo scritto, la cui lavorazione si protrasse fino al giugno del 1846, non fu però mai portato a termine, anche se servì a Marx per elaborare, con maggiore chiarezza rispetto al passato, seppure non in modo definitivo, quella che Engels definì, quarant’anni dopo, «la concezione materialistica della storia».

Per avere notizie sul progresso della “Economia” durante l’anno 1846 occorre, ancora una volta, esaminare le lettere indirizzate a Leske. Nell’agosto di quell’anno, Marx aveva dichiarato all’editore che «il manoscritto quasi concluso del primo volume», ovvero quello che, secondo i suoi nuovi piani, avrebbe dovuto contenere la parte più teorica e politica, era già disponibile «da tanto tempo», ma che egli non l’avrebbe fatto «stampare senza sottoporlo ancora una volta a una revisione di contenuto e di stile. Si capisce che un autore, il quale continua a lavorare per sei mesi, non può lasciare stampare letteralmente ciò che ha scritto sei mesi prima». Ciò nonostante, egli s’impegnò a concludere presto il libro: «la revisione del primo volume sarà pronta per la stampa alla fine di novembre. Il secondo volume, che ha un carattere più storico, potrà seguire immediatamente» . Le notizie fornite non rispondevano, però, al reale stato del suo lavoro, poiché nessuno dei suoi manoscritti del tempo poteva essere definito come «quasi concluso» e, infatti, l’editore decise di rescindere il contratto quando non si vide consegnare nulla neanche al principio del 1847.

Questi continui ritardi non vanno però attribuiti a uno scarso impegno da parte di Marx. In quegli anni, egli non rinunciò mai all’attività politica e, nella primavera del 1846, fu promotore di un Comitato comunista di corrispondenza, nato per organizzare un collegamento tra le varie leghe operaie in Europa. Tuttavia, il lavoro teorico restò per lui sempre una priorità e a conferma di ciò vi sono le testimonianze di coloro che lo frequentarono. Il poeta tedesco Georg Weerth, ad esempio, scrisse nel novembre del 1846:

Marx è considerato, in un certo senso, il capo del partito comunista. Molti dei sedicenti comunisti e socialisti, però, si stupirebbero molto se sapessero con precisione cosa fa veramente quest’uomo. Marx lavora infatti giorno e notte per snebbiare la testa degli operai d’America, Francia, Germania, etc. dai sistemi balzani che ora la offuscano (…). Lavora come un pazzo alla sua storia dell’economia politica. Quest’uomo dorme da molti anni non più di quattro ore per notte.

Le prove del grande impegno di Marx sono documentate anche dagli appunti di studio e dagli scritti allora pubblicati. Dall’autunno del 1846 al settembre del 1847 egli compilò tre voluminosi quaderni di estratti, inerenti in gran parte la storia economica, dal testo Rappresentazione storica del commercio, dell’attività commerciale e dell’agricoltura dei più importanti Stati commerciali dei nostri tempi di Gustav von Gülich , uno dei principali economisti tedeschi del tempo. Inoltre, nel dicembre del 1846, dopo aver letto il libro Sistema delle contraddizioni economiche, o filosofia della miseria di Pierre-Joseph Proudhon e averlo trovato «cattivo, anzi pessimo» , Marx decise di scriverne una critica. Redatta direttamente in francese, affinché il suo antagonista, che non parlava tedesco, potesse intenderla, l’opera fu terminata nell’aprile del 1847 e stampata in luglio con il titolo Miseria della filosofia. Risposta a Pierre-Joseph Proudhon. Si trattò del primo scritto di economia politica pubblicato da Marx e nelle sue pagine vi furono esposte le sue convinzioni, in seguito soggette a cambiamenti, circa la teoria del valore, l’approccio metodologico più corretto da utilizzare per intendere la realtà sociale e la transitorietà storica dei modi di produzione.

Il motivo del mancato completamento dell’opera progettata – la critica dell’economia politica – non è attribuibile, dunque, alla mancanza di concentrazione da parte di Marx, bensì alla difficoltà del compito che egli si era assegnato. L’argomento che si era prefisso di sottoporre a esame critico era molto vasto e affrontarlo con la serietà e la scrupolosità di cui egli era dotato avrebbe significato lavorare duramente ancora per molti anni. Anche se non ne era consapevole, infatti, alla fine degli anni Quaranta Marx era appena all’inizio delle sue fatiche.

3. Il 1848 e lo scoppio della rivoluzione
Nella seconda metà del 1847 il fermento sociale s’intensificò e l’impegno politico di Marx divenne, conseguentemente, più gravoso. In giugno venne fondata a Londra la Lega dei Comunisti, associazione di operai e artigiani tedeschi con diramazioni internazionali; in agosto Marx ed Engels costituirono l’Associazione operaia tedesca, un centro che riuniva gli operai tedeschi di Bruxelles; in novembre, Marx divenne vicepresidente dell’Associazione democratica di Bruxelles, organizzazione che univa un’area rivoluzionaria a lui vicina e una componente democratica più moderata. Alla fine dell’anno, inoltre, la Lega dei Comunisti incaricò Marx ed Engels di redigere un programma politico e così, poco dopo, nel febbraio del 1848, fu dato alle stampe il Manifesto del Partito Comunista. Il suo incipit, «uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo», divenne celebre quanto una delle sue tesi di fondo: «la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi».

La pubblicazione del Manifesto del partito comunista non avrebbe potuto essere più tempestiva. Immediatamente dopo la sua comparsa, infatti, uno straordinario movimento rivoluzionario, il più grande mai manifestatosi fino ad allora per espansione e intensità, si sviluppò in tutto il continente europeo, mettendo in crisi il suo ordine politico e sociale. I governi in carica adottarono tutte le contromisure possibili per porre fine alla situazione e, nel marzo del 1848, quello belga espulse Marx, che si recò in Francia, dove era stata da poco proclamata la repubblica. Date le circostanze, egli mise da parte gli studi di economia politica e si diede all’attività giornalistica per sostenere la rivoluzione e contribuire a tracciare la giusta linea politica da adottare. In aprile si spostò in Renania, la regione economicamente più sviluppata e politicamente più liberale della Germania e dal mese di giugno diresse il quotidiano «Neue Rheinische Zeitung. Organ der Demokratie [Nuova Gazzetta Renana.

Organo della democrazia]», che, nel frattempo, era riuscito a fondare a Colonia. Anche se la maggior parte dei suoi articoli si concentrò sulla cronaca degli avvenimenti politici, nell’aprile del 1849 egli pubblicò una serie di editoriali aventi per tema la critica dell’economia politica, poiché riteneva fosse giunto il «tempo di penetrare più a fondo i rapporti economici sui quali si fondano tanto l’esistenza della borghesia e il suo dominio di classe, quanto la schiavitù degli operai». Basati su alcuni appunti redatti per delle conferenze tenute, nel dicembre 1847, alla Associazione operaia tedesca di Bruxelles, apparvero, così, cinque articoli dal titolo Lavoro salariato e capitale, in cui Marx espose al pubblico, più estesamente che in passato e con un linguaggio il più vicino possibile alla comprensione degli operai, le sue concezioni circa lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale.

Tuttavia, il movimento rivoluzionario sorto in Europa nel 1848 venne sconfitto in fretta. La ripresa economica, la debolezza della classe operaia, in alcuni paesi neanche minimamente strutturata, e la svolta moderata delle classi medie, che dopo aver sostenuto una politica di riforme si riavvicinarono all’aristocrazia per sventare la possibilità di un esito troppo radicale degli avvenimenti, permisero alle forze politiche reazionarie di riprendere saldamente le redini del governo degli Stati e furono tra le principali cause della conclusione autoritaria e conservatrice degli eventi.

A causa dell’intensa attività politica esercitata, nel maggio 1849 Marx ricevette un ordine di espulsione anche dalla Prussia e riparò, ancora una volta, in Francia. Quando, però, la rivoluzione fu definitivamente battuta anche a Parigi, le autorità francesi disposero per Marx l’obbligo di lasciare la capitale e di trasferirsi nel Morbihan, una regione desolata, paludosa e malsana della Bretagna. Davanti a questo «mascherato tentativo di omicidio», Marx decise di lasciare la Francia per Londra, dove riteneva di avere «concrete prospettive di fondare un giornale tedesco». Egli sarebbe rimasto in Inghilterra, esule e apolide, per tutto il resto della sua esistenza, ma la reazione europea non avrebbe potuto confinarlo in un posto migliore per scrivere la sua critica dell’economia politica. Al tempo, infatti, Londra era il centro economico e finanziario più importante del mondo, «il demiurgo del cosmo borghese» , e, quindi, il luogo più favorevole dove osservare gli sviluppi più recenti del capitalismo e riprendere, proficuamente, gli studi.

4. A Londra aspettando la crisi
Marx giunse in Inghilterra nell’estate del 1849, all’età di trentun anni. La sua vita a Londra non trascorse affatto serenamente. La famiglia Marx, divenuta di sei membri con la nascita di Laura nel 1845, di Edgar nel 1847 e di Guido poco dopo l’arrivo in città, nell’ottobre del 1849, visse a Soho, uno dei quartieri più poveri e malandati della capitale inglese, e dovette sopravvivere per lungo tempo in condizioni di profonda miseria. Accanto ai problemi familiari, egli fu impegnato anche in un comitato di soccorso per gli emigrati tedeschi, che promosse tramite la Lega dei Comunisti e il cui compito fu quello di aiutare i tanti profughi politici giunti a Londra in quel periodo.

Nonostante le circostanze avverse, Marx riuscì a realizzare il suo intento di mettere in piedi una nuova impresa editoriale. Dal marzo 1850 diresse la «Neue Rheinische Zeitung. Politisch-ökonomische Revue [Nuova Gazzetta Renana. Rivista di economia politica]», mensile che nei suoi progetti avrebbe dovuto essere il luogo dove «analizzare diffusamente e scientificamente i rapporti economici che sono alla base di tutta l’attività politica». Egli era convinto, infatti, che «un momento di apparente stasi come que[llo doveva] venire utilizzato per far luce sul trascorso periodo rivoluzionario, sul carattere dei partiti in lotta, sui rapporti sociali che determinano l’esistenza e la lotta di tali partiti» .

Allora, Marx era certo, seppure in errore, che la situazione del momento fosse solo un breve interludio tra la rivoluzione che si era appena conclusa e un’altra che sarebbe presto scoppiata. Nel dicembre del 1849 aveva scritto all’amico Weydemeyer: «non ho alcun dubbio che, dopo la pubblicazione di tre, forse due, quaderni mensili [della «Neue Rheinische Zeitung»], interverrà l’incendio mondiale e sarà sospesa l’occasione di concludere provvisoriamente con l’Economia». Egli era sicuro dell’imminente avvento di «un’enorme crisi industriale, agricola e commerciale» e dava per scontato un nuovo movimento rivoluzionario, che si augurava potesse sorgere soltanto dopo lo scoppio della crisi, poiché le condizioni di prosperità industriale e commerciale generalmente attenuavano la determinazione delle masse proletarie. In seguito, in Le lotte di classe in Francia, una serie di articoli comparsi sulla «Neue Rheinische Zeitung», Marx affermò che

una vera rivoluzione […] è possibile soltanto in periodi in cui […] le forze produttive moderne e le forme borghesi di produzione, entrano in conflitto tra loro. […] Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una, però, è altrettanto sicura quanto l’altra.

Egli non mutò parere neanche dinanzi alla fiorente prosperità economica che cominciò a diffondersi e, nel primo numero della «Neue Rheinische Zeitung», quello di gennaio-febbraio, scrisse che la ripresa avrebbe avuto vita breve poiché i mercati delle Indie Orientali erano «ormai praticamente saturi» e ben presto lo sarebbero stati anche quelli del Nord e del Sud America e quello australiano. Dunque:

al primo sentore di questo fatto si diffonderà il “panico” sia nella produzione che nella speculazione – forse già verso la fine della primavera, o al più tardi in luglio o agosto. Ma questa crisi, per il fatto che dovrà necessariamente coincidere con grandi collisioni sul continente, porterà frutti ben diversi da tutte quelle che l’hanno preceduta. Se, sino ad ora, ogni crisi ha rappresentato il segnale per un nuovo progresso, per una nuova vittoria della borghesia industriale sulla proprietà fondiaria e sulla borghesia finanziaria, questa segnerà l’inizio della rivoluzione inglese moderna.

Anche nel numero successivo, quello di marzo-aprile 1850, Marx sostenne che la positiva congiuntura economica in corso rappresentava solo un miglioramento temporaneo, mentre la sovrapproduzione e l’eccesso di speculazione prodottosi nel settore ferroviario stavano avvicinando l’avvento della crisi, i cui effetti sarebbero stati

più gravi di quelli di ogni crisi precedente. Essa si verifica, infatti, in coincidenza con la crisi agricola (…). Questa duplice crisi viene accelerata, resa più vasta e pericolosa dalle convulsioni che contemporaneamente incombono sul continente, e, sul continente, le rivoluzioni assumeranno per l’effetto che avrà la crisi inglese sul mercato mondiale, un carattere molto più marcatamente socialista.

Dunque, lo scenario prospettato da Marx era molto ottimistico per la causa del movimento operaio e riguardava non soltanto i mercati europei, ma anche quelli nord-americani. Egli riteneva, infatti, che «in seguito all’ingresso dell’America nel moto regressivo causato dalla sovrapproduzione, possiamo aspettarci che, nel giro di un mese, la crisi si sviluppi con rapidità ancora maggiore». Le sue conclusioni furono, quindi, entusiastiche: «la coincidenza di crisi commerciale e rivoluzione […] diviene sempre più inevitabile. Che il destino si compia!».

Durante l’estate, egli approfondì l’analisi economica degli anni antecedenti al 1848 e, nel numero della rivista di maggio-ottobre 1850, l’ultimo prima della chiusura causata dall’assenza di risorse finanziarie e dalle vessazioni della polizia prussiana, giunse all’importante conclusione che «la spinta data dalle crisi commerciali alle rivoluzioni del 1848 è stata infinitamente maggiore di quella data dalla rivoluzione alla crisi commerciale». Attraverso questi nuovi studi, la crisi economica acquisì definitivamente nel suo pensiero un’importanza fondamentale nel suo pensiero e non soltanto in termini economici, ma anche dal punto di vista sociologico e politico. Inoltre, analizzando i processi di sovraspeculazione e sovrapproduzione, azzardò una nuova previsione e dichiarò che «se il nuovo ciclo di sviluppo industriale, iniziato nel 1848, seguirà il corso di quello del 1843-47, la crisi scoppierà nel 1852». Infine, egli ribadì che la futura crisi sarebbe esplosa anche nelle campagne e «per la prima volta una crisi industriale e commerciale coinciderà con una crisi agricola».

Le previsioni coltivate da Marx per oltre un anno si mostrarono sbagliate. Tuttavia, anche nei momenti in cui egli fu più convinto dell’avvento di un’imminente ondata rivoluzionaria, le sue idee furono comunque molto diverse rispetto alle tesi degli altri leader politici europei esiliati a Londra. Seppure errò le previsioni in merito agli sviluppi della situazione economica del suo tempo, nondimeno Marx considerò indispensabile lo studio di tali rapporti ai fini dell’attività politica. Viceversa, la gran parte dei dirigenti democratici e comunisti a lui contemporanei, che egli definì «alchimisti della rivoluzione», riteneva che l’unica condizione affinché una rivoluzione potesse risultare vincente fosse sapere semplicemente «la loro congiura [era] sufficientemente organizzata» . Un esempio di tale concezione fu il manifesto Ai popoli del Comitato centrale democratico europeo, fondato a Londra nel 1850 da Giuseppe Mazzini, Alexandre Ledru-Rollin e Arnold Ruge. Secondo Marx, da esso si evinceva l’idea «che la rivoluzione [del 1848] fosse fallita per le ambizioni e le gelosie dei singoli capi e per le opinioni discordi dei vari indottrinatori del popolo». Inoltre, a suo giudizio, altrettanto «stupefacente» era il modo in cui gli estensori di questo scritto avevano esposto la loro idea di «organizzazione sociale: un correre insieme per le strade, un putiferio, una stretta di mano e il gioco è fatto. Per loro la rivoluzione consiste soprattutto nel rovesciare i governi esistenti: fatto questo si è raggiunta anche ‘la vittoria’».

Diversamente da quanti si aspettavano una nuova improvvisa rivoluzione, a partire dall’autunno del 1850 Marx si convinse che essa non sarebbe potuta maturare senza una nuova crisi economica mondiale . Da allora in poi, egli si allontanò definitivamente da quanti nutrivano la falsa speranza di un prossimo insorgere della rivoluzione e visse «in assoluto isolamento» . Ciò è confermato dalla testimonianza, del gennaio del 1851, del membro della Lega dei comunisti Wilhelm Pieper, che affermò: «Marx vive molto ritirato», aggiungendo poi, con ironia, «i suoi unici amici sono John Stuart Mill, Loyd, e, quando si va da lui, invece che da complimenti si è accolti con categorie economiche» . Negli anni seguenti, infatti, Marx frequentò pochissimi amici a Londra e mantenne un profondo legame solo con Engels, stabilitosi nel frattempo a Manchester, al quale scrisse nel febbraio 1851: «mi piace molto l’autentico isolamento pubblico in cui ci troviamo ora noi due, tu ed io. Corrisponde del tutto alla nostra posizione e ai nostri principi» . Questi, da parte sua, gli rispose: «nelle prossime vicende possiamo e dobbiamo assumere questa posizione […] critica spietata per tutti». A suo avviso «la cosa principale [era]: la possibilità di far stampare le nostre cose; o in una rivista trimestrale, in cui attaccare direttamente e consolidare la nostra posizione rispetto a quei personaggi; o in grossi volumi». Infine, concludeva con certo ottimismo: «che cosa ne sarà di tutte le stupide chiacchiere che la plebaglia degli emigrati può fare sul tuo conto, quando tu risponderai con l’Economia?» . Da quel momento in poi, dunque, la sfida si spostò sulla previsione dello scoppio della crisi e per Marx ritornò il tempo, stavolta con un movente politico in più, per dedicarsi di nuovo esclusivamente agli studi di economia politica.

5. Gli appunti di studio del 1850-1853
Nel corso dei tre anni nei quali aveva dovuto sospendere gli studi di economia politica si erano succeduti nuovi importanti eventi economici – dalla crisi del 1847 alla scoperta dell’oro in California e Australia – che, per la loro rilevanza, fecero ritenere indispensabile a Marx intraprendere nuove ricerche, anziché ritornare sui vecchi appunti e tentare di dare loro forma compiuta . Le ulteriori letture svolte furono sintetizzate in 26 quaderni di estratti, 24 dei quali, redatti tra il settembre del 1850 e l’agosto del 1853 e contenenti anche compendi di testi afferenti ad altre discipline, vennero da lui numerati nei cosiddetti Quaderni di Londra. Questi studi risultano di grande interesse, poiché documentano un periodo di notevole sviluppo dell’elaborazione di Marx, durante il quale egli non solo riepilogò le vecchie conoscenze, ma, attraverso lo studio approfondito di decine di nuovi volumi, soprattutto in lingua inglese, svolto presso la biblioteca del British Museum di Londra, acquisì altre significative nozioni per l’opera che intendeva scrivere.

I Quaderni di Londra possono essere suddivisi in tre gruppi. Nei primi sette quaderni (I-VII), redatti tra il settembre del 1850 e il marzo del 1851, tra le numerose opere consultate delle quali Marx eseguì compendi figurano Una storia dei prezzi di Thomas Tooke, Una visione del sistema monetario di James Taylor, la Storia della moneta di Germani Gernier, le Opere complete sulle banche di Georg Büsch, Un’inchiesta sulla natura e gli effetti del credito cartaceo di Henry Thornton e la Ricchezza delle nazioni di Smith . In particolare, Marx si concentrò sulla storia e le teorie delle crisi economiche e dedicò grande attenzione al rapporto tra la forma di denaro, il credito e le crisi, al fine di comprendere le cause originarie di queste ultime. Diversamente da quei socialisti a lui contemporanei, ad esempio Proudhon, i quali erano certi che le crisi economiche potessero essere evitate mediante la riforma del sistema del denaro e del credito, Marx, viceversa, giunse alla conclusione che, per quanto il sistema creditizio fosse una loro condizione, le crisi potevano solo essere aggravate o migliorate da un uso sbagliato o corretto della circolazione monetaria, mentre le loro cause andavano ricercate nelle contraddizioni della produzione.

Al termine di questo primo gruppo di estratti, Marx riassunse le proprie conoscenze in due quaderni, cui non assegnò la numerazione della serie principale, che intitolò Oro monetario. Il sistema monetario perfetto. In questo manoscritto, redatto nella primavera del 1851, Marx ricopiò, e talvolta accompagnò con un proprio commento, quelli che, a suo avviso, erano i brani più significativi sulla teoria del denaro delle maggiori opere di economia politica. Diviso in 91 sezioni, una per ogni libro preso in esame, Oro monetario non fu, però, una mera raccolta di citazioni, ma può essere considerato come la prima elaborazione autonoma della teoria del denaro e della circolazione , da utilizzare per la stesura del libro che egli progettava di scrivere ormai già da molti anni.

Proprio in quel periodo, infatti, anche se dovette affrontare momenti terribili dal punto di vista personale, soprattutto per la morte del figlio Guido nel 1850, e sebbene visse in condizioni economiche talmente difficili da essere costretto persino ad affidare a balia Franziska, l’ultima figlia nata nel marzo del 1851, Marx non solo riuscì a proseguire il suo lavoro, ma continuò a nutrire la speranza della sua imminente conclusione. Nei primi giorni dell’aprile del 1851 scrisse, infatti, a Engels:

sono tanto avanti che entro cinque settimane sarò pronto con tutta la merda economica. E fatto ciò, porterò a termine a casa il lavoro sull’Economia e nel [British] Museum mi butterò su di un’altra scienza. Questa roba comincia ad annoiarmi. In fondo, da A. Smith e D. Ricardo in poi, questa scienza non ha più fatto progressi, per quanto molto si sia fatto anche mediante singole ricerche, spesso molto fini (…). Entro un tempo più o meno breve pubblicherò due volumi di 60 fogli di stampa.

Engels accolse la notizia con grande gioia: «sono contento che tu abbia finalmente finito con l’Economia. La cosa si è trascinata davvero troppo per le lunghe, e finché tu hai ancora da leggere un libro che ritieni importante, non ti metti mai a scrivere» . La lettera di Marx rifletteva, però, più il suo ottimismo circa la auspicata fine dell’opera che non il vero stato del lavoro. Ad eccezione dei tanti quaderni di estratti, infatti, e tranne Oro monetario, che non poteva certo essere considerato come una bozza pronta per la stampa, egli non redasse nessun altro manoscritto. Indubbiamente, Marx condusse le sue ricerche con grande intensità, ma in quegli anni non riusciva a dominare ancora in tutta la sua ampiezza la materia economica e la sua scrupolosità gli impedì, a dispetto della volontà e della convinzione di potervi riuscire, di andare oltre la stesura dei compendi e dei commenti critici dei testi che leggeva e di redigere, finalmente, il suo libro. L’assenza di un editore non lo spronò, inoltre, a portare a sintesi i suoi studi. Dunque, l’Economia era ben lungi dall’essere completata «entro un tempo più o meno breve».

Così, Marx tornò a studiare ancora una volta i classici dell’economia politica e, dall’aprile al novembre del 1851, redasse quello che può essere considerato come il secondo gruppo (VIII – XVI) dei Quaderni di Londra. Il quaderno VIII fu quasi interamente realizzato con estratti da Un’inchiesta sui principi di economia politica di Stuart, che egli aveva cominciato a studiare nel 1847, e dai Principi di economia politica di Ricardo. Proprio questi ultimi, redatti durante la composizione di Oro monetario, costituiscono la parte più importante dei Quaderni di Londra, poiché sono accompagnati da numerosi commenti critici e dalle riflessioni personali di Marx. Fino alla fine degli anni Quaranta, infatti, egli aveva essenzialmente accettato le teorie di Ricardo, mentre, da questo momento, attraverso un nuovo e approfondito studio delle sue tesi sulla rendita fondiaria e sul valore, ne maturò un parziale superamento . In questo modo, Marx riconsiderò alcune delle sue precedenti convinzioni relative a queste fondamentali tematiche e fu spinto ad ampliare ulteriormente il raggio delle sue conoscenze interrogando altri autori. Nei quaderni IX e X, redatti tra il maggio e il luglio del 1851, si concentrò sugli economisti che si erano occupati delle contraddizioni della teoria di Ricardo e che, su alcuni punti, erano andati oltre le sue concezioni. Così facendo, tra i tanti libri compendiati, realizzò un gran numero di estratti da Una storia dello stato passato e presente della popolazione lavoratrice di John Debell Tuckett, dalla Economia politica popolare di Thomas Hodgskin, da Sull’economia politica di Thomas Chalmers, da Un saggio sulla distribuzione della ricchezza di Richard Jones e dai Principi di economia politica di Henry Charles Carey.

Nonostante l’estensione delle sue ricerche e il crescendo delle questioni teoriche da risolvere, Marx restò ottimista sul completamento del suo scritto e, alla fine di giugno, scrisse all’amico Weydemeyer:

sono quasi sempre al British Museum dalle nove del mattino alle sette di sera. Il materiale a cui sto lavorando è così maledettamente ramificato che, nonostante tutto l’impegno, non riuscirò a concludere prima di 6-8 settimane. A ciò si aggiungono continui disturbi pratici, inevitabili data la situazione miserabile in cui qui si vegeta. Nonostante tutto la cosa si avvicina alla conclusione.

Evidentemente, Marx pensava di potere redigere il suo scritto nel giro di due mesi, consultando il vasto materiale di estratti e appunti critici che aveva raccolto. Tuttavia, anche in questa fase, egli non solo non pervenne alla tanto desiderata conclusione, ma non riuscì neppure a iniziare il manoscritto da dare alle stampe. Stavolta, la causa principale della mancata realizzazione dell’opera fu la drammatica situazione economica personale. In assenza di un’entrata fissa e stremato della propria condizione, alla fine di luglio scrisse infatti a Engels:

è impossibile seguitare a vivere così. (…) Avrei finito da tempo con la biblioteca [il lavoro al British Museum]. Ma le interruzioni e i disturbi sono troppo grandi e a casa, dove tutto è sempre in stato d’assedio e fiumi di lacrime mi infastidiscono e mi rendono furente per notti intere, naturalmente non posso fare molto.

In queste circostanze, per migliorare la personale situazione economica, Marx decise di ritornare all’attività giornalistica e si mise alla ricerca di un quotidiano per il quale scrivere. Dall’agosto del 1851, divenne corrispondente europeo del «New-York Tribune [La tribuna di New York]», il giornale più diffuso degli Stati Uniti d’America, e durante questa collaborazione, protrattasi fino al febbraio del 1862, scrisse centinaia di articoli. In essi, Marx si occupò dei principali eventi politici e diplomatici del tempo, così come di tutte le questioni economiche e finanziarie che si susseguirono, diventando, nel giro di pochi anni, uno stimato giornalista.

Nonostante la ripresa dell’attività giornalistica, gli studi di economia proseguirono anche durante l’estate del 1851. In agosto Marx lesse il libro di Proudhon L’idea generale di rivoluzione nel XIX secolo e accarezzò il progetto, messo successivamente da parte, di scriverne una critica assieme a Engels . Inoltre, egli continuò a realizzare estratti e si dedicò, nel quaderno XI, ad alcuni testi incentrati sulla condizione della classe operaia, per proseguire poi, nei quaderni XII e XIII, con delle ricerche di chimica agraria. Guidato dall’importante relazione che questa disciplina aveva con gli studi sulla rendita fondiaria, realizzò, infatti, molti compendi da La chimica organica nelle sue applicazioni in agricoltura e fisiologia di Justus Liebig e dalle Lezioni su chimica agraria e geologia di James F. W. Johnston. Nel quaderno XIV, Marx rivolse il suo interesse anche al dibattito sulla teoria della popolazione di Thomas Robert Malthus, in particolare con la lettura del libro I principi della popolazione del suo oppositore Archibald Alison; allo studio dei modi di produzione pre-capitalistici, come risulta dagli estratti dai testi Economia dei romani di Adolphe J. C. A. D. de la Malle e dai testi Storia della conquista del Messico e Storia della conquista del Perù di William H. Prescott; e al colonialismo, soprattutto attraverso il testo Lezioni sulla colonizzazione e sulle colonie di Herman Merivale . Infine, tra i mesi di settembre e novembre estese il campo delle sue ricerche anche alla tecnologia, dedicando grande spazio, nel quaderno XV, al libro Storia della tecnologia di Johann H. M. Poppe e, nel quaderno XVI, a diverse altre questioni di economia politica . Come testimonia la lettera a Engels della metà di ottobre, durante questo periodo egli stava «lavorando all’Economia», approfondendo principalmente gli studi «sulla tecnologia e la sua storia, e sulla agronomia, per avere almeno una specie di idea di queste porcherie».

Intanto, alla fine del 1851, la casa editrice Löwenthal di Francoforte si dichiarò interessata alla pubblicazione del lavoro di Marx che, nel frattempo, si era esteso. Dalla corrispondenza con Engels e Lassalle, infatti, si deduce che Marx stesse allora lavorando a un progetto in tre volumi: il primo avrebbe dovuto essere dedicato all’esposizione della propria concezione; il secondo alla critica degli altri socialismi; il terzo alla storia dell’economia politica . L’editore, però, si mostrò inizialmente interessato alla sola pubblicazione del terzo libro, riservandosi di dare alle stampe anche gli altri, in un successivo momento, se il progetto avesse riscosso successo. Engels tentò di persuadere Marx ad accettare il mutamento di piano e concludere un accordo – «[bisogna] battere il ferro finché è caldo […] è anche assolutamente necessario che sia rotto l’incantesimo della tua lunga assenza dal mercato librario tedesco e della conseguente grande paura degli editori» –, ma l’interesse della casa editrice si volatilizzò e non se ne fece più nulla. Dopo due mesi, infatti, Marx si rivolse all’amico Weydemeyer, negli Stati Uniti, chiedendogli di verificare la possibilità di «trovare lì un editore per la [sua] Economia».

Se la ricerca di una casa editrice interessata alla pubblicazione dell’«Economia» si rivelò sempre più problematica, Marx non perse invece l’ottimismo rispetto all’imminenza della crisi economica e, alla fine del 1851, scrisse a Ferdinand Freiligrath, celebre poeta tedesco e amico di vecchia data: «la crisi scoppierà al più tardi il prossimo autunno. E dopo gli ultimi avvenimenti sono più che mai convinto che non ci sarà rivoluzione seria senza crisi commerciale».

Nel frattempo, Marx si dedicò ad altri lavori. Dal dicembre 1851 al marzo 1852 scrisse il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte che, a causa della censura vigente in Prussia nei confronti dei suoi scritti, dovette uscire a New York, sulla rivista «Die Revolution [La rivoluzione]» diretta da Weydemeyer ed ebbe una scarsissima diffusione. A tal riguardo, alla fine del 1852, Marx commentò col conoscente Gustav Zerfii: «oggi in Germania non v’è editore che osi stampare roba mia» . Inoltre, tra il maggio e il giugno del 1852 Marx realizzò insieme con Engels I grandi uomini dell’esilio, un testo polemico contro alcuni degli esponenti prussiani più in vista (Johann Gottfried Kinkel, Ruge, Karl Heinzen e Gustav von Struve) della rivoluzione del 1848-49 che operavano nell’ambiente dell’immigrazione politica tedesca a Londra. Anche in questo caso, però, la ricerca della casa editrice si rivelò un insuccesso e rese vane le sue fatiche: affinché potesse arrivare in Germania, il manoscritto fu dato all’esule ungherese János Bangya, in realtà un agente segreto della polizia, che, invece di portare il testo all’editore, lo consegnò alle forze dell’ordine prussiane. Lo scritto rimase, pertanto, inedito durante la vita dei suoi due autori.

Dall’aprile del 1852 all’agosto del 1853, Marx riprese anche la compilazione degli estratti e redasse il terzo e ultimo gruppo (XVII – XXIV) dei Quaderni di Londra . In essi si occupò soprattutto delle diverse fasi di sviluppo della società, dedicando gran parte dei suoi studi ad argomenti storici, legati principalmente al medioevo europeo e alla storia della letteratura, della cultura e dei costumi. Inoltre, egli prestò un interesse particolare all’India, poiché, nello stesso periodo, scrisse diversi articoli su tale argomento per il «New-York Tribune».

Come dimostra l’ampio spettro delle ricerche effettuate, il detto quandoque bonus dormitat Homerus non faceva certo al caso di Marx. Gli ostacoli alla realizzazione dei suoi progetti derivarono, piuttosto, ancora una volta dalla miseria, contro la quale dovette combattere anche in quegli anni. Nonostante il costante aiuto di Engels, che dal 1851 aveva cominciato a inviargli cinque sterline al mese, e gli introiti ricavati dalla collaborazione con il «New-York Tribune», che gli pagava due sterline per articolo, Marx visse in condizioni davvero disperate. Oltre ad aver dovuto affrontare la perdita di un’altra figlia, Franziska, scomparsa nell’aprile 1852, la sua vita divenne una vera e propria battaglia quotidiana. Nel settembre del 1852 scrisse infatti a Engels:

da otto a dieci giorni ho nutrito la famiglia con pane e patate, ed è anche dubbio che io riesca a scovarne oggi […] La cosa migliore e più desiderabile che potrebbe accadere sarebbe che la padrona di casa mi cacciasse di casa. Perlomeno in tal caso mi libererei di un debito di 22 sterline. […] Inoltre il fornaio, il lattaio, quello del tè, il verduraio e ancora un vecchio debito col macellaio. Come devo fare a farla finita con tutta questa merda del diavolo? Finalmente negli ultimi otto o dieci giorni ho preso in prestito qualche scellino […] era necessario per non crepare.

Tale condizione incise profondamente sul lavoro di Marx e sui suoi tempi: «spesso debbo perdere l’intera giornata per avere uno scellino. Ti assicuro che, quando considero i dolori di mia moglie e la mia personale impotenza, manderei tutto al diavolo» . A volte la situazione raggiunse livelli insostenibili, ad esempio nell’ottobre del 1852, quando egli scrisse a Engels: «ieri ho impegnato il vestito che mi feci a Liverpool per comprare della carta da scrivere».

Comunque, a tenere alto il morale di Marx rimanevano sempre le tempeste dei mercati ed egli ne scrisse, infatti, nelle lettere indirizzate a tutti gli amici più vicini. Con grande autoironia, nel febbraio del 1852 aveva dichiarato a Lassalle: «la crisi finanziaria infine ha raggiunto un culmine paragonabile solo alla crisi commerciale che adesso si fa sentire a New York e a Londra. Purtroppo io, a differenza di dei signori commercianti, non ho neppure la risorsa della bancarotta» . Ancora, in aprile aveva detto a Weydemeyer che, a causa di circostanze straordinarie quali le scoperte dei nuovi giacimenti d’oro in California e Australia e la penetrazione commerciale degli inglesi in India, «può darsi che la crisi si faccia attendere fino al 1853. Ma poi l’esplosione sarà terribile. Fino a quel momento non c’è da pensare a convulsioni rivoluzionarie» . A Engels, infine, nell’agosto del 1852, subito dopo i fallimenti seguiti alla speculazione negli Stati Uniti, aveva trionfalmente comunicato: «non è questa la crisi imminente? La rivoluzione potrebbe venire prima di quanto desideriamo».

Del resto, Marx non si limitò a esprimere queste valutazioni solo nel suo carteggio, ma ne scrisse anche sul «New-York Tribune». Nell’articolo del novembre 1852 Pauperismo e libero scambio, infatti, commentando il grande flusso degli investimenti industriali in corso, aveva affermato: «la crisi assumerà un carattere assai più pericoloso che nel 1847, quando ha avuto un carattere commerciale e finanziario più che non industriale», poiché «quanto più il capitale eccedente si concentra nella produzione industriale, […] tanto più massiccia sarà la crisi e tanto più a lungo ricadrà sulla masse lavoratrici» . Insomma, forse bisognava attendere ancora un po’, ma egli era convinto, spesso guidato più dall’impazienza di vedere una nuova stagione di rivolgimenti sociali che da un’analisi rigorosa degli accadimenti economici, che, prima o poi, l’ora della riscossa sarebbe giunta.

6. Il processo contro i comunisti e gli stenti personali
Intanto, nell’ottobre del 1852, il governo prussiano avviò un processo nei confronti di alcuni membri della Lega dei comunisti messi agli arresti l’anno precedente. Gli imputati furono accusati di fare parte di un’organizzazione internazionale di cospiratori guidata da Marx contro la monarchia prussiana. Per dimostrare l’infondatezza delle accuse, dall’ottobre al dicembre del 1852, egli si mise a «lavorare per il partito contro le macchinazioni del governo» e scrisse le Rivelazioni sul processo contro i comunisti a Colonia. Pubblicato anonimo in Svizzera nel gennaio del 1853, l’opuscolo non sortì, però, l’effetto desiderato, poiché gran parte delle copie stampate furono sequestrate dalla polizia prussiana e la sua diffusione, in misura esigua, fu possibile solo negli Stati Uniti, dove comparve prima a puntate sulla «Neue-England-Zeitung [Il quotidiano del New England]» di Boston e poi come singolo opuscolo. A questo ennesimo fallimento editoriale Marx reagì con comprensibile scoraggiamento: «in queste condizioni non si deve perdere la voglia di scrivere? Lavorare sempre per il re di Prussia!».

In realtà, diversamente dalla ricostruzione orchestrata dai pubblici ministeri prussiani, in quel periodo Marx era molto isolato politicamente. Con lo scioglimento della Lega dei comunisti, ufficializzato alla fine del 1852, ma di fatto già avvenuto nel 1851, i suoi contatti politici si erano molto ridotti. Quello che le polizie internazionali e gli avversari politici definivano il «partito Marx» non era composto che da pochi militanti. In Inghilterra, oltre a Engels, potevano essere considerati «marxiani» soltanto Pieper, Wilhelm Wolff, Wilhelm Liebknecht, Peter Imandt, Ferdinand Wolff ed Ernst Dronke. Al di fuori della Gran Bretagna, ove si erano rifugiati la maggior parte degli esuli politici, Marx aveva rapporti stretti solo con Weydemeyer e Cluss negli Stati Uniti, Richard Reinhardt a Parigi e Lassalle in Prussia e sapeva bene che, se quelle relazioni consentivano di tenere comunque in piedi una rete in tempi assai difficili, «tutto ciò non era, però, un partito» . Inoltre, anche questa ristretta cerchia di militanti non solo faceva fatica a comprendere alcune posizioni politiche e teoriche di Marx, ma gli procurava, spesso, più svantaggi che benefici. In queste occasioni a Marx non restava altro se non lo sfogo con Engels: «fra le tante cose sgradevoli che io sopporto qui da anni, le peggiori mi sono state regolarmente procurate da cosiddetti compagni di partito. […] Ho intenzione di dichiarare pubblicamente alla prima occasione che io non ho niente a che fare con nessun partito» . Infine, diversamente dagli altri leader dell’immigrazione politica, Marx si era sempre rifiutato di aderire ai comitati internazionali esistenti, nei quali si trascorreva il tempo a fantasticare sul prossimo avvento della rivoluzione, e, tra i membri delle altre organizzazioni, aveva mantenuto rapporti soltanto con Ernest Charles Jones, il rappresentante più significativo della sinistra del movimento cartista.

Il reclutamento di nuovi militanti, e specialmente il coinvolgimento dei lavoratori alle sue concezioni, era, dunque, una questione tanto importante quanto complicata e l’opera che Marx aveva in cantiere sarebbe dovuta servire anche per questo fine. Era una necessità sia teorica che politica. Nel marzo del 1853, Engels gli scrisse infatti:

tu dovresti finire la tua Economia, poi, appena avremo un giornale, potremmo stamparla in numeri settimanali e quello che il popolo non capisce lo esporranno bene o male, ma ciò nonostante non senza effetto, i discepoli. Con ciò sarebbe data una base di discussione per tutte le nostre associazioni che si ricostruiranno poi.

Tuttavia, nonostante avesse preannunciato a Engels «in aprile verrò un po’ da te per parlare […] sugli attuali avvenimenti che secondo la mia opinione dovranno portarci presto a un terremoto» , in questo frangente non riuscì a dedicarsi al suo scritto a causa della miseria che lo attanagliava. Nel 1853, il quartiere di Soho fu l’epicentro della nuova epidemia di colera che colpì Londra e la condizione della famiglia Marx si fece sempre più disperata. In quell’estate, Marx comunicò a Engels: «vari creditori […] assaltano la casa» e, per questo motivo, «tre quarti della giornata passano alla caccia di un penny» . Per sopravvivere, egli e sua moglie Jenny furono costretti a recarsi spesso al monte di pietà, per impegnare i pochi vestiti o oggetti di valore rimasti in una casa dove mancavano «persino i mezzi per le cose più necessarie» . In queste circostanze, i guadagni derivanti dagli articoli giornalistici divennero sempre più indispensabili, seppure dedicarvisi sottraeva tempo prezioso a Marx, che, alla fine di quell’anno, si rammaricò con l’amico Cluss della situazione:

avevo sempre sperato di riuscire a ritirarmi in solitudine per un paio di mesi e poter lavorare a fondo alla mia Economia. Sembra che non ci riuscirò. Il continuo scrivere per i giornali mi infastidisce. Mi prende troppo tempo, mi fa disperdere le forze e, in fin dei conti, è un bel nulla. Indipendenti quanto si vuole, si è sempre legati al giornali e al pubblico, specialmente quando si riceve pagamento in contanti come me. Lavori puramente scientifici sono qualcosa di totalmente diverso. Anche quando dovette fare fronte a ogni costo alle necessità, il suo pensiero restò, dunque, fortemente ancorato alla «Economia».

7. Gli articoli sulla crisi per il «New-York Tribune»
Anche in quella fase, la crisi economica continuò a essere uno dei temi costanti degli interventi di Marx sul «New-York Tribune». Nell’articolo Rivoluzione in Cina e in Europa, del giugno 1853, mettendo in relazione la ribellione antifeudale cinese, cominciata nel 1851, con la situazione economica generale, Marx espresse, ancora una volta, la sua convinzione che presto sarebbe arrivato «il momento in cui l’espansione dei mercati non [avrebbe] pot[uto] tenere il passo con l’espansione delle manifatture inglesi e questa sfasatura [avrebbe] provoca[to] inevitabilmente una nuova crisi, come è già accaduto in passato» . A suo giudizio, infatti, in seguito alla ribellione antifeudale, nel grande mercato cinese si sarebbe verificata un’improvvisa contrazione che avrebbe fatto «scoccare la scintilla nella polveriera satura dell’attuale sistema industriale, provocando l’esplosione della crisi generale lungamente preparata, che si propagherà all’estero e sarà seguita a breve distanza da rivoluzioni politiche sul continente». Marx non guardava certo al processo rivoluzionario in modo deterministico, ma era ormai certo che la crisi fosse una condizione imprescindibile per il suo compimento:

dall’inizio del XVIII secolo, non c’è stata rivoluzione seria in Europa che non sia stata preceduta da una crisi commerciale e finanziaria. Ciò vale per la rivoluzione del 1789 non meno che per quella del 1848. […] Né guerre né rivoluzioni potranno sconvolgere l’Europa, se non come conseguenza di una crisi generale commerciale e industriale, il cui segnale, come al solito, dovrebbe essere dato dall’Inghilterra, che rappresenta l’industria europea sul mercato mondiale.

Tale convinzione fu ribadita, alla fine di settembre, nell’articolo Attività politica – In Europa scarseggia il pane:

né le declamazioni dei demagoghi, né le frottole dei diplomatici spingeranno gli eventi a una crisi, ma i disastri economici e i sommovimenti sociali che si stanno avvicinando sono sicuri segni premonitori della rivoluzione europea. A partire dal 1849 la prosperità industriale e commerciale ha rappresentato il divano su cui la controrivoluzione ha dormito indisturbata.

Tracce dell’ottimismo con cui Marx attendeva i futuri eventi si ritrovano anche nel carteggio con Engels, al quale, sempre in settembre, scrisse: «le cose marciano meravigliosamente. In Francia ci sarà un crac terribile quando tutto l’edificio di frodi finanziarie crollerà» . Tuttavia, neppure in quella circostanza la crisi scoppiò ed egli, per non rinunciare all’unica fonte di guadagno, concentrò le sue energie su altri lavori giornalistici.

Tra l’ottobre e il dicembre del 1853 scrisse, infatti, una serie di articoli intitolati Lord Palmerston, nei quali criticò la politica estera di Henry John Temple, per lungo tempo ministro degli esteri e futuro primo ministro inglese. Apparsi sul «New-York Tribune» negli Stati Uniti e sul periodico cartista «The People’s Paper [Il foglio del popolo]» in Inghilterra, essi furono pubblicati anche in forma di opuscolo ed ebbero una grande diffusione e risonanza. Inoltre, tra l’agosto e il novembre del 1854 Marx realizzò una serie di articoli su La rivoluzione in Spagna, nei quali, in seguito alla sollevazione civile e militare avvenuta in giugno, riassunse e commentò i principali avvenimenti della storia spagnola degli ultimi decenni. Egli si dedicò con grande serietà anche a questi lavori, per la cui preparazione redasse, tra il settembre del 1853 e il gennaio del 1855, nove voluminosi quaderni di estratti, dei quali i primi quattro, incentrati sulla storia diplomatica, furono alla base di Lord Palmerston, mentre gli altri cinque, dedicati alla storia politica, sociale e culturale spagnola, inclusero le ricerche condotte per la realizzazione della Rivoluzione in Spagna.

Finalmente, tra la fine del 1854 e l’inizio del 1855 Marx riprese gli studi di economia politica. Tuttavia, avendo sospeso le ricerche per tre anni, prima di proseguire il lavoro decise di rileggere i suoi vecchi manoscritti. Alla metà di febbraio del 1855, scrisse, infatti, a Engels:

per quattro o cinque giorni sono stato impossibilitato a scrivere per una forte infiammazione agli occhi. […] Mi sono preso questo male agli occhi rileggendomi tutti i miei appunti di economia politica, se non per dare l’ultima mano a tutta la faccenda, in ogni caso per essere padrone del materiale e averlo pronto per la stesura definitiva.

A questa rilettura seguirono venti pagine di nuove annotazioni, cui Marx diede il titolo di Citazioni. Essenza del denaro, essenza del credito, crisi. Si trattava di estratti dagli estratti già realizzati nel corso degli anni passati, nei quali, ritornando su testi già studiati (ad esempio quelli di Tooke, John Stuart Mill e Steuart) e su alcuni articoli dall’«Economist [L’Economista]», egli riepilogò ulteriormente le teorie dei principali economisti politici su denaro, credito e crisi, che aveva cominciato a studiare a partire dal 1850.

In questo stesso periodo, Marx ritornò a occuparsi anche della recessione economica per il «New-York Tribune». Nel gennaio del 1855, nell’articolo La crisi commerciale in Gran Bretagna, scrisse con tono soddisfatto: «la crisi commerciale inglese, dei cui sintomi premonitori è stata fatta la cronaca molto tempo fa nei nostri articoli, è ora un fatto fortemente proclamato dalle più alte autorità in questo campo» . E due mesi più tardi affermò nell’articolo La crisi in Inghilterra:

tra qualche mese la crisi sarà a un punto che non raggiungeva in Inghilterra dal 1846, forse dal 1842. Quando i suoi effetti cominceranno a farsi sentire appieno tra le classi lavoratrici, si risveglierà quel movimento politico che per sei anni ha sonnecchiato. […] Allora i due veri partiti antagonisti del paese si ritroveranno faccia a faccia: la classe media e le classi lavoratrici, la borghesia e il proletariato.

Eppure, proprio quando pareva essere nuovamente sul punto di riprendere la stesura della «Economia», ancora una volta le difficoltà personali alterarono i suoi piani. Nell’aprile del 1855 Marx dovette affrontare la morte del figlio Edgar di otto anni. Egli fu profondamente sconvolto da questa perdita e confidò a Engels:

ho già sofferto ogni sorta di guai, ma solo ora so che cosa è che cosa sia una vera sventura. […] Tra tutte le pene terribili che ho passato in questi giorni, il pensiero di te e della tua amicizia, e la speranza che noi abbiamo ancora da fare insieme al mondo qualche cosa di ragionevole, mi hanno tenuto su.

Anche durante tutto il 1855 la salute e le condizioni economiche di Marx e della sua famiglia, aumentata con la nascita di Eleanor in gennaio, rimasero disastrose. Di problemi alla vista, ai denti e di una terribile tosse si lamentò spesso con Engels, poiché «l’intorpidimento fisico [gli] istupidi[va] anche il cervello” . A complicare la situazione si aggiunse anche un processo giudiziario, intentatogli dal medico di famiglia, il dottor Freund, per il mancato pagamento delle sue prestazioni. Per sottrarsi ad esso, Marx fu costretto a soggiornare presso Engels a Manchester dalla metà di settembre agli inizi di dicembre e, al suo ritorno a Londra, a rimanere nascosto in casa per un paio di settimane. La situazione si risolse solo grazie a “un evento molto felice» : un’eredità di 100 sterline ricevuta in seguito alla morte di uno zio novantenne della moglie Jenny.

Dunque, Marx poté tornare a occuparsi di economia politica soltanto nel giugno del 1856, con alcuni articoli, apparsi su «The People’s Paper», dedicati al Crédit Mobilier, la prima banca d’affari francese, da lui considerata come «uno dei fenomeni economici più singolari della [sua] epoca» . Inoltre, essendo migliorate, almeno per un breve periodo, le condizioni economiche familiari, dopo aver lasciato l’alloggio di Soho per un appartamento migliore nella periferia nord di Londra, dall’autunno del 1856, Marx scrisse ancora sulla crisi per il «New-York Tribune». Nell’articolo La crisi monetaria in Europa, pubblicato nell’ottobre del 1856, egli affermò che era in atto «un movimento nel mercato monetario europeo analogo al panico del 1847» , mentre nell’articolo La crisi europea, apparso in novembre, diversamente da tutti quegli opinionisti che assicuravano il superamento del momento peggiore della crisi, Marx affermò:

le indicazioni che giungono dall’Europa […] sembrano posticipare a un giorno futuro il collasso finale della speculazione e delle intermediazioni di borsa, nel quale gli uomini delle due sponde dell’oceano anticiperanno istintivamente con uno sguardo impaurito l’inevitabile destino. Tuttavia, questo collasso è assicurato da questo rinvio. Il carattere cronico assunto dall’attuale crisi finanziaria presagisce per essa solo una fine più distruttiva e violenta. Più la crisi si protrae, peggiore sarà la resa dei conti finale. Gli eventi, poi, gli offrirono anche l’occasione per attaccare i suoi avversari politici e nel già citato La crisi monetaria in Europa scrisse:

se confrontiamo gli effetti di questo breve panico monetario e l’effetto dei proclami mazziniani e di quelli simili, l’intera storia delle delusioni dei rivoluzionari ufficiali dal 1849 è spogliata tutta in una volta dei suoi misteri. Essi non sanno nulla della vita economica della gente, essi non sanno nulla delle reali condizioni del movimento storico e quando la nuova rivoluzione esploderà, essi avranno un diritto migliore di quello di Pilato di lavare le loro mani e dichiarare che sono innocenti del sangue versato.

Nella prima metà del 1857 sui mercati internazionali regnò tuttavia la calma assoluta e, fino al mese di marzo, Marx si dedicò alla stesura delle Rivelazioni della storia diplomatica segreta del XVIII secolo, un gruppo di articoli pubblicati sul giornale «The Free Press [La stampa libera]», diretto dal politico conservatore anti-Palmerston David Urquhart. Questi testi avrebbero dovuto essere solo la prima parte di un’opera sulla storia della diplomazia, pianificata all’inizio del 1856, durante la guerra di Crimea, ma poi mai più realizzata. Anche in questo caso egli condusse approfonditi studi sugli argomenti trattati e, tra il gennaio del 1856 e il marzo del 1857, compilò sette quaderni di estratti sulla politica internazionale del Settecento.

Infine, in luglio, Marx redasse delle brevi ma interessanti considerazioni critiche sull’opera Armonie economiche di Frédéric Bastiat e sui Principi di economia politica di Carey, che aveva già studiato e compendiato nel 1851. In queste annotazioni, pubblicate postume con il titolo di Bastiat e Carey, egli dimostrò l’ingenuità dei due economisti, liberoscambista il primo e protezionista il secondo, che, nei loro scritti, si erano affannati a voler dimostrare «l’armonia dei rapporti di produzione» e, quindi, dell’intera società borghese.

8. La crisi finanziaria del 1857 e i Grundrisse
Diversamente dalle crisi verificatesi nel passato, questa volta la tempesta economica non ebbe inizio in Europa, ma negli Stati Uniti. Durante i primi mesi del 1857 le banche di New York aumentarono il volume dei prestiti, nonostante la diminuzione dei depositi. L’incremento delle attività speculative, seguito a questa scelta, peggiorò ulteriormente le condizioni economiche generali e, dopo la chiusura per bancarotta della filiale di New York della banca Ohio Life Insurance and Trust Company, il panico prese il sopravvento causando numerosi fallimenti. La caduta di fiducia nel sistema bancario produsse, così, la riduzione del credito, l’estinzione dei depositi e, da ultimo, la sospensione dei pagamenti in moneta.

Intuendo la straordinarietà di questi avvenimenti, Marx si rimise subito al lavoro e il 23 agosto del 1857, esattamente il giorno prima del crack della Ohio Life Insurance and Trust Company, ovvero dell’evento che generò il panico nell’opinione pubblica, cominciò a scrivere l’Introduzione per la sua «Economia». Proprio l’esplosione della crisi, infatti, gli fornì quella motivazione in più che gli era mancata negli anni precedenti per realizzare il suo lavoro. Dopo la sconfitta del 1848, per un intero decennio Marx aveva dovuto affrontare insuccessi politici e un forte isolamento personale. Viceversa, con la crisi egli presagì la possibilità di prendere parte a una nuova stagione di rivolgimenti sociali e ritenne, dunque, che la cosa più urgente da fare fosse quella di dedicarsi all’analisi dei fenomeni economici, cioè di quei rapporti che avevano così tanta importanza ai fini dell’inizio di una rivoluzione. Ciò significava scrivere e pubblicare, il più in fretta possibile, l’opera programmata da così tanto tempo.

Da New York la crisi si diffuse rapidamente nel resto degli Stati Uniti e, in poche settimane, raggiunse anche tutti i centri del mercato mondiale in Europa, Sud America e Oriente, divenendo la prima crisi finanziaria internazionale della storia. Queste notizie generarono grande euforia in Marx e alimentarono in lui una straordinaria produttività intellettuale. Il periodo compreso tra l’estate del 1857 e la primavera del 1858 fu uno dei più prolifici della sua esistenza: in pochi mesi, riuscì a scrivere di economia politica più di quanto non avesse fatto negli anni precedenti. Nel dicembre del 1857 comunicò infatti a Engels: «lavoro come un pazzo le notti intere al riepilogo dei miei studi economici, per metterne in chiaro almeno le grandi linee [Grundrisse; da qui il titolo poi assegnato a questi manoscritti] prima del diluvio». Nella stessa lettera, egli colse anche l’occasione per sottolineare che le sue previsioni del passato, circa l’eventualità dell’esplosione di una crisi, non erano state poi tanto infondate, poiché: «l’“Economist” di sabato [aveva] dichiara[to] che negli ultimi mesi del 1853, per tutto il 1854, nell’autunno del 1855 e durante gli improvvisi cambiamenti del 1856, l’Europa [aveva] sempre trovato scampo per un pelo dal tracollo incombente».

Il lavoro realizzato da Marx fu notevole e ramificato. Dall’agosto del 1857 al maggio 1858 egli riempì gli otto quaderni conosciuti come Grundrisse . Nello stesso periodo, nelle corrispondenze per il «New-York Tribune», scrisse, tra i vari argomenti trattati, una dozzina di articoli riguardanti l’andamento della crisi in Europa e, spinto dal bisogno di migliorare le proprie condizioni economiche, accettò di stilare una serie di voci per The New American Cyclopædia [La nuova enciclopedia americana]. Infine, dall’ottobre del 1857 al febbraio del 1858 redasse anche tre quaderni di estratti, denominati I quaderni della crisi . Grazie ad essi, è possibile mutare l’immagine convenzionale di un Marx che studia la Scienza della logica di Hegel alla ricerca di ispirazione, durante la stesura dei manoscritti del 1857-58. A quel tempo, infatti, egli era molto più preoccupato degli eventi empirici legati a quella grande crisi a lungo prevista e auspicata. A differenza degli altri estratti sino ad allora realizzati, in questi taccuini Marx non eseguì i compendi dalle opere degli economisti, ma raccolse una grande quantità di notizie, desunte da svariati quotidiani, sui principali avvenimenti della crisi, sulle variazioni delle quotazioni in borsa, sui mutamenti intervenuti negli scambi commerciali e sui più grandi fallimenti verificatisi in Europa, negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Insomma, come dimostra la lettera del dicembre del 1857 indirizzata a Engels, la sua attività fu intensissima:

lavoro moltissimo quasi sempre fino alle quattro del mattino. Perché si tratta di un doppio lavoro: 1) elaborazione delle linee fondamentali dell’economia. (È assolutamente necessario andare al fondo della questione per il pubblico e per me, personalmente, liberarmi da questo incubo); 2) La crisi attuale. Su di essa, oltre agli articoli per la [New-York] Tribune, mi limito a prendere appunti, cosa che però richiede un tempo notevole. Penso che in primavera potremo scrivere insieme un pamphlet sulla faccenda, a mo’ di riapparizione davanti al pubblico tedesco, per dire che siamo di nuovo e ancora qui, sempre gli stessi.

Per quel che concerne i Grundrisse, dopo aver abbozzato durante l’ultima settimana di agosto, in un quaderno denominato M, un testo che sarebbe dovuto servire da Introduzione all’opera, alla metà di ottobre Marx proseguì il lavoro con altri sette quaderni (I –VII). Nel primo di essi e in parte del secondo egli scrisse il cosiddetto Capitolo sul denaro, nel quale si occupò di denaro e valore, mentre nei restanti redasse il cosiddetto Capitolo sul capitale, in cui riservò centinaia di pagine al processo di produzione e di circolazione del capitale e trattò alcune delle tematiche più rilevanti dell’intero manoscritto, quali l’elaborazione del concetto di plusvalore e le riflessioni sulle formazioni economiche che avevano preceduto il modo di produzione capitalistico. Questo straordinario impegno non gli consentì, comunque, di completare la sua opera e alla fine del febbraio del 1858 scrisse a Lassalle:

in effetti da alcuni mesi sto lavorando alla elaborazione finale. La cosa procede però molto lentamente, perché argomenti dei quali si è fatto l’oggetto principale dei propri studi da molti anni, mostrano continuamente aspetti nuovi e suscitano nuovi dubbi non appena si deve venire a una resa dei conti finale. […] Il lavoro di cui si tratta in primo luogo è la Critica delle categorie economiche ovvero, se preferisci, la descrizione critica del sistema dell’economia borghese. È contemporaneamente descrizione del sistema e, attraverso la descrizione, critica del medesimo. […] Dopo tutto, ho il vago presentimento che proprio ora, nel momento in cui dopo 15 anni di studio sono arrivato al punto di por mano alla cosa, movimenti tempestosi dall’esterno probabilmente sopravverranno a interrompermi.

In realtà, però, del tanto atteso movimento rivoluzionario, che sarebbe dovuto nascere in concomitanza con la crisi, non vi fu alcun segno e la ragione del mancato completamento dello scritto fu, invece, anche questa volta, la consapevolezza di Marx di essere ancora lontano dalla piena padronanza critica degli argomenti affrontati. I Grundrisse rimasero, pertanto, solo una bozza, dalla quale, dopo un’accurata rielaborazione del Capitolo sul denaro, avvenuta tra l’agosto e l’ottobre del 1858 nel manoscritto Per la critica dell’economia politica. Testo originale (Urtext), egli pubblicò, nel 1859, un piccolo libro, che non ebbe alcuna risonanza, intitolato Per la critica dell’economia politica. Da quella data, prima della pubblicazione del libro primo di Il capitale, nel 1867, trascorsero altri otto anni di studi febbrili e di enormi fatiche intellettuali.

10. Appendice: Tabella cronologica dei quaderni di estratti, dei manoscritti, degli articoli e delle opere di economia politica del periodo 1843 – 1858

Anno Titolo Informazioni
1843-45 [Quaderni di Parigi] 9 quaderni di estratti che costituiscono i primi studi di Marx di economia politica.
1844 [Manoscritti economico-filosofici del 1844] Manoscritto incompiuto realizzato parallelamente ai [Quaderni di Parigi].
1845 [A proposito del libro di F. List “Il sistema nazionale dell’economia politica] Manoscritto incompiuto di un articolo contro l’economista tedesco List.
1845 [Quaderni di Bruxelles] 6 quaderni di estratti riguardanti lo studio dei concetti basilari dell’economia politica.
1845 [Quaderni di Manchester] 9 quaderni contenenti estratti relativi ai problemi economici, alla storia economia e alla letteratura socialista anglosassone.
1846-47 Estratti da Rappresentazione storica del commercio di von Gülich 3 quaderni di estratti inerenti la storia economica.
1847 Miseria della filosofia Scritto polemico contro il Sistema delle contraddizioni economiche di Proudhon.
1849 Lavoro salariato e capitale 5 articoli pubblicati sulla Neue Rheinische Zeitung, Organ der Demokratie.
1850 Articoli per la Neue Rheinische Zeitung. Politisch-ökonomische Revue“ Alcuni articoli riguardanti la situazione economica.
1850-53 [Quaderni di Londra] 24 quaderni di estratti incentrati soprattutto su ulteriori studi di economia politica (in particolare: storia e teorie della crisi, denaro, rilettura di alcuni classici dell’economia politica, condizione della classe operaia e tecnologia).
1851 [Oro monetario. Il sistema monetario perfetto] 2 quaderni di estratti, redatti durante la stesura dei [Quaderni di Londra], comprendenti citazione delle più significative teorie del denaro e della circolazione.
1851-62 Articoli per il “New-York Tribune” Circa 70 articoli di economia politica sui 487 pubblicati su questo giornale.
1855 [Citazioni. Essenza del denaro, essenza del credito, crisi] 1 quaderno di estratti contenente un riepilogo delle teorie dei principali economisti su denaro, credito e crisi.
1857 [Introduzione] Manoscritto contenente le più estese considerazioni metodologiche redatte da Marx.
1857-58 [Quaderni della crisi] 3 quaderni contenenti notizie sulla crisi finanziaria del 1857.
1857-58 [Grundrisse] Manoscritto preparatorio dell’opuscolo Per la critica dell’economia politica (1859).

Riferimenti
1. Cfr. K. MARX, Le discussioni alla sesta dieta renana. Terzo articolo: Dibattiti sulla legge contro i furti di legna e Giustificazione di ††, corrispondente dalla Mosella, in Marx Engels, , vol. I, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 222-64 e pp. 344-75.
2. K. MARX, Per la critica dell’economia politica, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXX, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 298.
3. Duramente colpita dalla censura e dal dissidio tra Marx e Arnold Ruge, l’altro condirettore, questa pubblicazione apparve in un unico numero nel febbraio del 1844.
4. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 251.
5. Cfr. M. RUBEL, Introduction, in K. Marx, OEuvres. Economie II, Gallimard, Paris 1968, pp. LIV-LV.
6. Cfr. M. MUSTO, Manoscritti e quaderni di estratti del 1844, in Id., Ripensare Marx e i marxismi, Carocci, Roma 2011, pp. 45-67.
7. Il Nachlaß di Marx contiene circa duecento quaderni di riassunti, essenziali per la conoscenza e la comprensione della genesi della sua teoria e delle parti di essa che non ebbe modo di sviluppare quanto avrebbe voluto. Gli estratti conservati, che coprono il lungo arco di tempo dal 1838 fino al 1882, sono scritti in 8 lingue – tedesco, greco antico, latino, francese, inglese, italiano, spagnolo e russo – e ineriscono le più svariate discipline. Essi furono desunti da testi di filosofia, arte, religione, politica, diritto, letteratura, storia, economia politica, relazioni internazionali, tecnica, matematica, fisiologia, geologia, mineralogia, agronomia, etnologia, chimica e fisica; oltre che da articoli di quotidiani e riviste, resoconti parlamentari, statistiche, rapporti e pubblicazioni di uffici governativi.
8. Poiché nel 1844 Marx non conosceva ancora la lingua inglese, durante questo periodo i libri inglesi furono da lui letti in traduzione francese.
9. Questi estratti sono compresi nei volumi K. MARX, Exzerpte und Notizen. 1843 bis Januar 1845, MEGA2 IV/2, Dietz, Berlin 1981 e K. MARX, Exzerpte und Notizen. Sommer 1844 bis Anfang 1847, MEGA2 IV/3, Akademie, Berlin 1998; tr. it. parz. La scoperta dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1990.
10. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 298.
11. H. BURGERS, autunno 1844 – inverno 1845, in H.M. Enzensberger (a cura di), Gespräche mit Marx und Engels, Insel, Frankfurt am Main 1973, p. 46; tr. it. Id., Colloqui con Marx ed Engels, Einaudi, Torino 1977, p. 41.
12. Friedrich Engels a Karl Marx, inizio ottobre 1844, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 7-8.
13. In realtà Engels contribuì allo scritto soltanto con una decina di pagine.
14. Friedrich Engels a Karl Marx, 20 gennaio 1845, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 17.
15. Cfr. K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 666, nota 319.
16. K. MARX, Karl Marx alla Pubblica sicurezza di Bruxelles, 22 marzo 1845, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 664.
17. Cfr. K. MARX, A proposito del libro di Friedrich List «Das nationale System der politischen Ökonomie», in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. IV, op. cit., pp. 584-614.
18. Tutti questi estratti si trovano nel volume K. MARX, Exzerpte und Notizen. Sommer 1844 bis Anfang 1847, MEGA2 IV/3, op. cit.
19. K. MARX, Piano della «Biblioteca dei più eccellenti scrittori socialisti stranieri», K. Marx – F. Engels, Opere, vol. IV, op. cit., p. 659.
20. Questi estratti sono compresi nel volume K. MARX – F. ENGELS, Exzerpte und Notizen. Juli bis August 1845, MEGA2 IV/4, Dietz, Berlin 1988, che include i primi Quaderni di Manchester. Si noti, inoltre, che da questo periodo Marx cominciò a leggere direttamente in inglese.
21. Questi estratti, compresi nei Quaderni di Manchester VI – IX, sono ancora inediti.
22. K. MARX, Dichiarazione contro Karl Grün, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 73.
23. Karl Marx a Carl Wilhelm Leske, 1 agosto 1846, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 455.
24. F. ENGELS, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 13. In realtà Engels usò questa espressione già nel 1859, nella recensione al libro di Marx Per la critica dell’economia politica, ma questo articolo non ebbe alcuna risonanza e il termine cominciò a diffondersi solo in seguito alla pubblicazione dello scritto Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca.
25. Karl Marx a Carl Wilhelm Leske, 1 agosto 1846, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 455-56.
26. Georg Weerth an Wilhelm Weerth, 18 novembre 1846, in H.M. Enzensberger (a cura di), op. cit., p. 68-9; tr. it. 27. Colloqui con Marx ed Engels, Einaudi, Torino 1977, pp. 58-9.
28. Questi estratti costituiscono il volume K. MARX, Exzerpte und Notizen. September 1846 bis Dezember 1847, MEGA² IV/6, Dietz, Berlin 1983.
29. Karl Marx a Pawel Wassiljewitsch Annenkow, 28 dicembre 1846, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 458.
30. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 485-86.
31. K. MARX, Lavoro salariato e capitale, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. IX, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 206.
Karl Marx a Friedrich Engels, 23 agosto 1849, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 155.
32. K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. X, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 134.
33. K. MARX – F. ENGELS, Annuncio della «Neue Rheinische Zeitung. Politisch-ökonomische Revue», in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. X, op. cit., p. 5.
34. Karl Marx a Joseph Weydemeyer, 19 dicembre 1849, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, cit., pp. 525-26.
35. K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, op.cit., p. 135.
36. K. MARX – F. ENGELS, Rassegna (gennaio – febbraio 1850), ivi, pp. 263-4.
37. K. MARX – F. ENGELS, Rassegna (marzo – aprile 1850), ivi, p. 341.
38. Ivi, p. 342.
39. K. MARX – F. ENGELS, Rassegna (maggio-ottobre 1850), ivi, p. 509.
40. Ivi, p. 514-5.
41. K. MARX – F. ENGELS, Rezensionen aus Heft 4 der „Neuen Rheinischen Zeitung. Politisch-ökonomische Revue“, ivi, p. 319.
42. K. MARX – F. ENGELS, Rassegna (maggio-ottobre 1850), ivi, pp. 543-4.
43. In proposito si vedano le considerazioni postume di F. ENGELS in Introduzione a «Le lotte di classe in Francia», in K. Marx – F. Engels, Opere, Vol. X, op. cit., p. 642-3: «Mentre nei primi tre articoli (apparsi nei fascicoli di gennaio, febbraio e marzo della «Nuova Gazzetta Renana») traspare ancora l’attesa di una prossima ripresa di energia rivoluzionaria, la rassegna storica fatta da Marx e da me nell’ultimo fascicolo doppio, apparso nell’autunno del 1850 (maggio-ottobre), rompe una volta per sempre con questa illusione». Una testimonianza ancora più significativa è contenuta nei verbali della Seduta del Comitato centrale della Lega dei comunisti del 15 settembre 1850. In quella sede, infatti, riferendosi alle posizioni comunisti tedeschi August Willich e Karl Schapper, Marx affermò: «si è dato rilievo, come fatto fondamentale nella rivoluzione, invece che ai rapporti reali, alla volontà. Mentre noi diciamo agli operai: dovete superare 15, 20, 50 anni di guerre civili, per cambiare i rapporti, per rendere voi stessi capaci di assumere il potere, da parte loro si è detto: dobbiamo andare al potere immediatamente, o possiamo metterci a dormire», in K. Marx – F. Engels, Opere, Vol. X, op. cit., p. 627.
44. Cfr. F. ENGELS, Introduzione a «Le lotte di classe in Francia», cit., p. 645: «la democrazia volgare aspettava la nuova esplosione dall’oggi al domani; noi dichiaravamo già nell’autunno del 1850 che almeno il primo capitolo del periodo rivoluzionario era chiuso e che non vi era da aspettarsi nulla sino allo scoppio di una nuova crisi economica mondiale. Per questo fummo messi al bando come ‘traditori della rivoluzione’ da quegli stessi che, in seguito, fecero tutti, quasi senza eccezione, la pace con Bismarck».
45. Karl Marx a Friedrich Engels, 11 febbraio 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, cit., p. 204.
46. Karl Marx a Friedrich Engels [Poscritto di Wilhelm Pieper], 27 gennaio 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, cit., p. 187.
47. Karl Marx a Friedrich Engels, 11 febbraio 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, cit., p. 204.
48. Friedrich Engels a Karl Marx, 13 febbraio 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., pp. 209-10.
49. Cfr. W. TUCHSCHEERER, Prima del «Capitale», La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 272-3.
50. Eccetto i compendi da Smith, inclusi nel volume K. MARX, Exzerpte und Notizen. März bis Juni 1851, MEGA2 IV/8, Dietz, Berlin 1986, tutti questi estratti si trovano nel volume K. MARX – F. ENGELS, Exzerpte und Notizen. September 1849 bis Februar 1851, Dietz, Berlin 1983, MEGA2 IV/7. Le opere Ricchezza delle nazioni di Smith (quaderno VII) e Principi di economia politica di Ricardo (quaderni IV, VII e VIII), già lette da Marx in lingua francese durante il suo soggiorno parigino del 1844, furono studiate ora nell’edizione in lingua inglese.
51. In proposito si veda la lettera di Karl Marx a Friedrich Engels, 3 febbraio 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 191.
52. Cfr. K. MARX, Bullion. Das vollendete Geldsystem, MEGA2 IV/8, op. cit., pp. 3-85. Il secondo di questi quaderni non numerati contiene anche altri estratti, in particolare dall’opera Sulla regolazione della circolazione monetaria di John Fullarton.
53. Un’altra breve esposizione delle teorie di Marx su denaro, credito e crisi si trova all’interno del quaderno VII, nel breve frammento Karl Marx, Reflection, in MEGA2 IV/8, op. cit., pp. 227-34.
54. Karl Marx a Friedrich Engels, 2 aprile 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, cit., pp. 249-50.
55. Friedrich Engels a Karl Marx, 3 aprile 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, cit., p. 255.
56. Cfr. K. MARX, Exzerpte aus David Ricardo: On the principles of political economy, MEGA2 IV/8, pp. 326-31, 350-72, 381-95, 402-4, 409-26. A dimostrazione della rilevanza di queste pagine vi è il fatto che questi estratti, insieme a quelli dallo stesso autore contenuti nei quaderni IV e VII, furono pubblicati nel 1941, nel secondo volume della prima edizione dei Grundrisse.
57. In questa importante fase di nuove acquisizioni teoriche, per Marx il confronto con Engels era della massima importanza, così, in alcune lettere a lui indirizzate, riassunse le sue vedute critiche sulle teorie ricardiane della rendita fondiaria (cfr. Karl Marx a Friedrich Engels, 7 gennaio 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, cit., p. 174-77) e della circolazione monetaria (cfr. Karl Marx a Friedrich Engels, 3 febbraio 1851, ivi, p. 191-96).
58. Karl Marx a Joseph Weydemeyer, 27 giugno 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 572.
59. Karl Marx a Friedrich Engels, 31 luglio 1851, ivi, p. 318.
60. Al tempo, il «New-York Tribune» usciva in tre differenti edizioni («New-York Daily Tribune», «New-York Semi-Weekly Tribune» e «New-York Weekly Tribune») e in ognuna di esse apparvero molti articoli di Marx. Per la precisione, il «New-York Daily Tribune» ne pubblicò 487, oltre la metà di essi furono ristampati nel «New-York Semi-Weekly Tribune» e più di un quarto nel «New-York Weekly Tribune» (ad essi vanno aggiunti anche pochi articoli inviati al giornale, ma scartati dal direttore Charles Dana). Degli articoli pubblicati sul «New-York Daily Tribune», più di 200 apparvero come editoriale e, dunque, anonimi. Va infine ricordato che, per lasciare a Marx più tempo da dedicare agli studi di economia politica, in realtà quasi la metà di questi articoli furono scritti da Engels. Gli interventi inviati al «New-York Tribune» destarono sempre grande interesse, come mostra ad esempio la seguente affermazione contenuta nell’editoriale del 7 aprile del 1853, a cura della redazione del «New-York Tribune»: «il sig. Marx opinioni decisamente personali […], ma chi non legge le sue corrispondenze trascura una delle più istruttive fonti di informazione sulle grandi questioni dell’attuale politica europea», citato in Karl Marx a Friedrich Engels, 26 aprile 1853, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXIX, op. cit., p. 249.
61. Cfr. F. ENGELS, Critica del libro di Proudhon «Idée générale de la révolution au XIX siècle», in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XI, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 565-601.
62. Gli estratti da questi testi sono inclusi nel volume K. MARX, Exzerpte und Notizen. Juli bis September 1851, MEGA2 vol. IV/9, Dietz, Berlin 1991.
63. Questi quaderni non sono stati ancora pubblicati nella MEGA2, ma il quaderno XV è stato invece dato alle stampe nel volume H.P. MÜLLER (a cura di), Karl Marx, Die technologisch-historischen Exzerpte, Ullstein, Frankfurt/M – Berlin – Wien 1982.
64. Karl Marx a Friedrich Engels, 13 ottobre 1851, in K. Marx – F. Engels Opere, vol. XXXVIII, op. cit., p. 389.
65. Si vedano in particolare le lettere Ferdinand Lassalle a Karl Marx, 12 maggio 1851, di Karl Marx a Friedrich Engels, 24 novembre 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., pp. 403-5; Friedrich Engels a Karl Marx, 27 novembre, ivi, pp. 406-8.
66. Friedrich Engels a Karl Marx, 27 novembre 1851, Ivi, p. 407.
67. Karl Marx a Joseph Weydemeyer, 30 gennaio 1852, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXIX, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 514.
68. Karl Marx a Ferdinand Freiligrath, 27 dicembre 1851, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXVIII, op. cit., pp. 610.
69. Karl Marx a Gustav Zerffi, 28 dicembre 1852, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXIX, op. cit., p. 604.
70. Questi quaderni sono ancora inediti.
71. Karl Marx a Friedrich Engels, 8 settembre 1852, in ivi, pp. 135-36.
72. Karl Marx a Friedrich Engels, 25 ottobre 1852, ivi, p. 169.
73. Karl Marx a Friedrich Engels, 27 ottobre 1852, ivi, p. 175.
74. Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 23 febbraio 1852, ivi, p. 525.
75. Karl Marx a Joseph Weydemeyer, 30 aprile 1852, ivi, p. 550.
76. Karl Marx a Friedrich Engels, 19 agosto 1852, ivi, p. 119.
77. K. MARX, Pauperismo e libero scambio, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XI, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 373.
78. Karl Marx a Adolf Cluss, 7 dicembre 1852, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXIX, op. cit., p. 594.
79. Karl Marx a Friedrich Engels, 10 marzo 1853, in ivi, p. 235.
80. Questa espressione fu usata per la prima volta nel 1846 a proposito delle divergenze tra Marx e il comunista tedesco Wilhelm Weitling e fu impiegato successivamente anche nel dibattimento del processo di Colonia. Cfr. M. RUBEL, Marx critico del marxismo, Cappelli, Bologna 1981, p. 82, nota 2.
81. Questo termine comparve per la prima volta nel 1854, cfr. G. HAUPT, L’internazionale socialista dalla comune a Lenin, Einaudi, Torino 1978, p. 140, nota 4.
82. Karl Marx a Friedrich Engels, 10 marzo 1853, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XXXIX, op. cit., p. 237.
83. Karl Marx a Friedrich Engels, 8 ottobre 1853, Ivi, p. 316.
84. Friedrich Engels a Karl Marx, 10 marzo 1853, ivi, pp. 239-40.
85. Karl Marx a Friedrich Engels, 10 marzo 1853, ivi, p. 236.
86. Karl Marx a Friedrich Engels, 18 agosto 1853, ivi, p. 293.
87. Karl Marx a Friedrich Engels, 8 luglio 1853, ivi, p. 287.
88. Karl Marx a Adolf Cluss, 15 settembre 1853, ivi, p. 629.
89. K. MARX, Rivoluzione in Cina e in Europa, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XII, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 100.
90. Ivi, p. 102.
91. Ivi, pp. 103-4.
92. K. MARX, Attività politica – In Europa scarseggia il pane, in K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XII, op. cit., p. 323.
93. Karl Marx a Friedrich Engels, 28 settembre 1853, in K. Marx – F. Engels, Opere vol. XXXIX, p. 309.
94. Questi quaderni di estratti sono stati recentemente pubblicati nel volume K. MARX – F. ENGELS, Exzerpte und Notizen. September 1853 bis Januar 1855, Akademie, Berlin 2007.
95. Karl Marx a Friedrich Engels, 13 febbraio 1855, Ivi, p. 453.
96. Cfr. F.E. SCHRADER, Restauration und Revolution, Gerstenberg, Hildesheim 1980, p. 99.
97. K. MARX, The commercial crisis in Britain, MECW vol. 13, Progress, Moscow 1980, p. 585.
98. K. MARX, La crisi in Inghilterra, K. Marx – F. Engels, Opere, vol. XIV, op. cit., pp. 60-1.
99. Karl Marx a Friedrich Engels, 12 aprile 1855, in K. Marx – F. Engels, Opere vol. XXXIX, op. cit., p. 465.
100. Karl Marx a Friedrich Engels, 3 marzo 1855, in K. Marx – F. Engels, Opere vol. XXXIX, op. cit., p. 457.
101. Karl Marx a Friedrich Engels, 8 marzo 1855, in ivi, p. 458.
102. K. MARX, Il Crédit Mobilier I, in K. Marx, Il socialismo imperiale, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 6.
103. K. MARX, Die Geldkrise in Europa, in K. Marx – F. Engels, Werke, vol. 12, Dietz, Berlin 1961, p. 53.
104. K. MARX, Die Krise in Europa, in ivi p. 80.
105. K. MARX, Die Geldkrise in Europa, cit., p. 55.
106. Questi quaderni di estratti sono ancora inediti.
107. K. Marx, Grundrisse, La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. II, p. 648. Così come gli estratti da Ricardo, anche il frammento Bastiat e Carey fu inserito nel secondo volume della prima edizione dei Grundrisse.
108. Karl Marx a Friedrich Engels, 8 dicembre 1857, in K. Marx – F. Engels, Opere vol. XL, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 237.
109. Eccetto i quaderni M e VII, conservati presso l’archivio dell’«Istituto Internazionale di Storia Sociale» di Amsterdam, la restante parte di essi si trova presso l’«Archivio di Stato Russo per la Storia Sociale e Politica» di Mosca. Rispetto alla datazione di questi quaderni, è importante sottolineare che la prima parte del quaderno I, quella contenente l’analisi critica del libro Della riforma delle banche di Alfred Darimon, fu realizzata da Marx nei mesi di gennaio e febbraio del 1857 e non, come ritenuto dagli editori dei Grundrisse in ottobre. Cfr. I. OSSOBOWA, Über einige Probleme der ökonomischen Studien von Marx im Jahre 1857 vom Standpunkt des Historikers, in Beiträge zur Marx-Engels-Forschung, no. 29, 1990, pp. 147–61.
110. Questi quaderni sono ancora inediti.
111. Karl Marx a Friedrich Engels, 18 dicembre 1857, in K. Marx – F. Engels, Opere vol. XL, op. cit., p. 245. Qualche giorno dopo questa lettera, Marx comunicò i suoi piani anche a Lassalle: «l’attuale crisi commerciale mi ha spronato a dedicarmi seriamente all’elaborazione dei miei lineamenti fondamentali di economia e anche a preparare qualcosa sulla crisi attuale», in Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 21 dicembre 1857, in K. Marx – F. Engels, Opere vol. XL, op. cit., p. 575.
112. Karl Marx a Ferdinand Lassalle, 22 febbraio 1858, in K. Marx – F. Engels, Opere vol. XL, op. cit., p. 577-78.

Bibliografia
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SCHRADER, F.E., Restauration und Revolution, Gerstenberg, Hildesheim 1980.
TUCHSCHEERER, W., Prima del «Capitale», La Nuova Italia, Firenze 1980.

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Diffusione e recezione dei Grundrisse nel mondo

I. 1858-1953: Cent’anni di solitudine
Tralasciati nel maggio del 1858 per fare posto alla stesura di Per la critica dell’economia politica, dopo essere stati adoperati per la redazione di questo testo, i Grundrisse non furono quasi più riutilizzati da Marx. Nonostante fosse sua consuetudine richiamarsi agli studi precedentemente svolti, trascrivendone talvolta interi passaggi, ad eccezione di quelli del 1861-3, nessun manoscritto preparatorio de Il capitale contiene, infatti, alcun riferimento a essi. I Grundrisse giacquero tra le tante bozze provvisorie di Marx che, dopo averli redatti, sempre più assorbito dalla soluzione di questioni più specifiche di quelle che essi racchiudevano, non ebbe dunque più modo di servirsene.

Sebbene non vi sia alcuna certezza in proposito, è probabile che i Grundrisse non siano stati letti dallo stesso Friedrich Engels. Com’è noto, alla morte, Marx era riuscito a completare soltanto il libro primo de Il capitale, e i manoscritti incompiuti dei libri secondo e terzo furono ricostruiti, selezionati e dati alle stampe da Engels. Nel corso della sua attività editoriale, quest’ultimo dovette prendere in esame decine di quaderni contenenti abbozzi de Il capitale ed è plausibile ipotizzare che quando, in fase di sistemazione della montagna di carte ereditate, sfogliò i Grundrisse, dovette ritenerli una versione troppo prematura dell’opera dell’amico – precedente persino alla pubblicazione di Per la critica dell’economia politica del 1859 – e, a ragione, inutilizzabile per il suo proposito. D’altronde, Engels non menzionò mai i Grundrisse, né nelle prefazioni ai due volumi de Il capitale che diede alle stampe, né in alcuna lettera del suo vasto carteggio.

Dopo la sua morte, gran parte degli originali di Marx venne custodita nell’archivio del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) di Berlino, ma fu trattata con la massima negligenza. I conflitti politici in seno alla Socialdemocrazia impedirono la pubblicazione dei rilevanti e voluminosi inediti di Marx e produssero anche la dispersione dei suoi manoscritti, così da compromettere, per lungo tempo, la possibilità di un’edizione completa delle sue opere. Nessuno, inoltre, si occupò di stilare un elenco del lascito intellettuale di Marx e i Grundrisse restarono sepolti assieme alle altre sue carte.

L’unico brano dato alle stampe durante quel periodo fu l’Introduzione. Essa fu pubblicata nel 1903, sulla rivista Die Neue Zeit, da Karl Kautsky, il quale nella breve nota che accompagnò il testo, la presentò come un “abbozzo frammentario” datato 23 agosto 1857. Kautsky sostenne che si trattava dell’introduzione dell’opera principale di Marx e, per questo motivo, le diede il titolo di Einleitung zu einer Kritik der politischen Ökonomie (Introduzione a una critica dell’economia politica). Aggiunse inoltre che: “nonostante il suo carattere frammentario, anche il presente lavoro offre una grande quantità di nuovi punti di vista” [1]. Intorno a essa, infatti, si manifestò un notevole interesse. Tradotta, inizialmente, in francese (1903) e inglese (1904), prese a circolare rapidamente dopo che Kautsky l’ebbe pubblicata, nel 1907, in appendice a Per la critica dell’economia politica e apparve anche in russo (1922), giapponese (1926), greco (1927), cinese (1930), fino a divenire poi uno degli scritti più commentati dell’intera produzione teorica di Marx.

Nonostante la fortuna dell’Introduzione, i Grundrisse rimasero ancora a lungo sconosciuti. È difficile credere che, insieme con l’Introduzione, Kautsky non abbia ritrovato anche l’intero manoscritto. Egli, comunque, non vi fece mai riferimento e, quando poco dopo decise di pubblicare alcuni inediti di Marx, si concentrò solo su quelli del 1861-3, che diede alle stampe parzialmente, dal 1905 al 1910, con il titolo di Teorie sul plusvalore.

La scoperta dei Grundrisse avvenne, invece, nel 1923 grazie a David Rjazanov, direttore dell’Istituto Marx-Engels (IME) di Mosca e promotore della Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA), l’edizione delle opere complete di Marx ed Engels. Dopo aver esaminato il Nachlaß di Berlino, egli rese pubblica l’esistenza dei Grundrisse in una comunicazione sul lascito letterario di Marx ed Engels, tenuta all’Accademia Socialista di Mosca nel 1923:

“ho ritrovato tra le carte di Marx altri otto quaderni di studi di economia. (…) Il manoscritto è databile alla metà degli anni Cinquanta e contiene la prima stesura dell’opera di Marx [Il capitale], della quale, al tempo, egli non aveva ancora stabilito il titolo, e che rappresenta [anche] la prima elaborazione del suo scritto Per la critica dell’economia politica” [2] .

In quella stessa sede affermò inoltre: “in uno di questi quaderni (…) Kautsky ha trovato l’Introduzione a Per la critica dell’economia politica” e riconobbe al complesso dei manoscritti preparatori de Il capitale “straordinario interesse per conoscere la storia dello sviluppo intellettuale di Marx, così come la peculiarità del suo metodo di lavoro e di ricerca” [3] .

Grazie all’accordo di collaborazione per la pubblicazione della MEGA, stipulato tra l’IME, l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte e lo SPD, detentore del Nachlaß di Marx ed Engels, i Grundrisse furono fotografati assieme a molti altri inediti e gli specialisti di Mosca cominciarono a studiarli su esemplari in copia. Tra il 1925 e il 1927, Pavel Veller, collaboratore dell’IME, catalogò tutti i manoscritti preparatori de Il capitale, il primo dei quali erano proprio i Grundrisse. Sino al 1931, essi furono completamente decifrati e dattilografati e nel 1933 ne fu dato alle stampe, in lingua russa, il Capitolo sul denaro, cui fece seguito, due anni dopo, l’edizione tedesca. Nel 1936, infine, l’Istituto Marx-Engels-Lenin (IMEL), subentrato all’IME, riuscì ad acquistare sei degli otto quaderni dei Grundrisse, circostanza che rese possibile la soluzione dei problemi editoriali ancora irrisolti.

Poco dopo, dunque, i Grundrisse poterono essere finalmente pubblicati: furono l’ultimo importante manoscritto di Marx, per giunta molto esteso e risalente a una delle fasi più feconde della sua elaborazione, reso noto al pubblico. Essi apparvero a Mosca nel 1939, a cura di Veller, che ne scelse il titolo: Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf) 1857–1858. Due anni dopo, seguì la stampa di un’appendice (Anhang), che comprese gli appunti di Marx del 1850-1 dai Principi di economia politica e dell’imposta di David Ricardo, le note su Bastiat e Carey , gli indici sul contenuto dei Grundrisse da lui stesso redatti e, infine, il materiale preparatorio (Urtext) a Per la critica dell’economia politica del 1859. La prefazione al libro del 1939, siglata dall’IMEL, evidenziò decisamente il valore del testo: “il manoscritto del 1857-1858, pubblicato per la prima volta e integralmente in questo volume, costituisce una tappa decisiva dell’opera economica di Marx” [4] .

Tuttavia, seppure principi editoriali e formato fossero analoghi, i Grundrisse non furono inclusi tra i volumi della MEGA, ma uscirono, invece, in edizione singola. Inoltre, la loro pubblicazione a ridosso della Seconda Guerra Mondiale fece sì che l’opera restasse praticamente sconosciuta. Le 3.000 copie realizzate divennero presto molto rare e solo pochissime di esse riuscirono a oltrepassare i confini sovietici. Successivamente, i Grundrisse non furono inseriti nella Sočinenija (Opere Complete) (1928-47), la prima edizione russa degli scritti di Marx ed Engels e per la loro ristampa in tedesco si dovette attendere sino al 1953. Se desta grande stupore che un testo come i Grundrisse, sicuramente eretico rispetto agli allora indiscutibili cànoni del Diamat (Dialekticeskij Materializm – Materialismo Dialettico), sia stato pubblicato durante l’era staliniana, bisogna altresì considerare che essi costituivano lo scritto più rilevante di Marx non ancora diffuso in Germania. Così, in occasione della celebrazione del Karl-Marx-Jahr (Anno di Karl Marx), che coincideva con il settantesimo anniversario della sua morte e il centotrentacinquesimo della nascita, i Grundrisse furono dati alle stampe a Berlino in 30.000 copie. Redatti nel 1857-8, essi cominciarono a essere letti e scoperti in tutto il mondo soltanto nel 1953. Dopo cent’anni di solitudine.

II. La diffusione dei Grundrisse: 500.000 copie in giro per il modo
Nonostante la risonanza suscitata dalla pubblicazione di un nuovo e consistente manoscritto preparatorio de Il capitale e il valore teorico che a essi fu attribuito, i Grundrisse furono tradotti lentamente. Come già accaduto con l’Introduzione, fu un altro estratto dei Grundrisse a generare interesse prima dell’intero manoscritto: le Forme che precedono la produzione capitalistica. Esse furono infatti tradotte nel 1939 in russo e, nel 1947-8, dal russo in giapponese. Successivamente, l’edizione singola tedesca e la traduzione inglese ne favorirono un’ampia diffusione. Dalla prima, stampata nel 1952 nella serie Kleine Bücherei des Marxismus-Leninismus (Piccola biblioteca del marxismo-leninismo) furono eseguite la traduzione ungherese (1953) e italiana (1954). La seconda, pubblicata nel 1964, ne permise la circolazione nel mondo anglosassone e, tradotta in Argentina (1966) e Spagna (1967), in quello di lingua spagnola. La prefazione del curatore di questa edizione, Eric Hobsbawm, contribuì a evidenziare l’importanza del loro contenuto: le Forme che precedono la produzione capitalistica costituiscono “il tentativo più sistematico di affrontare la questione dell’evoluzione storica” mai realizzato da Marx e “si può affermare, senza esitazione, che qualsiasi discussione storica marxista che non tenga conto di quest’opera (…) deve essere riesaminata alla luce di essa” [5] . Infatti, sempre più studiosi internazionali si occuparono di questo testo, che seguì a essere pubblicato in tanti altri paesi e a stimolare ovunque significative discussioni storiografiche.

Le traduzioni dei Grundrisse nel loro insieme cominciarono alla fine degli anni Cinquanta. La diffusione dello scritto di Marx fu un processo lento ma inesorabile e, quando ultimato, rese possibile una più completa e, per alcuni aspetti, differente percezione dell’intera sua opera. I maggiori interpreti dei Grundrisse vi si cimentarono in lingua originale, ma la loro lettura estesa, quella compiuta dagli studiosi che non erano in grado di leggerli in tedesco, e, soprattutto, quella dei militanti politici e degli studenti, avvenne solo in seguito alle traduzioni nelle varie lingue.

Le prime di esse avvennero in oriente, dove i Grundrisse apparvero prima in Giappone (1958-65) e poi in Cina (1962-78). In Unione Sovietica uscirono in lingua russa soltanto nel 1968-9, quando dopo essere stati esclusi anche dalla seconda e ampliata edizione della Sočinenija (1955-66), vi furono incorporati quali volumi aggiuntivi. L’estromissione dalla Sočinenija fu tanto più grave perché determinò, a sua volta, quella dalla Marx Engels Werke (Opere) (MEW) (1956-68), che riprodusse la selezione sovietica. La MEW, ovvero l’edizione più utilizzata delle opere di Marx ed Engels, nonché la fonte delle loro traduzioni nella maggior parte delle lingue, fu dunque privata dei Grundrisse che vennero pubblicati come volume supplementare soltanto nel 1983.

Alla fine degli anni Sessanta, i Grundrisse cominciarono a circolare anche in Europa. La prima traduzione fu quella francese (1967-8), ma la sua qualità era scadente e una versione fedele dello scritto uscì solo nel 1980. Quella italiana apparve tra il 1968 e il 1970 e, così come quella francese, circostanza molto singolare, essa fu realizzata per iniziativa di una casa editrice indipendente dal Partito Comunista.

In lingua spagnola, il testo fu pubblicato negli anni Settanta. Se si esclude la versione stampata a Cuba nel 1970-1, di scarso pregio perché tradotta da quella francese e la cui circolazione rimase circoscritta nell’ambito di quel paese, la prima vera traduzione fu compiuta in Argentina tra il 1971 e il 1976. A essa seguirono ancora altre tre, effettuate tra Spagna, Argentina e Messico, che fecero dello spagnolo la lingua con il maggior numero di versioni dei Grundrisse.

La traduzione in lingua inglese fu anticipata, nel 1971, dalla pubblicazione di una scelta di alcuni suoi brani. L’introduzione del curatore di questo volume, David McLellan, aumentò le aspettative nei confronti dello scritto: “i Grundrisse sono molto più di una grezza stesura de Il capitale” [6] e, anzi, più di ogni altro suo testo, “contengono una sintesi dei vari lidi del pensiero di Marx. (…) In un certo senso, nessuna tra le opere di Marx è completa, ma tra loro la più completa sono i Grundrisse” [7] . La traduzione integrale giunse nel 1973, ovvero soltanto venti anni dopo l’edizione stampata in Germania. Essa fu eseguita da Martin Nicolaus, che nella premessa al libro scrisse: “oltre al loro grande valore biografico e storico, essi [i Grundrisse] (…) sono il solo abbozzo dell’intero progetto economico-politico di Marx. (…) I Grundrisse mettono in discussione e alla prova ogni seria interpretazione di Marx finora concepita” [8] .

Gli anni Settanta furono il decennio decisivo anche per le traduzioni nell’Europa dell’est. Dopo l’edizione russa, infatti, non vi era più alcun ostacolo affinché il testo potesse circolare anche nei paesi ‘satelliti’ dell’Unione Sovietica e, così, esso comparve in Ungheria (1972), Cecoslovacchia (in ceco tra il 1971 e il 1977 e in slovacco tra il 1974 e il 1975), Romania (1972-4) e Jugoslavia (1979).

Nello stesso periodo, i Grundrisse giunsero anche in Danimarca, pubblicati contemporaneamente in due traduzioni tra loro contrastanti: una a cura della casa editrice legata al partito comunista (1974-8) e l’altra, invece, di una vicina alla nuova sinistra (1975-7).

Negli anni Ottanta, i Grundrisse furono tradotti anche in Iran (1985-7), ove rappresentarono la prima traduzione rigorosa di un’opera di Marx in persiano, e in altre lingue europee: l’edizione slovena è del 1985 e dell’anno successivo sono la polacca e quella finlandese, effettuata grazie al sostegno sovietico.

Col dissolversi dell’Unione Sovietica e la fine del cosiddetto ‘socialismo reale’, che invero del pensiero di Marx non avevano realizzato altro che la manifesta negazione, la stampa degli scritti di Marx subì una battuta d’arresto. Ciò nonostante, anche negli anni nei quali il silenzio intorno al loro autore fu interrotto soltanto da quanti ne decretavano con assoluta certezza l’oblio, i Grundrisse hanno continuato a essere tradotti in altre lingue. Pubblicati in Grecia (1989-92), Turchia (1999-2003), Corea del sud (2000) e nel 2008, in Brasile, in lingua portoghese, essi sono stati l’opera di Marx che ha ricevuto il maggior numero di nuove traduzioni negli ultimi venti anni.

Complessivamente, i Grundrisse sono stati pubblicati integralmente in 22 lingue [9] e tradotti in 32 differenti versioni. Senza fare riferimento alle tante traduzioni parziali, essi sono stati stampati in oltre 500.000 copie [10] : un numero che sorprenderebbe molto colui che li redasse col solo fine di riepilogare, per giunta in tutta fretta, gli studi di economia svolti fino al momento della lorostesura.

III. Lettori e interpreti
La storia della recezione dei Grundrisse, così come quella della loro diffusione, è stata caratterizzata da un avvio alquanto tardivo. Alle vicissitudini legate al ritrovamento del manoscritto, si aggiunse, e fu di certo determinante, la complessità del testo frammentario e appena abbozzato, tanto problematico da rendere in altre lingue, quanto difficile da interpretare.

In proposito, Roman Rosdolsky, autorevole studioso dei Grundrisse, affermò che:

“quando, nel 1948, (…) ebbe la fortuna di esaminar[ne] uno degli allora rarissimi esemplari (…), intuì subito che si trattava di un’opera fondamentale per la comprensione della teoria marxiana, che però a causa della sua forma particolare e del suo linguaggio spesso difficile, poco si addiceva ad un’ampia cerchia di lettori” [11] .

Queste motivazioni lo indussero a tentare di illustrarne meglio il testo e a esaminarne criticamente il contenuto. Il risultato di tale impresa fu l’opera Zur Entstehungsgeschichte des Marxschen ‘Kapital’. Der Rohentwurf des ‘Kapital’ 1857-58 (Genesi e struttura del Capitale di Marx) che, pubblicata nel 1968, fu la prima, e anche la principale mai scritta, monografia dedicata ai Grundrisse. Tradotta in molti paesi, favorì la loro divulgazione e circolazione ed ebbe un notevole influsso su tutti i loro successivi interpreti.

Il 1968 fu un anno significativo per i Grundrisse. Oltre al libro di Rosdolsky, infatti, apparve sulla New Left Review il primo saggio in lingua inglese ad essi interamente dedicato: The Unknown Marx (Il Marx sconosciuto), di Martin Nicolaus, che ebbe il merito di attirare l’attenzione sui Grundrisse anche nel mondo anglosassone e di segnalarne la necessità della traduzione. Intanto, in Germania e in Italia, i Grundrisse conquistarono i protagonisti delle rivolte studentesche, che cominciarono a leggerli entusiasmati dalla dirompente radicalità delle loro pagine. Per lo più, essi esercitarono un irresistibile fascino tra quanti, soprattutto nelle file della nuova sinistra, erano impegnati a rovesciare l’interpretazione di Marx fornita dal marxismo-leninismo.

D’altronde, i tempi erano mutati anche a est. Dopo una prima fase nella quale i Grundrisse erano stati quasi del tutto ignorati o guardati con diffidenza, il libro di Vitalij Vygodskij, Istoriya odnogo velikogo otkruitiya Karla Marksa (Introduzione ai Grundrisse di Marx), pubblicata in Unione Sovietica nel 1965 e nella Repubblica Democratica Tedesca nel 1967, impresse una svolta di segno opposto. I Grundrisse furono definiti infatti un’opera “geniale”, che “ci guidano nel laboratorio creativo di Marx e ci danno l’occasione di seguire passo dopo passo il processo di elaborazione della sua teoria economica” [12] , alla quale era dunque necessario prestare la dovuta attenzione.

In pochi anni, i Grundrisse diventarono un testo fondamentale per tanti influenti marxisti. Accanto agli autori già menzionati, vi si dedicarono con particolare attenzione: Walter Tuchscheerer nella Repubblica Democratica Tedesca, Alfred Schmidt nella Repubblica Federale Tedesca, gli studiosi della Scuola di Budapest in Ungheria, Lucien Sève in Francia, Kiyoaki Hirata in Giappone, Gajo Petrovic in Jugoslavia, Antonio Negri in Italia, Adam Schaff in Polonia, Allen Oakley in Australia e divennero, in generale, uno scritto col quale ogni serio studioso dell’opera di Marx doveva misurarsi.

Pur con diverse sfumature, i vari interpreti si divisero tra quanti considerarono i Grundrisse un testo autonomo cui potere attribuire piena compiutezza concettuale e coloro che, invece, li giudicarono come un manoscritto prematuro e meramente preparatorio de Il capitale. Il retroterra ideologico delle discussioni sui Grundrisse – cuore della contesa era la fondatezza o meno della stessa interpretazione di Marx, con le conseguenti ed enormi ricadute politiche – favorì lo sviluppo di tesi interpretative inadeguate e oggi risibili. Tra i commentatori più entusiasti di questo scritto, vi fu, infatti, chi ne sostenne la superiorità teorica rispetto a Il capitale, nonostante questo comprendesse i risultati di un ulteriore decennio di intensissimi studi. Allo stesso modo, tra i principali detrattori dei Grundrisse, non mancarono quanti affermarono che, nonostante le rilevanti parti per ricostruire il rapporto con Georg W. F. Hegel e i significativi brani sull’alienazione, essi non aggiungevano nulla a quanto già noto di Marx.

Accanto alle contrastanti letture dei Grundrisse, risaltano anche le non letture, il cui caso più eclatante è rappresentato da Louis Althusser. Impegnato finanche nel tentativo di far parlare i presunti silenzi di Marx e di leggere Il capitale “in modo da rendere visibile ciò che ancora in esso poteva sussistere di invisibile” [13] , egli si concesse però il lusso di trascurare la cospicua mole delle centinaia di pagine già scritte dei Gundrisse e realizzò la suddivisione del pensiero di Marx in opere giovanili e opere della maturità, poi così tanto dibattuta, senza conoscere il contenuto e la portata dei manoscritti del 1857-8 [14] .

Comunque, a partire dalla metà degli anni Settanta, i Grundrisse conquistarono un numero sempre maggiore di lettori e interpreti. Accanto alla pubblicazione di due commentari, uno in giapponese del 1974 [15] e l’altro in tedesco del 1978 [16] , molti autori scrissero di questo testo. Diversi studiosi videro nei Grundrisse il luogo privilegiato per approfondire una delle questioni più dibattute del pensiero di Marx: il suo debito intellettuale nei confronti di Hegel. Altri, ancora, furono affascinati dalle enunciazioni quasi profetiche racchiuse nei frammenti dedicati alle macchine e alla loro automazione e, anche in Giappone, i Grundrisse furono letti come un testo di grande attualità per comprendere la modernità. Negli anni Ottanta, inoltre, primi particolareggiati studi apparvero anche in Cina, ove i Grundrisse divennero oggetto di studio per meglio intendere la genesi de Il capitale, e in Unione Sovietica fu pubblicato un volume collettivo a essi esclusivamente dedicato [17] .

Nel corso degli ultimi anni, la persistente capacità esplicativa, e al contempo critica, del modo di produzione capitalistico contenuta nelle opere di Marx ha originato un ritorno d’interesse nei suoi riguardi da parte di numerosi studiosi internazionali [18] . Se tale fenomeno durerà e se sarà accompagnato da una nuova domanda di Marx anche dal versante politico, i Grundrisse si riproporranno di certo come uno dei suoi scritti in grado di attirare l’attenzione maggiore.

Intanto, nella speranza che “la teoria di Marx ridivenga una viva fonte di conoscenza e, sulla base di questa, di azione” [19] , la storia della diffusione e della recezione dei Grundrisse nel mondo, compiuta in questo volume, vuole essere un modesto riconoscimento al loro autore e il tentativo di ricostruire un capitolo ancora inedito della storia dei marxismi.

Appendice: Tabella cronologica delle traduzioni dei Grundrisse

1939-41 Prima edizione tedesca
1953 Seconda edizione tedesca
1958-65 Traduzione giapponese
1962-78 Traduzione cinese
1967-8 Traduzione francese
1968-9 Traduzione russa
1968-70 Traduzione italiana
1970-1 Traduzione spagnola
1971-7 Traduzione ceca
1972 Traduzione ungherese
1972-4 Traduzione rumena
1973 Traduzione inglese
1974-5 Traduzione slovacca
1974-8 Traduzione danese
1979 Traduzione serba/serbo-croata
1985 Traduzione slovena
1985-7 Traduzione in persiano
1986 Traduzione polacca
1986 Traduzione finlandese
1989-92 Traduzione greca
1999-2003 Traduzione turca
2000 Traduzione coreana
2008 Traduzione portoghese

References
1. Karl Marx, Einleitung zu einer Kritik der politischen Ökonomie, in Die Neue Zeit, Nr. 23, 21. Jahrgang, 1903, p. 710. L’affermazione di Karl Kautsky si trova all’interno della nota n. 1. Le traduzioni incluse nel testo sono a cura dell’autore.
2. David Rjazanov, Neueste Mitteilungen über den literarischen Nachlaß von Karl Marx und Friedrich Engels, in Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung, Elfter Jahrgang, 1925, pp. 393-4. Il testo di Rjazanov fu pubblicato in russo nel 1923, la traduzione è stata effettuata dalla versione tedesca del 1925 citata.
3. Ivi , p. 394.
4. Marx-Engels-Lenin-Institut, Vorwort a Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf) 1857–1858, Verlag für Fremdsprachige Literatur, Moskau 1939, p. VII.
5. Eric J. Hobsbawm, Prefazione a Karl Marx, Forme economiche precapitalistiche, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 8.
6. David McLellan, Marx’s Grundrisse, Paladin, St. Albans 1973, p. 14.
7. David McLellan, Ivi, p. 25.
8. Martin Nicolaus, Introduzione ai Grundrisse, in Martin Nicolaus–Moishe Postone–Helmut Reinicke, Dialettica e proletariato. Dibattito sui «Grundrisse» di Marx, La Nuova Italia, Firenze, 1978.
9. Cfr. la tabella cronologica delle traduzioni dei Grundrisse nell’appendice I. Alle traduzioni indicate vanno inoltre aggiunti i compendi parziali realizzati in lingua svedese, Karl Marx, Grunddragen i kritiken av den politiska ekonomin, Lund, Stockholm 1971, e in macedone, Karl Marx, Osnovi na kritikata na političkata ekonomija (grub nafrlok): 1857-1858, Komunist, Skopje 1989, nonché le traduzioni dell’ Introduzione e delle Forme che precedono la produzione capitalistica, realizzate in moltissime lingue: dal vietnamita al norvegese, dall’arabo all’olandese e al bulgaro.
10. Questa cifra è stata calcolata sommando le tirature rinvenute nel corso delle ricerche svolte in tutti i paesi. Per maggiori informazioni si veda la sezione “Dissemination and reception of Grundrisse in the world” del volume Karl Marx’s Grundrisse. Foundations of the critique of political economy 150 years later, a cura di Marcello Musto, Routledge, London/New York 2008, pp. 177-280.
11. Roman Rosdolsky, Genesi e struttura del «Capitale» di Marx, Laterza, Bari 1971, p. 5.
12. Vitalij Vygodskij, Introduzione ai Grundrisse, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 43.
13. Louis Althusser, Leggere il capitale, Feltrinelli, Milano 1971, p. 34.
14. Cfr. Lucien Sève, Penser avec Marx aujourd’hui, La Dispute, Paris 2004, che ricostruisce come “con l’eccezione di qualche testo quale l’ Introduzione (…) Althusser non ha mai letto i Grundrisse, nel vero senso della parola leggere”, p. 29. Parafrasando l’espressione di Gaston Bachelard utilizzata da Althusser di coupure épistémologique (rottura epistemologica), Seve parla di una “artificiale rottura bibliografica(coupure bibliographique) tale da indurre le vedute più erronee sulla genesi e dunque anche sulla consistenza del pensiero marxiano pervenuto alla maturità”, p. 30.
15. Kiriro Morita – Toshio Yamada, Komentaru keizaigakuhihan’yoko (Commentario sui Grundrisse), Nihonhyoronsha, Tokyo 1974.
16. Projektgruppe Entwicklung des Marxschen Systems, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf). Kommentar, VSA, Hamburg 1978.
17. Aa. Vv., Pervonachal’nuy variant „Kapitala“ (Ekonomicheskie rukopisi K. Marksa 1857–1858 godov (La prima versione de Il capitale. I manoscritti economici di K. Marx del 1857-1858), Politizdat, Moskva 1987.
18. Cfr. Marcello Musto, The rediscovery of Karl Marx, in International Review of Social History, 2007/3, pp. 477-98.
19. Roman Rosdolsky, op. cit., p. 8.